STEFANIA SAPORA

        COGITO ergo SUM.....ergo DIGITO

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                     Attività e forza viva:

                         potenza e atto della sostanza in movimento.

 

Sul rapporto di causa-effetto nell’inedito leibniziano Dinamica. Sulla potenza e le leggi della natura corporea Dall’opera postuma Mathematische Schriften, 1860).

 

Stefania Sàpora (Dottore di Ricerca in Filosofia-Università “Federico II”, Napoli) 

 

Non è ancora del tutto riconosciuta l’importanza di Leibniz come ultimo tra i filosofi ad avere specifiche competenze, e un ruolo fondante, nel campo della fisica teorica, in anticipo addirittura, sebbene in modo incompleto e talvolta solo intuitivo, su talune questioni che hanno rivoluzionato il paradigma della fisica teorica contemporanea a partire dall’assunzione teoretica, e dalla sperimentazione fisica, del concetto di relatività.

In questo senso Leibniz, nell’opporsi polemicamente al meccanicismo di Newton in nome di un razionalismo a sua volta diverso da quello cartesiano per la sua contestazione dell’estensione come realtà prima, è stato com’è noto tra i primi a porre in modo chiaro ed esplicito la relatività dello spazio e del tempo, che in lui divengono rispettivamente l’ordine di coesistenza e l’ordine di successione delle cose. Coniugando infatti fisica e metafisica, egli intende porre la realtà in senso forte su di un livello più profondo, poiché per lui meccanicismo e materia non costituiscono il livello ultimo della realtà, che è immateriale, ma quello fenomenico. 

Nel campo delle scienze fisiche Newton ha dominato come padre incontrastato della meccanica sino a ieri, non soltanto per la celeberrima “hypothesis non fingo” che sembrava in grado finalmente di separare, se fosse mai possibile, fisica e metafisica, ma anche per la semplicità e unitarietà delle sue leggi fondate su quella della gravitazione universale, nonché per la riducibilità a tale sistema di leggi dei numerosissimi fenomeni da lui osservati e descritti.

Ma il valore di Leibniz in ambito fisico-filosofico è oltre, e non si esaurisce nel fondamentale concetto della relatività di spazio e tempo. Egli infatti – pur riconosciuto in ambito filosofico come eminente metafisico - tiene ben distinto  il piano della metafisica da quello dell’epistemologia e questo a sua volta da quello della sperimentazione e dell’osservazione. Purtuttavia, Leibniz conduce l’elaborazione teorica in modo parallelo tra i vari piani. La metafisica è in lui sia scienza dei fondamenti della scienza esatta, sia scienza della realtà immateriale. Nel primo senso, Leibniz fu epistemologo sino a voler fondare una Scientia generalis,  sulla base di quella che è stata definita come un’intuizione nuova nella scienza moderna: la ricerca deduttivo-induttiva di un nuovo metodo in grado di individuare l’”architettura” della teoria fisica, ossia  un sistema di leggi che rispondessero a questioni di carattere universale attraverso fenomeni particolari. Questioni quali “Esiste il moto perpetuo?” oppure “Si conserva energia dopo l’urto?” sono evidentemente di carattere sia fisico che metafisico come, potremmo dire, questioni-ponte che abbisognano della compresenza di elaborazione teorica e di  osservazione e sperimentazione dimostrative, e che devono permettere a noi oggi di costruire una linea di confine comune tra fisica e filosofia ancora da realizzare. In Leibniz realtà materiale e realtà immateriale – in altre parole fisica e metafisica - sono livelli via via più profondi posti sulla medesima linea di continuità poiché “la natura non fa salti”. In quest’espressione sintetica ma apodittica è celato il fondamentale concetto di continuo, che  è sempre appartenuto alla riflessione filosofica, seppure non sempre indagato nelle scienze c.d. esatte. Non possiamo qui addentrarci nel rilievo che crediamo esso può infatti assumere come ponte tra fisica, metafisica e matematica: diremo solo che il problema del continuo, estremamente complesso per l’interazione tra livello euristico e livello ontologico, consiste tra l’altro nell’individuare il criterio secondo cui è possibile teoreticamente – e non contraddittoria logicamente – la continuità interna a una serie di continui gerarchicamente disposti. E’ chiaro che qui il concetto di continuo, che assieme a quello di omogeneo Leibniz utilizza già nel Seicento, ma che riguardo alla questione del passaggio da un discreto all’altro è com’è noto già vivo nella Grecia preclassica, sconfina in quello di finito/infinito, e pertanto coinvolge anche questioni di carattere cosmologico e astronomico.

Leibniz lasciò inedite queste Mathematische Schriften cui dedicò gli ultimi anni  della sua vita per confutare, coniugando fisica e metafisica soprattutto nell’ascendenza aristotelica del rapporto potenza-atto nella sostanza, il meccanicismo newtoniano così come l’estensione cartesiana intesi quali realtà prime. Egli infatti tende a considerare il primo un metodo euristico per quanto scientificamente fondato, e, diremmo oggi popperianamente, utile fino alla sua falsificazione, e la res extensa quale manifestazione fenomenica, per quanto la distinzione fenomeno-realtà non sia in Leibniz così netta.

La lettura di questo scritto postumo mostra una molteplicità di problemi e prospettive a partire dalla ricchezza di livelli interpretativi cui dà adito, tutti altrettanto legittimi se dimostrati razionalmente, e che qui, seppure nell’esiguità di poche considerazioni a fronte della vastità e importanza di temi, si tenterà di restituire: la pagina leibniziana deve perciò leggersi sotto molteplici angolazioni, con un approccio transdisciplinare che getti un ponte in particolare tra fisica, metafisica e teologia, superando il carattere solo apparentemente fisico-teorico dello scritto. 

Le pagine da me qui tradotte sono incentrate sul rapporto causa-effetto e sostanza-causa, che pertanto sfiora anche il problema del rapporto potenza-atto, e, in relazione al movimento, lambisce l’aperto concetto di continuo, che appunto può costituire il terreno comune tra fisica, metafisica e matematica. Il suo focus viene ad essere in questo quadro teoretico la messa a punto che Leibniz opera dei concetti di causa piena e di effetto integro o assoluto, con un procedimento dimostrativo stringente fatto di definizioni, assiomi, deduzioni, esempi, che danno allo scritto carattere, più che filosofico, appunto fisico. Ma lo scopo che in queste poche note ci si prefigge  è mostrare, al di là delle considerazioni più strettamente scientifiche non di nostra pertinenza, il legame che in Leibniz è sempre rinvenibile, all’interno di un razionalismo comunque fortemente dimostrativo, tra fisica e metafisica, che consente ancora a noi oggi di costruire un ponte che travalichi non solo gli ambiti strettamente disciplinari, ma anche, all’interno di questi, i confini settoriali, di cui questa presentazione vorrebbe essere un esempio.

In Leibniz il parallelismo dell’elaborazione teorica tra fisica e metafisica di impostazione fortemente razionalista e dimostrativa trova, anche nelle sue intenzioni, il proprio modello in Aristotele, che infatti com’è noto sistematizzò il sapere portando avanti la riflessione in opere sia di fisica sia di metafisica. Da Aristotele Leibniz  assume due concetti che sono alla base della dinamica dell’urto di cui ci occuperemo: oltre al concetto del rapporto tra potenza e atto nella sostanza – per cui un corpo agisce e può agire -, il concetto di causa come sostanza della cosa in grado di rendere ragione dell’effetto. Questo è punto di fondamentale importanza, che in Leibniz assume la forma dell’equivalenza tra causa ed effetto, cosicché se dalla causa è deducibile l’effetto, dall’effetto è possibile, anzi si deve, risalire alla causa. E’ il principio “causa aequat effectum”, che Leibniz enuncia nel 1678. Solo questo movimento bidirezionale dalla causa all’effetto e viceversa, in cui deduzione e induzione come metodo, e fisica e metafisica come ambito, sono compresenti interagendo tra loro, è la vera spiegazione della cosa, molto più profonda sia di quella newtoniana sia di quella cartesiana, che si limitano al piano fenomenico della realtà senza raggiungerne il logos, inteso qui come ragione della cosa. Leibniz vuole individuare dei fenomeni le cause vere, mentre Newton ripristina qualità occulte quali la forza-causa come diretto intervento di Dio nei fenomeni e il principio di inerzia inerente ai corpi.

Le scienze fisico-matematiche individuano in questo rapporto bidirezionale tra causa ed effetto un’altra straordinaria conquista leibniziana al pensiero scientifico: il concetto di omogeneità espresso come simmetria, e poi formalizzato in ambito matematico a fine Settecento da Lazare Carnot, che è, come è stato riconosciuto solo da qualche decennio, colui il quale ha completato e portato a termine il progetto leibniziano di una meccanica alternativa a quella di Newton consistente in una riforma della dinamica basata sul concetto fisico-metafisico di energia. Il concetto di simmetria, che dagli anni Sessanta del Novecento ha assunto non solo nella logica matematica, ma anche nella fisica teorica, un ruolo fondamentale aprendo un campo diverso da quello della logica classica,  solo dalla fine degli anni Ottanta è stato riconosciuto come figlio di Leibniz, in quanto fondato non sul principio di non contraddizione, proprio della logica classica con le sue verità universali e necessarie – quelle che Leibniz definisce le verità di ragione - che non ammettono la contraddizione tra due affermazioni, ma sul principio di ragion sufficiente, che apriva il vasto e inesplorato campo dei fenomeni contingenti – le verità di fatto – che implicano la possibilità di due realtà fenomeniche  tra loro contraddittorie, per cui una cosa e il suo contrario sono ambedue possibili. E’  appunto in Leibniz e poi in Carnot  il primo germoglio della legge della “doppia negazione”, secondo la quale due negazioni, lungi dall’affermare, come nella lingua latina o nella logica classica, aprono un più vasto ambito di possibilità alla ricerca e alla dimostrazione, poiché sottendono un più vasto ambito di fenomeni definibili, si potrebbe dire addirittura osservabili, a partire appunto proprio dall’apertura congiunta sia dell’una che dell’altra negazione.

Utilizzando la logica delle simmetrie e delle proporzioni, e sottendendo il rapporto potenza-atto nella sostanza e quello causa-effetto tra sostanze diverse (per Leibniz la sostanza non è unica come in Spinoza ma molteplice) è al principio dell’impossibilità del moto perpetuo – quindi programmaticamente contro Newton - che Leibniz vuol dare dimostrazione. Ciò fa anche attraverso le sue osservazioni sulla dinamica del movimento e dell’urto dei corpi e sulla caduta dei gravi. A tale dimostrazione è appunto finalizzata la prosa latina che noi abbiamo tradotto dall’ampia opera inedita Dinamica. De potentia et legibus naturae corporeae, che Leibniz rimaneggiò più volte a partire dall’ultimo decennio del Seicento, e che poi lasciò incompiuta in un manoscritto in seguito custodito nella Biblioteca di Hannover, manoscritto che insieme a numerosi altri l’editore Gerhardt ha pubblicato come raccolta col titolo Mathemathische Schriften solo nel 1860, raccolta che ha avuto con lo stesso titolo una riedizione di Olms nel 1971 ancora in circolazione.

La storia delle scienze fisiche considera ormai Leibniz come punto di partenza della terza linea di sviluppo della meccanica, alternativa a quelle riconosciute di Newton e di Cartesio: la misconosciuta linea Leibniz-Carnot, considerata fondamentale  per i suoi successivi sviluppi nella fisica attuale.

L’ampia opera Dinamica, di cui abbiamo tradotto solo la breve Sezione prima della Seconda parte, Sulla causa e l’effetto attivo, tratta appunto Della Potenza e delle leggi della natura corporea. L’opera, in 233 pagine e con 7 tavole fuori testo di figure geometriche, è stata concepita da Leibniz in due parti, l’una di “dinamica semplice astratta dalle cose”, l’altra di “dinamica concreta “. Leibniz si sofferma nei suoi diversi capitoli sulla quantità di materia presente nell’universo e sul modo per calcolarla, su volume e densità, sul moto – uniforme e equidistribuito, semplice e assoluto –, sulla direzione del moto anche in relazione al centro di gravità, sulla velocità difforme e sulla velocità nell’universo, nonché sulla potenza motrice, di cui dà una dimostrazione a priori.

Leibniz dichiara apoditticamente l’equivalenza di grado tra due sistemi di cui l’uno è causa piena, l’altro effetto assoluto, a partire dal, si potrebbe dire, chimicamente “precipitare” dei due sistemi, ossia dal loro incontro. Il “Sistema” è infatti il fulcro delle pagine qui in oggetto, che iniziano pertanto con un’importantissima definizione di Sistema in termini di potenza. Ma è anche possibile rinvenirvi suggestioni riguardanti il rapporto fenomeno-noumeno e il rapporto fenomeno-realtà, che aprono la strada a riflessioni su Kant, e il concetto di realismo, che rimanda viceversa alla Scolastica e a Tommaso in particolare, nonché al suo rapporto col c.d. Averroè.

Come si è detto, l’attenzione di Leibniz è incentrata, nella sezione Sulla causa e l’effetto attivo, sulla messa a punto dei concetti di causa piena e effetto integro o assoluto, che è tale quando è l’unico effetto di una sola causa. In tutta la sezione, il concetto di attività in un sistema in moto è considerato sia in potenza – come energia potenziale di un soggetto allo stato inerte -, sia in atto – come azione di quello stesso soggetto che provoca una mutazione di stato.

Ma questo passaggio dalla potenza all’atto deve avvenire, afferma Leibniz nelle proposizioni che seguono la Definizione 1, “non senza” l’annullamento di qualunque impedimento, che egli chiama legame.

Per la definizione 2, causa piena ed effetto assoluto si hanno quando ambedue hanno una potenza che spendono senza ostacoli. Infatti questi ultimi, la cui potenza deve esser calcolata perché assorbe – ma non distrugge, sottolinea Leibniz, secondo il principio qui implicito della conservazione dell’energia - parte della potenza della causa, influiscono sul moto del soggetto.

Nell’assioma 3, molto importante perché è dimostrata per assurdo l’impossibilità del moto perpetuo, è stabilita l’equivalenza tra causa piena ed effetto  integro, equivalenza che è, sono parole di Leibniz, “proposizione della Metafisica più sublime, che tratta degli universali delle cose”: l’equivalenza è una “legge che la Natura osserva in modo assolutamente costante”. 

Le proposizioni 1 e 2 introducono il concetto di “gemello” (per Leibniz gemello, simile e uguale sono sinonimi, come chiarisce nella proposizione 4), concetto di gemello che è in stretta correlazione con quello di ripetizione e di rapporto proporzionale tra potenze in base a una di esse presa come unità di misura. Secondo questi concetti, se un sistema è costituito da più soggetti gemelli di un altro, è possibile rendere in proporzione matematica il rapporto tra di essi, nonché tra le loro potenze, cosicché tale rapporto è riducibile a un’equazione numerica di primo grado. Altra importante dimostrazione per assurdo è nella  proposizione 3, dove, partendo dall’assioma che la potenza dell’effetto non può essere maggiore di quella della causa, è detto che un grave non può dopo la caduta di nuovo risalire, altrimenti si avrebbe il moto perpetuo, secondo cui viceversa la potenza dell’effetto deve essere maggiore di quella della causa proprio perché il moto continui in infinitum. Ad esempio l’acqua di un fiume che cade da un monte formerebbe dopo la caduta un lago sul monte stesso, in un ciclo continuo e perpetuo che inoltre dovrebbe appunto produrre un effetto maggiore in potenza della causa, per compensare le perdite d’acqua evaporate o assorbite dallo stesso letto del fiume.

Ma le dimostrazioni per assurdo, atte a dimostrare l’impossibilità del moto perpetuo, proseguono anche nelle proposizioni 4 e 5, dove si dice, facendo appello all’immaginazione poiché l’esperimento – se non mentale - è impossibile,  che  un pendolo deve necessariamente subire una progressiva perdita di potenza, altrimenti oscillerebbe con lo stesso arco in aeternum.

Nelle proposizioni 7 e 8 si stabilisce un principio di carattere sia fisico che metafisico, che seppure dimostrato, ha il valore di un a priori. Leggiamole: “In qualsivoglia Sistema di corpi non comunicanti con altri la potenza è sempre la stessa.”, e poi: “Sempre la medesima potenza c’è nell’Universo.” Ciò significa che l’universo è per Leibniz un sistema chiuso, in cui non solo i corpi ivi contenuti non possono comunicare con corpi ad esso esterni, ma anche appunto avviene la conservazione dell’energia, secondo cui, come infatti afferma, la somma totale delle energie – potenziali e in atto – è sempre la stessa. Ma è da distinguere, avverte Leibniz, la potenza dalla quantità di moto, e questa dalla quantità di azione.

Nelle proposizioni 9 e 10 fa il suo ingresso il concetto di equipotenza in rapporto al concetto di gemello. Anche tale concetto si fonda sul principio della “causa aequat effectum”, ossia sull’equivalenza. Equipotenti sono così tra loro quelle cause che hanno uno stesso effetto integro o effetti gemelli, oppure anche le cause tra loro gemelle, che producono effetti a loro volta equipotenti. 

Il concetto viceversa di proporzione, che permette con una semplice operazione matematica di stabilire la misura di grandezze diverse, giungendo a misurarne la potenza, è reso esplicito nella proposizione 11.

Ribadendo il concetto di equipotenza, le proposizioni 12 e 13 inseriscono quantità fisiche come il peso, il volume, la figura, l’altezza, mentre in quelle 14 e 15, che concludono la sezione, si stabilisce il rapporto con le perpendicolari all’orizzonte, nell’un caso con potenze di potenze, nell’altro con pesi elevati al di sopra dell’orizzonte stesso.

Infine, alcune considerazioni sulla traduzione, che ha comportato, oltre alla necessità di restituire situazioni sperimentali di fisica con termini moderni – molti termini appartengono al latino in uso nel Settecento, e in più al latino scientifico, e sono inesistenti nel mondo classico -, anche un problema più generale e di fondo: quello di cercare, al di là della lettera, che talvolta è contorta, talaltra audace, di interpretare e restituire, ossia comprendere, le vere intenzioni di Leibniz, e il senso più profondo del testo, al di là della stessa parola.

Perciò, in merito all’italiano della mia traduzione e alla costruzione delle frasi, io credo, a partire ad esempio dall’ostica lettura di traduzioni di Hegel – che evidentemente si basano su un fraseggio a sua volta complesso -, che si debba conservare, nella scelta delle parole in traduzione, il sapore  a un tempo storico e ricercato della scrittura dell’Autore, nel senso che la necessità di portare a conoscenza del pubblico di studiosi e non addetti ai lavori il testo in traduzione non esula dal conservare all’opera il carattere sia storico che strettamente scientifico. E’ perciò che ho conservato, anche nella costruzione delle frasi, oltre che nella scelta delle parole, un tono direi apodittico al confine tra trattato di fisica teorica e trattato di filosofia teoretica che credo sicuramente nelle intenzioni di Leibniz. So che questo pone dei problemi di comprensione immediata, ma non credo che compito di una disciplina sia aiutare il lettore a comprenderla, magari snaturando lo stile dell’autore o il suo stesso intento che non è, almeno nel nostro caso come nella maggior parte delle opere scientifiche (di filosofia come, credo, di fisica) didattico. Per quanto perciò possa apparire più opportuno per numerosissimi motivi, nonché forse anche più difficile da realizzare, il compito di rendere più accessibile un testo scientifico in sé astruso, semplificandolo se non nei contenuti almeno nella costruzione delle frasi e nella scelta delle parole, ritengo che esso testo debba conservare il suo carattere “difficile”, che peraltro necessita, proprio per poter essere conservato, di un’accurata opera di comprensione da parte, in questo caso, del traduttore, non solo dei contenuti specifici, diciamo di primo livello del linguaggio, ma anche  di quelli complessivi, diciamo di metalinguaggio, attinenti allo stile, al senso, all’epoca in cui fu scritto, ecc. Si potrebbe dire che non è l’opera a doversi far comprendere, ma è il lettore a dover comprendere. E il lettore ri-comprende sempre di nuovo in ogni epoca, così come il traduttore ri-traduce, proprio per l’ampiezza di significato contenuta in un testo, la cui traduzione deve perciò essere il più possibile aderente all’Autore. E’ infatti alla presentazione del testo – note, commento alle note o introduzione che sia – che spetta il compito di facilitare e introdurre il lettore al suo studio. I problemi di traduzione sono noti e complessi, e vi sono varie scuole di pensiero, che sconfinano nell’ermeneutica. Altra cosa è, ovviamente, l’imprecisione o l’errore nella resa dei contenuti di carattere specificatamente fisico.

Perciò, concludendo, si è deliberatamente scelto di attenersi alla complessa costruzione latina, nonché propria anche della lingua madre di Leibniz, il tedesco, che vuole il verbo alla fine della frase, e che spesso antepone l’oggetto al soggetto. E altrettanto deliberatamente si sono scelti in traduzione quei termini che rendessero un italiano, oltre che preciso, ricercato, nella convinzione che l’opera in questione, nelle intenzioni di Leibniz, voglia essere un trattato di fisica a sfondo metafisico che affronta complessi e dibattuti temi fondanti nella fisica come nella filosofia, e non una semplice esposizione di esperimenti.

Altri potranno fare diversamente.

 

Napoli, 21 gennaio 2009

 

                                                                  Stefania Sàpora

 

 Traduzione dalla lingua latina delle pp. 435-442 della raccolta postuma di scritti Leibnizens mathemathische Schriften di Leibnitz, edita da Gerhardt, Halle, 1860, in cui è contenuta l’opera Dynamica. De potentia et legibus naturae corporeae.

  

                                               Dinamica

 Sulla potenza e le leggi della natura corporea

                        Parte II

                       Sezione prima

                         Sulla causa e l’effetto attivi

 

D e f i n i z i o n e  1.  E’  A t t i v o  o  p r o v v i s t o  d i  P o t e n z a   i l  S o g g e t t  o  (s t a t o  d e l l e  c o s e)  a  p a r t i r e  d a l  q u a l e  s e g u i r à  u n a  m u t a z i o n e  v e r s o  a l c u n e  p o s i z i o n i  c e r t e  i n  s e g u i t o  i n e r t i [inerziali],  o  p i u t t o s t o  q u e l l e  c o s e  c h e  s i a n o  t a l i  c h e  d a l l e  s t e s s e  s o l e  p o s i z i o n i  c o m u n q u e  n e s s u n a  m u t a z i o n e  s e g u a.  A l l a  m u t a z i o n e  s u c c e s s i v a  a l  c o n t r a r i o  i l  S o g g e t t o  s t e s s o  s a r à  d e t t o  a g i r e.

 

Per conseguenza un grave sostenuto [trattenuto] o elastico in tensione sono corpi che hanno la potenza di agire giacché [dopo di che] il risultato effettivo [la verità, revera] sarà che di fatto agiranno o produrranno una mutazione [tale che], se facciamo una certa ipotesi, di per sé non è potente a produrre nulla, come circa la figura [conformazione, configurazione, forma] o la stabilità dei legami. A titolo di esempio, con un semplice giro di chiavetta o dell’imboccatura [di un vaso], l’acqua ferma [aqua gravis] defluisce dal vaso, oppure l’aria compressa erompe, sebbene tra l’ipotesi dell’imboccatura aperta o chiusa non vi sia alcuna differenza per sé riguardo alla forza di agire o di produrre mutazioni; e di certo se un grave trattenuto o un Elastro mancassero, nulla qui accadrebbe, a vaso vuoto si fosse posta l’imboccatura aperta o chiusa. Precisamente sono attive o per sé agiscono quelle cose che hanno [fanno] lavoro [opera, effetto] non senza l’annullamento di qualunque impedimento. Per impedimento d’altra parte intendo in questo luogo [quello] per sé inerte, o di certo [quello] la cui operazione verso la cosa circa la quale si tratta non è pertinente [non serve, è inutile, non ha scopo, non influisce, non ha influenza], motivo per cui specificatamente può essere chiamata Legame [Retinaculo].

 

D e f i n i z i o n e  2.  S e  d u e  s o n o  i  S o g g e t t i  c h e  h a n n o  p o t e n z a, e  d a l l a  s o l a  a z i o n e  d i  u n o  s e g u a  l ’ a l t r o  o  a l m e n o  s e n z a  l a r i c h i e s t a  s u p p o s i z i o n e  d e l l a  p o t e n z a  d e l l ’ a l t r o  g i à  c o e s i s t e n t e  a l  p r i m o,  a l l o r a  p r i m a  è  [viene]  l a  C a u s a,  d o p o  l ’ E f f e t t o  a t t i v o  o  e f f e t t o  a s s o l u t o.  B e n c h é  s e  d a l l a  c a u s a  n o n  p o s s a  c o m u n q u e  a l t r o  e f f e t t o  c o n t e m p o r a n e a m e n t e  e s i s t e n t e  s e g u i r e,  l a  c a u s a  s a r à  p i e n a  e  l ’ e f f e t t o  i n te g r o [oppure: ci sarà causa piena e effetto integro].

 

Causa ed effetto sono in vari modi esattamente concepiti, né sono da dimostrare in questo luogo quelle ambiguità; è sufficiente che i nostri significati siano stabiliti con una definizione certa. Frattanto ha valore prendere in considerazione il lavoro che noi poco precedentemente (cap. 1 sez. 3) per E f f e t t o  f o r m a l e  del moto abbiamo inteso la quantità di materia che è stata traslata attraverso la longitudine [lunghezza] del percorso, o la quantità di mutazione che nasce dal solo liberissimo moto di un qualche corpo; qui invero per E f f e t t o  A t t i v o  o A s s o l u t o  intendiamo un certo Soggetto [stato delle cose] prodotto nella materia, il quale ha una certa forza di agire, come un corpo grave che sia stato elevato di alcuni piedi sopra l’orizzonte, sottratto infatti l’impedimento da quel luogo di nuovo cadendo, agirà; lo stesso è circa un arco in tensione. In verità anzi è sufficiente che un impeto sia impresso a un qualche corpo, perché diciamo che un qualche Effetto Attivo sia stato prodotto, sebbene codesto sia distrutto dal legame, il che non avviene in gravità o mediante l’Elastro, perché sicuramente la natura sempre [produce] nuove impressioni, che è lecito al di sotto dei nostri sensi porne di occulte. E con la produzione di un tale Effetto avente potenza, la potenza della causa può ottimamente essere valutata assoluta, [potenza] che altre mutazioni prodotte non indicano nello stesso modo. Affinché ora intendiamo che cosa sia l’E f f e t t o  i n t e g r o, pensiamo a una sfera A (fig. 136) che corre lungo un piano orizzontale tendere verso gli Elastra B, C, E che la ostacolano uno dopo l’altro, girate le chiavette di quelli, cosiffatte che non possano liberarsi spontaneamente e ritornare di nuovo Elastra. D’altronde la tensione del primo e del secondo Elastro non sarà un effetto integro, ma segnatamente dell’ultimo, se naturalmente poniamo che la sfera sia in quella tensione [quello stato di tensione] che più ampia non è possibile, ma, consumata ogni sua potenza, si ferma [si arresta, si mette in quiete]. Pertanto due sono qui i Soggetti che hanno potenza, precisamente la C a u s a  p i e n a, si pensi alla sfera dotata di un certo moto che [essa sfera] tutto possedeva prima che si imbattesse in qualcuno degli Elastri, e l’E f f e t t o  i n t e g r o, si pensi all’aggregato degli Elastri tesi dalla sfera. E’ inoltre da intendere come la sfera abbia speso in questi soli Elastri una parte della sua potenza, e che il punto medio [lo spazio intermedio,  il mezzo]  [del percorso] è stato assolutamente libero e il piano orizzontale è stato perfettamente levigato, o [altrimenti] certamente gli ostacoli da lì nati siano stati tanto esigui da non meritare considerazione. Infatti viceversa se poniamo la sfera a correre lungo un tappeto, gli stessi fili o peli del tappeto devono essere ritenuti come altrettanti Elastri da flettere  [piegare], e anzi quella energia spesa dovrebbe essere computata; ed è lo stesso per qualunque altro ostacolo esiguo. Sebbene d’altronde questi Elastra B, C e D possano a tempo debito di nuovo agire e nuovi effetti produrre, i quali anche possano essere ritenuti come e f f e t t i  (sia pure  m e d i a t i) della sfera, quei nuovi effetti tuttavia non possono coesistere coi precedenti, precisamente tutti gli Elastri in tensione, mentre gli Elastri non in tensione, l’azione dei quali interviene al doversi produrre di un nuovo effetto, alla causa prima precisamente al moto della sfera a un dato inizio [oppure: al moto della sfera dato all’inizio, al principio, in principio] coesistono.

 

A s s i o m a  e  D e f i n i z i o n e  3.  L’ E f f e t t o  i n t e g r o  e q u i v a l e  a l l a  c a u s a  p i e n a,  e  a n z i  n o n   è  d a t o  i l  M o t o  p e r p e t u o  m e c c a n i c o,  o  l a  C a u s a  n o n  p u ò  p r o d u r r e  u n  E f f e t t o  A t t i v o,  c h e  p o s s a  p i ù  d e l l a  s t e s s a  c a u s a,  m a  n e p p u r e  l ‘ E f f e t t o  i n t e g r o,  c h e  p o s s a  m e n o  d e l l a  s t e s s a  c a u s a.  Sebbene infatti una parte della potenza sia assorbita dagli impedimenti, ma tuttavia non distrutta, bensì trasferita negli impedimenti [stessi] che sono computati nell’effetto integro. E  c ‘ è 

n e l  S o g g e t t o [stato delle cose]  u n a  q u a n t i t à  d i  p o t e n z a  l a  c u i  m i s u r a  è  l a  q u a n t i t à  d e l l ‘ a l t r o  S o g g e t t o  [stato delle cose]  a t t i v o  d e t e r m i n a t o,  l a  q u a l e  s i  t r o v a  n e l l o  s t e s s o  S o g g e t t o  p r e c e d e n t e  a v e n t e  p o t e n z a  o p p u r e  n e l l a  s u a  c a u s a  p i e n a  o  n e l l ‘ e f f e t t o  i n t e g r o.

 

L’equivalere dell’Effetto integro alla Causa piena è proposizione della Metafisica più sublime, che non è spesa con miseri vocaboli, ma tratta degli universali delle cose. Questa legge in modo assolutamente costante la Natura osserva, e la sua verità anzi d’ora in poi può essere intesa, poiché, eliminata quella, non resta nessun modo per calcolare le potenze o per stabilire la grandezza [magnitudo=grandezza dinamica] degli Effetti dalle cause.

 

P r o p o s i z i o n e  1

 

S e  u n  c e r t o  S o g g e t t o  A t t i v o  è  c o s t i t u i t o  d a  S o g g e t t i  p l u r i m i  r i p e t u t i  g e m e l l i  d i  u n  c e r t o  q u a l e  A t t i v o,   l a  p o t e n z a  d e l  p r e c e d e n t e  A t t i v o  s a r à  m u l t i p l a  d e l l a  p o t e n z a  d e l l ‘ A t t i v o  p o s t e r i o r e  i n  r a g i o n e  d e l  n u m e r o  d e l l e  r i p e t i z i o n i.

 

Infatti l’Attivo (ripetuto) può essere assunto per la misura della potenza (per la def. 3). Invece la quantità del misurato sta alla misura come il numero (delle ripetizioni) all’unità.

Per esempio, tre fuochi di polvere equamente riempiti e in tutto simili a un modaiolo [cilindro dove si muove un pistone  a pompa] hanno una potenza tripla di uno solo. Tre archi in tensione gemelli hanno tra sé la forza [vis = energia] tripla un solo singolo arco gemello.

 

                                                        P r o p o s i z i o n e  2

 

S e  d u e  s o n o  i  S o g g e t t i  [stati delle cose] A t t i v i,  d e i  q u a l i  c i a s c u n o  è  c o s t i t u i t o  d a  q u e l l i  r i p e t u t i  g e m e l l i  d i  u n o  s o l o   a t t i v o,   s t a r a n n o  l e  p o t e n z e  t r a  s è,   c o m e  i  n u m e r i  d e l l e  r i p e t i z i o n i.

 

L’Attivo A contenga i gemelli dello stesso B con tre alternative [cambiamenti], e l’attivo C contenga i gemelli dello stesso B con due alternative; asserisco che la potenza A sta alla potenza C come 3 a 2. Infatti la potenza A sta alla potenza B come 3 a 1 (per la prop. 1 qui) e la potenza B sta alla potenza C come 1 a 2 (per la prop. detta [dict.] 1). Dunque (dagli Elementi) la potenza A sta alla potenza C come 3 a 2.

A titolo d’esempio, per tutti i pari e simili la potenza del peso di tre libbre sta alla potenza del peso di due libbre di una volta e mezzo [sesquialtera], o come 3 sta a 2 oppure le cose multiple di 3 [tripla] [stanno] alle cose divisibili per 2 [subdupla].

 

 

                                               P r o p o s i z i o n e  3

 

N o n  p u ò  a c c a d e r e  c h e   d a l l a  c a u s a  s c a t u r i s c a  l ‘ e f f e t t o  c h e  c o n t e n g a  i l  g e m e l l o  d e l l a  c a u s a  e  q u a l c h e  c o s a  p i ù  d e l l ‘ A t t i v o.

 

Sia Causa A, dalla quale derivi un qualche Effetto B più C, e sia soggetto B gemello in tutto allo stesso A, e C sia Attivo. Ciò affermo che non può accadere. Perché infatti sia B gemello allo stesso A attivo (per ipot.), anche B sarà attivo; dunque tutto l’effetto B più C è attivo e maggiore della causa A, perché contiene C attivo o provvisto di potenza oltre B gemello dello stesso A. Ma ciò non può accadere, perché  (per l’assioma preced.) l’Effetto attivo non può essere più potente della causa.

Così non può avvenire che il peso di un’unica libbra cadendo da una certa altezza o dall’altezza di un piede causi qualcosa, da cui derivi non solo che la libbra di nuovo salga all’altezza di un piede, ma anche che oltre a ciò qualcosa di attivo sia prodotto, v. g. qualcosa per quanto piccola più di una libbra sia levata in alto. Quella stessa cosa infatti è il  M o t o  p e r p e t u o  M e c c a n i c o,  il quale consiste  nel superamento [in excessu] della potenza dell’effetto sulla potenza della causa. E una volta ottenuto il superamento, ripetuta la prima azione, si avrà un nuovo superamento uguale al precedente, e in questo modo finalmente, per quanto grande possa essere il superamento, e data una libbra d’acqua che cada una sola volta dall’altezza di un monte, potrà per ciò soltanto una certa quantità di acqua dal lago sottostante una pianura essere, sul monte e in un bacino sopra di quello scavato, sollevata, a quel modo che, nell’ultimo luogo di quell’unica libbra di acqua che era stata sul monte si avrà un lago sul monte che possa cagionare un fiume perpetuo, dico perpetuo perché non solo la quantità di acqua che discende ma anche qualcosa di più (per compensare le perdite derivate dal fondo che assorbe, dall’acqua che essicca e da altre cause) sempre avrà la forza di portare in alto di nuovo. Consta a sufficienza che queste cose sono assurde, e sono confutate da perpetui esperimenti della natura, in generale qualunque cosa potrebbe avere per effetto qualunque cosa, e non ci sarebbe alcuna ragione certa delle potenze da calcolare.

 

 

                                      P r o p o s i z i o n e  4

 

S e  l ’ E f f e t t o  i n t e g r o  s i a  s i m i l e  a l l a  C a u s a,  s a r à  s u o  g e m e l l o.

 

Sia Causa A, Effetto integro B, simile alla causa; dico essere B gemello allo stesso A. Quando infatti sia B simile allo stesso A (per ipot.) e la potenza uguale a quello (per l’ass. preced.), sarà certamente uguale. Altrimenti da quello stesso sarebbe dissimile, se fosse trovato in una proporzione minore più di potenza che di grandezza [magnitudo=grandezza dinamica]. D’ora innanzi ciò che è uguale e ciò che è simile non è null’altro che gemello.

E dunque se un grave fosse da una qualche altezza disceso, e poi invertendo il percorso di nuovo in alto salga, nient’altro di attivo avrebbe prodotto che l’elevazione sua, oppure se spende nella risalita tutta la sua potenza richiesta nella discesa, deve essere detto precisamente ascendere a un’altezza tale quanta è quella dalla quale era disceso. Quando infatti l’effetto prodotto sia l’elevazione del grave stesso (simile alla causa era anche questa elevazione dello stesso grave prima della discesa), non può essere uguale alla causa senza che sia uguale l’elevazione, e nascerà uno stato ultimo in tutto gemello al primo.

 

 

                                               P r o p o s i z i o n e  5

 

L ’ E f f e t t o  i n t e g r o   u n a  c a u s a  p i e n a  o p p u r e  i l  s u o  g e m e l l o  p u ò  r i p r o d u r r e.

 

Quando infatti uguale sia la sua potenza alla potenza della causa (per l’ass. preced.), di tanto è necessario che le circostanze vengano nel modo seguente distribuite [ordinate], affinché un qualcosa di simile alla causa si mostri, il che può sempre avvenire, perché (per la definiz. 1 qui) è lecito secondo arbitrio [pro arbitrio] assumere per la def. 2 come concorrenti [concurrentes=coincidenti, contemporanee] le circostanze da nessuna azione prodotte, o soltanto per l’azione della causa, donde (per l’esempio della dimostraz. 1 preced.) verrà fuori il gemello.

Siffattamente [è] un funependolo oscillante, se non lo supponiamo proprio per nessuna delle forze a pendere fino alla flessione della fune o alla resistenza dell’aria e simili esigue perdite, assolutamente risalirà di nuovo alla precedente altezza, e il piccolo globo tornito da una pietra durissima, incidente su un ferro levigato sottostante, tornando indietro risalirà di nuovo tanto in alto da quasi ferire la mano.

 

 

                                               P r o p o s i z i o n e  6

 

N u l l a  i m p o r t a   r e l a t i v a m e n t e  a l l a  g r a n d e z z a  d e l l a  p o t e n z a  s e  u n  q u a l c h e  E f f e t t o  i n t e g r o  s i a  m e d i a t o  o  i m m e d i a t o.

 

Sia causa A, e l’effetto immediato in B, e di nuovo mediante B l’effetto mediato C, così che B sia effetto dello stesso A e causa dello stesso C. Poiché A è di uguale potenza dello stesso B e B dello stesso C (per assioma), sarà anche A equivalente allo stesso C.

E’ immediato l’Effetto integro, che dalla stessa causa è stato prodotto, sia quello che non [essendoci] nessuna azione in qualcosa d’altro che non sia la causa, dalla causa scaturisca, e appunto perché tutto [l’effetto]  si presenta contemporaneamente, e particolarmente si presenta in quello stesso momento in cui la causa ha esaurito la potenza sua, sia [quello che] ha cessato di poter agire. E’ sufficiente allora che l’Effetto integro immediato sia uguale alla causa affinché concludiamo che sia ineguale alla causa qualsiasi altro [effetto]. E invero anzi perciò è necessario che l’effetto sia uguale alla causa, perché dallo stesso [effetto] cose ineguali potrebbero sorgere, essendo in caso contrario dirette in direzioni opposte le cose che si interpongono [alioqui diversis mediantibus=da una qualche diversa direzione rispetto a quelle che stanno nel mezzo], né certa sarebbe la misura delle potenze. Tuttavia nella pratica laddove quanti più fattori si frappongono, là tanto maggiore è la perdita accidentale.

 

 

                                      P r o p o s i z i o n e  7

 

I n  q u a l s i v o g l i a  S i s t e m a  d i  c o r p i  n o n  c o m u n i c a n t i  c o n  a l t r i  l a  p o t e n z a  è  s e m p r e  l a  s t e s s a.

 

Quando infatti i corpi non comunicano con altri (dall’ipot.), qualsivoglia stato dei corpi posteriore sarà effetto integro dello stato precedente degli stessi (per la def. 2), e perciò (per assioma e per la prop. 6) la potenza [è] uguale. Pertanto la quantità di potenza è sempre la stessa.

Da questo momento [d’ora in poi] sia che il corpo sia uno, sempre conserverà la stessa potenza, sia nel caso di più corpi che si urtino tra loro, sempre la stessa sarà la potenza nella somma totale di tutti.

 

 

                                      P r o p o s i z i o n e  8

 

S e m p r e  l a  m e d e s i m a  p o t e n z a   c’ è   n e l l ’ U n i v e r s o.

 

E né infatti i corpi dell’universo possono comunicare con altri corpi [quindi l’universo è chiuso] che non siano contenuti nell’Universo. Pertanto l’Universo è un sistema di corpi non comunicanti con altri, e perciò (per la preced. Propos.), ha sempre la medesima potenza.

Da questa proposizione male intesa è nato l’errore di coloro i quali hanno creduto che la quantità di moto nell’Universo sempre si conservi la medesima, che gli stessi confondono con la potenza. Quanto poi ciò sia d’importanza, noi abbiamo dimostrato nel suo luogo [a suo tempo]. Può anche essere facilmente dimostrato che a eguali tempi medesima è la quantità di Azione nell’Universo quando la potenza sempre agisce, per quanto può, e precisamente in modo uguale in tempi uguali. Di gran lunga poi differente [Ben altra cosa] è la quantità di azione come noi l’abbiamo esplicata con un principio peculiare [specifico] dalla quantità di moto come è definita da quelli che vogliono che sia conservata la medesima somma totale del moto, e non nel tempo ma in un qualsivoglia momento la intendono quegli stessi che calcolano corrispondente la grandezza dinamica [magnitudo=forza] di un corpo in velocità in quel momento, affinché nasca [abbia origine] la quantità di moto da loro stessi così appellata. Ma è falso che quella [quantità di moto] sia conservata nei corpi sempre la stessa, come sotto dimostreremo.

 

 

                                      P r o p o s i z i o n e  9

 

Q u e l l e  c o s e  c h e  p o s s o n o  p r o d u r r e  u n o  s t e s s o  e f f e t t o  i n t e g r o  ( o  [effetti]  g e m e l l i )  h a n n o  p o t e n z e  u g u a l i.

 

Sia causa F producente l’effetto G, e causa L producente l’effetto M, e siano gli effetti (certamente integri) G e M gemelli; affermo che le cause F e L sono equipotenti. Infatti la causa F è equipotente all’effetto G, e l’effetto G all’effetto M (allo stesso certamente o al gemello), e l’effetto M alla causa L; e pertanto la causa F alla causa L.

Ciò avviene per esempio se (fig. 137) una corda in tensione dalla posizione retta AB sia curvata nella posizione ACB, tanto per la caduta di un peso D dall’altezza DC, quanto dalla caduta di un peso minore E da una altezza tanto maggiore EC, cosicché certamente la corda non possa essere curvata oltre dagli stessi [pesi], particolarmente le elevazioni dei gravi D e E al di sopra dell’orizzonte HCR avranno uguali potenze quando possono compiere lo stesso [percorso] sino alla sommità [massima altezza].

 

 

                                      P r o p o s i z i o n e  1 0

 

Q u e l l e  c o s e  c h e  d a  c a u s e  g e m e l l e  p o s s o n o  e s s e r e  p r o d o t t e,  s o n o  d i  e q u i p o t e n z a.

 

Sia causa F producente l’effetto G, e causa L producente l’effetto M, e causa F e L (che intendo piene) siano le medesime o gemelle. Poiché l’effetto G è uguale alla causa sua F, e la causa F alla causa gemella L, e la causa L all’effetto suo M, così l’effetto G è eguale o equipotente all’effetto M.

Ciò avviene ad esempio se un corpo di una libbra provvisto del moto accelerato [celeritate] di un grado consuma tutta la sua energia tendendo in un qualche arco, e un altro corpo al precedente uguale e equiveloce consuma la sua nella tensione in un altro arco; archi in tensione, sebbene ineguali o dissimili, saranno tuttavia equipotenti; e quello che fosse in uguale tensione più debole, sarà tanto maggiormente teso.

 

 

                                      P r o p o s i z i o n e  1 1

 

C a u s e  p i e n e  s o n o  p r o p o r z i o n a l i  a  E f f e t t i  i n t e g r i.

 

Sia di una causa piena potenza L, dell’effetto integro potenza M; di nuovo di un’altra causa piena potenza P, e effetto integro di quella [causa piena] potenza M. Poiché per conseguenza L sta all’uguale M e P allo stesso Q, pertanto starà L a P come M a Q.

Poniamo (fig. 138) che i pesi D e E cadendo dalle altezze perpendicolari DH, ER possano tendere di uno stesso grado [eodem grado=con quel primo passo] certuni Elasmata [elasma, tos=in greco metallo battuto, lamina] tra sé gemelli in transito, D propriamente tre A, B, C, ma pure E due F e G, e ambedue [D e E] cadendo né hanno prodotto qualcosa di più grande né possano agire, ma [poniamo che] D dopo l’ultimo Elasmata C in tensione abbia perduto tutta la sua energia [vis], come se in quel momento si supponesse di raggiungere l’orizzonte in H, non lo fenda con  alcuna forza affatto; e similmente [ponbiamo che] E dopo l’ultimo Elasmata G in tensione avrà, mentre quello stesso discende, consumato tutto l’impeto ricevuto, e con nessun urto colpisca l’orizzonte in R. Stabilite queste cose [ma hic positis, da positus, a, um= caduto, sceso, posto, situato] starà la potenza dello stesso D elevato dall’altezza DH verso la potenza dello stesso E elevato dall’altezza ER come il numero degli Elasmati che possono essere tesi dalla potenza precedente, verso il numero degli Elasmati che possono essere tesi [dalla potenza]  posteriore. Infatti quando sono effetti integri gli aggregati degli Elasmati gemelli in tensione, precisamente (per la prop. 2) è manifesto che la potenza di quelli è come i numeri degli Elasmati gemelli, o come il numero della misura delle ripetizioni che in questo luogo è la potenza di un solo elasmata in tensione.

 

 

 

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