STEFANIA SAPORA COGITO ergo SUM.....ergo DIGITO |
Dalla
Dissertazione di Dottorato in Filosofia IX ciclo
1993-1996
Stefania Sàpora – Dottore di Ricerca in Filosofia IX ciclo Università degli Studi “Federico II” di Napoli
Dalla metafisica critica alla metafisica della Ragione Assoluta: l’asse Kant-Hegel-Carabellese
CARABELLESE INTERPRETE DI KANT: DALLA FILOSOFIA TRASCENDENTALE ALLA FILOSOFIA DELL’ESSERE POSTKANTIANA
1. L’allargamento del concetto di coscienza
In questo scritto, che mira alla costruzione di una metafisica razionale postkantiana e posthegeliana, vorremmo dare un nuovo significato al concetto diltheyano di uomo intero[1]: per fare ciò sono necessari una revisione e un allargamento[2] del concetto di coscienza, il che significa del pari una modificazione sul piano scientifico del soggetto di giudizio, ossia dell’io tout court: solo in questa direzione di un Io razionale intelligibile è realizzabile una fenomenologia dello Spirito che si faccia Storia. Lo strumento umano per giungere alla nuova Logica che Carabellese intravede, la Logica della Ragione Assoluta, essendo appunto la ragione da intendere in un senso molto più ampio e inclusivo di quello tramandatoci, non può prescindere anche dall’immaginazione e dall’intuito, che è, come è stato scritto da Giuseppe Cantillo seguendo il pensiero di Ernesto Grassi, una sintesi di “ratio e inventio” [3], perché il soggetto sia un vero e proprio soggetto trascendentale. In questo senso la Ragione Assoluta è, seguendo fino a un certo punto la traccia di Carabellese, la vera cosa in sé di Kant, che, intesa dal lato del soggetto, è il tì come confine di volta in volta superabile - ma per ora non ancora estinguibile - del pensiero, che evidentemente si inserisce in una concezione dell’essere come flusso[4]. Vorremmo qui perciò adombrare alcune concezioni della coscienza di autori peraltro diversissimi: oltre Kant, il quale notoriamente distingue la coscienza empirica dalla coscienza “scientifica”, Hegel, che parla di stati della coscienza non appartenenti alla coscienza ordinaria, o agli stati ordinari della coscienza, e anche dell’irrazionale, sia come ciò che lui stesso prima di Freud chiama inconscio attribuendovi un senso razionale, sia come ciò che irrompe nella storia degli uomini e del mondo senza un’apparente spiegazione. Su questa stessa strada di un allargamento del concetto di coscienza e di uomo intero, troviamo ancora Carabellese, che parla del sapere come coscienza comune, nonché Moretti-Costanzi, che teorizza il cammino soggettivo di progressiva ascesi di coscienza per ciò che definiremmo l’accesso a diversi livelli dell’essere nella diversità che - è ormai patrimonio scientifico - caratterizza gli stati spirituali dell’esperienza umana in ambito più propriamente teologico-metafisico. Ora, il concetto di coscienza, ossia il sapere della ragione, trasposto sul piano dell’esperienza spirituale, in senso stretto è detto mistica: Tommaso nella Summa Theologiae la definisce “cognitio Dei experientialis”[5], palesando così ciò che da secoli nella storia, ben prima di Galileo e della scienza sperimentale, costituisce un programma di fondazione dell’esperienza mistica in termini razionali e, in quanto esperienziali, controllabili: il “grande enigma” e dei mistici e degli studiosi di mistica è nel come sciogliere razionalmente il nodo di quest’esperienza, e dunque anche farsene soggetti e non oggetti. Vorrei ricordare che l’assunto che l’esperienza mistica prova e su cui la mistica si basa è quello della possibilità, fondata nello stesso Antico Testamento ma antica di millenni, di un rapporto immediato e diretto con Dio, come nel Brahmanesimo[6]. Tale possibilità di comunicazione col trascendente, che diventa dogma, è, oltre che fondamento foriero di sviluppi nella cultura cristiana (penso al protestantesimo in particolare luterano), anche ancor prima, nel pensiero teologico, apriori di Agostino come poi, per non citare Hegel e l’intuizione dell’Assoluto, di Carabellese, che infatti su tale credo del rapporto immediato e diretto col trascendente fonda non poche sue concezioni – in tali termini è leggibile tutto il percorso di Carabellese, nel senso che questa è, se non la principale, una delle chiavi di accesso prioritarie di tutto il suo pensiero. Così interpretare Carabellese nel suo programma di una metafisica razionale post-kantiana che riveda il concetto di coscienza e di io significa inserirla nell’orizzonte della scoperta (aletheia) di una Logica che sovrasta – e modifica anche filogeneticamente - i diversi livelli e modi della logica umana consapevole, Logica di cui il Non essere o Nulla è momento necessario e presenza positiva[7], e di cui il problema del Male trova non una giustificazione meno che mai, ma almeno una spiegazione, essendo Nulla e Male, come insegna Carabellese con la sua teoria dell’altro e della reciprocità, necessariamente l’altro dell’Essere e del Bene. La nuova Logica della Ragione Assoluta, ne siamo ben consapevoli, richiederebbe però necessariamente di approfondire in Carabellese le concezioni sia dell’essere come flusso, sia della Cosa in sé come Ragione Assoluta da raggiungere in infinitum. Nella metafisica carabellesiana infatti solo andando oltre il pensiero scritto dell’Autore è possibile rintracciare una considerazione dell’essere come emanazione di ascendenza plotiniana, e la stessa Cosa in sé, ben oltre il kantismo carabellesiano come fase che precede la sua metafisica, è, potremmo dire, uno dei nomi che Carabellese dà a Dio, ossia all’Essere. Essere - semplificando un discorso ben più complesso - il quale è sotteso a tutta la sua metafisica e chiamato, appunto, con diversi nomi a seconda di come si manifesta (motivo per cui Furia Valori, in vari luoghi dei suoi scritti su Carabellese, che citeremo oltre, ne accusa il sottile e persistente, mai superato, fenomenismo, nonostante tale fenomenismo a noi non appaia di sostanza, dal momento che Carabellese stesso afferma esplicitamente - alla fine di una lunga argomentazione dell’intera opera L’Essere e la sua manifestazione. Parte I La Dialettica delle Forme, solo apparentemente conclusiva se Carabellese stesso non continuasse giungendo appunto poco più avanti alla Ragione Assoluta - che “Dio, dunque, è il reale in sé.”[8]
2.
Carabellese neo o post-kantiano? Oltre Kant Carabellese
ripensa il kantismo[9] dagli
anni Venti sino a oltre i Quaranta, e per i modi e i risultati di tale
ripensamento si può dire che ne costituisca una delle voci del versante
italiano. Ma se questo suo ripensamento non ha avuto seguito allora, e
ancor oggi è solo della critica più accorta, è perché la definizione
di un Carabellese neokantiano strictu sensu è limitativa e
bisogna invece allargarla e comprenderla, definendolo semmai
postkantiano. Infatti la sua rilettura originale e allora controcorrente di
Kant come colui il quale mirava nelle sue intenzioni più recondite a
fondare, già negli scritti precritici, una nuova metafisica critica
partendo dalle tre idee di Dio del mondo e dell’anima[10],
fa sì che lo stesso Carabellese si ponga già dai primi scritti sul
criticismo l’obiettivo di fondare una nuova metafisica critica a cui,
nella sua posteriorità alle tre Critiche, giungere nel costituirle
allora quale punto da oltrepassare, e nel porle come nuovo punto di
partenza[11].
Le quali Critiche dunque, nelle vere intenzioni di Kant,
secondo Carabellese dovevano essere non una nuova filosofia, come furono
considerate da certo pensiero post-kantiano con cui egli appunto
polemizza, considerandolo una falsificazione del vero Kant, ma una
propedeutica a una nuova filosofia ancora di là da venire, e di cui
Kant nelle tre Critiche aveva soltanto impostato i limiti
fondandone la possibilità sull’esigenza della ragione, e aveva aperto
con la critica non della metafisica tout court, ma delle
metafisiche esistenti al suo tempo. In questa più che ventennale
interpretazione non disinteressata del Kant metafisico consiste la
validità del tentativo carabellesiano: pensare la metafisica come
scienza del soprasensibile dopo Kant – questo nel suo periodo critico
–, pensarla anche dopo Hegel – nel periodo metafisico[12].
Riteniamo perciò necessario che la ricerca di un Carabellese interprete
di Kant abbia come sfondo l’asse Kant-Hegel-Carabellese, Hegel che
Carabellese conosceva approfonditamente non soltanto per i suoi studi
sul neoidealismo italiano, ma anche per la conoscenza dei testi
hegeliani, sebbene solo, ovviamente, di quelli disponibili nella sua
epoca. L'itinerario
carabellesiano può ad un primo livello, che darà origine
al Carabellese critico e troverà parziale espressione nel sistema del
Carabellese metafisico, essere visto svilupparsi partendo
da due differenti direttrici, originate e convergenti
ambedue in un unico punto finale: il problema dell’Essere. In
ciò il ciclo del pensiero del Carabellese critico, oggettivato appunto
nelle opere di quello che lui stesso ha definito “periodo critico”,
il cui punto di arrivo metafisico consiste nello stendere il sistema
dell’Essere a partire dalla manifestazione dell’Essere stesso, e
dunque a considerare l’Essere origine, e origine della sua stessa
scissione (la coppia circolare[13] Dio
Io), risolvendo il problema religioso in termini trinitari cristiani –
la sua prima pubblicazione del periodo critico è L’Essere e il
problema religioso. A proposito del “Conosci te stesso” di
Bernardino Varisco[14],
l’ultima opera – meglio, serie di opere - a cui attende nella sua
vita, che chiude il periodo critico e apre il periodo metafisico
è L’Essere e la sua manifestazione (ma di questo, ossia
dell’impostazione del Carabellese metafisico e del passaggio tra
periodo critico e periodo metafisico, si parlerà diffusamente più
avanti) - . E’ possibile infatti leggere in termini trinitari il
triangolo Essere: Dio[15] Io
(o Io Dio), in cui la coppia coscienziale pura Dio Io – quella formata
da Dio e Io prima (in termini logico-temporali) della sua
manifestazione, quella cioè anche detta Coscienza qualitativa pura -
esige l’Essere a un tempo come sua Idea (e in quanto Idea origine),
realizzazione (il circolo[16] Io
Dio), manifestazione (nelle forme in cui tale manifestazione avviene in
termini analogici umani, anche se, come sappiamo e come vogliamo,
Carabellese era realista in senso forte o stretto, ossia considerava
l’empirismo e il fenomenismo una manifestazione reale dell’Essere).
In questo senso si può parlare, come fa Furia Valori, di una
natura soggettivo-oggettiva di Dio: in realtà la coppia circolare Io
Dio o Dio Io sottesa alla manifestazione dell’Essere attraversa tutta
questa manifestazione stessa dell’Essere. Non è infatti del vero Dio
di Carabellese che trattano le tre dispense relative a L’Essere e
la sua manifestazione. I L’Essere nella dialettica delle forme, II La
dialettica, III La realtà e l’attività spirituale umana[17],
ma della coppia circolare Dio Io come manifestazione dell’Essere, ed
è per questo che sono leggibili sia in termini gnoseologici sia in
termini ontologici sia in termini metafisici, ossia facendo, come fa
Carabellese, interagire i tre livelli di lettura. Il vero Dio di
Carabellese è l’Essere, punto di origine della coppia coscienziale
pura Dio Io – o incrocio spaziotemporale a partire dal quale si
determina l’Essere di Coscienza puro, distinto[18] dalla
Coscienza qualitativa, che è lo spazio a partire dal quale si dipana la
manifestazione della coppia circolare Dio Io. Qui l’Essere, come primum assoluto
apparentemente inoriginato ma che dà origine, è il filo rosso che dà
sostanza al circolo puro Dio Io, e poi alla sua manifestazione. E’
sull’Essere in sé che Carabellese scrive nella parte centrale del suo
sistema metafisico – ci riferiamo a La Dialettica , mentre
ci sembra che non abbia scritto sull’Essere come Assoluto, a meno di
non interpretare l’Assoluto come Principio, e quindi di rimanere, come
Carabellese fa nel sistema giuntoci, in una visione cristiana
dell’Essere. Ha scritto però sull’altro dell’Essere: l’io, che
si trova protetto sotto l’arcobaleno che rappresenta l’Essere, sotto
l’ombrello dell’Essere, e che è la prospettiva da cui egli guarda
il suo Dio, l’Essere: è questo il vero rapporto tra Principio e
termini: la verticale Essere: io, quasi a che ci sia tra i due un
rapporto biunivoco di necessità, per cui l’io è necessario
all’Essere. Ma il problema è non soltanto che se si considera
l’Essere in sé come Principio, punto zero del rapporto coi Termini, o
per meglio dire con l’io come ciascun termine, c’è sempre il
problema dell’Essere nella sua estensione, o anche nella sua
protezione – Provvidenza? – dell’io, ma anche c’è il problema
che l’aver chiamato l’io Carabellese anche Termine, si presuppone
che facesse riferimento al latino terminus a quo e terminus ad quem,
ossia a una visione finita dell’esistenza, e quindi anche dell’Ego o
Io assoluto, o Assoluto Io. Il vero Io infinito, ma anch’esso finito
secondo lo spazio curvo delle geometrie non euclidee, è l’Io penso,
che esce dall’antitesi Essere Non essere e che coincide in un punto
con l’io sia dell’Essere (l’es come terminus a quo in
collegamento col mondo delle idee e dei desideri) sia del Non essere
(l’Ego come Io assoluto o terminus ad quem, fine dell’esistenza
in un infinito finito). Questo
studio vorrebbe, come si vede, conciliare scienze esatte, religione e
filosofia (scienza filosofia e religione), e in particolare geometrie
non euclidee, razionalismo e la triade religiosa
bramanesimo-ebraismo-cristianesimo – che è interna al pensiero
carabellesiano così come espresso nel Disegno storico della
filosofia come oggettiva riflessione pura, e che quindi non è nostra
ipotesi non documentata -, portando alle estreme conseguenze –
radicalizzando per dove ora posso vedere e sapere – il pensiero di
Carabellese. Tornando
al discorso del rapporto tra il Principio e ciascun Termine in cui
Carabellese sottende la fungibilità di ciascun io pur nella sua
funzionalità attiva al sistema della Ragione assoluta, in realtà
questa definizione carabellesiana del rapporto – diretto - con l’io
come Termine fa riferimento alla terminazione (a quo, ad quem), alla
fine stessa del pensante nel Principio, a un ritorno al Principio e al
principio, ritorno necessario, razionale, raggiunta la pace. In ciò noi
vediamo non solo Hegel, ma anche Vico e la cultura – o meglio la
teologia - indiana che Carabellese iniziava a scoprire. Infatti il
rapporto Principio Termine è leggibile anche nei termini di rapporto
Brahman Athman. Perciò teologia, o meglio gnosi, indiana, coniugata con
Vico, porta con sé anche il ciclo delle rinascite, alla fine del quale
c’è pace, ossia ricongiungimento col Principio dal quale il ciclo
stesso è iniziato, potremmo dire, riportandoci al simbolo
greco-cristiano del Chi-Rho – le due lettere dell’alfabeto greco - del
quale parleremo diffusamente più avanti in nota, dopo gli otto raggi
della sua ruota del tempo. Le
due direttrici di pensiero di Kant da un lato e – intenzionalmente nel
periodo metafisico – di Hegel e di un senso religioso profondo
dall’altro guidano Carabellese, secondo il nostro punto di vista,
attraverso tutto il suo itinerario bio-bibliografico, e il loro punto di
fusione può essere rappresentato da quello che è l’obiettivo
implicito ma sempre presente nello spirito del Carabellese anche
giovane e, via via che diveniva esplicito progetto di lavoro, sempre
presente anche alla mente del Carabellese maturo: la creazione di una
nuova metafisica. Ma
se il ciclo critico di Carabellese può dirsi apparentemente concluso e
risolto nel suo inizio e nella sua fine nell’Essere – a nostro
parere, come già si sottintende, è così solo se si considera
l’Essere non solo come origine ma anche come Assoluto, nonché
se si sorvola sul fatto che questo Essere lascia fuori il Non Essere -,
non altrettanto può dirsi del suo periodo precritico: l’Essere è il
punto di partenza del percorso critico come il punto di arrivo della
metafisica critica, l’Essere è l’Idea prima, l’idea di confine a
un tempo positiva in quanto generatrice, e negativa in quanto la morte
di Carabellese ha lasciato vuoto in termini teoretici (ossia non
sistematizzato) il percorso inverso (ciò che precede l’Essere come
sua origine). Questo risalire a monte dell’Essere è il percorso che
si apre dopo Carabellese. Egli è giunto all’Essere mediante
l’intuizione pura che lo ha condotto lungo tutto l’arco della sua
ricerca (l’intuito come potenza) – testimoniato dalla sua vita e dal
continuo ricorso a Rosmini come suo maestro. In questo senso si può
dire che il periodo precritico di Carabellese è irrisolto, e che dunque
tale ciclo di pensiero non è concluso, poiché egli avrebbe dovuto
investigare in campo gnoseologico il percorso dall’intuito dell’idea
dell’Essere (inteso come Principio, Idea, Sostanza) all’Essere come
Assoluto, sia in termini ontologici negli elementi che compongono
l’Intuito Essere (Idea-Principio-Sostanza), sia in termini metafisici
positivi in che cosa precede logicamente l’Essere come sua origine
assoluta, sia nel rapporto dell’Essere col Non Essere, oppure con un
Essere che comprendesse il Non Essere – se si vuole il Male o il Nulla
– come presenza positiva. Ma con la sua morte Carabellese
testimonia che prima della triade Intuito Essere Idea-Sostanza-Principio
Carabellese non seppe e non volle andare - la morte gli impedì di
stendere il sistema dell’Essere prima della generazione, ossia di
tornare a risolvere il problema dal quale aveva preso l’avvio il suo
percorso filosofico: l’intuito, oggettivato nella sua Tesi di Laurea La
teoria della percezione intellettiva in Antonio Rosmini[19].
Ma è l’intuito il vero Principio generatore della storia di
Carabellese – in questo senso ne abbiamo parlato come sintesi di ratio
e inventio, da investigare in Carabellese stesso -, e una riflessione
sul valore dell’intuito in Carabellese è ancora tutta da scrivere.
Pertanto, se è vero che l’Essere è punto di partenza e di arrivo
della metafisica critica[20],
Carabellese sceglie di considerarlo appunto origine del suo percorso di
studio e di riflessione – e non solo sceglie, ma lo usa come strumento
di indagine critica -, e da qui di darne la sua lettura nella diade Dio
Io. Tale scissione dell’Essere in Dio e Io può essere vista come
manifestazione a valle – e quindi considerare come fa anche la critica
più attenta l’io la seconda parte de L’Essere e la sua
manifestazione, contro la lettera carabellesiana che titola L’Essere:
io - solo se si considera come prima manifestazione dell’Essere
– se vogliamo sua prima emanazione – l’Essere di Coscienza puro
ossia il triangolo Essere: Dio Io, rappresentabile anche come occhio di
Dio o terzo occhio. L’Essere di Coscienza puro è da
distinguere dalla Coscienza come Concreto, e anche dalla Coscienza
qualitativa. In questo senso anche Dio, che Carabellese tratta ne L’Essere
e la sua manifestazione nei tre volumi citati L’Essere nella
dialettica delle forme, La dialettica, La realtà e l’attività
spirituale umana, è una manifestazione dell’Essere: Dio in questo
senso è la legge dialettica delle forme in cui è esprimibile dall’io
che lo ricerca, è la legge dialettica che regola il rapporto tra fato e
fatto, è la legge dialettica che regola il rapporto tra la realtà e
l’attività spirituale umana: è il Dio di Mosè, il Dio della Legge
che si incontra, nella coppia circolare Dio Io, con l’Io, e che dà a
questo le Leggi. Ma questo non è il vero Dio, per Carabellese: il vero
Dio di Carabellese è l’Essere, la vera cosa in sé kantiana per
Carabellese, la res, il limite di Carabellese oltre il quale non
seppe andare, e che noi oggi dobbiamo superare spostandolo nei suoi
confini quel poco più in là che ci è consentito. E questa res carabellesiana
è Essere che nel punto zero si incontra con il Non Essere, che non è
il Nulla d’essere ma anch’esso uno dei due modi dell’Essere,
determina la creazione come manifestazione continua[21],
o se si vuole in termini biblici la Genesi , quella
dell’istante in cui l’Essere inteso come YHWH afferma: “Fiat
lux”nell’asse di intersecazione tra lo spazio e il tempo, il punto
zero dei piani cartesiani, e ciò lo affermo al di là del pensiero di
Carabellese, almeno della sua lettera. Per
quanto queste nostre riflessioni tendano ad abbracciare con un unico
sguardo tutto il pensiero filosofico di Carabellese, anche nel
cosiddetto periodo metafisico, nonché negli sviluppi possibili che a
partire dalla sua metafisica si aprono, la nostra ricerca prende in
considerazione dal punto di vista strettamente scientifico-analitico
soltanto il cosiddetto “periodo critico” di Carabellese. Pertanto i
confini all'interno dei quali si situa dal punto di vista storiografico sono
quelli interni delimitati dal "periodo precritico" da un
lato e dal "periodo metafisico" dall'altro,
che sono esclusi da una trattazione approfondita – è chiaro che tali
delimitazioni, nonostante siano suffragate da Carabellese stesso, sono
da considerarsi se non arbitrarie, quanto meno interne alla continuità
e unitarietà di un pensiero che è però visto in progressione
dinamica, e che consente anche nuovi sviluppi post-critici. Infatti la
metafisica critica carabellesiana non si pone soltanto come lo sbocco e
il punto di arrivo dell’ontologismo critico, ma anche come nuovo punto
di partenza per la costruzione di una nuova metafisica oltre la
Critica : una nuova metafisica della Ragione assoluta in
infinitum, in cui includere oltre la fede anche l’arte e la scienza,
concludendo così da un lato il ciclo di pensiero che va dal Nous
anassimandreo alla sua manifestazione nel concreto, passando per
l’Illuminismo – ma abbiamo già detto che Carabellese nella sua
storia della filosofia inizia dal brahmanesimo e non dalla filosofia
greca, né dal Dio ebraico – dall’altro, il ciclo illuministico
stesso della Critica come fede nel progresso della Ragione. In questa
nuova metafisica devono essere compresi, pena la non realizzazione della
Ragione Assoluta in infinitum, anche elementi apparentemente
irrazionali quali la fede, l’intuito, il sentimento, il caso, il
destino – Carabellese, oltre a partire egli stesso dalla fede e
dall’intuito, parla nelle sue dispense anche fuggevolmente
dell’astrologia, tentando di riportarla alla ragione, oltre a mettere
in relazione Dio e fato in bellissime densissime pagine. In tal modo,
quello di una razionalizzazione dell’irrazionale, la storia diviene
metafisica, e la metafisica a sua volta diviene storia della Ragione
assoluta ab e in infinitum, ossia nello spaziotempo, da distinguere
da ab ed in aeternum, che richiedono e presuppongono il solo tempo.
Ciò per giungere, uscendo dalla storia come processo, alla Ragione
assoluta come metafisica, al Regno dei puri spiriti. I confini
teoretici, invece, si situano a cavallo tra gnoseologia, ontologia
e metafisica, e non soltanto si muovono nella direzione di trasformare
in fisica la metafisica, spostandone in avanti i confini – il limite
della ragione kantiano - lasciandole nuovi quesiti da risolvere, ma
pure, tali confini teoretici, sono da considerarsi in connessione, se è
vero che a rigore è impossibile scindere, se non a posteriori,
gnoseologia e metafisica, e che in particolare in Carabellese l'indagine
sulle condizioni di possibilità della conoscenza
costituisce il punto di apertura del discorso metafisico, e
che in ogni caso il livello gnoseologico e fenomenico è uno dei
possibili livelli di lettura, il primo, anche della sua metafisica
critica, nella sottolineatura che in Carabellese essere e apparire sono unum
et idem, e che appunto la battaglia di tutta la sua vita consiste nel
superamento della scissione tra essere e conoscere, tra essere e
fenomeno, in direzione di un realismo metafisico distinto da quello
neoscolastico, ma che lo ri-comprenda. D’altro canto è stato detto da
un critico dell'epoca di Carabellese che la gnoseologia
costituiva in generale già prima di Carabellese
stesso il terreno di scontro apparente tra diverse scuole
filosofiche in vista di più profonde lacerazioni che riguardavano
la concezione metafisica della realtà, e che dunque essa, implicando
il problema dell'oggettività della conoscenza e
quello del rapporto tra verità e certezza, sottintendeva diverse
concezioni di Dio[22]. Vorrei
tornare sulle due direttrici che a un primo livello sono rintracciabili
in Carabellese: fin dagli anni giovanili, Carabellese è mosso
profondamente da due interessi fondamentali, che, a partire dalla
sua individualità di Individuum metafisico irripetibile, fanno
parte della sua formazione di persona e di filosofo, e
che pertanto occupano una consistente parte sia della sua vita che
della sua bibliografia: Kant e un senso religioso –
Carabellese, educato dal profondo senso religioso della madre, ha poi
studiato nel Seminario di Molfetta in vista dell’abito talare, poi mai
vestito -, a un tempo nuovissimo e antichissimo, in cui il cristianesimo
si pone come elemento fondamentale – e punto di partenza del suo
itinerario, ma si vedrà punto di arrivo solo del suo sistema, poiché a
nostro parere il suo pensiero in fieri degli ultimi anni
avrebbe portato a nuovi sbocchi - ma non esclusivo, tanto che si può
dire che la filosofia dell’ultimo Carabellese voglia porsi a un tempo
come pre-cristiana e post-cristiana, e dunque sulla linea di un
allargamento della tradizione occidentale nel senso dell’oltrepassamento
non solo delle sue radici ebraico-cristiane nell’incontro con comuni
radici orientali – si è già detto che il suo Disegno della
storia della filosofia inizia col brahmanesimo - , ma anche dei suoi
sviluppi, al di là della stessa consapevolezza carabellesiana, oltre il
mondo attuale. Si vuol dire che Carabellese, in ciò posthegeliano puro,
mira nelle sue intenzioni più recondite a ricollegare l’impersonalità
ma anche la razionalità del Brahman con la Ragione assoluta
di stampo kantiano-hegeliano. Solo infatti tenendo presente la
concezione di tale Ragione assoluta è possibile comprendere fino in
fondo, al di là della sua benevola concezione che si rifà al Discorso
della Montagna e al senso del cristianesimo come riconoscimento della
Persona, la sua concezione che l’io sia un quanto dell’Essere. Ciò
significa, pur al di là della critica carabellesiana a Hegel come colui
che mortifica la soggettività dell’io rendendolo funzionale al
sistema della Ragione, nel quale trova più che una giustificazione
anche e soprattutto senso il Male il conflitto e la contraddizione nella
superiore sintesi dell’Aufhebung, è possibile penetrare, al di là
del riconoscimento anch’esso hegeliano dell’insostituibilità
funzionale del pensiero del pensante quando questo è attivo pensiero
pensante – e dovrebbe, ma forse lo è nell’apparente irrazionalità,
esserlo sempre -, in quella che secondo noi è una profonda certezza
carabellesiana. Questa profonda
certezza è testimoniata non solo dall’essere l’io quanto
dell’Essere – quantità fungibile -, ma anche termine del Principio.
Termine del Principio significa non solo e non tanto rapporto
privilegiato col Principio (che farebbe pensare a un nuovo umanesimo
metafisico antropocentrico se non si tenesse conto che termine è
riferito non solo a uomo ma a pensante, e che quindi in realtà l’asse
del giudizio e della conoscenza va già consistentemente spostandosi non
soltanto verso l’essere spirituale tout court, verso lo Spirito,
ma anche proprio verso il Pensiero come essere più profondo e più vero
dello Spirito stesso, il Pensiero come Aufhebung dello
Spirito. Il Pensiero da un lato come intuito o Idea nasce da una
superiore sintesi – la forma doverosa del Mondo delle Idee, nel quale
è da risolvere il problema non soltanto del rapporto tra il Possibile e
l’impossibile, ma anche quello tra Perfetto e imperfetto che implica
quello del Valore, pena la non risoluzione del problema del Bene e del
Male. Il Pensiero come sforzo attua una superiore sintesi nella realtà
che si muove verso la Ragione assoluta: ma resta sempre il
problema di fondo: perché la Ragione assoluta si
manifesta-oggettiva-rivela nel ritorno a se stessa nella Realtà, anche
solo intesa come Spirito o, salendo di livello, come Idea? Non basta
dire che Dio è Amore. La domanda metafisica fondamentale non è perché
c’è l’essere piuttosto che il nulla visto che anche il nulla è una
forma d’essere. A meno di non ribaltare l’ordine di valore tra
essere e nulla e considerare il Nulla superiore all’essere, e quindi a
identificare il Nulla con la Ragione assoluta[23].
In questo caso la domanda sarebbe: perché la Ragione assoluta
non rimane Nulla? Ma forse la domanda più radicale, atea se si affida a
una risposta scettica, è: perché la Ragione assoluta? -,
anche intesa nella forma positiva del Nulla assoluto, anche ideale e
spirituale, il Nulla come potenza (che si fa atto, domanda successiva)?
In realtà su questa strada, che la teologia negativa pratica, si arriva
prima a dire che Dio è l’Innominabile - come per l’ebraismo -, e
poi, radicalizzando ancora, che è l’Indeterminabile, e anche questa
è una forma positiva. "La
filosofia o è anche metafisica, o non è” [24].
Questa perentoria affermazione, che il Carabellese maturo fa in
quella che un’importante corrente della critica attuale, quella
guidata da Edoardo Mirri, considera la sua opera principale, è
al tempo stesso il risultato di un percorso, una dichiarazione di
intenti e una presa di posizione rispetto a quelle correnti di pensiero
che maggior fortuna avevano allora, e in alcuni
casi maggior risonanza critica hanno oggi. Essa sta a
significare che, sebbene i campi in cui si esercita il pensiero
filosofico siano molteplici e diversi, nella sua accezione più
stretta ed essenziale la filosofia, aristotelicamente, si identifica
con la metafisica, intesa inoltre come sistema. Carabellese definirà
- in una fase matura del suo pensiero ma non definitiva - la sua
metafisica "ontologismo critico": critico sia
perché, come egli stesso scrive[25],
si inserisce in quella linea ideale del pensiero che,
ancor prima che ciò fosse esplicitamente teorizzato da Kant,
vuole essere indagine filosofica avulsa da pregiudizi
dogmatici e da soluzioni aprioristiche, perché trova un
sicuro punto di riferimento nella Critica kantiana, di
cui vuole essere la continuazione e al tempo stesso l'oltrepassamento,
come si evince dal suo scritto Dalla critica all'ontologismo
critico, del 1940. In questo senso, quello che vede
Carabellese interprete e continuatore di Kant in vista di una nuova
metafisica critica, si può individuare una prima, ma
non unica come si è già suggerito, originalità del suo
pensiero. Il suo "periodo critico" infatti
si situa sulla linea di sviluppo della riflessione
filosofica criticista: quella che vuole una ripresa degli
studi kantiani nella prospettiva di una rilettura critica
di Kant che consenta la ricerca di una
metafisica dopo Kant. E' questo infatti ciò che vuole
essere l'ontologismo carabellesiano, che non a caso si definisce
critico: una nuova metafisica che si riallaccia a Kant, nel quale trova il
suo antecendente più prossimo, ma che vuole - e deve
- anche porsi necessariamente dopo Kant, il Kant che sembra
aver negato, com'è noto, la possibilità di una metafisica che
non sia critica di quegli apriori e di quelle strutture del
pensiero che costituiscono gli apriori e la struttura
delle scienze matematiche e fisiche. Carabellese in altre
parole rifiuta l'interpretazione di Kant come critico della
conoscenza che nega qualunque metafisica, e assume quell’interpretazione
in cui Kant è sì critico della conoscenza, ma in vista della
fondazione della scienza come scienza dei principi della ragione,
o ancor meglio come scienza critica (aggettivo) della ragione, laddove
la ragione è intesa in senso metafisico di Ragione assoluta, e quindi
deve tenere anche conto del cammino di Hegel e dell’hegelismo.
Carabellese quindi intende il Kant critico della scienza in senso
metafisico: la continuità dell’ontologismo critico con la
metafisica tradizionale, che Kant sembrava aver rotto una volta per
tutte, è in Carabellese solo apparente. Ma
bisogna intendersi sul concetto di metafisica tradizionale: se per
metafisica tradizionale si intende quella che si involge nelle aporie
della ragione, sicuramente Carabellese ne prende le distanze. Ma se per
metafisica tradizionale si intende quella che separa l’essere dal
conoscere, Carabellese, al di là delle sue dichiarazioni esplicite, nei
fatti la condivide, pur spostandone più oltre e in altro significato i
confini. Si vuol dire, come mostreremo più avanti in questo studio, che
Carabellese conserva uno iato, sebbene non un salto, tra essere e
conoscere, e pur ponendoli sulla stessa linea di continuità, li vede
distinti: l’essere è superiore al conoscere come livello, e vi è
potremmo dire un rincorrere del conoscere verso l’essere. Ma se essere
e conoscere restano, al di là della lettera e dell’intenzione
carabellesiana, separati, non altrettanto essere e sapere, che seppur
distinti, sono in rapporto sullo stesso piano. Infatti egli instaura un
filo diretto tra essere e sapere, per cui il sapere è sempre un sapere
l’essere; altra cosa il conoscerlo: il sapere è immediato e
intuitivo, potremmo dire a priori o pregenetico in tutti i sensi:
metafisico, religioso, fisico, biologico, ecc., il conoscere è
razionale e sistematico, a posteriori nel senso che svolge l’essere,
è postgenetico. In questo senso l’Essere-Sapere è in Carabellese,
come sintesi anche chiamata Concreto, uno dei livelli cardine del
sistema di Carabellese stesso, che però mira a un tempo a risalire più
indietro e ad andare più avanti, forse per la separazione che implica
tra filosofia e teologia, ossia tra l’Essere che si vede, si
oggettiva, come Sapere e il Sapere che si vede come Essere – livello
pregenetico e poi postgenetico sia in senso metafisico che religioso,
ossia in senso teologico, anche se il Vecchio Testamento lo pone come
postgenetico -, e uno dei livelli in cui si attua il sistema della
Ragione assoluta. E
Carabellese rompe con la metafisica tradizionale che si involge nelle
aporie della ragione poiché egli ritiene che è a partire da Kant che
la metafisica come scienza sia possibile. La metafisica è scienza, ed
è dimostrabile razionalmente, diremmo esperibile nel senso di sapere
l’essere: bisogna, con un’operazione attiva che criticamente
riscopra le scoperte precedenti del pensiero filosofico-religioso
(teologico) sia occidentale che orientale, ri-costruire il sistema della
Ragione assoluta attraverso la metafisica. E ciò non tanto e non solo
per il Progresso, ma perché la Ragione torni a se stessa (il
progresso, inteso come senso inarrestabile delle cose, è un
mezzo del Bene). Tale metafisica come scienza dell'essere Carabellese
vuole propugnare partendo da Kant poiché in
lui individua lo spazio aperto di una nuova metafisica
critica: nella prospettiva di tale metafisica critica, la filosofia
trascendentale viene interpretata non soltanto
nell'accezione tradizionale che ne esalta l'aspetto gnoseologico,
ossia come una critica della conoscenza in vista
della fondazione della scienza, ma proprio mettendo in
risalto di Kant l'interrogazione sulla possibilità
dei giudizi metafisici apriori, e dunque della
metafisica come scienza[26].
L'ontologismo critico vuole essere una ripresa e una continuazione del
criticismo kantiano portatrice dei suoi germi
"più dimenticati e più veri". Una delle chiavi per
interpretare la mia ricerca consiste nel fatto che la ripresa di Kant in
direzione metafisica avviene nella trasformazione del problema
gnoseologico soggetto-oggetto in problema ontoteologico[27].
L'interpretazione carabellesiana di Kant si inserisce in un progetto
più vasto che riprende i temi e i problemi che caratterizzano la
filosofia trascendentale da un lato deviandola dall’impostazione
gnoseologica in direzione decisamente metafisica, dall'altro portando
avanti l’allargamento del concetto di soggetto trascendentale nel
senso per un verso della quantificazione dell’Io penso kantiano, per
l’altro dell’elevazione di tale quantificazione a livello
metafisico: l’innalzamento al piano metafisico dell’Io penso
kantiano nella coppia dualistica Dio Io sottesa al sistema dell’Essere
è la trasposizione in termini filosofici del Cristo religioso, a
partire dal quale si ha la quantificazione metafisica degli io omogenei
e quanti dell’Essere. In questo senso l’Io, come Cristo, è l’Uno
– l’Uomo, il primo Uomo - dell’Essere, la sua Quantità pura,
l’Uomo Universale in quanto sostanza di tutti gli io particolari suoi
quanti, e in questo senso Unico di tutti, e in questo senso ancora
Soggetto in quanto Individuum metafisico, che costituisce
l’individualità dei viventi in quanto pensanti, e pensanti Dio, e
come Spirito identico ab aeterno e in aeternum nei suoi vari gradi in
tutti e per tutti. Inoltre
in questo allargamento del concetto di soggetto trascendentale il
concetto di esperienza a livello umano viene allargato a tutte le sfere
dell’esperienza umana secondo una lettura della distinzione tra
intelletto, sentimento e volontà molto meno rigida e più penetrativa,
e soprattutto non a priori ma a posteriori, poiché a priori vi è la
ragione[28]. In
questo senso si può ascrivere pure Carabellese,
tenendo conto anche delle distinzioni storiografiche del tempo forse
oggi in via di superamento riguardo al neohegelismo – che Carabellese
combatte ma che pure assorbe e sviluppa -, si può ascrivere anche
Carabellese, dicevamo, nell'orizzonte del neokantismo, sebbene con i
dovuti chiarimenti e allargamenti del concetto stesso di
neokantismo. Neokantiano Carabellese fu, secondo il
suo compianto allievo Giuseppe Semerari - tra i primi a promuoverne una
ripresa nell’ottica di un suo giusto rilievo nella filosofia europea
del Novecento - nel senso che si pose in quel vasto movimento
otto-novecentesco che combatté e risolse il positivismo in
un appello a Kant che, "[...] di fronte
al pregiudizio dei fatti, proprio del positivismo, ripropose
il problema di condizioni apriori [...] della costituzione dei
fatti come fatti."[29].
Ma è necessario intendersi sulla latitudine da dare al termine
neokantismo, come movimento in fieri di sviluppo e
allargamento del criticismo kantiano. Se neokantismo vuol dire
"[...] riprendere, però radicalizzandola, la
questione kantiana della possibilità delle forme
del sapere e dell'esperienza [...).", Carabellese è
neokantiano senz'altro. Ma limitare il neokantismo di Carabellese
alla gnoseologia è riduttivo, a meno di non intendersi sul suo campo e
sul suo oggetto, che nel progetto di Carabellese dovevano allargarsi a
comprendere forme del sapere e dell’esperienza non ancora fondate, di
cui da un lato dare la fondazione, dall’altro investigare il
fondamento. La chiave è appunto nella radicalizzazione della
questione delle forme del sapere e dell’esperienza, che nel
neokantismo di Carabellese consiste nel travalicare i confini
gnoseologici sin lì fondati e investigati, per allargare oggetto e
metodo della scienza, affrontarne la questione di diritto alla radice e
infine dare a quell’allargamento un contenuto positivo: questo il
significato dell’apertura carabellesiana del campo delle questioni
metafisiche. In altre parole, secondo il nostro punto di
vista, Carabellese può dirsi neokantiano se non si intende
il neokantismo in senso ristretto, ma se si allarga il concetto di
neokantismo a comprendere la fondazione della scienza in senso stretto,
la metafisica, e a darle, nel progetto che va da Aristotele a Hegel
passando per Kant, un contenuto positivo nella forma del sistema,
allargando contestualmente il campo di estensione dello strumento in
grado di fondarla, la ragione, e quello della manifestazione del suo
“soggetto”, la Ragione , nella quale, a livello
gnoseologico, introdurre il ruolo dell’intuito. Questo allargamento è
indispensabile perché il progetto di Carabellese e il significato
che ad esempio, per restare ai termini della questione in Semerari,
attribuiva al termine coscienza era eminentemente metafisico
e non "semplicemente" trascendentale e
gnoseologico, mentre ciò su cui con più persistenza pose
l'attenzione fu la conoscenza dell’Essere, da considerare nella sua
possibilità, nel suo fondamento e nel suo oggetto, oltre che nella sua
manifestazione. Per cui definire Carabellese neokantiano è
possibile solo se non si limita il neokantismo alla ripresa della
questione kantiana della possibilità dell’esperienza – a meno di
non intendersi sul concetto di esperienza e sul suo campo: radicalizzare
tale questione significa oltrepassare l’esperienza sensibile e quella
intellettuale nel loro diritto e nel loro fatto per aprire con la
speculazione e la meditazione il campo dell’esperienza razionale. Inscrivere
il percorso di Carabellese – il quale non a caso si pone il
problema della scienza concreta, né aposteriori né apriori, ma
dimostrativa - in tale sviluppo della scienza è possibile se
retroattivamente si rompono i confini da lui voluti del suo neokantismo
e se ne allarga il concetto facendo interagire Kant e Hegel, dal momento
che se la sua meta finale è una metafisica critica che si interroga
sulla possibilità teoretica, e cerca una risposta relativa al contenuto
reale, delle tre domande kantiane su Dio, Io e Mondo, ciò non è
possibile se non tenendo conto dell’importante cammino compiuto dalla
filosofia con l’hegelismo[30],
al di là della polemica che pure ci fu tra Carabellese e il
neoidealismo italiano, in particolare di Gentile, che semmai fornisce
elementi di comprensione del suo pensiero.
3.
Alcune note sui rapporti teoretici di Carabellese con Gentile[31] Allora
è necessario ritornare sul ricorso che Semerari fa al
giudizio negativo espresso da Gentile[32] di
condanna del neokantismo e contemporanea esaltazione
dell'idealismo come unica prosecuzione del criticismo
kantiano, e vedere anche il neokantismo come legittima, altrettanto
legittima prosecuzione del criticismo kantiano, ambedue – idealismo
tedesco e neokantismo – convergenti verso l’idealismo assoluto, in
cui il primum oggettivo è l’Idea, il sistema è la
Ragione assoluta, ma il primum soggettivo è l’intuito,
o intuizione pura. E’ da vedere inoltre, come si è suggerito, quanto
neokantismo e neoidealismo siano distanti oggi, e quanto viceversa sia
possibile un discorso comune che ne superi inverandole le distanze e le
contrapposizioni, come è stato fatto ad esempio in Italia nel campo
dello storicismo, una volta a sua volta lacerato, da Fulvio Tessitore e
dalla sua Scuola. E’
possibile considerare che in Carabellese l'identificazione gentiliana
tra assoluto idealismo e gnoseologia, dal momento che
gnoseologia e ontologia in lui si identificano anche nella
metafisica critica o sistema della manifestazione dell’Essere, sia,
anche se non esplicitamente, condivisa. Infatti per guardare il sistema
triangolare Essere: Dio Io è necessario un quarto punto di vista:
l’io che lo pensa. Così se l’Essere potremmo dire in sé – punto
zero del sistema della sua manifestazione - è l’Idea come Dio prima
della creazione, lo zenith, l’io pensante è il nadir. Ciò che
Carabellese fortemente contrasta in Gentile è invece
l’identificazione tra l'Idea e il soggetto inteso come Soggetto
Universale, come si è già detto proprio a proposito del sistema
l’Essere: Dio Io. Egli parla infatti dei due
Distinti della Coscienza, l'Io e Dio, laddove se l'Io
può essere considerato il Soggetto Universale,
Dio non è Soggetto. Carabellese aprirà un polemica
molto violenta su questa identificazione
di Gentile come di Varisco dell'Io con Dio come Soggetto
Universale unico, teorizzato da ambedue come la somma realtà, e lo
considera non “la profonda radice della
realtà, ma un'astrazione vuota”[33],
aprendosi così la strada anche alle feroci critiche da parte cattolica.
Si è già chiarito che a nostro parere è possibile parlare in
Carabellese dell’Io – non di Dio, che abbiamo visto avere una natura
soggettivo-oggettiva e non come Persona (che non è il vero Dio
carabellesiano nel senso di definitivo, bensì l’ultimo sistemato in
ordine di tempo, e dunque uno dei suoi livelli, quello della
manifestazione, potremmo dire kantianamente dell’oggettivazione) -
come Soggetto Universale unico se ci si intende sul riferimento da dare
a queste definizioni dell’Io: unico significa ad esempio unico per
tutti gli uomini – ed è in riferimento a Cristo, appunto Persona o
Uomo in senso pieno -, Universale significa unico per tutti i pensanti
– e fa riferimento all’Io penso kantiano anche al di là del nostro
mondo, di cui Cristo è l’incarnazione umana per eccellenza. E’
evidente che Carabellese intende contestare a Gentile il concetto di Dio
come Soggetto, che parte dal giudaismo (vedi Disegno). Per
Carabellese la critica al gentiliano Soggetto Universale unico si
incentra sul concetto che ammettere il Soggetto universale
unico significa confondere il soggetto puro, che è per Carabellese
un distinto della Coscienza concreta, con la Coscienza
concreta stessa, il cui significato, per il vero Kant, consiste nella
sintesi soggetto-oggetto, sintesi che non è, come vorrebbero certe
interpretazioni posteriori a Kant, il prodotto dell’attività del
soggetto. Considerare Soggetto il puro Universale – non l’Universale
concreto - significa negarlo come tale in quanto lo si riduce a un
singolare, e coinvolgere in questa negazione la Coscienza
stessa. Da ciò si evince il rifiuto carabellesiano per
l'identificazione dell'Io penso kantiano, che in Gentile è divenuto
il Soggetto Universale, con Dio: immanente al Concreto
o Coscienza (necessario rapporto soggetto-oggetto), e distinto dall’Io
come Soggetto – seppure in circolare rapporto con lui -, vi è Dio
visto come l’altro distinto dell’Essere (l’Io, l’Altro, potremmo
dire radicalizzando Carabellese, in necessario rapporto ma anche in
assoluta distinzione: ma non è questa una contraddizione interna al suo
pensiero di un rapporto diretto con Dio, contraddizione che porta alla
teologia negativa di Dio come l’assolutamente altro? Il pericolo si
vede. Io Altro in rapporto diretto orizzontale, Principio Termine in
diretto verticale, ecco un altro schema a croce). Perciò in
una nota de L'idealismo italiano Carabellese precisa
la differenza fondamentale tra l'idealismo di Gentile
e il suo idealismo concreto o ontologismo critico: per l'idealismo
attuale l'idea coincide con lo stesso atto del conoscerla,
per il concretismo essa è immanente all’atto e da questo
distinta.[34] L’idea
è a priori rispetto all’atto, e, in quanto Idea dell’Essere, punto
zero del rapporto Dio Io, è Dio prima della creazione, prima della
Genesi: è, ci ritorniamo, il “Fiat lux”, precedente secondo le
scienze esatte al cosmo, in cui ciò su cui porre l’attenzione non è
la nascita della lux, ma il Fiat, il comando. Questo significa che
prima dell’Idea, che non è Dio inteso come Assoluto, vi è il vero
Dio, l’Assoluto, il Dio che dà come comando l’Idea-Principio. Allora
Carabellese si distaccherà da Gentile dopo
un primo periodo in cui il terreno di incontro[35],
e di scontro rispetto alla sua interpretazione[36],
era costituito dal pensiero di Rosmini (sul cui rapporto
con Gioberti, com'è noto, Gentile si laureò[37]),
da Carabellese poi riconosciuto come maestro[38]. Nell'articolo Intuito
e sintesi primitiva del 1911, riprendendo alcune
argomentazioni dalla sua Tesi di Laurea in Filosofia, Carabellese dà la
sua interpretazione della teoria della conoscenza in
Rosmini in rapporto alla teoria rosminiana
dell'essere, mettendo in relazione gnoseologia e ontologia,
ed enuncia i termini della sua polemica con Gentile. Questa si può
esporre come questione relativa alla diversa interpretazione
che danno Gentile e Carabellese della teoria rosminiana della sintesi e
dell'intuito che la fonda come condizioni trascendentali
dell'esperienza in senso kantiano oppure con valore innatistico e
sostanziale. Nella
conoscenza in primis vi è l'idea dell'essere, l'unico
apriori che Rosmini conserva di Kant. Nella percezione
intellettiva come primo atto della conoscenza razionale questa idea
dell’essere è forma in due modi (Carabellese dice valori):
è forma dell'intuito, nel senso che "accende
l'intelletto" in quanto forma manifestante o manifestazione dell'essere,
ed è anche forma delle percezioni sperimentali,
ossia a posteriori - Rosmini, secondo Carabellese, è colui il
quale fonda, dopo Kant, la conoscenza a posteriori -, e in
questo secondo senso è la forma manifestata. Secondo
Carabellese, l’idea dell’essere nel primo senso – di forma
manifestante l’essere -, pur essendo formale rispetto al complesso
della conoscenza, in Rosmini costituisce un presupposto
della sintesi che apre l'individuo al mondo.
Questa apriorità dell'idea dell'essere perciò riguarda non soltanto la
logica, ma anche la temporalità, al contrario che
per Gentile: l’innatismo dell’idea dell’essere consiste nella
sua preesistenza all’atto percettivo e dunque nel suo essere interna
al tempo: Carabellese afferma, citando il Rosmini del Nuovo
saggio sull'origine delle idee, del 1830, che l'idea
dell'ente nel nostro spirito è preesistente all'atto
della percezione sia per natura sia per tempo.
Infatti si trova, nell’ordine, prima l'idea dell'ente, seguita
dalla sensazione e poi dal giudizio che le congiunge generando la
percezione dell'esistenza dei corpi [39]:
così si ha la sintesi sperimentale che dà la conoscenza
trasformandosi nel giudizio percettivo. Ma
prima ancora della percezione nel suo complesso, che si svolge
nel tempo, continua Carabellese, vi è la percezione
primitiva fondamentale, ossia la sintesi primitiva sui generis, che
è la “prima percezione che noi facciamo venendo alla luce"
(quella del frutto del concepimento). La percezione primitiva
fondamentale costituisce la potenza della ragione ed è di natura
diversa da tutte le altre, perché in essa non vi sono ancora
confini distinguibili tra il nostro corpo e il resto del mondo, ma un
unico sentimento fondamentale. Questo atto costitutivo della
ragione è dunque una percezione sui generis, come un’ideasui
generis è l'idea dell'essere. Intuito dell'ente e
percezione primitiva fondamentale sono contemporanee,
poiché, appena nasce nel grembo della madre, l'uomo
è ragione. In
questo senso, per Carabellese bisogna distinguere tra ordine logico e
ordine temporale: quanto all'ordine logico, la
ragione è una potenza posteriore alle due potenze del senso e
dell'intelletto, da cui risulta; quanto all'ordine
cronologico, è un apriori, dal momento che quando è l'uomo,
è la ragione. E’ necessario perciò distinguere la sintesi sui
generis, che fonda la ragione ed è contemporanea all'intuito
dell'ente, dalla sintesi che costituisce la percezione dei
corpi e dell'io come dualismo soggetto-oggetto
(la cosiddetta percezione di realtà), poiché quest'ultima
è sia logicamente che cronologicamente posteriore all'intuito. Il
punto della questione tra Carabellese e Gentile è proprio
qui: per Gentile[40],
secondo Carabellese, la percezione primitiva fondamentale
del nascituro e l’intuito dell'ente che la fonda sono
soltanto presupposti logici, e in ciò
condizioni trascendentali, cosicché sono fuori dal tempo e
quindi anteriori solo logicamente e non anche cronologicamente, poiché
fondano il fatto stesso della percezione
intellettiva che invece è nel tempo. Ciò perché per Gentile precedente
solo logicamente e non anche cronologicamente, e dunque
fuori del tempo, è l'idea dell'ente, ad essi atti percettivi
fondamentali immanente e anch'essa trascendentale in quanto loro
presupposto. Per Carabellese invece, sia l'idea dell'ente, sia la
percezione primitiva fondamentale non sono condizioni
trascendentali, ma potenze. La potenza, afferma citando il Rosmini
della Teosofia, è un atto primo e costante a cui
può anche mancare, come atto secondo, l’esplicazione, che è
operazione passeggera: la potenza c’è anche se non c’è
l’atto, per cui la percezione primitiva fondamentale non è
condizione trascendentale della sintesi primitiva.
Ciò significa che alle tre potenze (la sensibilità come
potenza del sentire, l'intelletto come potenza
dell'intendere, come intuito ossia intuizione dell’idea, e
la ragione come potenza del conoscere) ne
è anteriore una quarta, la percezione primitiva
fondamentale del frutto del concepimento, che fonda la ragione. La
sintesi primitiva, come operazione o atto secondo della potenza della
percezione primitiva fondamentale, è detta primitiva in quanto
prima funzione della ragione che dà la conoscenza
sperimentale e che ha valore creativo perché fonda la
percezione distinta dei corpi e dell'io. Invece la
percezione primitiva fondamentale del nascituro è il “talamo”
in cui il reale e l'essenza che s'intuisce nell’idea formano
un tutt’uno, l'uomo. Ciò significa che nella potenza costituita dalla
percezione primitiva fondamentale del frutto del concepimento
evidentemente potenza ed atto sono un tutt’uno, il talamo in cui realtà
e mondo delle idee si fondono nell’intuizione pura (non in senso
kantiano, evidentemente), dando forma all’uomo come ragione. Tranne
questa potenza, le prime tre potenze (intelletto, sensibilità, ragione)
sono in quanto tali atti primi a cui manca l'atto secondo, l'operazione,
perché percezione ci sia, cioè per passare dalla
potenza all'atto.[41] E,
al contrario di quanto afferma Gentile, l'ordine
di esistenza e l'ordine di "avvertenza" (come lo chiama
Rosmini), ossia l'ordine in cui vengono avvertite dal soggetto,
sono ambedue cronologici, ma inversi:
nell'ordine logico la potenza viene prima dell'atto,
nell'ordine esperienziale avvertiamo prima l'atto e poi la
potenza. Da questa inversione, che Gentile considera logica e non cronologica
tra l’avere la coscienza dell'atto e l'essere dell'atto stesso,
Gentile ricava la trascendentalità dell'essere dell'atto,
ossia della potenza. Crediamo
di aver messo sufficientemente in luce i termini della complessa
polemica in cui Carabellese e Gentile si addentrano poi
ulteriormente rispetto all'intepretazione del
pensiero rosminiano non solo (a partire dalle rispettive Tesi di Laurea)
nei due articoli citati, ma anche nel successivo
articolo carabellesiano La potenza e l'intuito
come potenza nell'ideologia rosminiana[42],
in risposta all'articolo gentiliano su " la
Critica " del maggio 1911. Il focus della
polemica è nel valore formale o
sostanziale dell'idea dell'essere, che Gentile vede come condizione
trascendentale in senso kantiano, ossia con
valore relativo alla conoscenza, mentre Carabellese,
sulla linea rosminiana, le attribuisce valore
ontologico, connettendo già qui gnoseologia e ontologia in vista
della metafisica. Per Carabellese Gentile dovrebbe dimostrare
che nella percezione intellettiva sorge
immediatamente, senza esistere già prima, l'idea
dell'essere con un valore formale. Da ciò conclude che non è nello
spirito del rosminianesimo la
contemporaneità, e dunque la formalità, dell'idea
dell'essere con la sintesi primitiva: l'intuito dell'ente precede
la conoscenza sperimentale, non ha il valore
formale delle categorie kantiane, e, nel rapporto tra gnoseologia
e ontologia, l’idea dell'essere ha valore
innatistico e sostanziale, quelle di sostanza e di causa valore
categorico e funzionale: il problema è quello del fondamento[43],
e della conoscenza del fondamento.[44] Nonostante
questa polemica, che si protrae dal 1907 al 1912 in diversi
luoghi, Carabellese condivide con Gentile ne La
pedagogia dell'attualismo[45] la
considerazione dello spirito come sviluppo eterno, per
cui la realtà tutta è spirito, ma ne dà una diversa interpretazione.
In generale infatti la sua posizione critica rispetto al neohegelismo
italiano riguarda, nella considerazione dello spirito come il
processo reale, la riduzione di ogni realtà a spirito, che per
lui il neohegelismo intende implicitamente come spiritualità umana,
riducendolo a psicologia. Nel concepire il neoidealismo lo spirito come
il potere umano di rappresentarsi la realtà, questa è sì
rappresentabile ma non riducibile né alla rappresentazione,
né al suo potere formatore, che è diverso dallo spirito[46].
Nella critica al neohegelismo come psicologismo e filosofia
della rappresentazione Carabellese disgiunge perciò lo Spirito come
processo reale dal puro potere rappresentativo, dal momento che in
questo le singole rappresentazioni possiedono sempre un
"chi" e un "che cosa" della
rappresentazione stessa.[47] Egli
vuole affermare, oltre il puro atto (il puro divenire), anche l’essere
dell’atto: perciò egli arriverà a distinguere la realtà infinita
come Essere dallo Spirito eterno, e questo dalla Coscienza o Concreto
o Essere-Sapere che si manifesta e diviene come processo
dialettico: lo Spirito è distinto dalla rappresentazione. E’
solo al livello dello Spirito che c'è processo, in senso lato
divenire – dal momento che il divenire è per Carabellese apparenza,
fenomenicità, temporaneità, anche se egli in molti luoghi della sua
opera, ricordiamo, afferma che essere e apparire sono unum et idem,
e dunque la sua posizione è realistica -, ma al livello sommo
dell'Essere il divenire scompare, nel senso che l’Essere è, in quanto
origine o punto zero del divenire, Principio stesso del
divenire. Carabellese vuole conciliare l'essere con
il divenire, Parmenide con Hegel, mantenendoli però
distinti: l'Essere diviene al livello del Concreto o Coscienza, di cui
lo Spirito è, al livello dell’Essere di Coscienza puro, uno
dei distinti – l’altro essendo Dio - , e nel Concreto o Coscienza in
quanto attivo, universale ed unico processo reale,
non può essere surrettiziamente identificato con l’uomo. E questa
identificazione gentiliana dello Spirito con l’uomo è negata da
Carabellese perché in tal modo la Coscienza come
concretezza dell'Essere scompare per far posto o all'uomo
vivo ab aeterno o alla materia antecedente allo spirito, il
quale non è né il singolo soggetto pensante né l’umanità intesa
come unico soggetto pensante: Carabellese vuol dire che esiste il
soggetto pensante unico, ma non è né il singolo uomo, né l’Uomo in
generale: è, sulla Terra, Cristo, nel cosmo, l’Io.[48] Infatti
per Carabellese l’Io penso kantiano, o Cristo, si identifica con lo
spirito intelligente attivo, lo spirito pensante che sa Dio. Per
quanto attiene perciò all'identificazione gentiliana tra ontologia e
gnoseologia, è possibile considerarla un punto di
convergenza tra Carabellese e Gentile, poiché non soltanto la
Coscienza o Concreto in Carabellese è Essere-Sapere, per cui questa
identificazione e coincidenza può esservi al livello della
Coscienza, se con essa si intende il conoscere dell'Io penso,
che è uno dei due Distinti della Coscienza stessa, ma pure la
coincidenza tra gnoseologia e ontologia attraversa anche l’ultimo
Carabellese, quello che affronta il sistema metafisico dell’Essere.
Infatti tutta la prima dispensa Dialettica delle forme, che parla
di Dio, è un continuo traslitterare di piano tra gnoseologia e
ontologia nel mentre parla di metafisica, poiche Dio è lì leggibile
secondo i vari nomi, le varie forme di oggettivazione che Carabellese
attribuisce a Dio, rimanendo in sé Qualità pura, che, nel rapporto
circolare con l’Io diviene, come la chiama Carabellese nello schema
grafico che chiude l’opera, Coscienza qualitativa. In
altre parole, proprio perché noi consideriamo la posizione di
Carabellese realista (non in senso scolastico ma assoluto, ossia come
identificazione tra essere e apparire, realtà e fenomeno, nonché tra
essere e conoscere nella distanza tra i suoi vari livelli di metodo e di
contenuto), poiché in Carabellese lo spirito non si identifica
con l'Essere e il Concreto carabellesiano ha due condizioni
che, seppure intrinseche e inseparabili, sono
distinte (i soggetti e l'Oggetto, l’Io e Dio),
l’identificazione assoluta tra ontologia e gnoseologia, come
identificazione che riguarda tutti i livelli a partire dall’Essere, è
possibile se si legge il sistema metafisico dell’Essere Essere: Dio Io
dal punto di vista dell’io, ossia aggiungendo un quarto punto ai tre individuati.
In questo io si uniscono i due punti dell’Essere come Idea (anche
abbiamo detto Sostanza e Principio) e dell’intuito che guida
Carabellese alla scoperta dell’Idea. Ci sarebbe qui da fare, a partire
dal rapporto diretto Dio io che guida tutto il pensiero di Carabellese,
una digressione sul sapere l’Assoluto che rimandiamo. Gentile,
secondo Carabellese, misconosce il vero rapporto tra ontologia e
gnoseologia perché connette quest’ultima a un assoluto idealismo
inteso come identificazione tra l'Io e l'Idea, che sono
invece distinti nell'Essere. Carabellese, pur avendo sempre
combattuto contro lo gnoseologismo come separazione
dell'essere dal conoscere, da un lato non considera
l’identificazione tra ontologia e gnoseologia, intesa come
identificazione gentiliana tra Io e Idea, appartenente né al livello
dell'Essere, né a quello dell'Idea, dall'altro non la limita al
livello della concreta coscienza, bensì le fa investire
anche il livello dell'immanenza dell'Oggetto nei soggetti, dove
l'ontologia ricomprende la gnoseologia intesa come coscienza
dei soggetti nella loro singolarità. Vi è qui la rivendicazione
dell’esigenza imprescindibile della molteplicità e diversità dei
soggetti, che secondo Carabellese Gentile mortifica. Il problema dello
spirito è per Carabellese problema metafisico[49],
non problema umano, dunque né problema di origine né
problema di storia: è problema di fondamento, tipicamente
filosofico. Ma
la critica più profonda al neohegelismo italiano egli, pur
concordando con Gentile riguardo allo statuto etico della
conoscenza come attività spirituale che supera la distinzione tra
intelletto e volontà, la esprime analizzando l'atto puro
gentiliano. In questo il soggetto è “l'attivo pensiero
pensante” e l'oggetto è “il passivo pensato”:
poiché per Gentile non può esservi passività nello spirito
come atto puro, l’oggetto come pensiero pensato diviene l'attivo
pensiero pensante (soggetto unico) negato
(oggetto molteplice).[50] La
presa di distanza carabellesiana consiste nell’affermazione che il
molteplice è proprio del soggetto, e l'unico dell'Oggetto, e
che è inammissibile qualunque negazione all'interno dell'Io:
l'Oggetto, più che il negato gentiliano, è proprio ciò
che fonda il soggetto stesso, per cui negare l'Oggetto
significherebbe negare il fondamento: un assurdo. Ciò
significa che il Concreto carabellesiano non
è il Soggetto assoluto gentiliano come atto
puro, perché non è soggetto, ma sintesi di soggetto e di oggetto, è
soggetto-oggetto. L'attualismo
è per Carabellese il soggettivismo assoluto che Spaventa
considera l'essenza e il valore di tutta la
filosofia moderna e da cui Schelling ed Hegel, rinvenendolo in
Fichte, volevano liberare la filosofia in nome della scienza: Io
(trascendentale) sono l'Unico ed il reale.
L'attualismo perciò, in quanto dialettica antitetica del
soggetto puro, non si inserisce per Carabellese nella
tradizione dell'idealismo italiano[51] perché,
negando l'oggetto e sussumendo tutta la realtà sotto il
Soggetto, ne sconfessa l'oggettivismo che dal Rinascimento in poi fa
consistere il vero idealismo nell'immanenza del vero
nel certo, ossia dell’essere nel conoscere. Ma nonostante ciò,
il suo valore consiste nel “potente anelito all'unità” e nella
“dimostrazione dell'ineliminabile spiritualità del reale”.[52] Al
di là di tale valore, a Carabellese preme veder riconosciuto
che su un livello più alto dell'Essere
si pone non il processo, ma la realtà. In una nota
dell'Idealismo Italiano, nel ribadire che la differenza fondamentale
dell'idealismo attuale rispetto all'idealismo concreto consiste
nella coincidenza attualistica tra l'idea e l’atto del
conoscerla, si fa l’affermazione che l’idealismo assoluto è
solo quello concreto, che dà all'Idea, in quanto immanente
fondamento dell’atto del conoscerla, l'assolutezza.[53]
4. Ontologismo critico e metafisica idealistica: la
polemica con l'idealismo hegeliano e la riaffermazione del
"vero" idealismo Riprendendo allora
il discorso di un Carabellese continuativamente interessato
a Kant in vista di un superamento dei suoi
limiti nella direzione di una ripresa della metafisica all’interno
della critica della ragione, metafisica secondo Carabellese insita
già nel Kant precritico e affatto negata
dal Kant critico, si può comprendere
meglio la posizione polemica che egli assume
nei confronti del neoidealismo italiano a lui coevo - e che
reciprocamente il neoidealismo italiano assume verso di
lui, quando manifestamente non lo ignora -, e nei
confronti dell'idealismo tedesco, in particolare
di Hegel. Questa posizione polemica è frutto in primo luogo di una
sostanziale incomprensione da attribuire al clima culturale comune a chi
all'epoca si opponeva all’idealismo oggettivo di Hegel e all'hegelismo
in Italia. Si vuole dire che solo in età più vicina a noi
la messe di studi su Hegel ha chiarito come
i rischi insiti nel pensiero hegeliano, che hanno più
provocato alla sua introduzione in Italia prese di posizione
polemiche e refrattarie, fossero in realtà frutto di
una serie di interpretazioni scorrette sul piano storico-filologico
rispetto alle opere hegeliane edite e inedite,
e a volte di plateali incomprensioni se non
addirittura di veri e propri falsi. Ma
vediamo di analizzare il rifiuto carabellesiano di
Hegel e del neoidealismo italiano dei primi decenni del
Novecento nei suoi contenuti più specifici e nelle sue ragioni
profonde, al di là del clima culturale. Sull’accusa di
soggettivismo mossa da Carabellese al neoidealismo italiano, di cui
rinviene le radici nell’idealismo hegeliano, ci siamo già soffermati
a partire dall'esplicita e più completa presa di
posizione del Carabellese maturo operata nel ponderoso L'idealismo
italiano. Saggio storico-critico, del 1938 - poi ristampato nel 1946,
a ribadire una posizione ormai consolidata di cui le Appendici,
aggiunte nella seconda edizione, costituiscono la
riconferma: l’obiettivo è quello di scindere il concetto di
Soggetto da quello di Dio, rendendosi in ciò anche intenzionalmente
lontano dal concetto di Dio come Persona. Infatti c’è
da dire che nella Dialettica delle forme a Dio sono attribuiti
caratteri di Persona, come il circolo Volere, Intendere, Sentire, facoltà
metafisiche attribuite a Dio. Evidentemente per Carabellese il vero Dio
è l’Essere, che non è Persona ma Idea-Sostanza-Principio. Parallela
a questa presa di distanza del vero Dio sia dal concetto di Persona sia
dal concetto di Soggetto, vi è la presa di distanza dalla dialettica
hegeliana intesa come dialettica formale, e negativa per la presenza
della contraddizione: una sostanziale incomprensione
dell'idealismo hegeliano che noi oggi sappiamo errata, in cui
anche e soprattutto la contraddizione rimane sostanzialmente
misconosciuta, in un oblio assoluto della sua funzione nel
celeberrimo Aufhebung hegeliano. Carabellese vuol dire che la
dialettica hegeliana, proprio per il suo contraddirsi, non è vera, non
è reale: nella realtà non c’è contraddizione, ma penetrazione dei
diversi, dei distinti, che con il loro penetrarsi reciproco generano
forme nuove, e queste forme sono reali, non semplicemente “formali”,
sono sostanziali. Ma questa è proprio la dialettica hegeliana che si
eleva nell’Aufhebung. A meno che Carabellese non volesse
riferirsi, con questa contestazione della contraddizione della triade
dialettica – e di triadi il pensiero del Carabellese sistematico è
pieno -, alla propria convinzione di una assoluta mancanza di
“crescita dello Spirito sopra se stesso”, nella sottolineatura che
lo Spirito nella sua penetratività è sempre uguale a se stesso ab
e in aeternum, ossia nel suo tempo. Ma a questo punto non si
capirebbe di Carabellese la manifestazione dell’Essere come Essere nel
tempo, attività, né il concetto di storia, ad esempio di storia della
filosofia, come progresso, che, sebbene ritornante sui medesimi problemi
di sempre come cosa in sé, potremmo dire, ne sposta nel tempo in avanti
il limite nel passaggio dal sapere alla conoscenza, o anche dalla
coscienza alla ragione. Carabellese
nell'Idealismo italiano, che segna il punto di maggiore attrito
rispetto all'idealismo hegeliano e di più ponderata riflessione
sia dell'idealismo italiano sia della propria posizione filosofica
rispetto a questo, rivendica per sé, nei confronti di Hegel e
dell'hegelismo, il "vero idealismo", l'idealismo oggettivo
o oggettivismo immanentistico. Questo trova nel Rinascimento
italiano di Bruno, Galilei, Vico il suo antecedente più prossimo,
e in Platone e poi nel neoplatonismo di Plotino i suoi
antecedenti più lontani: il "vero
idealismo" è dunque, nel pensiero moderno, tutto
italiano. Infatti se la riscoperta dell’immanentismo - come
immanenza dell'Idea nella coscienza, o anche "immanentismo della
rivelazione divina", come Carabellese afferma in termini non
strettamente filosofici - è attribuita a Bruno, così è considerata
scoperta di Vico la visione della storia come manifestazione in figure
dello spirito.[56] Al
di là della rivendicazione dell'importanza del pensiero italiano
nell'ambito di una filosofia che Carabellese
evidentemente sentiva dominata dal pensiero tedesco, quest'affermazione
del "vero idealismo" oggettivo versus
il "falso" idealismo soggettivo come
deviazione dalla vera filosofia[57] pur
nella comune concezione dell'idealità dell'Essere si incentra
sull’assunzione della tesi dell'immanenza dell'Essere
oggettivo. Ciò non per negare il soggetto, ma per
metterne in risalto il valore, seppure imprescindibile
nel sistema dell'Essere, non prioritario: il prius
nel pensiero carabellesiano non è del soggetto, ma
dell'Idea che si oggettiva, e più ancora dell’Essere che la
oggettiva. Carabellese consapevolmente si vuole opporre, ribaltandola,
a tutta la tradizione filosofica che da dopo Cartesio ha
fatto perno sulla coscienza come coscienza del soggetto,
e che ha fatto da questa coscienza soggettiva
derivare l'unico sguardo possibile sulla realtà: qui si spiega
in primo luogo l'accusa di umanismo antropocentrico.
Ribaltare quest'ottica significa non negare il
soggetto, ma negarne la priorità per porsi dal punto di vista
dell'Essere: nell'immanenza dell'Essere oggettivo ai soggetti
l'attenzione è concentrata, più che sui
soggetti nei quali l'Essere immane, su quest'Essere. La sua
immanenza nei soggetti sta senz'altro a significare anche la
loro appartenenza, si potrebbe dire la loro
partecipazione, all'Essere: la loro imprescindibilità, il
loro statuto ontologico, la loro elevazione al livello dell'Essere.
Ma nonostante la tesi dell'immanenza, riguardata dal
punto di vista dei soggetti, voglia
significare una precisa seppur implicita visione carabellesiana
dell'essere del soggetto, non è questo che a nostro parere
determina dal punto di vista filosofico la sua posizione.
L'immanenza deve essere cioè riguardata dal lato dell'Essere, e
sta lì a sottolineare la priorità dell'Essere rispetto
ai soggetti: è l'Essere che immane, e che si oggettiva
nella e come Idea. Qui è preciso il distacco dall’umanismo
antropocentrico, il quale a sua volta si sposa col già sottolineato
spostamento dall’uomo al pensante. Ma sarebbe erroneo
radicalizzare il discorso carabellesiano e dire che se sul
piano ontico agisce il soggetto, sul piano ontologico
"agisce" l'Essere. Infatti priorità dell'Essere non
significa annullamento del soggetto, dal momento che anzi appunto
Carabellese innalza il soggetto al piano metafisico, e ne fa uno
strumento indispensabile dell’Essere, strumento che si attua nella
realtà dell’attività spirituale umana. Semmai la
partecipazione del soggetto all'Essere pur nella primarietà dell'Essere
stesso può condurre, proprio nella pluralizzazione cui
Carabellese sottopone il soggetto, ad una pluralità
ontologica. Ma dipende dal livello a cui ci poniamo. Allora
idealismo oggettivo significa, al di là della natura
spirituale dell’Essere, che la soggettività in qualunque
sua forma ne partecipa ma non ne è il centro motore perché,
come dice Carabellese in modo illuminante, essa è
singolarità sempre relativa e multipla (anche se non finita in senso
vitale) ma non unicità: questo idealismo è oggettivo e non
soggettivo perché l'Idea si fa Oggetto puro, oltre che Soggetto. E'
qui che avviene implicitamente l'innalzamento del
soggetto, dei soggetti per Carabellese, al piano metafisico: nell'essere
l'Idea Oggetto puro, e dunque immanente, è sottinteso
il Soggetto in cui l'Oggetto immane. Questo
innalzamento dei soggetti al piano metafisico, che nell’Idealismo
italiano è ancora implicito in quanto il sistema dell’Essere:
Dio Io non è ancora steso, diviene esplicito quando Carabellese parla
del rapporto tra Principio e Termini: qui l'innalzamento dei
soggetti al piano metafisico può dirsi per un verso
compiuto, in quanto Carabellese sta parlando del soggetto in generale,
dall’altro incompiuto perché ancora non è chiaro che tale
innalzamento riguarda anche l’Io trascendentale. Sul
piano gnoseologico la posizione metafisica dell'idealismo
oggettivo dell’immanenza dell'Oggetto puro si traduce
nella vigorosa affermazione dell'immanenza del vero
nel certo, della verità universale e infinita nella
certezza soggettiva e finita[58]: il
rapporto gnoseologico tra verità e certezza non si pone più
sul piano ontologico della divisione soggetto-oggetto e della
separazione tra essere e conoscere al livello del sapere, che lo rendeva
problematico lasciando aperta la strada allo scetticismo, ma supera tale
divisione nel concetto di Concreto come sintesi soggettivo-oggettiva. Il
Concreto è infatti sia gnoseologicamente sia ontologicamente sintesi di
soggetto e oggetto, nella quale vi è rapporto intrinseco – di
immanenza - tra essere e conoscere, e in cui i due termini di soggetto e
Oggetto, seppure distinti, possono essere scissi soltanto a posteriori.
Perciò nel Concreto certezza e verità, lungi dall'essere separate –
ma restano distinte in infinitum -, possono, anzi
devono, coincidere, per cui l'anelito alla verità del soggetto non
è destinato a rimanere insoddisfatto, ma riceve un contenuto
positivo: qui si apre la possibilità della metafisica come scienza,
nonché quella dell’oggettività della conoscenza, della scienza in
generale. L’ontologia di Carabellese trova il proprio punto
di partenza nel concetto di Concreto, da intendere sia gnoseologicamente
come concreto, sia ontologicamente come Concreto. Da qui in poi, o
meglio da qui a risalire nella scala dell’Essere, siamo nella
metafisica: nell’Essere. Sul
piano metafisico dell’Essere di Coscienza puro, uno dei livelli
dell’Essere dell’ultimo Carabellese, la posizione carabellesiana
dell’oggettivismo immanentistico significa che a quel determinato
livello dell’Essere Coscienza ed Essere sono distinti: l’Essere di
Coscienza puro è la prima emanazione dell’Essere, o anche la sua
creazione e rivelazione. Invece
la lettura metafisica del Concreto che già è presente nella Critica
del Concreto permette di dire che a questo livello
Carabellese è ancora interno a una visione ontologica dell’Essere,
poiché in essa Critica Essere e Coscienza coincidono, e
che dunque l'Essere non è altro dalla Coscienza, ma è la Co scienza[59].
Questa concezione Carabellese esprime in termini
metafisici nel dire che "L'Essere sa, il Sapere è", per
cui la Coscienza è Essere-Sapere. La
posizione realistica del dualismo soggetto-oggetto e della
divisione tra essere e coscienza, sia in ambito gnoseologico
che in ambito metafisico, è per Carabellese da superare, poiché
rischia di aprire la strada al materialismo, considerando l’essere non
spirituale, ma fisico. Ma Carabellese supera veramente tale
distinzione-scissione-separazione? O ancora non la ripropone persino
nell’ultimo periodo metafisico quando conserva implicitamente alla
coppia Dio Io la denominazione di Oggetto-Soggetto, nel
mentre attribuisce nei fatti, come afferma Furia Valori, una natura
soggettivo-oggettiva a Dio? Resta inoltre da comprendere
perché Carabellese conservi, almeno nel periodo critico, la
distinzione tra Essere e Sapere pur nella recisa
affermazione che tale distinzione non è separazione né scissione: essa
può dare adito a un equivoco sullo statuto
ontologico dell'Essere cui si può far fronte solo inserendo
tale distinzione in una gradualità dell'Essere su cui
però Carabellese non si pronuncia lungo tutto l'arco critico
della sua riflessione, e che necessitava di una meditazione
nell’arco metafisico di questa stessa riflessione. In quest’ipotesi
di una gradualità dell'Essere in cui l'Essere-Sapere si
inserisce, esso costituirebbe il livello sia metafisico che gnoseologico
che rende possibile, fondandola, l’oggettivazione. Questa Coscienza o
Concreto si pone al tempo stesso come Coscienza universale e
come coscienza particolare: la coscienza particolare non
è altra dalla Coscienza universale, ma, in quanto "immanenza
di Dio nell'uomo, dell'Universale nel singolare,
della verità eterna nella certezza della
soggettività spirituale", sua manifestazione, suo
inveramento, sua oggettivazione.
5.
I maestri di Carabellese Proprio
ai rapporti di Carabellese con il pensiero di Varisco
e Rosmini (Varisco e Rosmini, assieme a Kant e Gentile,
furono oggetto della dura polemica con Armando
Carlini del 1936[62] sui
maestri di Carabellese) vorremmo ora dedicare un breve
cenno, per inquadrare meglio il suo pensiero soprattutto
riguardo alla concezione della soggettività intesa come attivo pensiero
pensante e allargata a comprendere perciò non i soli uomini, e questi
non nella loro empiricità transeunte. E'
appunto se si guarda più da vicino il rapporto che
lega Carabellese a Varisco accennandolo almeno nei suoi punti
chiave che si comprende quell'accusa di soggettivismo mossa da
Carabellese all'idealismo neohegeliano italiano, e si
chiarisce il significato dell'immanentismo che Carabellese va
propugnando, ambedue - accusa di soggettivismo e significato
dell'immanentismo - tesi a salvaguardare la molteplicità
e irriducibilità dei soggetti nella loro individualità
irripetibile. Oltre
che sotto l'influenza del neokantiano Filippo
Masci, che iniziò Carabellese allo studio di Kant, gli anni
della formazione di Carabellese si svolsero sotto l'iniziale
influenza di Bernardino Varisco. Dal neokantismo di Masci, che,
succedendo al suo maestro Bertrando Spaventa, insegnò Filosofia
Teoretica a Napoli a partire dal 1885, ossia negli
stessi anni in cui Carabellese seguiva il
corso di laurea in Lettere[63],
proviene a Carabellese un patrimonio di carattere non
solo gnoseologico: la concezione della funzione formativa
dell'esperienza e non della sola conoscenza che hanno le forme a priori,
che sottintendeva una considerazione della totalità
dell'attività spirituale umana che superasse la scissione
tra soggetto epistemico e soggetto empirico, la tesi
della necessaria implicazione di soggetto e
oggetto come negazione della loro realistica divisione, ma
soprattutto, come già ricordato, la teoria della "formazione
coeva del dato e della forma", forma che veniva liberata dalla
fissità data una volta per tutte e immessa in un
"processo di concrescenza materiale-formale"[64].
Secondo Semerari, che ne dà dunque un'interpretazione
trascendentale e non metafisica considerandolo il
contributo più originale della sua filosofia, Carabellese chiama
concreto questo processo
di concrescenza materiale/formale che in Masci
rappresentava la radicalizzazione della questione
gnoseologica kantiana delle forme del sapere e
dell'esperienza come forme in grado di asserire non soltanto sugli
stati soggettivi ma anche sugli oggetti fuori della coscienza. La
radicalizzazione e liberazione dell'apriori kantiano dalla fissità
e rigidità di matrice naturalistica come affermazione perentoria della
“formazione coeva del dato e della forma" rimaneva però in
Masci ancorata a quel "fatto" che l'idealismo e il neoidealismo
tendevano a superare e prendeva così le distanze tanto
dall'idealismo quanto dall'empirismo, che crede che "la conoscenza
non abbia una legge interna propria"[65].
Ci è sembrato di poter suggerire che tale concretismo gnoseologico
risulti in Carabellese solo il primo passo verso un più ampio progetto
metafisico, e vorremmo aggiungere che nella Dialettica delle forme un
intero capitolo è dedicato alla rivalutazione e all’analisi del
fatto, alla sua assunzione metafisica nella Coscienza qualitativa, e ai
suoi rapporti col fato, per cui dire che Carabellese contestasse la
concezione positivistica del fatto è visione corretta solo se
contestualmente si sottolinea la sua ferma asserzione dell’esistenza
di fatti oggettivi, che mira realisticamente a prendere posizione contro
il pericolo del relativismo. In altre parole, l’antipositivismo di
Carabellese significa attenta valutazione critica, e assunzione, degli
stessi progressi del Positivismo. Di
Bernardino Varisco Carabellese fu allievo diretto a
Roma. Con lui infatti si laureò in Filosofia nel 1905 con
la già ricordata Tesi su Rosmini, poi pubblicata nel 1907 con la
Prefazione del maestro, e all'analisi del suo pensiero
metafisico dedicò nel 1914 l 'opera L'Essere e il
problema religioso. A proposito del 'Conosci te
stesso' di Bernardino Varisco[66].
E’ da Varisco che Carabellese derivò l'orientamento verso
le problematiche metafisiche: il distacco dal Positivismo e la
teoria dell'irriducibilità di una molteplicità
metafisica di soggetti spirituali attivi (che Varisco
derivava da Leibniz), nonché la concezione
spiritualistica dell'universo e l'apertura ai problemi
religiosi. Più tardi, come si è detto, Carabellese misconoscerà
questa filiazione per restringerla a Kant e a Rosmini, ma
l'analisi delle sue opere non può che restituire, se non lo
sviluppo, almeno l'influenza iniziale verso questi temi. Secondo Raniero
Sabarini[67],
Carabellese viene in una prima fase influenzato dal criticismo
di Varisco, ma nello stesso tempo ne dà una formulazione
più coerente e lo inserisce in quella linea
critica che va da Cartesio a Kant a Rosmini. In Varisco
l'apriori costituiva il "costitutivo metafisico
della coscienza, e l'unità fondamentale entro la quale si
pongono i molti soggetti", che in questo loro convenire
in essa la presuppongono nella loro
attività coscienziale, le cui determinazioni
sono "guidate internamente dal Principio
immanente ma non esauribile nelle determinazioni
stesse." Carabellese riprende l'apriori varischiano e
lo radicalizza metafisicamente. Ma
proprio all'Appendice IV della seconda edizione del
carabellesiano L'idealismo italiano, che
raccoglie appunto tre saggi sul pensiero del
maestro, vogliamo riferirci per guardare al rapporto
Varisco-Carabellese con gli stessi occhi dell'Autore: vedremo come
in sostanza a nostro parere da tale rapporto derivino a Carabellese
elementi di riflessione sulla soggettività non solo in ambito
gnoseologico ma anche metafisico e che troveranno sistematizzazione solo
nell’ultima fase del suo pensiero nella metafisica dell’Io. Tali
elementi costituiscono spunti per la costruzione di una nuova concezione
dell’uomo che si inserisce attivamente nei fermenti europei del tempo. Sebbene
il pensiero di Varisco si affermi con la speculazione intorno al
problema religioso, non è in essa ma nell'impostazione del
problema della soggettività - a quello propedeutica - che
Carabellese vede l'originalità del pensatore. La questione è sempre
quella, per Varisco come per Carabellese, da un lato
della salvaguardia della molteplicità dei
soggetti singolari di contro all'affermazione del
soggetto unico universale operata dall'idealismo tedesco
e dal neoidealismo italiano, dall'altro della
considerazione della coscienza universale come oggettività intrinseca
e costitutiva del soggetto singolare, non riducibile,
come per l'idealismo tedesco e il neoidealismo italiano,
all'attività del soggetto in quanto essere costitutivo
della coscienza. Considerando quello varischiano
schietto idealismo - cioè per lui oggettivismo - per
la sua distinzione tra accadere reale, implicito alla
coscienza, e accadere saputo, esplicito ad essa,
Carabellese evidenzia come anche per Varisco
esista una pluralità di soggetti considerati
come centri singolari dell'accadere, centri di sviluppo in cui
l'accadere da implicito si fa esplicito, e pure centri in
cui l'accadere si pone non come l'al di là dei
soggetti estraneo ad essi, ma come il concetto inerente alla
coscienza e quindi come l'elemento unificante di questa molteplicità
di soggetti, l'oggettività singolare della molteplicità
plurale. E' questo per Carabellese l'idealismo
oggettivo di Varisco, idealismo che discende direttamente da Kant
passando per Rosmini: l'insuperabilità della coscienza come orizzonte
pone l'oggetto come appartenente alla coscienza e solo così,
in questa immanenza oggettiva, ne deduce l'oggettività. Varisco,
afferma Carabellese, è consapevole che la coscienza in
universale è ineliminabile dalla nostra stessa coscienza:
l’oggettività “non sta di fronte e al di là del soggetto, ma
lo costituisce: è quindi l'essere dello stesso soggetto”.
Solo in virtù del suo essere costitutiva della soggettività,
la coscienza in universale può divenire anche oggetto. Varisco così
appartiene all’orizzonte comune dell’idealismo, secondo il quale
“la realtà saputa è lo stesso sapere la realtà e realtà
non vi è al di là della realtà saputa”, ma questo
idealismo, nella negazione comune del dualismo soggetto-oggetto, viene
in lui ad assumere una impronta propria[68].
Tale dualismo, che l'idealismo tedesco e il
neoidealismo italiano risolvono nell'attività del soggetto
come soggetto universale, viceversa Varisco, come
Carabellese, trasforma nella distinzione soggetto-soggetto,
ossia in molteplicità dei soggetti. Allora Varisco è il rinnovatore
della critica kantiana, secondo Carabellese, perché
"scopre la natura concreta dei soggetti particolari",
ossia interpreta la negazione del dualismo nella direzione della
soggettività concreta, ponendo per la prima volta dopo Kant
tale problema, che in Kant aveva ancora un'impostazione
dogmatica per la separazione astratta del soggetto dalla realtà in sé.
E, dando statuto ontologico a tale soggettività particolare, lungi dal
ritornare a un empirismo prekantiano, inserisce
rinnovandoli "gli antichi problemi della metafisica
dell'essere nella metafisica del conoscere", ponendosi
così nella direzione di una nuova concezione della
soggettività particolare, dopo Kant non più finita, e
plurale. Ma
i punti di contatto non finiscono qui: sebbene Carabellese non abbia mai
fatto una critica articolata e sistematica del positivismo, è essenziale
e direi propedeutico a questa riflessione sulla soggettività il
rifiuto della concezione astratta dell'uomo propria del
positivismo in nome di una nuova concezione in cui non solo sia superato
il dualismo soggetto-oggetto nella superiore sintesi concreta, ma anche
siano presi in considerazione elementi dell’esperienza che pure
concorrono a formarla e che invece il positivismo ignora. Il Varisco
che interessa a Carabellese quindi non è il Varisco positivista:
nel varischianoScienza e opinioni, visto come
distacco dal positivismo e sua prima critica - secondo Carabellese ancor
precedente a quella idealistica -, egli rinviene una posizione
polemica nei confronti dello scientismo e della scienza
incentrata sull'affermazione che il concetto scientifico non
è in grado di esaurire il campo dell'esperienza
umana. Al suo fianco vi è appunto l'opinione, che non ha i caratteri
della scienza, ma fa leva sul credere dell'uomo e dunque
implica la fede. Il concetto di uomo da porre al centro
della riflessione filosofica è pertanto non astratto e limitato ma vivo
e concreto – appunto si parlava all’inizio di allargamento della
concezione del soggetto -, e tale riflessione, piuttosto che eliminare
come il positivismo fa ciò che la scienza non riesce a giustificare,
deve prendere atto di tale sconfinamento almeno attuale della complessità
e ricchezza dell’essere uomo dalla dimostrabilità e razionalità
scientifiche per porsi il problema, con tale riconoscimento, della sua
leggibilità. Varisco come Carabellese si muovono dunque lungo la linea
di un allargamento del concetto di esperienza in cui i confini tra
sentimento, intelletto e volontà siano “tolti”, si direbbe con
espressione hegeliana, nel superiore concetto di ragione, una ragione la
cui delucidazione e il cui svelamento non sono ancora finiti. In questo
senso Carabellese, e prima di lui Varisco, è vicino a quel movimento di
pensiero che trova in Dilthey una delle sue espressioni più felici
nella teorizzazione dell’uomo intero. Partendo dalla gnoseologia e
allargando il discorso a tutte le sfere della vita del
soggetto, Carabellese parla anche lui, in consonanza con Dilthey, di
uomo intero che sente, vuole, conosce. Il suo progetto prevede un
accoglimento e un innalzamento al piano metafisico di tutte le sfere che
caratterizzano l'attività spirituale umana, nel convincimento che
questa solo astrattamente può essere scissa in intelletto, sentimento e
volontà, e che solo riduttivamente può essere privilegiata l'attività
conoscitiva del soggetto. Ma c’è di più: il concetto di io in
Carabellese, che comporta un allargamento metafisico dal vivente al
pensante al sapiente, è passibile di essere messo in relazione con la
tematica simmeliana della vita-più vita-più che vita: è questo un
input da approfondire in uno studio a sé. Tornando
a Varisco, egli offre perciò a Carabellese stimoli nella direzione di
una concezione dell’uomo più vicina all’uomo reale nella
concretezza della sua esperienza e in grado di render conto delle sue
spinte ideali e dei suoi valori non solo riguardo allo statuto
ontologico della soggettività plurale ma anche alla presenza, accanto
al concetto, del sentimento implicito nell’opinione e inteso come
fede. E’ pertanto da qui che Carabellese compirà il primo passo verso
quella rivalutazione di un sapere comune in connessione col sapere
scientifico su una stessa linea di continuità, che gli consentirà di
parlare del primo come con-sapere implicito di origine metafisica da
esplicitare nel secondo. Ma ciò che preme rilevare è che la
sottolineatura, sebbene non tematizzata, del ruolo della fede nella
conoscenza in senso generale evidentemente pone Carabellese su quella
linea di pensiero, di cui Hegel costituisce un punto cardine, tesa ad
affermare la necessaria implicazione tra ragione e fede – o meglio,
secondo noi, un concetto di ragione che sussuma la fede come ponte
metafisico, che consente all’uomo di fare il salto da vivente a
pensante e di pensarsi come Individuum metafisico: è dell’ultimo
Carabellese la felice espressione di “uomo pensante che vive”[69].
In questo senso la concezione varischiana di una molteplicità
irriducibile di soggetti metafisici può essere vista come un primo
stimolo in questa direzione. Nonostante
la concordanza di Varisco col neoidealismo sull’astrattezza della
concezione positivistica del fatto e dell’uomo, egli nondimeno reputa
che il neoidealismo abbia sostituito a tale astrattezza
quella del soggetto universale come autocoscienza, anch’essa da
confutare ponendosi sul terreno della concretezza dei soggetti
particolari. Ma ciò che rileva Carabellese distinguendosene è che sia
per l’idealismo oggettivo di Varisco sia per l'idealismo soggettivo la
realtà trovi il proprio principio in un Soggetto assoluto:
Varisco identifica il Soggetto assoluto con Dio[70],
mentre nella polemica carabellesiana contro l’idealismo soggettivo
tale identificazione del Soggetto universale con Dio è negata, in
quanto il Soggetto è sempre in rapporto a qualcos'altro da sé,
l'oggetto, sia pure intrinseco, per cui il Soggetto universale verrà ad
essere, nell’ultimo Carabellese, uno dei gradi dell’Essere nel
circolo Dio Io, ma è da distinguere sia dal Principio sia
dall’Essere. Questa
concezione varischiana di Dio come Soggetto universale porta Varisco,
secondo Carabellese, a perdere l'importante acquisizione della
pluralità dei soggetti che convengono
nell'unicità dell'oggetto – e quindi in qualche modo anche a
sconfessare il suo idealismo oggettivo -, perché la sua
esigenza religiosa trova espressione nel
concetto di Dio come Persona trascendente, concetto che Carabellese
ritiene una sovrastruttura derivante dalla matrice cattolica
di Varisco, il quale mira ad un accordo[71] tra
pensiero filosofico e dottrina religiosa[72].
La trascendenza di Dio come Persona è per Carabellese una
questione di fatto che si ritrova nelle religioni positive,
e non una questione di diritto che procede dall'essenza della
religione, essenza che importa invece l'immanenza di Dio nella coscienza
dei singoli soggetti. In
definitiva, se Carabellese si pone in sintonia con la preoccupazione
varischiana di salvare la molteplicità dei
soggetti nell'immanenza della coscienza, al tempo stesso nella polemica
con Carlini del ‘36 nega[73] di
essere mai stato varischiano puro come Carlini vorrebbe, perché, al di
là del forte apprezzamento per la dottrina varischiana della
soggettività, del maestro non ha mai condiviso fino in fondo né lo
gnoseologismo né l'esigenza di giustificare la dottrina e la
rivelazione cristiane: egli si sente piuttosto come colui il quale ha
proposto una nuova interpretazione di Kant sotto motivi
rosminiani al fine di costruire una nuova critica, la
critica del Concreto. Ma
nonostante ciò, si può affermare che la concordanza tra il
pensiero di Varisco e quello di Carabellese non si esaurisce
nella comune concezione dell'idealismo oggettivo, teso
ad affermare l'immanenza dell'Essere nella coscienza come realtà
dell'oggetto di coscienza nel mentre dichiara la
pluralità dei soggetti, ma si ritrova anche
nella considerazione dell'imprescindibilità del
rapporto tra metafisica e gnoseologia, come si è qua
e là sottinteso: "La filosofia, per il V., [...] è dunque
metafisica fondata sulla gnoseologia"[74] Al
di là dell'influenza dei maestri Masci e Varisco, Carabellese
sviluppa il proprio pensiero confrontandosi con alcuni
pensatori del passato: oltre Kant, Rosmini, Spinoza[75],
Cartesio[76] e
Sant'Agostino, cui si richiama con approfonditi studi
tematici e con originali reinterpretazioni di storia della filosofia. Sull'interpretazione
carabellesiana di Cartesio, che meriterebbe uno
studio a sé, diremo solo che Carabellese vuol avviare una riconquista
del cartesianesimo, secondo lui offuscato nella sua scoperta
perenne dal pensiero postkantiano, che ha falsamente
interpretato il “cogito ergo sum” come affermazione
dell'autocoscienza e come negazione sia della
singolarità dell'io che della sua pluralità nel
noi, dando adito alla filosofia dello
gnoseologismo come negatrice della singolarità e della pluralità
dell'io. Ma soprattutto la filosofia del conoscere ha tralasciato
il piano ontologico della scoperta cartesiana, da interpretare nel
senso dell’oggettivismo immanentistico e dunque della filosofia
dell’essere. La scoperta perenne di Cartesio, infatti, obliata
dal cartesianesimo tradizionale, consiste nell'affermazione
cartesiana dell'immanenza dell'Essere in sé nel cogito. Il sum del cogito non
è una deduzione sillogistica, ma proprio l'esigenza stessa
del cogito nel suo essere partecipe della
sostanza spirituale, l'Essere in sé, Dio. Così
Carabellese può dire che il cogito ergo sum è in
realtà affermazione dell'argomento ontologico, nella
trasformazione dell'evidenza da regola di verità in regola
dell'essere: "[...] l'idea di me richiede a
sua condizione l'idea di Dio. Perciò il
cogito primo e integrale di Cartesio è il cogito Deum [...]
<<io penso>> ed <<io esigo di essere>>
sono per Cartesio la stessa cosa [...]"[77] Con
Cartesio, in altre parole, si ha la scoperta
della spiritualità della sostanza e della sua
immanenza in me pensante, e l'abbandono definitivo della
sostanzialità inerte e passiva: il valore di Cartesio non è quindi in
campo gnoseologico ma in campo metafisico. Ma,
assieme a Kant, è Rosmini in particolare, dalla tesi di laurea in
Filosofia sino al riconoscimento esplicito del 1936,
che Carabellese sente come suo maestro[78].
Egli vede in Rosmini lo sviluppo in
senso oggettivo dell'apriori kantiano, sviluppo
che consente alla filosofia di uscire dallo
gnoseologismo, imbrigliato nell'opposizione tra
conoscere ed essere, e di approdare al pensiero dell'essere.
Ciò che interessa in primo luogo a Carabellese
della filosofia rosminiana è, come si è già visto nella
polemica con Gentile, la centralità e l'oggettività
sostanziale dell'idea dell'essere, che gli fornisce la
possibilità di opporsi al soggettivismo e di aprirsi
all'oggettivismo, sia in campo gnoseologico che in campo metafisico. Ma
per comprendere a fondo il rapporto che lega Carabellese a
Rosmini è necessario inserire l'ontologismo
critico carabellesiano all'interno del più generale
dibattito riguardo al rapporto tra critica e ontologismo.
A questo proposito è illuminante il quadro
che viene fuori dagli Atti del XIV Congresso Nazionale
di Filosofia del 1940[79].
Dalle prime relazioni contenutevi, in particolare di Arturo
Beccari[80] e
di Gustavo Bontadini[81],
si comprende come nel panorama della filosofia
italiana dell'epoca il nuovo sistema di Carabellese
ormai suscitasse non poco interesse, e addirittura un
nutrito dibattito di cui questi Atti rimandano solo
l'eco, perché lo si vedeva come una strada alternativa allo
sterile confronto tra neotomismo da un lato
e neoidealismo dall'altro. Lo stesso Carabellese consapevolmente
si poneva come terza via tra realismo e idealismo in grado di superare
la scissione e di rinnovare la filosofia italiana, riaccendendo,
attraverso la ripresa di Rosmini, l'interesse verso l'ontologismo[82].
Ontologismo peraltro non ortodosso, quello
di Carabellese, perché mediato dalla critica
kantiana: ontologismo critico[83]. E'
dalla lettura di tutte le relazioni che compongono la seconda sezione
del Congresso, ma in particolare di quella
già ricordata di Aldo Devizzi su un
critico dell'ontologismo, Padre Matteo Liberatore[84],
che viene fuori il quadro dei debiti teorici di Carabellese
verso questa corrente, quadro in grado di gettare luce
sulla connessione carabellesiana tra gnoseologia e metafisica
e dunque sulle matrici profonde della sua filosofia. Ben prima di
Carabellese, lo sfondo della polemica tra
neotomismo e ontologismo riguardo alla metafisica
è costituito dalla concezione dell'Assoluto, trascendente secondo
gli uni, immanente e perciò passibile di condurre al più
rigoroso panteismo secondo gli altri. Ma questo
argomento di carattere squisitamente metafisico, implicando il problema
del modo in cui è possibile un rapporto tra l'uomo e l'Assoluto,
veniva a collegarsi al problema della conoscenza,
trasponendo così la questione sul piano gnoseologico.
Gnoseologia e metafisica risultavano così strettamente
collegate, e il terreno di scontro solo apparentemente
neutro tra neotomismo e ontologismo diveniva la teoria della
conoscenza, e in particolare la teoria dell'astrazione. Fondamento
dell'ontologismo infatti può essere considerata l'affermazione
che tale rapporto tra l'uomo e l'Assoluto
è, attraverso l'intuito, assolutamente immediato e positivo[85].
Da qui discende che il soggetto conosce il Vero in sé, Dio,
immediatamente, e le cose solo mediatamente, ossia tramite le
idee. Queste non sono un prodotto dell'astrazione conoscitiva del
soggetto, come invece sostiene il neotomismo, ma sono viceversa
emanazioni di Dio. Il passo a considerarle gradi dell'Essere
panteisticamente inteso, e a identificarle con Dio in
un assoluto immanentismo, era apparentemente
breve. Come si vede, la questione delle idee o
universali e della loro origine, di carattere apparentemente
gnoseologico, finiva col riguardare la stessa
struttura dell'Essere, divenendo di pertinenza della
metafisica. La teoria dell'astrazione diventava centrale per
la stessa questione della creazione: se le idee sono gradi
dell'Essere divino, non si può parlare di creazione ma di emanazione,
che nei suoi gradi più bassi coinvolge le cose stesse. A
questa interpretazione dell'astrazione come immanenza delle idee
nella conoscenza tale che la conoscenza è conoscenza
di idee si oppone il neotomismo: le idee sono non oggetto ma mezzo della
conoscenza. L'astrazione non trova l'universale immanente
nel soggetto come presenza intuitiva di Dio, ma lo produce appunto
per astrazioni successive dovute all'intelletto, in cui Dio
è il lume della conoscenza. Il
richiamo a questa polemica sull'astrazione, oltre a chiarire
che la connessione carabellesiana tra metafisica e gnoseologia si
inscrive in uno scontro tra neotomisti e ontologisti che precede la
filosofia di Carabellese, è utile perché consente di mettere in
evidenza i punti di maggiore concordanza tra l'ontologismo
critico e l'ontologismo in generale. Anche per Carabellese
il rapporto tra l'uomo e Dio è, agostinianamente, intuito
immediato e non conoscenza mediata: chi pensa, pensa
Dio, afferma Carabellese. Dio dunque è Oggetto della coscienza,
Oggetto puro che fonda non la sola conoscenza ma la
coscienza. Dietro questa conoscenza intuitiva e immediata di Dio
sta la conoscenza discorsiva e mediata, che si qualifica come
sforzo, inconcluso in quanto non solo l'esperienza ma
anche la speculazione può solo lambire, mai possedere,
l'Idea, che pure resta l'Oggetto primo della nostra intuizione. In
quest'accordo con la tesi fondamentale dell'ontologismo Carabellese si
ricollega a Rosmini, sebbene secondo Dezza questi, fin
dal 1845, si opponesse a una tale definizione, quella
di ontologismo, per il suo pensiero. Anche in Rosmini
il punto di partenza e il fondamento del sistema metafisico è il
problema gnoseologico della formazione dell'universale. Quando noi
con l'astrazione ricaviamo un'idea generale, contenuta
in una nozione particolare da cui l'abbiamo
astratta, non compiamo un'operazione di produzione di
quell'idea: questa è infatti già contenuta nella nozione
particolare, e da noi solo riconosciuta. Ciò vuol
dire che non è l'astrazione come operazione
dell’intelletto l'origine dell'idea universale. Anche nel
giudizio, il secondo modo in cui possiamo formare le idee
universali, l'idea è già presente, dal momento che
il giudizio stesso è connessione a un soggetto di un'idea
universale sotto forma di predicato. E' necessario
dunque che esista almeno un'idea universale
prima di qualunque giudizio e di qualunque conoscenza:
l'idea dell'essere, innata e intuitiva. La conoscenza di tale idea
dell'essere è, come si è detto nella polemica
Carabellese-Gentile, la percezione intellettiva, la cui teoria Rosmini
espone nel Nuovo saggio sull'origine delle idee, del
1830. Come si vede, l'analisi rosminiana della conoscenza ha condotto
a ridurre il numero degli elementi formali e a priori che
fondano la conoscenza universale e necessaria per
Kant: vi è un'unica idea a priori che precede l'esperienza
e fonda la conoscenza, idea indeterminatissima, universale
e necessaria. Questa idea è oggettiva e non soggettiva in
senso kantiano, ossia è innata nell'uomo per volere di Dio ab
aeterno. L'oggetto del pensiero è l'essere, nelle tre forme
dell'essere ideale, reale e morale. L'essere ideale, oggetto
della gnoseologia - gli altri sono oggetto
rispettivamente della metafisica e del diritto e della morale -
è l'essere possibile, forma a priori che si unisce alla materia
a posteriori data dalle sensazioni costituendo la
sintesi a priori che porta alla conoscenza dell'ente
reale. L'idea dell'essere consente il realismo gnoseologico, ossia
l'oggettivismo della conoscenza che supera il soggettivismo
kantiano, e dunque il rischio dello scetticismo che quello
lasciava aperto: essa è di natura divina, ossia creata da Dio, ma non
si identifica con Dio, che rimane Persona assoluta e non è l'ontologizzazione
di un concetto. Non
è possibile né utile qui addentrarci ulteriormente nell'analisi
della gnoseologia rosminiana, dal momento che crediamo di
avere sufficientemente messo in luce in essa il legame con
la metafisica. Per approfondire ora il posto che essa occupa
nel pensiero carabellesiano a partire dalla tesi di Laurea in
Filosofia, riferiamoci a ciò che Carabellese stesso scrive
nel saggio Da Cartesio a Rosmini dedicato
a riproporre Rosmini all'attenzione filosofica[86]. La
gnoseologia rosminiana interessa a Carabellese per
uscire dalla filosofia del conoscere e approdare alla
filosofia dell'essere, rimettendo la speculazione sulla strada
maestra della metafisica. Il problema di Rosmini non è il
problema gnoseologico dell'origine delle idee, come farebbe
pensare il titolo dell'opera rosminiana del 1830: sarebbe ancora
fondarsi sulla distinzione tra essere e conoscere,
ponendo l'essere fuori dal conoscere, e dunque riproporre
una gnoseologia che presuppone l'ontologia e da essa separata.
Un'ontologia tradizionale ferma a Cartesio e Locke che non
si è accorta della lezione di Kant, dunque con radici
storiche limitate. Ma il "Kant già interpretato
dall'idealismo tedesco postkantiano che Rosmini trova"
è il Kant che, di fronte al dubbio humiano sulla verità,
riprende la "certezza cartesiana" per
ridurla a verità fenomenica, aprendo così la strada all'assolutizzazione
dell'esperienza e all'eliminazione della cosa in sé: alla
filosofia del conoscere. Secondo Carabellese, Rosmini, pur
riconoscendo a Kant il merito di aver dimostrato la possibilità della
matematica e della fisica come pura scienza a priori,
ha lasciato aperta la strada allo scetticismo nella conoscenza, non
eliminando le obiezioni di Hume, poiché ha tralasciato di dare
soluzione al problema della verità del singolo fatto nei suoi modi e
nei suoi perché. Mentre Kant non dà ragione della aposteriorità ma
solo dell'apriorità della conoscenza, la teoria della percezione
intellettiva di Rosmini vuole dimostrare la verità da un lato
dell'atto percettivo, dall'altro della scienza sperimentale. L'esperienza
dei fatti nella loro singolarità non è
soltanto il post e il prodotto della scienza fisico-matematica
nella sua apriorità, ma è anche il necessario presupposto di questa,
ciò da cui questa trae alimento e problemi, la sua prima base – qui
ritorna il rapporto tra coscienza comune e scienza (tra sapere e
conoscere). La scienza non è soltanto la pura scienza razionale
di Cartesio, ma è anche la scienza sperimentale di
Galilei."[87] La
teoria rosminiana della percezione intellettiva si prefigge di
dare appunto dimostrazione dell’oggettività della
conoscenza a posteriori, ponendo il compito di fondare l’esperienza.
Ed è perciò, questo, merito incontestabile di
Rosmini di fronte a Kant. La sua originalità in
campo gnoseologico, nel rifiuto del dualismo soggetto-oggetto
e della dicotomia conoscere/essere, consiste nella
riaffermazione della “positiva oggettività del conoscere
umano”, ossia della possibilità che verità e certezza coincidano,
che il conoscere abbia una sua validità oggettiva di scienza, contro lo
scetticismo e il relativismo. Tale riaffermazione dell’oggettività
della conoscenza avviene connettendo all’idealità come forma
propria dell'essere il valore di oggettività come esigenza del
conoscere. L'idea dell'essere, in questa connessione tra essere e
conoscere, non è più soltanto idea senza essere, secondo la
concezione dualistica dell’essere fuori dal conoscere: è l’essere
ideale, e così oggettivo. Tale essere ideale, che si pone
nella scia dell’interpretazione globale della Critica kantiana
come suo sviluppo, inserisce l'essere nella coscienza e di tale
inserimento dichiara l'oggettività, "rompendo il
processo di annullamento dell'essere" e superando l'astrattezza
dell'impostazione kantiana con una concezione del
conoscere come conoscere concreto, ossia sapere "non
limitato all'uomo" e non separato dall'essere.
L’interesse di Carabellese verso tale teoria consiste perciò per
un verso nel fatto che il problema psicologico dell'origine
delle idee è superato e sostituito da quello della fondazione
dell'esperienza, da Kant lasciato insoluto, e per l’altro che tale
fondazione consente a Carabellese anche qui di aprirsi la strada verso
la concretezza dell’esperienza nel suo farsi, tralasciando
la divisione tra aposteriorità e apriorità e, nel metterle in
relazione, istituendo una circolarità tra "post e
prodotto" e apriorità[88].
Il problema è uscire dal “come se” kantiano, dalla separazione tra
essere e fenomeno, per riaffermare sotto una nuova chiave più
comprensiva il realismo razionale, pur nella consapevolezza che spostare
in avanti il limite della cosa in sé kantiana non significa
sconfiggerlo – ma uscire dai pericoli insiti in una concezione
stretta e riduttiva dell’analogia, nella direzione di una concezione
positiva (non positivistica, ma postpositivistica e realistica) del
fatto. Ma
l’interpretazione carabellesiana di Rosmini non si limita a
considerarlo il fondatore dell’esperienza nella sua aposteriorità,
poiché in tal caso egli rimarrebbe comunque all'interno della filosofia
del conoscere, lasciando da parte e negando la cosa in
sé. Rosmini viceversa appartiene alla filosofia dell’essere, poiché
considera la cosa in sé necessaria non soltanto nella conoscenza, in
quanto come oggetto puro fonda la positività dell'oggetto
fenomenico percepito e con esso dell'atto della percezione - senza
cui saremmo nel campo dell'immaginazione e non in quello
della conoscenza - , ma anche nell’Essere stesso, per la
trasformazione operata da Rosmini della cosa in sé in Essere ideale
oggetto della coscienza dei soggetti. La saldatura tra gnoseologia
e ontologia nella metafisica trova il proprio punto di
forza nella cosa in sé kantiana, interpretata non dal lato
della sua inconoscibilità ma dal lato della sua noumenicità:
come oggetto ideale del pensiero. La noumenicità viene
interpretata come oggettività: l’essere possibile è dunque oggettivo[89].
E tale oggetto ideale che consente la connessione tra gnoseologia e
metafisica, trasposto sul piano metafisico, diviene in
Rosmini da semplice idea di Dio Essere oggettivo, ideale nella sua
pensabilità che è inconoscibilità nel senso che è
"più che conoscitiva", ma soprattutto nella sua
ricchezza priva di limiti che è inesauribilità. In Rosmini si
ritrova l’affermazione dell’Essere in sé come esigenza della
Coscienza metafisica della quale la coscienza umana è parte, e
dell’immanenza dell’Essere oggettivo nell’essere soggettivo, in
opposizione sia al realismo neoscolastico sia all'idealismo
postkantiano. Con
questa dimostrazione del rapporto tra essere e conoscere, che è
riprendere Cartesio e Kant nelle loro scoperte speculative di
carattere ontologico reinterpretandoli originalmente, Rosmini da un lato
si inserisce nella linea della filosofia italiana del
Rinascimento e del Risorgimento, che nega la
separazione tra essere e conoscere sul piano metafisico e
tra verità e certezza sul piano gnoseologico, e
dall'altro ne porta a maturazione
esplicita il patrimonio, emergendo con una
propria scoperta che racchiude e supera tutte le
precedenti: l'Essere ideale unico come Oggetto puro di
coscienza dei soggetti reali. Rosmini, in questa teorizzazione
che apre un nuovo periodo alla speculazione, conduce alle estreme
conseguenze il concetto di cosa in sé scoperto da Kant, e
riconosciuto come Idea pura immanente alla coscienza dei soggetti,
conservandone l'inseità e trasformandone l'idealità in una
delle tre forme dell'essere[90]. Sin
qui Rosmini, che dunque Carabellese vede interno alla linea
dell'idealismo oggettivo. Ma da qui Carabellese inserisce il
confronto tra Rosmini e Kant[91].
Infatti nell'affermazione rosminiana dell'Essere
ideale unico come oggetto puro di coscienza Carabellese intravede,
al di là del proclamato antikantismo di Rosmini, la
possibilità di conciliare Rosmini con Kant. Questa possibilità
si inscrive nella riattualizzazione del
problema critico che Carabellese sente come compito del
suo presente filosofico in questi termini: "Nel
sapere come è possibile che io soggetto, che
ho la certezza (Cartesio e Kant), sappia l'oggetto che
ha la verità (Rosmini), se io non sono
l'oggetto e l'oggetto non è io?”[92] A
monte di tale riattualizzazione carabellesiana del problema
critico, che solo apparentemente è soltanto gnoseologico come
rapporto tra vero e certo, c'è il progetto della fondazione di una
nuova metafisica critica. Essa trova il suo spazio nella ripresa
dell'affermazione kantiana dell'imprescindibilità della
metafisica come esigenza, e la sua direzione
nell'interpretazione radicale di tale affermazione nel senso
della possibilità: se la metafisica è esigenza, e dunque la
sua possibilità è fondata, il compito della ragione consiste
per un verso nel fondarla nella sua realtà (problema
interno della filosofia nel suo statuto di scienza), per l'altro
nell'"assicurarci della cosa in sé e quindi non renderci abitatori
della platonica caverna” (problema esterno della filosofia nel suo
oggetto principe, quello metafisico). La risposta che in ambito
metafisico (con ricaduta gnoseologica) Carabellese darà a quella nuova
domanda del suo presente si configura nei termini del livello
dell’Essere come Soggetto-Oggetto, che, nel rapporto tra Dio e Io, si
manifesta come Essere-Sapere o Concreto. Nella
riattualizzazione del problema critico mediante la conciliazione
di Rosmini con Kant, tesa alla fondazione di una
nuova metafisica critica in cui è rinvenibile il percorso personale
di Carabellese, l’idealismo concreto non è più definibile né
come oggettivo né come soggettivo. Nella scoperta del Concreto
infatti, afferma Semerari, l'ideale e il reale, l'oggettivo e il
soggettivo, il particolare e l'universale, il soggetto e
l'oggetto, io e Dio, il concreto e l'astratto,
"che la intera tradizione filosofica occidentale
aveva continuamente scisse l'una dall'altra,
rendendole astratte e scambiate per il concreto stesso", sono
condizioni distinte ma non separate di cui
il Concreto stesso è la concrescenza strutturale[93]. Carabellese
supererà la separazione rosminiana delle forme dell’essere affermando
che, sebbene idealità e realtà siano l'una oggettività e
l'altra soggettività, non è vero che l'oggettività ideale e la
soggettività reale sono due forme diverse dell'Essere
concreto: esse sono condizioni intrinseche e inseparabili dell'Essere,
di cui l’una ne specifica l'unicità e l’altra la pluralità. La
loro inseparabilità consiste nel fatto che esse “individuano in
concreta coscienza l'essere, e in concreto essere
la coscienza"[94].
Oggetto e Soggetti, Principio e Termini sono non forme
diverse ma condizioni intrinseche e inseparabili
del Concreto o Coscienza, al di là del quale, come ambiente
omnicomprensivo che riecheggia l’Umgreifende jaspersiano,
non è nulla: infatti "[...] l'Essere ideale, riconosciuto in
sé come Oggetto, viene ad essere riconosciuto anche come
Principio [...] che non può essere una forma a
sé stante ed autonoma di essere. Il Principio
non può essere principio di se stesso, ma
deve essere Principio dell'altro in cui
immane [...] e pur non è esaurito e non è esauribile da questo
<<altro>> [....] Questa inesauribilità è la sua
trascendenza."[95] Se
per un verso dunque l'Oggetto immane nella coscienza dei
soggetti, per l'altro pure, come Principio, la trascende, e in ciò è
la sua inesauribilità: immanenza e trascendenza sono conciliati
nel Concreto: la trascendenza è nel Concreto, non dal Concreto: non vi
è separazione ma articolazione e connessione dei vari livelli di ciò
che l’ultimo Carabellese, togliendo la connessione-separazione
dualistica tra Essere e Sapere, chiamerà Essere. La
saldatura che nel Concreto carabellesiano è rintracciabile tra
gnoseologia, ontologia e metafisica trapassa dunque nella teologia. E'
allora nella kantiana idea di Dio che Carabellese incentra il suo
discorso metafisico, il cui senso profondamente religioso si rivela in
questa centralità del problema di Dio, visto come
problema "unico" della filosofia. Ma per lui
Dio, l'idea pura immanente alla coscienza dei
soggetti del criticismo kantiano, si trasforma in Idea
assoluta, metafisica: Dio è per Carabellese l'Oggetto puro immanente
alla Coscienza e che fonda questa Coscienza stessa, Dio è l’Idea
dell’Essere. Ma
i debiti di Carabellese verso Rosmini non si limitano alla fondazione dell’esperienza
nella sua concretezza e alla concezione dell'Essere ideale unico
come Oggetto puro di coscienza. E’ anche la
concezione rosminiana della soggettività e quella della realtà che
influenzano Carabellese. In Rosmini la pluralità dei soggetti
costituisce la forma reale dell’Essere, la realtà. Tali soggetti
plurimi sanno intrinsecamente l’Essere ideale, sono “senzienti”
(lo sentono), e perciò sono intelligenti, dal momento che l'Essere
ideale costituisce la loro intelligenza.[96].
Il pluralismo soggettivo che già in Varisco
costituisce un innalzamento al piano metafisico dei soggetti nella
loro pluralità, in Rosmini si definisce come unica forma
di realtà dell'essere: qui ci sembra di poter dire che il termine
realtà è inteso in senso forte di Wircklichkeit. L'essere
reale - la realtà - è soggettività plurima che ha per
Oggetto unico l'Essere ideale, loro fondamento e fondamento
del loro convenire. Rosmini approfondisce per
Carabellese quella concezione della soggettività come
singolarità plurale che già il Cristianesimo
aveva "scoperto e messo in valore" e che Cartesio aveva
messo in luce come pensante, ma nel contempo ne sottolinea la
realtà, che Carabellese allargherà al di là dei viventi. Il senso
forte da dare alla parola realtà si evidenzia quando Carabellese
afferma che la soggettività è reale nel momento in cui, dicendo
“io”, ciascuno di noi, riconoscendo implicitamente
piuttosto che negare l'alterità dell'essere e il suo Principio ideale,
si individua all’interno di un’organica individuazione molteplice
di quel Principio unico. La soggettività reale non è
dunque né Principio né prodotto, ma potenza agente,
attività sapiente e pensante, pensante perché sapiente e sapiente
perché pensante: l’individualità irripetibile che Carabellese chiama
soggetto reale – e che è reale quando agisce pensando a partire dal
suo sapere l’Essere a finire al suo rendere possibile la
manifestazione dell’Essere, potremmo dire la Ragione in sé
e per sé - è teosoficamente, sulla scia di Rosmini, potenza agente.
Tale potenza agente, nel Concreto, è sempre per un verso sapere in
comunione (noi sappiamo, Sabarini dirà cum-scire[97]),
ossia sapere nella coscienza relativa o alterità concreta, per
l’altro sapere nel suo Principio assoluto come esigenza. Questo sapere
orizzontale e verticale permette a Carabellese di criticare
l'esistenzialismo: “mio Principio non è il nulla, bensì l'ideale
Essere in sé, mio atteggiamento non è l'angoscia,
bensì lo sforzo."[98],
nella certezza del raggiungimento della positività dalla quale pure
proveniamo. Potremmo aggiungere che questa certezza fideistica, e dunque
apparentemente solo sentimentale e perciò irrazionale, si illumina di
verità razionale nel momento in cui, con quello stesso sforzo del
pensiero che il sapere richiede come esigenza della coscienza per
l’attuazione della Coscienza, noi raggiungiamo un più alto, e al
tempo stesso più profondo e più largo, livello di coscienza di quello
stesso sapere: in quel momento in cui il livello si fa superiore la
razionalità della certezza si rivela, e tra la certezza e la Verità il
confine si assottiglia, la distanza si accorcia: noi, che siamo essere
spirituale, come potenza agente abbiamo compiuto, agendo realmente nella
realtà e conoscendo realmente (ossia razionalmente) la verità di
quella stessa azione (diversa dalla causa originaria come dal fine
futuro, che Carabellese vede come altrettanto oggettivi della verità,
potremmo dire, nella coincidenza reale di soggettività e oggettività
– la sola concreta - soggettivo-oggettivi, ossia razionali) un altro
passo verso l’attuazione del nostro essere razionale. E
contemporaneamente un altro passo nel sistema della Ragione e verso la
sua attuazione: ecco perché e quando la storia e il progresso si fanno
Storia e Progresso nell’Aufhebung, ossia quando c’è coincidenza tra
Vero e certo.
6.
Carabellese interprete di Kant Torniamo
ora all’argomento principale di questo saggio, l’asse
Kant-Hegel-Carabellese, e confrontiamoci più da vicino con Kant. Il ripensamento
del kantismo, come si è intravisto sin qui affatto tangenziale e
ellittico rispetto all'itinerario carabellesiano, impegna Carabellese
per un lungo arco della sua meditazione filosofica, sino a farlo
sentire, si è ricordato, allievo di Kant. Esso è condotto sin dagli
anni Dieci e poi con costanza dagli anni Venti, e, come si è detto,
consente agli storiografi di porre Carabellese come una delle voci del
versante italiano della Kant-Renaissance, che è tra i
motivi per cui Carabellese è rimasto nella storia della filosofia del
Novecento italiano, conosciuto anche da studiosi che non si
occupano specificatamente della sua opera. Ma ci è sembrato di poter
mostrare sin qui che il suo ruolo nella storia del pensiero è molto più
complesso. Interprete
di Kant dunque ma non disinteressato, bensi mirato all'esigenza della
costruzione di una nuova metafisica critica la cui possibilità Kant
aveva aperto con la critica non della metafisica, ma delle metafisiche
esistenti al suo tempo. Il problema del rapporto soggetto-oggetto,
centrale nella gnoseologia kantiana, rimane centrale anche nell'ontologismo
critico. Ma avviene una trasposizione di piano dalla gnoseologia
alla metafisica: il rapporto soggetto-oggetto viene infatti
reinterpretato da Carabellese in termini onto-teologici. In questa
trasposizione l'oggetto diviene come si è visto l'Oggetto, che in una
progressione che attraversa l'arco dell'intera produzione carabellesiana
assume via via il significato di condizione di possibilità degli
oggetti in generale dapprima in termini gnoseologici di condizione di
possibilità della loro conoscenza da parte del soggetto e poi proprio
come condizione di possibilità dell'essere degli enti, dunque in senso
specificatamente ontologico. L’obiettivo implicito è quello di dare
decisamente forma nuova per un verso al concetto di Assoluto o Dio
(problema di contenuto o oggetto della filosofia come filosofia prima,
in questo senso problema “esterno” della filosofia) – sebbene
anche l’ultimo Carabellese tratti questo tema in modo, più che
puntuale, articolato, se è vero come si è detto che l’Assoluto è in
lui ancora triadicamente Idea-Sostanza-Principio, e non tematizzato in sé,
almeno nelle opere teoretiche -, e per l'altro di dare centralità al
problema teologico come problema "unico" della filosofia
(problema di metodo e di statuto della filosofia come filosofia prima,
in tal caso problema “interno”). In questa trasformazione da
condizione di possibilità della conoscenza a condizione di possibilità
dell’essere e più ancora in condizione di possibilità tout
court, in cui nemmeno la distinzione essere-conoscere è conservata,
bensì superata o tolta, come nel progetto di Carabellese – e la
stessa impostazione trascendentale kantiana, con la sua stessa
terminologia, sarà se non abbandonata, molto meno esplicita - ,
l'Oggetto diviene l'Unico, che, in quanto condizione di possibilità
apriori-aposteriori (realtà Uno-Tutto[103])
dell'essere degli enti – dove per enti si intende anche in modo più
complessivo i viventi e i pensanti -, è Dio: il rapporto tra Essere e
enti si configurerà nella fase metafisica nei termini di
manifestazione. Ma
già ora concetti di matrice kantiana che appartengono alla
filosofia del conoscere vengono da Carabellese interpretati in chiave
metafisica a partire dalla ripresa di quel concetto di cosa in sé che
anche nella filosofia del conoscere di Kant denotava un'apertura
metafisica. Poiché poi tale concetto di cosa in sé viene radicalizzato,
lascia il suo posto di concetto-limite all'interno della filosofia del
conoscere per assumere il significato di fondamento ontologico
all'interno della filosofia dell'essere: è il limite assoluto, la cosa
in sé per eccellenza, che distingue, fondando tale distinzione,
l’Essere dagli enti – l’ente è ente perché l’Essere è cosa in
sé, seppure all’infinito e all’infinito manifesta. Nel momento in
cui la cosa in sé come limite assoluto cade, l’Essere e l’ente si
riuniscono coincidendo: si ha la fine della manifestazione
dell’Essere, il ritorno dell’Essere a se stesso. E
poiché tale fondamento ontologico rappresentato dalla cosa in sé è
interpretato non in senso relativo come fondamento del fenomeno, ma in
senso assoluto come fondamento dell'essere dell'ente di cui il fenomeno,
seppure realisticamente inteso, è solo la prospettiva
empirico-soggettiva, viene a coincidere con Dio. Qui avviene la
saldatura con l'altro interesse fondamentale di Carabellese nella
costruzione di una nuova metafisica, che ha radici nella sua formazione. 7.
Il problematico rapporto con la cultura cattolica: Dio come problema Da
una lettura attenta all'itinerario di pensiero condensato nella
bibliografia vista nel suo apparire storico-biografico emerge
l’interesse carabellesiano, precoce e fissato dalla sua stessa
formazione seminariale[104] ,
verso questioni concernenti la religione e in particolare il
cristianesimo e il cattolicesimo[105],
e precisamente riguardanti, in una prima fase, soprattutto i rapporti
tra Stato e Chiesa[106] -
quindi questioni di potere e di autonomia dello Stato laico nei
confronti della Chiesa cattolica [107] -,
e in una seconda fase, quando il fervore giovanile si era ormai dipanato
in un progetto articolato riguardante una nuova metafisica, e dunque una
nuova concezione di Dio, appunto incentrati sullo spostamento di
interesse da questioni seppur sostanziali, come quelle di potere e di
autonomia tra Stato e Chiesa, diremmo "esterne" nel senso di
non teoretiche, a questioni di più stretta pertinenza teologica come
appunto il problema di Dio e il sincretismo sinergico tra filosofia e
teologia. Dio
è problema in Carabellese a partire dal problematico rapporto con la
cultura cattolica. Laddove per un verso la sua formazione ha concorso
allo sviluppo di quella fede su cui si fonda e di cui si nutre il suo
ininterrotto anelito a investigare l'Essere: Carabellese lo dice Dio,
Oggetto, Principio, Unico, Idea, Essere, Assoluto, nella progressione
del suo pensiero, dando a ciascuno di questi termini una precisa
sfumatura di significato e un preciso compito di risolvere
costellazioni di problemi che via via si presentavano nella
costruzione della metafisica critica. Per l'altro verso pure questa
speculazione carabellesiana sull'Essere vuole porsi fuori dai confini
ristretti della trasposizione sul piano filosofico dei dogmi del
cattolicesimo di cui vede un esempio nell'attualismo gentiliano (e
infatti da parte cattolica gli verranno le critiche più brucianti), per
rimanere saldamente ancorata in quella regione del pensiero in cui
hanno diritto di cittadinanza solo le regole della ragione e il
principio della libertà. Ma Carabellese, nonostante lo sforzo di
individuare nel ritorno alle radici indoeuropee dell’Occidente la
matrice e la manifestazione del suo senso religioso - sforzo che lo
situa in consonanza se non in anticipo rispetto ad altrettali ricerche
storico-filosofiche (dove i due termini sono da intendere sia scissi sia
in correlazione) del Novecento europeo nel campo del religioso – a
nostro parere rimase sostanzialmente cristiano, nel senso che
storicamente non seppe andare, almeno nei contenuti oggettivi della sua
filosofia diversi dalle spinte ideali del suo pensiero (che premevano
nella direzione della kantiana Chiesa invisibile), oltre il
cristianesimo come punto di arrivo più alto del pensiero, in ciò
limitandolo all’Occidente stesso, e in particolare all’Europa. Se è
vero in altre parole che la storia sta mostrando a noi soggetti della
post-contemporaneità la costruzione dell’unificazione in vista della
sintesi delle tre religioni monoteiste, lo sforzo storico-filosofico cui
è chiamata la scienza è quello di anticipare la storia anche del
superamento del dualismo Oriente-Occidente nell’utopia possibile dell’Assoluto
nella storia, laddove se nella prima ricorrenza essa sta a significare
la storia degli uomini, qui è intesa (anche) in senso assoluto, sebbene
con l’espressione “Assoluto nella storia” non si faccia alcun
riferimento ad attese millenaristiche, bensì alla Ragione che si invera. Ma
in Carabellese Dio è problema anche e soprattutto per le incongruenze e
per i rischi non sempre risolti che la sua concezione metafisica si
porta dietro. Tra le prime, la sua apparentemente paradossale tesi
dell'inesistenza di Dio, di cui diremo, si risolve non appena si guardi
al significato che Carabellese dà al termine esistenza. Tra i rischi,
il panteismo, che pure gli è attribuito nel rapporto tra il Concreto e
Dio, è solo apparentemente fugato affiancando alla concezione
dell'immanenza di Dio come Oggetto puro quella della trascendenza di Dio
come Principio, dal momento che si è detto immanenza e trascendenza
sono da considerarsi comunque all’interno della Coscienza in
implicazione reciproca. Per fugare il panteismo, o almeno una sua forma
non razionalmente concepita, è infatti necessario ricorrere –
nonostante la ripetuta presa di distanza di Carabellese da Hegel –
proprio al pensiero hegeliano e in particolare al concetto di Idea come
Dio prima della creazione quando si esaminino i vari livelli
dell’Essere – il concetto di Principio è infatti insufficiente
proprio perché interno alla Coscienza intesa come Concreto, pur se da
Carabellese introdotto al fianco di quello di Oggetto anche per
rispondere alle accuse cattoliche di ateismo - quando si esaminino le
diverse latitudini del concetto di Coscienza, e a inserire il panteismo
carabellesiano all’interno di una visione emanatistica dell’Essere
di matrice neoplatonica cui non sia estraneo l’apporto della
metafisica hegeliana. La
strutturazione della metafisica critica coinvolge pertanto tutta una
serie di questioni che la sola ragione teoretica come strumento
conoscitivo non può risolvere, e che implicano, oltre a questa ragione, necessariamente
l'apporto della fede. La tesi carabellesiana della necessaria
connessione tra ragione e fede, che egli esplicita in rari luoghi della
sua opera, è peraltro deducibile con rigore dalla sua stessa concezione
di una necessaria connessione, nel soggetto, tra ragione sentimento e
volontà. La meditazione filosofica allora, sebbene da Carabellese
ancora distinta dalla meditazione religiosa, condivide con essa
l'appello della fede. In essa la fede rappresenta uno strumento
euristico ulteriore, indispensabile per affrontare questioni metafisiche
che, sintetizzabili nelle tre domande kantiane, prendano a modello la
risposta hegeliana. Ma non solo: se ciò comporta un oltrepassamento
dell'esperienza empirica nell’esperienza intellettuale guidata dalla
ragione, si pone il problema dell’esperienza razionale, che richiede
un allargamento del concetto di esperienza e un allargamento del
concetto di ragione sino alla loro possibile coincidenza, dal momento
che qui si fa riferimento comunque alla conoscenza sintetica, e ci si
riferisce comunque alla possibilità di una sua dimostrazione razionale:
ciò nelle scienze dello spirito, dove qui s’intende in particolare la
filosofia, è ancora da fare. In questo senso il riferimento
all’intuizione intellettuale hegeliana è primario, ma anche il
riferimento carabellesiano a Rosmini come a colui il quale mette
l’accento sia sull’intuito sia sulla soggettività come potenza
agente, come pure al Rosmini fondatore della conoscenza nella sua
aposteriorità, è essenziale. Così come essenziale ci appare la
sottile correzione apportata da Carabellese nella circolarità che
istituisce tra apriorità e aposteriorità, correzione che ci consente
di porre la questione di una scienza metafisica. Nella costruzione di
questa scienza, l’oltrepassamento dell’esperienza fenomenica
nell’esperienza reale, oltrepassamento voluto dallo sforzo metafisico,
fa leva su di un sapere – quello che Carabellese chiama
sapere implicito fondamento della comunione intersoggettiva e risultato
del rapporto immediato con l’Assoluto – che implica un concetto di
ragione che coinvolga tutto l'essere dell'uomo, comportando anche la
fede[108]. Intesa
in senso religioso[109] ma
non confessionale, la fede accompagna Carabellese lungo tutta la sua
esistenza, in un rapporto spesso conflittuale col cattolicesimo, dal
quale egli prende le distanze ma a cui rinuncia, anche in rapporto al
modernismo, soltanto in nome del cristianesimo, anche questo da
oltrepassare in una visione filosofica che lo superi. In tal modo, egli
si pone al tempo stesso dentro e fuori dal cristianesimo stesso, come
attesta anche la famosa polemica sull'ateismo che lo contrappone al pensiero
neo-tomistico[110],
e in particolare ad Armando Carlini e al Padre Riccardo Lombardi[111],
polemica lunga[112] e
violenta che lo amareggiò profondamente[113],
e che ci aiuta a chiarire concetti essenziali del suo pensiero. Nella
sua formazione e teoretica e personale, prima ancora che nel suo
progetto metafisico, si rinvengono elementi propri della tradizione
cristiana che rendono il suo concetto di Dio ben lontano da quell'ateismo
di cui pure fu accusato per la sua tesi dell'inesistenza di Dio. Questa
tesi soltanto apparentemente si scontra con la centralità della
riflessione su Dio che lo accompagna lungo tutto il suo percorso
teoretico e con la centralità che nella costruzione del suo sistema
metafisico assume l'Idea. Per comprendere infatti perché
Carabellese parli di inesistenza di Dio è necessario ricordare che
l'esistenza è per Carabellese la molteplicità relativa di esseri
singolari, in particolare la coesistenza di esseri in rapporto di
omogeneità tra loro. Questa esistenza, o meglio coesistenza, implica
l'alterità e la reciprocità: il dire io significa sempre che esiste un
tu, altro da me ma come me, al quale mi rivolgo e per il quale, in
reciprocità, sono io stesso un tu altro da lui ma come lui. E questo io
e questo tu sono perciò esistenze, appunto perché legati da omogeneità,
alterità e reciprocità che rendono ognuno un ciascuno, in rapporto con
ciascun altro[114]. In
questo contesto è chiaro allora che l'inesistenza di Dio è da
intendere non come negazione di Dio, ma come negazione
dell'abbassamento di Dio al livello della soggettiva reciprocità e
omogeneità che rendono l'io uguale al tu in una reciproca trascendenza
relativa. Se l’io trascende il tu, anche il tu trascende
reciprocamente l’io: lo stesso non può evidentemente dirsi di Dio,
dal momento che se Dio, nelle sue varie accezioni terminologiche e
concettuali, trascende l’io pur nella sua relativa immanenza,
certamente non l’io trascende Dio, che rimane, per quanto Oggetto,
l’Assoluto – in Carabellese, ripetiamo, Principio-Idea-Sostanza.
Questa negazione dell'esistenza a Dio ha allora il senso di un
richiamo al sommo valore che, pur nella sottolineatura dell'infinito
valore della soggettività spirituale non solo umana, Carabellese
intende conservare a Dio. L'accusa di ateismo appare quindi infondata:
per Carabellese Dio è, non esiste, mentre esiste Gesù, uomo in quanto
incarnazione di Dio, e all’importanza della figura di Cristo per la
stessa filosofia a motivo del concetto di persona e di societas cristiana
ed etica in dialogo interiore ed esteriore – Carabellese attribuiva
enorme valore (e viveva), oltre che al rispetto, anche al dialogo che
importa la modestia -, al di là della critica costante alla
trasposizione in termini filosofici dei dogmi della Chiesa[115],
egli ricorre in più luoghi. Ma
per comprendere a fondo l'accusa di ateismo di cui Carabellese fu
vittima, è necessario tralasciare le polemiche di parte, e rivolgersi
invece a uno spirito almeno apparentemente libero da fini men
che teoretici, ma nel contempo conoscitore dell'ontologismo tradizionale
della teologia cattolica: secondo Michele Federico Sciacca, negli enti
finiti si ha la coppia oppositiva essenza/esistenza, per cui l'esistenza
non coincide con l'essenza, che è divina. Per l'Essere assoluto invece,
essenza ed esistenza coincidono, cosicché negare a Dio l'esistenza
significa anche negarne l'essenza, ossia negarLo tout court. Da qui
l'accusa di ateismo. Infatti la teologia cattolica, così come la
medievistica, contempera due concetti di esistenza, l'uno coincidente
con l'essenza in Dio, l'altro separato dall'essenza come negli enti
finiti. L'esistenza degli enti finiti è un'esistenza non piena,
empirica, particolare e determinata in un luogo e in un tempo, e
quindi limitata e contingente. Al contrario l'esistenza di
Dio, che è esistenza non come proprietà o qualità che Dio ha, ma come essenza
che Dio è: Dio è l'Essere reale sommo, in quanto è tutta l'essenza e
tutta l'esistenza[116].
Allora, secondo Sciacca, “(…) l'Essere per lui non è il Dio
trascendente dell'ontologismo tradizionale, ma l'Idea teologica della
kantiana Critica della ragione pura, cioè Dio come pura Idea, per
cui l'Essere è nel pensiero dei singoli soggetti pensanti e non esiste
in sé, perché l'esistenza è dei soggetti non dell'Oggetto unico.
Panteismo, senz'altro; anzi ateismo perché è negata l'esistenza di Dio
e Dio è identificato con la pura idea dell'essere, cioè con la forma
stessa del pensare e al pensare immanente. Evidentemente il
Carabellese chiama Dio ciò che non è Dio e fa un uso tutto suo del
concetto di esistenza. (…) D'altra parte, il Dio di Carabellese non è
più quello della religione e della teologia [...]"[117] Si
è voluto riportare questo passo di Sciacca perché in esso è reso
chiaro nei suoi motivi più profondi il concetto teologico tradizionale
di Dio, con le sue ascendenze scolastiche, e dunque il rifiuto cattolico
verso il Dio carabellesiano, che "evidentemente non è il vero
Dio", e dunque Carabellese è ateo[118].
Il Dio carabellesiano, si disse, non è il vero Dio perché la sua
panteistica immanenza contrasta con la trascendenza neoscolastica, e
infatti Carabellese relativizza immanenza e trascendenza del Principio
nella Coscienza, negando con ciò non tanto il Principio (e infatti
rimane in tal senso, ossia a questo livello dell’Essere, creazionista,
seppur solo in senso ideale e spirituale e non anche fisico – suo
obiettivo era quello di sconfiggere definitivamente il materialismo),
ma, a nostro parere, che il Principio sia l’Assoluto (non sto dicendo,
come Carabellese non diceva, che l’Assoluto non sia Principio). Ma
soprattutto per la neoscolastica, e abbiamo visto anche per Sciacca, il
Dio di Carabellese non è il vero Dio perché non è un Dio personale e
creazionista, almeno nel senso tradizionale. E infatti ambedue, almeno
ad un certo livello di teorizzazione e di analisi, colgono nel segno,
individuando il punto della questione: Carabellese nega a Dio una natura
soggettiva, il Soggetto è l’Io, e nella coppia circolare Dio Io Dio
diviene Oggetto (la coppia circolare Dio Io essendo il livello di Dio
soggettivo-oggettivo che è ancora leggibile, proprio per la presenza
dell’Io e per la possibile lettura anche in termini gnoseologici di
tale livello dell’Essere, nei termini di Persona). Ma è possibile,
come si è già fatto, interpretare in un senso più profondo il
concetto di Dio Persona e di Creazione, che in realtà Carabellese a
nostro parere conserva, seppure appunto non in una concettualizzazione
tradizionale, e dire perciò che in sostanza anche la critica più
illustre, quella di Sciacca come quella della neoscolastica, non
comprende a fondo la metafisica di Carabellese, perché, al di là di
una possibile ignoranza degli inediti, tale ignoranza era semplicemente
necessariamente dovuta all’inesistenza – era precedente alla
scrittura – degli inediti stessi. E’ questione di date. Ma occorre
anche dire che comunque, al di là di una possibile – fondata su fatto
- interpretazione dell’ultimo Carabellese in termini trinitari,
creazionistici e personali di Dio, e quindi ripetiamo ancora una volta
conformi al cristianesimo nonostante la sua polemica contro l’istituzionalismo
cattolico di Gentile e nonostante i termini teologici siano spostati a
un tempo in avanti e indietro nella storia, Carabellese mira a superare
– togliere – la dicotomia-distinzione Oggetto-Soggetto, e la sua
identificazione nei termini di Persona creatrice, e infatti, pur non
sviluppando il discorso, afferma che Dio è Idea, e fa riferimento anche
solo raramente, pure nelle ultime opere, a Dio come Assoluto. Ciò
secondo noi anche perché retroattivamente consapevole (ci si riferisce
ai suoi primi studi, oltre che al metodo che lo guida) che al Dio Idea
si giunge tramite l’intuizione, e che questa intuizione, che tutti
implicitamente sappiamo prima ancora di saperla esplicitamente (ruolo
della maieutica come dell’ermeneutica, oltre che della scienza), è
nel suo grado sommo intuizione dell’Assoluto. Laddove per intuizione
è da intendersi, come direbbe Carabellese sulla scia di Rosmini, una
“potenza” che noi diremmo razionale, e razionalmente fondata (o
meglio da fondare anche storicamente), e non meramente
sensibile-sentimentale o anche intellettuale[119].
E sapere l’Assoluto è possibile, sia implicitamente che poi
esplicitamente, sia singolarmente che collettivamente, perché
Carabellese stesso crede fermamente, e parte, da quel rapporto immediato
e diretto tra Dio e io su cui ci siamo già soffermati. In questo
credere in tale rapporto, da rifondare o rivelare (è il rapporto che si
rivela o siamo noi che lo riveliamo? Carabellese, e non è solo, vede un
ruolo attivo nella spiritualità che fa pensare a una coincidenza di
attività nel rapporto stesso: risiamo all’assioma del rapporto
diretto Dio io, di cui storicamente cambia solo la forma e
l’estensione anche di campo, pur sempre nello spirito che pensare è
pensare Dio) storicamente – come l’ultimo Carabellese storico della
filosofia inizia a fare -, e che sempre storicamente affonda le radici
nell’antichità del sentimento religioso umano, e poi del rito
corrispondente - Carabellese inizia il suo Disegno storico della
filosofia come oggettiva riflessione pura con il rito col quale
l’Athman si mette in comunicazione col Brahman -, in questo credere,
sentimento, volontà, intelletto trapassano l’uno nell’altro,
cosicché si può parlare più semplicemente, ma anche in maniera al
contempo più complessa, di ragione, o di sapere che si attua e nel
quale i confini tra filosofia e religione, più che trapassare
dall’una all’altra di due distinte identità, si concretano nella
metafisica sottesa a quella particolare visione teologica, che a sua
volta implica una particolare visione antropologica, o più latamente,
come vuole Carabellese e come la storia delle religioni prova,
spirituale. Carabellese
in altre parole, pur conservando i dogmi fondamentali del cristianesimo
nella loro importanza storica come patrimonio dell’umanità, e pur
considerando il cristianesimo il punto limite della sua meditazione
filosofica, e il punto più alto del sentimento religioso storicizzato,
nel suo riportare l’Oriente all’Occidente, il brahmanesimo al
cristianesimo, fondava comunque per l’epoca in Italia una nuova
teologia che metteva in discussione i dogmi fondamentali del
cattolicesimo, e perciò fu attaccato. Per quanto in altre
parole riconoscesse anch’egli la figura di Cristo come colui il quale
scopre la spiritualità dell'uomo, il suo essere persona, così
aprendo una nuova era per il pensiero, e anche se la Coscienza qualitativa
è leggibile, pur anzi proprio nel rapporto circolare Dio Io, in termini
del Dio Persona, e nella triade Essere: Dio Io in termini trinitari, la
lettura della metafisica carabellesiana nei suoi elementi fondanti, e
perciò “semplici”, era oltre il cattolicesimo, e fors’anche il
cristianesimo, di allora. Abbiamo cercato di suggerire che era presto
perché in Italia si assumessero in forma istituzionale e si
riconoscessero in forma ufficiale, foss’anche di una filosofia,
elementi propri dell’ebraismo, che pure Carabellese fa suoi, anche se
non lo rivela. E’, questa, storia d’oggi, dell’abbandonare
teologicamente e storicamente le differenze per concentrarsi sulle
concordanze, e fare dell’unione, ci si scusi la banalità, una forza
lungimirante di cui Carabellese può esser considerato un profeta. Ma
c’è di più, dal momento che Carabellese per un verso inserisce i
dogmi del cristianesimo in una stratificazione dell’Essere anch’essa
inaccettabile (insieme agli elementi ebraici), almeno ufficialmente ed
essotericamente, per la teologia cattolica dell’epoca, spostando di
fatto lo stesso significato dei dogmi accettati e assunti (che a nostro
parere si giovano semmai di un arricchimento e di un livello più alto
di “tenuta”, ossia di linearità e mancanza di aporie, di razionalità),
per l’altro verso li collega nel sistema dell’Essere, almeno nelle
intenzioni (visibili a partire dal Disegno) se non anche nella
stesura completa del suo sistema dell’Essere, cominciata – e finita
- con la manifestazione, a una visione di Dio come Brahman impersonale
che solo in parte è possibile attenuare con la visione panteistica
ebraica, prima ancora che greca, dell’Uno-Tutto. Questi sono a nostro
parere i veri motivi che fanno dell’accusa di ateismo un’accusa
comunque non vera, ma in qualche modo comprensibile, e forse, dal punto
di vista cristiano, applicabile ancor oggi, poiché di fatto la
filosofia di Carabellese richiede, per essere compresa, una teologia in
grado di connettere all’Occidente le religioni dell’Estremo Oriente,
seppure solo da un’ottica occidentale che guardi all’Estremo Oriente
solo come radice e non anche come ritorno: lavoro tutto da fare. L'accusa
di ateismo allora, comunque ingiustificata in sé, appare
ingiustificata se non la si guarda storicamente: essa sta a
testimoniare la chiusura della filosofia di ispirazione cattolica della
I metà del ‘900 verso altre forme della riflessione di Dio che non
fossero quelle dell'ortodossia. Il Dio di Carabellese non è
quello della religione e della teologia solo se per teologia e religione
si intendono – e storicamente - quelle dell'ortodossia cattolica.
Infatti si potrebbe parlare per Carabellese di una teologia laica,
libera dall'osservanza ai dogmi e prettamente filosofica. In questo
senso Carabellese non sarebbe più solo. E in questo senso anticipa i
tempi, potendosi a buon diritto considerare uno degli esponenti del
Novecento filosofico non solo italiano. Anche in questa
apertura dei confini della meditazione teologica Carabellese è
inattuale in senso forte, nietzscheiano[120],
e fa annoverare Carabellese tra i costruttori della Chiesa invisibile,
tra coloro in grado di renderla visibile non solo dal punto di vista
storico (mi riferisco ai suoi studi di storia delle religioni), ma
proprio, punto di partenza della storia reale, dal punto di
vista teologico-metafisico, ossia iniziando e finalizzando tali studi al
concetto. Il senso della polemica sull'ateismo risiede allora nel
rischio che corre ogni posizione che con coraggio si allontani dal Dio
reso antropomorfo dalle religioni rivelate e dalle istituzioni
ecclesiastiche di qualunque provenienza: l'incomprensione del "si
dice", o anche dell’ipse dixit dogmatico che tenta di
bloccare il corso ineluttabile della storia, rendendo assoluto il suo
senso storico sempre relativo e in situazione. Invece la capacità
razionale di Carabellese di conciliare hegelianamente gli opposti e i
diversi portandone alla luce il senso sintetico – togliendoli – fu
notevole soprattutto in campo teologico-metafisico – cosa non ancora
sufficientemente e completamente riconosciuta, nemmeno da chi scrive,
oltre che dai suoi naturali referenti religiosi e teologici, ammesso che
comincino già a mostrarsi e a esistere - ma anche in campo gnoseologico
e ontologico. In questo senso Carabellese fu eminentemente teologo,
prima ancora che metafisico, sebbene al tempo stesso dentro e fuori
dalle parti, e, poiché alla ricerca del superiore senso comune e non
della divisione allora imperante, perciò accusato di ateismo. Nel
momento in cui si problematizza in tutto o in parte, come Carabellese ma
come anche ad esempio Jaspers, il tranquillizzante Dio-tu della
religione positiva, e a questa ci si affida totalmente e passivamente
senza vederne e attivarne quel futuro possibile che tralascia gli
elementi di conflitto interni ed esterni (si potrebbe dire a-razionali),
si affaccia prepotentemente l'accusa di ateismo per la rottura del
concetto tradizionale di Dio, la cui assoluta trascendenza
viene oggettivata in Carabellese nel concetto di Oggetto puro, che
appunto nega nell’immanenza, a tale livello dell’Essere, tale
assolutezza della trascendenza, per cui lo stesso Principio è Principio
del termine così come lo stesso Oggetto è Oggetto del Soggetto in un
rapporto di trascendenza relativa che richiede l’immanenza, sebbene
non di cotrascendenza, ossia reciproco, che si ha solo tra i molti io.
In tal senso molto importante ci appare la categoria carabellesiana di
penetratività, che sia nel caso del rapporto tra gli io, sia in quello
con Dio, non è mai assoluta, ma sempre relativa: sebbene si possa dire
che in Carabellese la penetratività dell’io in Dio è assoluta nel
senso che l’io, come qualunque ente, è completamente penetrato da
Dio, ciò non è viceversa – bisogna in altre parole porre sempre
attenzione alla differenza che Carabellese pone tra reciprocità
relativa e assoluta, ossia biunivoca. Probabilmente, perché ci sia
assoluta penetratività di Dio nell’io, è necessaria la storia – e
precisamente la sua fine, si potrebbe dire citando l’ebraismo ab
nihilo ad nihilo, dando, come chiarito, valore metafisico positivo
e spirituale al Nulla e al suo livello, pur senza identificarlo con
l’Assoluto -, storia che in tal senso assume valore metafisico
nonostante i ripetuti appelli di Carabellese contro lo storicismo,
anch’essi da leggere storicamente come obiezioni utili a che lo stato
della ricerca le superasse, ossia foriere di un nuovo progetto. E
non solo Carabellese fu teologo, ancor più che metafisico, nel senso di
una sua preponderante vicinanza, una simbiosi, ai temi della teologia,
una teologia da rinnovare e rifondare, ma fu teologo in un senso più
profondo e radicale, che fa leggere il suo pensiero in termini teistici:
solo in questo senso radicale del considerare la meditazione teologia, e
teologia finalizzata, e impregnata, di teismo, è possibile comprendere
a fondo il titolo stesso del suo Il problema teologico come
filosofia. Si vuol dire che l’ultimo Carabellese, se avesse scritto su
di sé, avrebbe esplicitato nel 1948 quello che era in nuce nel
1931, il teismo, inteso in senso letterale e non tradizionale, come
filosofia. Per
Carabellese e il suo rapporto col cattolicesimo, reso conflittuale
dalle sue tesi contro l'esistenza – sempre negata in favore del Suo
essere e in contrasto con la coincidenza neotomistica di essenza ed
esistenza -, la personalità soggettiva e l’assoluta trascendenza
neo-tomistica di Dio – che abbiamo visto viceversa appartenere a
Carabellese, sebbene non al livello assoluto di Dio, bensì a quello
della Coscienza qualitativa -, l'accusa di ateismo si rivela infondata
per il continuo rovello del suo pensiero sul problema di
Dio, la cui concettualizzazione rende semmai ambiguo il rapporto col
cristianesimo, al tempo stesso di inclusione e esclusione di Carabellese
stesso, dal momento che egli include il cristianesimo in una visione più
ampia, avanzata rispetto al suo tempo. La
sua concezione di Dio, proprio a partire dalla trasformazione a nostro
avviso rintracciabile nel periodo critico del problema gnoseologico del
rapporto soggetto-oggetto in problema ontoteologico – rapporto
Soggetto-Oggetto incluso nella fase metafisica come uno dei livelli
dell’Essere, non quello assoluto -, presenta alcune incongruenze, come
il rapporto non chiaro, eluso dalla morte, in questo stesso periodo tra
Essere-coscienza e Dio non solo come Idea-Principio- Sostanza - che egli
identifica col livello dell’Essere interno alla coppia circolare Dio
Io, per cui si ha la triade Essere: Dio Io, dove per Essere si deve
intendere non soltanto l’Essere come Tutto, ma anche l’Essere in sé,
punto zero (Idea-Principio-Sostanza prima della creazione) della coppia
circolare stessa – ma anche vieppiù come Assoluto. Queste
incongruenze, dovute allo stato in fieri del pensiero di
Carabellese, insieme alle oggettive distanze – superamenti – di
quello stesso pensiero dal neoidealismo e dalla neoscolastica
dell’epoca, non a caso attirarono a Carabellese tutta una serie di
accuse speculari dai due opposti fronti, accuse che egli stesso ben
sintetizzò nella formula Tra arcaismo e ateismo, titolo del breve
saggio scritto nell'ultimo anno della sua vita proprio per rispondervi.
Arcaismo della sua concezione di Dio, secondo gli uni, perché
fortemente ancorata alla tradizione oggettivistica medievale che vede
Dio come oggetto interno della coscienza umana. Ateismo, secondo gli
altri, perché tra i punti essenziali in cui si discosta dal concetto
teologico tradizionale di Dio vi è quello della sua non esistenza.
Accuse contrarie ma che ugualmente pesavano a Carabellese, che, in
accordo alla sua concezione della filosofia come sforzo inconcluso, si
dedicò più volte all'approfondimento e al chiarimento del concetto di
Dio nel mentre convogliava le sue ricerche storico-metafisiche sul
progetto di stesura di un nuovo pensiero, di un nuovo sistema. Questa
nuova-antica, “arcaica” appunto, come Carabellese andava
manifestando, concezione di Dio – che andava come si è cercato di
mostrare, in senso ben più profondo di quello dell’accusa mossagli, ben
prima del Medio Evo e ben oltre il cristianesimo, pur comprendendoli e
sistematizzandoli, per un ritorno all’Oriente, o almeno per un inizio
di sintesi tra Oriente e Occidente verso il concetto di Mondo che se non
altro dal punto di vista ideale (penso in questa chiave al Web come
rapporto diretto tra l’io e il Mondo) noi oggi vediamo – Carabellese
la ricerca, la pensa come rivelazione (aletheia) anche per liberare il
concetto di Dio, attraverso la progressiva diversificazione delle sue
denominazioni, che corrispondevano ad altrettanti livelli
dell’elaborazione metafisica che andava concettualizzando, da alcuni
fraintendimenti e alcuni rischi in cui poteva incorrere, (non soltanto a
nostro avviso) non sempre con successo anche nelle opere inedite ora
pubblicate[121].
In questo senso la problematizzazione carabellesiana del concetto di
Dio, che attraversa tutta la sua speculazione e in cui le polemiche
giocano il ruolo positivo, per Carabellese stesso oltre che per noi, di
rivelatori di incongruenze da risolvere, costituisce la necessaria
premessa di un sistema metafisico in cui immanentismo e trascendentismo,
creazione e rivelazione, origine e storia, essere e divenire, tempo ed
eterno, spazio e infinito, si intrecciano strettamente in una visione
unitaria di Dio, dell'io e del cosmo[122]. L'interesse
per Kant da un lato e la formazione cristiana razionalizzata
filosoficamente dall’altro, sebbene inserita all’interno di un
quadro teologico che ne storicizza il senso nel mentre lo rende assoluto
e, ahimé, conclusivo, porteranno Carabellese all'esplicitazione di
quell'obiettivo in nuce sin dagli anni giovanili: la
fondazione di una nuova metafisica critica che supera i confini della
teologia cattolica per porsi come teologia filosofica laica
aconfessionale, o, più precisamente ancora – ma già, e per questo
incompresa - superconfessionale o meglio interconfessionale, sebbene
elaborata da un punto di vista intraconfessionale, e ad esso punto di
vista nei risultati limitabile nonostante l’ampiezza del suo sguardo e
nonostante la possibilità che esso stesso fornisce di oltrepassarlo con
un lavoro storico-teologico diretto sia ad approfondire la radice del
senso religioso sia ad ampliarne la manifestazione non, si badi, nella
frammentarietà, ma, nell’incontro sincretistico ed essenzializzante
della molteplicità stessa, nella direzione che l’unico senso
religioso di un unico Dio si concreti in un’unica teologia – ma
questa che sembra finalmente storia d’oggi, seppure solo all’interno
del cristianesimo, ancora è vista e costruita dal preminente punto di
vista cattolico -, l’unica religione essendo soltanto la sua forma
esteriore la cui positività ritualistica è da lasciare a momenti o
forme della coscienza bisognosi di solennizzare un rapporto col sacro
che c’è, a mio parere, in ogni istante[123]. In
questo quadro in cui si saldano in un unicum di senso a un
tempo originario e conclusivo la matrice filosofica e la matrice
religiosa del pensiero di Carabellese nella progressiva messa a fuoco di
una nuova teologia, il 1931, con la pubblicazione de Il problema
teologico come filosofia, costituisce anche per noi un momento cardine
del pensiero di Carabellese, il quale prende posizione in modo specifico
su questo problema. Carabellese opta qui consapevolmente, tra la
filosofia e la religione, per la filosofia – da intendere qui come
forma razionale che è sottesa e fonda l’espressione religiosa
positiva e la comprende, ribaltando in questa comprensione la formula
della filosofia come ancilla theologiae, se questa deve significare
una spiegazione in termini razionali delle verità rivelate che non era
nello spirito di Carabellese, come egli sottolineava continuamente[124].
Non solo: egli abbandona in modo esplicito e consapevole il cattolico
concetto dell'esistenza di Dio, mantenendo comunque la fede al tempo
stesso religiosa e filosofica nella dimostrabilità razionale di Dio –
si è cercato di mostrare lungo tutta questa ricerca i motivi profondi
di tale abbandono nel significato reale che Carabellese attribuisce al
termine esistenza, nonché come la dimostrazione razionale implichi la
fede. Ma ancor più: il Carabellese maturo dichiara il problema
teologico il problema unico della filosofia. In questo senso
l’abbandono del teismo si colora di un accento nuovo: è il teismo
tradizionale che Carabellese abbandona già a partire dal suo distacco
dal maestro Varisco, non un nuovo teismo razionale e superconfessionale
in cui Dio è l’Uno-Tutto, e questo è il progetto di ricerca di
Carabellese che da L’Essere e il problema religioso in onore
di Varisco e L’Essere e la sua manifestazione è racchiuso.
Si vuole dire che il progetto dell’Uno-Tutto del teismo carabellesiano
è proprio racchiuso ne L’Essere e la sua manifestazione che,
sebbene inconcluso come la critica ha riportato, ossia comprendente
anche la natura, è, in quanto Tutto dell’Uno, manifestazione, al di là
delle critiche che si possono muovere al concetto di manifestazione e al
di là della scissione presente nella congiunzione Essere-manifestazione. Se
dunque la filosofia è, nel senso più proprio, aristotelicamente
filosofia prima, metafisica, - e sistema -, questa, non solo in quanto
ha il suo centro nel problema di Dio, ma anche in quanto Dio nei suoi
diversi livelli è l’Essere che si manifesta, è teologia. Carabellese
ìdea ne Il problema teologico un nuovo concetto di Dio
riprendendo le fila di tutto il suo percorso dell'ontologismo critico,
in rapporto alla nuova metafisica che voleva fondare: qui Dio è l’Uno-Tutto,
per questo la metafisica è teologia. Ed è per questo che si può a
ragione parlare di una diversa teologia, non dottrinale ma laica seppur
sempre cristiana, che egli consapevolmente traccia e a cui apre la
strada a partire dalla centralità che abbiamo visto assumere nel suo
percorso dal concetto di Dio, concetto che talvolta sfiora accenti
mistici – alla mistica è riportabile la sua fede profonda, come i
suoi ultimi studi storici -, pur rimanendo saldamente ancorato a una
impostazione di tipo critico e dunque razionale. In questo
senso a nostro parere il 1931 chiude una fase, quella dell'ontologismo
critico, e ne apre un'altra, quella della metafisica critica,
che troverà espressione più di dieci anni dopo nelle dispense
universitarie dei corsi 1943-48[125]. In
altre parole a nostro parere la teologia come teologia dell’Uno-Tutto
costituisce un salto di qualità che Carabellese compie, ma non il
definitivo. Se Dio è qui l’Uno-Tutto, che nell’ultimo Carabellese
verrà chiamato Essere e di cui verra stesa soltanto, e neppure
completamente, la manifestazione, quest’Essere positivo che è l’Uno-Tutto
è da considerare nella storia del pensiero di Carabellese ponendo
l’accento sull’unità dell’Uno-Tutto, e quindi sul Tutto, sulla
manifestazione, sull’Essere – anche trattato in sé come triade
Principio-Idea-Sostanza – come Uno-Tutto, e non sull’Uno, ossia
sull’Assoluto – come livello logico-teologico immediatamente
precedente -, su cui Carabellese non scrisse. Infatti c’è da notare
che ciò che segnerebbe nel pensiero di Carabellese il salto di qualità
verso non più la manifestazione, seppure unitaria nel Tutto, bensì
nell’Uno e in ciò che lo precede, ossia l’Assoluto, lo si dice non
definitivo perché rispuntano qua e là, anche nel sistema metafisico,
definizioni irrisolte di Dio inteso come l’Assoluto, che fanno
pensare, insieme alla sua trattazione del rito Brahman-Athman, a un
rovello carabellesiano sul sapere l’Assoluto, e sull’Assoluto
stesso, che oltrepassasse il progetto della manifestazione
dell’Essere, affrontando il problema di Dio alla radice. Ma per questo
erano necessarie una conoscenza e una comprensione profonde
di Hegel probabilmente antistoriche per l’epoca, e forse Carabellese
non voleva rinnegare, assieme alle battaglie, il risultato di
anni di meditazioni su Dio, dal momento che stendere un sistema
teologico vero – dove per teologico si deve intendere a partire dal
livello dell’Assoluto, in cui Dio non è ancora manifestazione
(manifestazione?) né fisica né spirituale, e nemmeno ideale ma reale,
intendendo con reale razionale – implicava preventivamente un lavoro
di smantellamento e superamento degli errori vuoi di interpretazione
vuoi di lettera dell’hegelismo a lui coevo, che non poteva lasciare
spazio, almeno negli studi teoretici, alla meditazione del sistema
dell’Assoluto. Non è un caso, in altre parole, che Carabellese parta
dalla dialettica, superando, almeno nelle intenzioni, la dialettica
hegeliana, che egli accusa di contraddizione contrapponendovi la
penetratività. Urgeva questo lavoro di revisione, e Carabellese si
accinge a compierlo. Ma occorre aggiungere, e ci si farà scusa di
ricorrervi ancora una volta, che i suoi studi storici aprono
a quelli che erano i progetti futuri di Carabellese – potremmo dire i
sentimenti, o l’intuito, in altre parole il sapere di Carabellese -,
se avesse potuto stenderli in sistema razionale. Ma in realtà, se si
guarda bene il percorso del Disegno, bisogna dire che il
Carabellese vivente ha concluso il suo percorso: il rapporto diretto Dio
io, che ha sorretto come certezza, direi come sapere, tutto il percorso
di Carabellese, è soddisfatto, al di là delle ulteriori intenzioni di
Carabellese stesso, che voleva estendere il Disegno sino alla
filosofia moderna e contemporanea: il Disegno si apre col rito
in cui il Brahman si mette in comunicazione con l’Athman, e si chiude
con Agostino, che della certezza del rapporto immediato tra Dio e io fa
il cardine della propria esperienza spirituale, e la spiegazione dei
miracoli, che infatti Carabellese tratta. In tal senso si può dire che
Carabellese ha esplicitato nei fatti tutto il suo sapere implicito
iniziale, almeno sul piano storiografico.
8. L’ontologismo critico come propedeusi al progetto di
una nuova metafisica critica Centralità
dunque del problema teologico in Carabellese, il quale, avvalendosi a un
tempo dei risultati, dei limiti e delle questioni irrisolte del
criticismo kantiano, e rileggendo attivamente nello stesso senso la
tradizione della storia della filosofia occidentale, sposta in ambedue i
campi l’asse dell’interpretazione, e proponendosi come nuovo snodo
del pensiero filosofico in grado di superare in ambito europeo la
scissione tra la filosofia del conoscere e la filosofia dell’essere, e
nel contempo reimpostando criticamente la metafisica a partire da
intuizioni che ritrova già in quello che definisce l’arcaico, la apre
a nuovi sviluppi dandole nuova linfa coi suoi risultati e coi suoi
limiti. Una nuova concezione metafisica di difficile comprensione non
solo terminologica e concettuale, se è vero che in essa confluiscono
razionalismo e misticismo, idealismo e realismo, oltre allo
spiritualismo - alcune correnti della storiografia critica lo
inseriscono infatti se non dentro, vicino a questa tradizione di
pensiero[126]. Della
novità dell’ontologismo critico Carabellese si faceva portatore
consapevolmente orgoglioso in molte sue opere, sebbene,
cosciente dell'importanza di una Fondazione storica dell'ontologismo
critico[127] -
come significativamente titola uno scritto del 1940, periodo in cui era
ormai evidentemente maturo il progetto della sua propria metafisica -
non sino al punto da non ricercarne le origini, e dunque la continuità
con la tradizione, in lavori a carattere anche e
soprattutto storiografico quali, oltre alla Fondazione e Dalla
critica all'ontologismo critico[128],
sempre del '40, Da Cartesio a Rosmini. Fondazione storica dell'ontologismo
critico, del 1946, ma soprattutto quel Disegno storico della
filosofia italiana come oggettiva riflessione pura[129],
dai corsi universitari romani degli A.A. 1944-45, 1945-46 e 1946-47, dove
dà una visione sua propria dello svolgersi della storia della filosofia
occidentale a partire dal pensiero orientale.[130] La
novità dell’ontologismo critico è messa in rilievo, oltre che da
Semerari, anche da Franco Fanizza, per il quale sia la critica coeva sia
quella posteriore non hanno mai ben compreso Carabellese, quando
addirittura, come nel caso della neoscolastica, non lo hanno travisato[131].
Dell'opera di Carabellese Fanizza dice che è "di grande spessore
problematico" e "malgrado le apparenze contrarie, molto poco
scolastica nella sostanza", poiché mette in discussione, e qui la
sua originalità che anticipa il pensiero del '900 maturo, "[...]
nientedimeno, il senso e l'intero impianto del ‘conoscere’ e
dell'’essere’ occidentali... il senso dell'Essere come Sapere e del
Sapere come Essere, quindi le modalità essenziali della Teoria e della
Pratica, i concetti di Astratto e di Concreto, gli atteggiamenti del
Pensare e del Volere, la scala dei valori e la forma stessa del Valore
che ne dipendono, la misura dell'Oggettività e della Soggettività - in conclusione
riguarda una certa epocale immagine dell'uomo portatore della
'coscienza' ne e tra le cose, e, quindi, secondo questo significato, una
particolare idea dell''essenza della filosofia'"[132].
Implicitamente è riconosciuto che la critica carabellesiana dell’intero
sistema della metafisica e della gnoseologia occidentali è talmente
radicale e moderna nel suo essere precorritrice del "complesso e
vario lavoro di smantellamento” che oggi è in atto da poter essere
avvicinata a quella di Heidegger[133].
Ma Carabellese non è "filosofo del negativo" né di radicale
rottura proprio per la sua formazione varischiana e
rosminiana: egli adoperò, afferma Fanizza in consonanza col Semerari di Storicismo
e ontologismo critico[134] ,
categorie teoretiche del pensiero positivo e si pose non come filosofo
della crisi che portava a coscienza la distruzione della metafisica
tradizionale dell'essere e del conoscere, del soggetto e dell'oggetto,
ma come il ricostruttore di un nuovo ontologismo, dell'unico vero
Essere. L’ontologismo
critico vuole porsi come conciliazione e superamento della scissione tra
la filosofia dell'essere italiana e la filosofia del conoscere
d'Oltralpe, e come rinnovamento della filosofia italiana e proseguimento
- il vero inizio Carabellese lo vede in Rosmini - della filosofia
contemporanea. La filosofia europea, seppur scissa tra conoscere ed
essere, ha un falso presupposto comune: l’oggettività dell'essere e
la soggettività del conoscere, per cui l'essere non conosce e il
conoscere non è. Realismo e teismo e idealismo e soggettivismo, nel
rispettivo trascendentismo e immanentismo, pur nella falsità di quel
presupposto comune, sono conciliabili nel concetto di Coscienza, di cui
l'Essere in sé, in quanto Oggetto, è Principio, e in cui il
conoscere, in quanto soggettività, è ineliminabile.[135] Carabellese,
coniugando Kant con Rosmini, vuole eliminare la scissione data dal falso
presupposto comune, tenendo conto delle esigenze
insopprimibili che pure le due filosofie portavano con sé come proprio
patrimonio - l'Essere come Oggetto e Principio della Coscienza, il
conoscere nell'ineliminabilità della sua Soggettività - per riportare
la filosofia sulla strada maestra dell'idealismo assoluto. E’
in questo percorso che si iscrive l'ontologismo critico, o idealismo
concreto, il cui perno è la Coscienza che "[...] non
muore anche quando muoia l'umanità tutta."[136] Nell'innesto
di Kant su Rosmini che Carabellese consapevolmente opera è rinvenibile
la radice della concezione carabellesiana del rapporto tra Dio come
Oggetto puro di Coscienza e i soggetti, che più tardi si articolerà
secondo un altro piano dell’Essere come rapporto tra Principio e
Termini. In questa radice, per cui pensare è pensare Dio, Carabellese
ripone la "formula del suo ontologismo critico o idealismo
concreto".[137] La
critica alla rosmininiana pluralità delle forme dell'essere come
residuo realistico porta all’affermazione dell’Essere unico, di cui
idealità oggettiva e realtà soggettiva sono non forme diverse, ma
condizioni intrinseche e inseparabili, che ne definiscono l’una
l’unicità, l’altra la pluralità, e che, “insieme, individuano in
concreta coscienza l'essere, e in concreto essere la coscienza”.[138] Nella
concezione della Coscienza o Concreto come Essere-Sapere gnoseologia e
metafisica si saldano nella critica al realismo – non inteso nel senso
forte che noi gli attribuiamo - come sensismo e materialismo, che,
opponendo empiricamente l’essere come materialità (divenire) e il
conoscere come rappresentazione fenomenica, accomuna in sostanza
realisti e idealisti. E’ Berkeley per Carabellese che scoprì l’empiricità
di tale opposizione tra essere e conoscere, pur non sapendo poi
conseguentemente affermare la Coscienza che esige l'Essere,
l'Essere che è Coscienza: la spiritualità nella sua unicità, Dio, e
nella sua singolarità, noi coscienti.[139] La
Coscienza è dunque l'aspetto dell'Essere che nel linguaggio
carabellesiano assume il nome di Concreto, e cui egli dedica quella Critica
del Concreto che anche nell'echeggiare la Criti ca kantiana
e porsi come sua continuazione mostra il progetto consapevole e
ambizioso di una ripresa critica della metafisica. Ma il Concreto in
Carabellese si identifica con la coscienza intesa nell'accezione metafisica
del termine ossia come Coscienza che pervade tutto l'essere e che non si
limita dunque al piano umano né della coscienza empirica né della
coscienza in generale in senso kantiano. Fenomenismo e umanismo
antropocentrico - afferma Carabellese - costituiscono gli errori delle
concezioni tradizionali della coscienza. Assistiamo qui a un ulteriore
spostamento dell'asse kantiano dal problema gnoseologico al problema
metafisico, perché il concetto di coscienza appunto viene letto come
omnipervasivo e riguardante tutto l'essere, tanto che Carabellese, che
la definisce "l'ambiente omnicomprensivo non soltanto umano ma
ontico", afferma nel suo periodo critico che non è la coscienza
che appartiene all’essere ma l'essere alla coscienza. In questo senso,
il tardo seppure presente interesse di Carabellese per l'attività
spirituale umana, dopo gli anni in cui Carabellese medesimo proclamava
il suo antiumanesimo, di cui veniva pure accusato nell'agone pubblico
dell'intellettualità, è leggibile come mirante a inserire anche
l'attività spirituale umana nel sistema dell'Essere che Carabellese
veniva definendo negli ultimi anni della sua vita, ma che non ebbe il
tempo né di essere organizzato in una pubblicazione né di essere
completato nel suo disegno. Questo inserimento dell'attività spirituale
umana in un tentativo di sistema è proficuamente
interpretabile come tentativo di sostenere che anche al livello
dell'attività spirituale umana è possibile rintracciare una razionalità
solo apparentemente irrazionale che contribuisce a sostenere l'essere in
senso hegeliano. Ma l’antiumanesimo carabellesiano, nonostante questa
realistica interpretazione del posto che l’attività spirituale umana
occupa nel sistema dell’essere, rimane. Su ciò torneremo anche in
nota più volte, poiché per quanto Carabellese interpreti realmente il
necessario e indispensabile ruolo dell’io nel rapporto con Dio, e
dunque dia valore all’attività spirituale umana come sua possibile
espressione, tale espressione e tale valore non sono assoluti né unici,
ma ridefiniscono il posto stesso dell’uomo nel sistema dell’Essere,
che rimane comunque anti, o a, antropocentrico, denotando lo sguardo
avanzatissimo di Carabellese, e non consentendo alcuna interpretazione
critica in tal senso. Vi
è già qui, nella concezione della Coscienza come Essere-Sapere che
esige l’Essere come punto di arrivo di tutto il percorso dell’ontologismo
critico, l'esigenza del disegno di una nuova metafisica. In essa la
Coscienza esige l’Essere, il che significa che Essere e Coscienza
sono distinti: il concretismo carabellesiano o idealismo concreto
costituisce un momento di un progetto più ampio, l’idealismo
assoluto. Infatti più in alto dell'ontologismo critico, che fa perno
sulla Coscienza come concreto Essere-Sapere col suo piano sia ontologico
che gnoseologico della pluralità dei soggetti singolari convergenti
nell'Oggetto unico che li fonda, è possibile ipotizzare nel pensiero di
Carabellese, a partire dagli ultimi corsi degli AA.AA. 1943-48, un
idealismo assoluto che si incentri proprio nell'Idea, che nel suo
Essere, e nella manifestazione di questo come processo, comporti una
dialettica tra l'Io e Dio e una logica in cui trova posto l'attività
spirituale umana. Dice infatti Carabellese: "[...] il valore è più
profondo del fenomeno: è essere e non soltanto divenire [...] il valore
è spirituale e lo spirito non è una proprietà dell'uomo [...] è ben
più che una proprietà: è l'essere nella sua integrità."[140] Questo
ontologismo integrale è la spiritualità dell'Essere[141],
o Essere integrale come Spirito. L’ontologismo critico o
ontocoscienzialismo come metafisica dell’Essere di Coscienza puro
costituiva in Carabellese a un tempo il punto di arrivo del percorso
dell’ontologia critica e il punto di partenza della metafisica critica
come scienza dell’Essere, di cui l’Essere di coscienza puro
costituiva un elemento, da costruire nella prospettiva per noi ancora in
fieri della metafisica della Ragione Assoluta. E'
Carabellese stesso, in più luoghi della sua opera, a definire il suo
proprio ontologismo critico non tanto come sistema quanto come scoperta
dell'Essere di coscienza puro che, presupposto imprescindibile
dell'attività consapevole umana, richiede alla filosofia di indagare la
sua radice prima, la Qualità pura dell'Essere, Dio.[142] E’
questo il lascito carabellesiano ai suoi allievi diretti e indiretti, ciò
che Carabellese non potè fare perché preso a stendere il sistema
dell’ontologismo citico: indagare, oltre la qualità pura
dell’Essere come coppia circolare Dio Io, il vero Dio, l’Assoluto.
Occorre dire inoltre che la rappresentazione grafica circolare con la
quale Carabellese conclude il primo volume de L’Essere e la sua
manifestazione. L’Essere nella dialettica delle forme, molto utile ai
fini della stessa comprensione delle tre dispense di cui si compone la
parte I, pone al centro del cerchio la Coscienza qualitativa,
ossia la Qualità pura, Dio. In questo senso l’ontologismo
critico è, come afferma Carabellese, scoperta dell’Essere di
coscienza puro, che infatti sistematizzerà nelle prime tre dispense.
Nell’ontologismo critico come scoperta dell’Essere di coscienza
puro, "L'essere unico è costitutivo della coscienza come suo
oggetto puro, e perciò Idea, della quale i molti enti singolari sono
quindi soggetti. (…) Perciò solo l'ontologismo è vero e profondo
idealismo. Quello presentatosi finora come tale da Fichte in poi, non è
idealismo ma umanismo, in quanto presuppone alle idee l'uomo, del quale
sarebbero idee (rappresentazioni) le cose."[143] Al
di là della distanza dall'idealismo soggettivo stigmatizzato come
umanismo nella sottolineatura del valore metafisico dell’Idea e della
necessità di un decentramento dello sguardo filosofico dall’uomo a
Dio e all’Essere, l’ontologismo critico, nel quale la soggettività,
pur decentrata e non più umanistica, assume su di sé un nuovo
valore forte, pone Carabellese in antitesi con l'esistenzialismo, se
questo è inteso come filosofia dell’esistenza finita dell’uomo.
Questa presa di distanza si evince dal suo intervento nel dibattito
sull’esistenzialismo in Italia intitolato appunto Esistenzialismo
o ontologismo critico?[144],
del 1943, sebbene alcuni critici mettano in rilievo come i rapporti
teoretici non fossero così univocamente oppositivi come ad un primo
sguardo potrebbe sembrare, al di là della fondamentale diversità
rispetto alla concezione della soggettività e alla concezione della
filosofia come metafisica[145].
Ma sull’assunzione del concetto, ci verrebbe da dire,
dell’esistenzialismo in Carabellese occorrerebbe fare un lungo
discorso. Qui diremo solo che per Carabellese sono l’essere per la
morte, la concezione negativa del Nulla e l’angoscia la linea di
confine vera con l’esistenzialismo. Il
pensiero carabellesiano in altre parole si presenta in questa fase
matura ma non ultima come filosofia che guarda già oltre, all’Essere
e all’Idea come esigenza della Coscienza, ma nel contempo, come per
tirare le fila del percorso sin lì compiuto, si riconosce
come ontologismo critico che ha nell’Essere di Coscienza puro la prima
emanazione dell’Essere, e nella Coscienza universale il suo fulcro, la
quale, fondamento dell’attività spirituale umana, trova la sua radice
prima nella Qualità pura dell'Essere, Dio. Così filosofia e teosofia
si fondono, del che Carabellese sembra essere consapevole quando, nello
stesso scritto, per le prime linee di una teosofia critica rimanda alla
sua Dialettica delle forme[146]. Infatti
in questo progetto di una nuova metafisica idealistica doveva trovare
posto il programma di una dialettica diversa da quella hegeliana, in
cui i distinti non fossero opposti, perché appunto
l’opposizione è un residuo empirico e materialistico, la distinzione
è speculativa e spirituale: il distinto, come dice Platone nel Sofista,
è il diverso, non l’opposto, non è negazione assoluta, ma negazione
relativa, non è nulla ma essere, che ha una sua realtà propria,
appunto distinta. Si vuole ricordare qui l’importanza della
correlazione in Carabellese tra la categoria di distinzione e quella di
penetratività, che è interpretabile nella direzione del flusso
continuo e ritornante su se stesso, in cui identità e distinzione sono
in relazione. Questo
programma di una nuova dialettica diversa da quella hegeliana è
espresso chiaramente: "Una tale dialettica critica noi tendiamo ad
istituire; e perciò essa non è antitetica ma intensiva." [147] Tale
dialettica intensiva è quella che connota il processo spirituale, il
quale per Carabellese non è soltanto dall'indistinto al distinto o
dall'indeterminato al determinato, come in Hegel, ma è anche il
“rituffarsi del determinato nell'indeterminato, del distinto
nell'indistinto, del singolare nell'unico, dell'esplicito
nell'implicito”, poiché altrimenti tale processo spirituale sarebbe
un infinito pluralizzarsi, che si allontana sempre più dall’unicità
che è il suo Principio.[148] La
categoria di intensione, o intensività, è appunto quella che connota
il flusso dei distinti, quando questi si ritrovano sullo stesso livello
dell’Essere. Carabellese
comincia ad affrontare solo negli anni 1943-48 la stesura del suo
sistema metafisico. In questo periodo Carabellese è ormai da tempo
all'Università di Roma, dove siede contemporaneamente come ordinario
sulla Cattedra di Storia della Filosofia dal 1929 al 1946, e poi, dal
1944 sino al 1948, anno della morte, come incaricato, mentre siede sulla
Cattedra di Filosofia teoretica, succedendovi alla morte di Gentile e
passandovi da quella di Storia appunto nel 1944. Sono anni
fecondi proprio per l'interazione tra i due insegnamenti, che gli
consentono di far confluire i suoi studi sull'unico scopo di stendere
finalmente il disegno della sua metafisica, che però rimarrà inedito,
e a nostro parere incompleto in senso diverso da quello riconosciuto:
tale senso non è quello che mancò a Carabellese il tempo per stendere
ciò che lui stesso aveva ipotizzato, come afferma Giuseppe Pinto e come
tutta la critica carabellesiana sostiene, ma nel senso che a partire da
Carabellese stesso è possibile ipotizzare, a monte della sua nuova
metafisica, un approfondimento della radice dell’Essere sia in campo
reale con l’Assoluto, sia in campo gnoseologico con l’intuito, di
modo da coniugare, cito il mio maestro Giuseppe Cantillo, “ratio e
inventio”. Gli studi di Storia della Filosofia proseguono il suo
progetto di inserire l'ontologismo critico all'interno di una nuova
visione dello sviluppo della filosofia, esemplarmente oggettivata nel
ricordato Disegno storico della filosofia italiana come oggettiva
riflessione pura, che inizia con la filosofia orientale (indiana e
ebrea) e greca (sia presocratica che aurea) e si incentra sulla
"rivoluzione", sono parole di Carabellese che sottolineamo per
la vicinanza alle tesi hegeliane, della filosofia del Cristianesimo, a
partire dalla sua coesistenza con l'ellenismo e proseguendo con la sua
trasformazione in "teologismo e istituzione", sino alla gnosi
e all'apogeo della Patristica interrompendosi con Agostino. Sarebbe
importante ai fini di una comprensione approfondita del suo disegno
metafisico, che trova spazio ed espressione nei contemporanei corsi di
Filosofia Teoretica, stabilire in quest'opera (l'unica in cui la
trattazione di Gesù, più volte richiamato nelle sue opere, è tematica
e non episodica e di sfuggita) il ruolo preciso che Carabellese
assegna alla figura di Cristo, non solo per confrontarlo con il Gesù
hegeliano e vederne le eventuali vicinanze teoretiche ancora una volta
al di là del proclamato antihegelismo carabellesiano, ma anche per
ribaltare il giudizio di parte della critica che vuole questo stesso
disegno metafisico distante dalla filosofia cristiana, e per comprendere
sino in fondo quanto invece questo disegno metafisico non fosse un
tentativo, al di là della critica carabellesiana all'attualismo
gentiliano come filosofia del cattolicesimo (non del Cristianesimo), di
ricomprendere anche la filosofia del Cristianesimo all’interno di un
quadro di sviluppo del pensiero di cui anche Carabellese individua le
radici a Oriente, e quindi ancora una volta vicino all’idealismo
tedesco: per fare ciò si dovrebbero dunque tenere contemporaneamente
compresenti il disegno metafisico degli anni 1943-48 e il disegno
storico-filosofico, come noi abbiamo accennato a fare. C'è da
sottolineare inoltre come questo Disegno, l'unico corso storico
romano certo tra gli altri che sarebbero da stabilire, sia rimasto, come
dice Sabarini nell'Avvertenza all'opera, incompiuto per la morte, e
che dunque nelle intenzioni di Carabellese dovesse coprire un arco molto
più vasto di storia della filosofia, passando per la Scolastica e
giungendo all'età moderna. Così come occorre ancora sottolineare che
dal Disegno si evince che la ricerca storico-teoretica di
Carabellese di questi anni romani sulla Cattedra di Storia della
Filosofia, che si oggettiva anche ne Le obbiezioni al
Cartesianesimo[149] dei
corsi universitari degli AA.AA. 1938-39 e 1939-40, mostra appunto la
direzione e lo scopo che questi corsi di storia dovevano avere:
rileggere l’intera storia della filosofia occidentale anche nelle sue
radici indiane e ebraiche per coniugare, nell’Essere unico eterno ab
aeterno e in eternum e spirituale, l’Essere che permane
con l’Essere che diviene. Il problema è giungere all’Essere non
eterno e non infinito (denominazioni ancora fisiche, e dunque
materialistiche, anche della spaziotemporalità, che inoltre richiamano
specularmente caducità e finitezza), all’Assoluto. E questo, al di la
della sua stessa consapevolezza intenzionale, è nelle stesse intenzioni
di Carabellese, anche se forse solo retroattivamente leggibile.
Carabellese definisce l’io, lo spirito, come spazio puro, da
congiungere con l’Essere infinito ab infinito e in infinitum:
nell’oltrepassamento del carabellesiano sistema dell’Essere che si
propone ai nostri occhi, è da costruire, o meglio ri-costruire partendo
dal lascito carabellesiano, servendosi del confluire di strumenti
come ratio e inventio, e delle intuizioni pure, oltrepassando il
Dio che dice “Fiat lux”, che pure è in grado di congiungere con
arte scienza, filosofia e religione[150],
e giungendo all’Assoluto, il sistema dell’Assoluto stesso. Contemporaneamente
alla reinterpretazione storica del pensiero occidentale alla luce di una
preciso progetto teoretico - che metodologicamente possono essere scissi
soltanto a posteriori ma che sarebbe invece fecondo far interagire, come
ha iniziato a fare Valori -, in cui abbattere i confini tra
Oriente e Occidente insieme a quelli tra religione – o meglio teologia
- e filosofia nella superiore sintesi della teologia come teismo,
Carabellese stava iniziando a stendere il suo sistema metafisico
sull’Essere e sulla sua manifestazione, iniziando da
quest’ultima attraverso l'argomento dei corsi di Filosofia Teoretica
dei tre Anni Accademici 1943-44, 1944-45 e 1945-46 all'Università
di Roma su L'Essere e la sua manifestazione[151],
di cui ci rimangono le dispense universitarie poi edite. Al L'Essere
nella dialettica delle Forme, che costituisce la Prima Parte della
speculazione carabellesiana sulla manifestazione dell’Essere,
afferiscono appunto il volume così titolato, quello specifico sulla
legge dialettica, ossia La dialettica, e quello su La realtà
e l'attività spirituale umana. Ma il sistema dell'Essere trova
espressione anche in almeno un altro corso incentrato non più
sull'Essere e la sua manifestazione, ma proprio sull'Essere, di
cui ci rimane la dispensa dell'anno accademico 1946-47
riguardante la Seconda Parte , quella sull'io[152].
Noi ipotizziamo dunque che se le condizioni intrinseche inseparabili
dell' Essere sono il Principio e i Termini, fosse nelle intenzioni di
Carabellese, a partire dalla trattazione carabellesiana dell'io ne L’Essere:
io e del suo vero significato - che è metafisico nel senso dell'ontologizzazione
della soggettività singolare come pluralizzazione della
radicalizzazione dell'Io puro kantiano, trattato quest’ultimo infatti
da Carabellese nelle tre dispense della Dialettica delle forme come
circolo Dio Io -, una Prima Parte de L’Essere – non deL’Essere
e la sua manifestazione - che fosse di supporto a un corso
sull’Essere in sé inteso non più triadicamente come
Idea-Principio-Sostanza – momento successivo all’Uno -, ma come
Assoluto, il vero Dio di Carabellese[153],
nel senso che noi ipotizziamo, ripetiamo anche a partire dai corsi di
storia, che Carabellese avesse in mente tale futuro corso teoretico
sull’Essere in sé o Assoluto, ma non abbia fatto in tempo a svolgerlo
per il sopraggiungere della morte. Solo così, con un'attenta
riflessione sulla scansione e diversificazione dei vari corsi teoretici
che compongono il sistema metafisico di quest'ultimo periodo che
vorremmo appunto definire metafisico per distinguerlo da quello che lo
stesso Carabellese definì il suo "periodo critico" maturo
seguìto al suo "periodo precritico", è possibile, anche
sulla base dell'articolazione interna dei corsi stessi, e quindi anche
del sistema, parlare di un vero e proprio sistema metafisico, da
ricostruire a posteriori anche perché, sebbene la sua stesura
– ma non la sua elaborazione - avvenisse, attraverso i corsi stessi,
in modo, ci si scusi il bisticcio, sistematico secondo un piano di
successiva gradualità, in modo parallelo, ossia tenendo
compresenti contemporaneamente i vari livelli e i vari piani in cui si
articolava la ricerca, avveniva pure l’improvvisa emersione per
iscritto di intuizioni che fanno presagire a noi oggi un progetto più
approfondito. Ma è necessario appunto preventivamente tenere distinti
l'insieme dei corsi su L'Essere e la sua manifestazione –
ossia L’Essere nella dialettica delle forme, La dialettica e L’attività
spirituale umana - che pure è il primo cronologicamente ma non
logicamente, e l'”insieme” dei corsi su L'Essere –
costituito nei fatti dal solo L’Essere: io - che
a noi invece sembra il primo logico anche se non cronologico e di cui ci
rimane appunto soltanto la seconda parte, l'io, ma che evidentemente
ne prevedeva una prima che soltanto per la sua maggiore complessità,
oltre che per il sopraggiungere della morte, non è oggi qui con noi. In
questo senso del corso sull'io dell'anno accademico 1946-47 non
bisogna disperdere il valore. Tale valore, che affonda le radici nella
radicalizzazione carabellesiana dell'Io trascendentale kantiano e nella
generale radicalizzazione del pensiero kantiano, afferisce a quel
rapporto tra Principio e termini su cui Carabellese si è soffermato più
volte negli ultimi lavori. Non bisogna in altre parole trascurare, di
questa radicalizzazione, lo spostamento su di un piano nettamente
metafisico in cui l'Io trascendentale kantiano viene
radicalizzato metafisicamente nell'io puro, ognuno di noi pensanti,
laddove il noi è riferito non ai soli pensanti che vivono. Così da un
lato l'Io è unico per tutti – in questo senso è Uno -, nel senso che
accomuna nell'identità la pluralità degli io particolari e infiniti
non più nell'intersoggettività e nell'alterità
esistenziale, che pure si ritrovano nel corso di cui stiamo discutendo
come sua prima parte, ma in quell'unicità di coscienza
(trascendentale ma radicalizzata metafisicamente) che, pur contemplando
la diversità, è pur sempre identico, nell’infinita penetratività
degli spiriti. Dall’altro l’io è quello che Carabellese ha definito
il ciascuno, l’individualità irripetibile, spazio puro sempre in
rapporto diretto con Dio, l’Essere in sé inteso come Assoluto. Solo
così si completa il quadro metafisico nei suoi quattro punti:
l’Essere in sé, Dio, l’Io, l’io, a cui si deve aggiungere un
quinto elemento, l’Essere nel suo insieme. E siamo ancora
all’interno della religione cristiana poiché ne abbiamo fissato i
quattro punti essenziali del suo simbolo, la Croce[154],
anche se il percorso tracciato si delinea come interno a un orizzonte
che lo ricomprende tutto, appunto l’Essere, che ne costituisce,
diciamo così, l’arco. In questo quadro del sistema dell’Essere, al
di là delle dichiarazioni di Carabellese ed evidentemente della sua
stessa consapevolezza intenzionale, è rinvenibile un nuovo umanesimo
metafisico antropocentrico, o per meglio dire non antropocentrico, ma,
per non dire spiritocentrico, diremo individuocentrico, nel rapporto
diretto tra Essere in sé e io. Tutto
ciò lo stiamo affermando proprio nella convinzione, supportata dalla
lettera carabellesiana, che L'Essere e la sua manifestazione e L'Essere siano
due distinte direzioni di ricerca di Carabellese pur all'interno di uno
stesso disegno metafisico, e che dunque alla seconda parte sull'io manchi
una prima parte ne L'Essere, e non che lo stesso io costituisca
la seconda parte de L'Essere e la sua manifestazione. Questa parte
che noi riteniamo dispersa o non svolta da Carabellese per la sua
scomparsa è ipotizzabile - a partire dall'assunto fondamentale dell'ontologismo
non solo carabellesiano di un rapporto immediato, diretto e intuitivo
tra l'io e Dio di ascendenza agostiniana, ma ancor prima brahmanica, e
discendenza hegeliana – essere costituita dal vero Dio cui Carabellese
stava pensando, l’Essere inteso come Assoluto (in concordanza col
rapporto diretto che Carabellese più volte stabilisce tra Dio e io,
Principio e Termini). Il sistema dell'Essere si articolerebbe in quest'ipotesi
nel suo primo livello in L'Essere: L’Essere in sé e io, nella
considerazione dell'Essere non nella sua manifestazione ma come attività
che ha esigenza di manifestarsi (l'esigenza essendo il primo, la
potenza, e la manifestazione il secondo, l'atto), secondo un disegno di
carattere metafisico che è da verificare se e quanto lontano non tanto
dal dogma trinitario quanto dal tau. Il tau in questo senso è
infatti l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, ripresa dal
cristianesimo delle origini e identificata col Messia, Cristo, che
annuncia il Regno di Dio, poi ripresa dai francescani per ricollegarsi
al Cristianesimo delle origini (Carabellese faceva parte del modernismo)
e usata nell’alfabeto greco da Ipp. 895, Pl. Phaedr. 244, Crat. 394 (Rocci)[155]. Vorremmo
però, per essere estremamente chiari su questa ipotesi dell’essere
l’io in correlazione con una parte non svolta da Carabellese, infine
dire che in realtà noi stessi abbiamo in mente due interpretazioni
diverse, e non escludentisi, del percorso metafisico carabellesiano:
l’una è in riferimento alla coppia circolare Dio Io, l’altra alla
coppia verticale Dio io, l’una è svolta, e oggetto di analisi
critica, l’altra è solo ipotizzabile, l’una è posta sul medesimo
livello dell’Essere, l’altra su piani sfalsati non aventi lo stesso
valore, l’una è ancora interpretabile nei termini di Persona e
avocabile al cristianesimo, nonostante le reiterate lontananze
carabellesiane da tale impostazione – quella di Persona e quella di
Creazione, anche non intesa come unicum una tantum - del
problema di Dio, l’altra, proprio a partire da queste lontananze, è
interpretabile in termini di Assoluto. Tornando
a guardare il disegno metafisico non solo oggettivato, la manifestazione
dialettica dell'Essere stesso (nelle sue Forme, nella realtà e
nell'attività spirituale umana) costituirebbe di questo stesso
disegno metafisico di Carabellese il secondo livello, quello
dell'attività nella sua attualità. In tal caso resterebbe salva
l'esigenza carabellesiana della fondazione ontologica dei molti io,
poiché l'Io puro, che nella dispensa in esame è definito alla fine
"spazio puro"[156],
non esclude ma ammette e richiede la pluralità degli io nei quali si
attua, e che infatti costituiscono la prima parte trattata, ma non
l'unica, nella dispensa stessa. Infine sempre a questo
proposito occorre dire che, oltre a verificare, o falsificare, la
possibilità concreta che il sistema dell'Essere nel suo secondo livello sia
una traduzione in termini filosofici del dogma cristiano della Trinità,
è necessario anche analizzare la vicinanza o meno dell'Io identico
nel senso metafisico che si è detto da un lato con Plotino, Leibniz,
Kant, Fichte e Hegel, che Carabellese esplicitamente richiama nella
dispensa stessa, dall'altro la distanza o meno con l'Io come atto puro
di Gentile, tra l'altro notando come la concezione metafisica
carabellesiana dell'Io puro voglia al tempo stesso porsi in continuità
e in rottura con l'intero sviluppo di questo concetto nella filosofia a
partire dai neoplatonici. In
altre parole, per comprendere quello che può a ragione essere definito
il periodo metafisico di Carabellese, rimasto come si è visto
incompiuto a nostro parere non solo “in avanti”, ma anche
“indietro” o a monte, è necessario guardarlo nel suo complesso,
che comprende, oltre all'Essere e alla sua manifestazione dialettica,
anche una logica. Infatti alla contemporanea impostazione di una
logica è infine dedicato l'ultimo anno di corso, il 1947-48, logica che
si incentra inizialmente, come da sottotitolo, su L'attività
spirituale umana. Prime linee di una logica dell'Essere[157]. Riassumendo,
Carabellese stava elaborando anche attraverso i corsi universitari un
nuovo sistema dell'Essere graduato in più livelli ciascuno a sua volta
articolato in più piani: un primo livello, che potremmo dire
dell'Essere in sé, un secondo, dell'Essere nella sua manifestazione o
Essere per sé, se ci si passa la terminologia hegeliana, e un terzo
dell'Essere nella sua logica o Essere in sé e per sé, appena abbozzato
da quanto si evince dalle dispense relative[158]. A
proposito della metafisica carabellesiana, Raniero Sabarini divide il
pensiero del Carabellese maturo in due grandi periodi, il primo critico
e il secondo metafisico. Il periodo critico, che secondo
Sabarini va sino agli anni intorno al 1942[159],
e che noi abbiamo invece anticipato anche sulla base delle lettere a
Croce, nei progetti di Carabellese se non nei suoi scritti, al 1931 de Il
problema teologico come filosofia, come anche Edoardo Mirri per primo
riconosce, è quello in cui Carabellese, radicalizzando il carattere
metafisico dell'apriori varischiano come Essere di coscienza puro,
definisce appunto critico il suo proprio pensiero perché, dice Sabarini,
"la filosofia è riflessione trascendentale sulla coscienza, in cui
la coscienza nella sua attività non è pura parvenza ma ha il suo
fondamento nell'essere, che la qualifica come ‘cum scire’."
Carabellese è allora qui ancora interno al criticismo poiché l'Essere
non viene considerato in sé e per sé, ossia tematizzato in primis "nella
sua assoluta apriorità", ma entra nel discorso filosofico come
apriori della coscienza, da essa richiesto come suo presupposto e
fondamento[160]. Il
periodo di passaggio dalla critica alla metafisica avviene proprio
riguardo alla concezione dell'Essere in rapporto alla coscienza. Da una
parte vi è l'Essere richiesto come esigenza dalla coscienza come suo
apriori implicito, e che si determina nell'attività consapevole, e in
particolare nella filosofia che lo esplicita (l’Essere-Sapere),
dall'altro l'Essere che la metafisica pone non come esigenza e richiesta
della coscienza, ma come affermazione fondamentale, come proprio
cominciamento assoluto e cominciamento assoluto del Tutto della
Coscienza. Secondo Sabarini, il passaggio avviene "perché l'essere
viene connesso al sapere" in un "nesso positivo che li
distingue ma li lega": l'Essere è l'essere che la metafisica
afferma nel Sapere: l'Essere-Sapere. Ma le concordanze tra me e
Sabarini finiscono qui: infatti egli afferma che il cominciamento che
la metafisica afferma è "l'essere sa, il sapere è": "cominciamento
sotteso e fondamento di ogni ulteriore, processuale
determinazione", mentre a noi sembra che oltre il dualismo tra
Essere e Sapere, che è cominciamento ma non è fondamento se non
appunto nel senso di fondamento del processo, vi sia un
livello più elevato in cui tale dualismo è tolto e il primum è
l'Essere, senz'alcun'altra determinazione perché le ha tutte in potenza
e in esso come primum non vi è alcuna distinzione, primum che
tra l'altro segna in ciò la vicinanza vuoi inconsapevole vuoi
consapevole di Carabellese, nel comune cristianesimo, a Hegel, seppure
contrastata dalla polemica carabellesiana sull'astrattezza e la vuotezza
dell'essere hegeliano. Il passaggio dalla critica alla metafisica, che
Sabarini considera concluso dopo il 1942[161],
trova perciò a nostro parere la sua espressione e il suo centro nella
concezione dell'Essere come esigenza della Coscienza: la
Coscienza come nesso inscindibile Essere-Sapere, da un lato, come
cominciamento, rappresenta la manifestazione dell’Essere,
dall’altro, richiedendo come sua esigenza l’Essere stesso, impone di
superarsi nel suo dualismo per guardare proprio questo Essere, o per
meglio dire di manifestare nell’Essere-Sapere l’Essere. Infatti
l’affermazione di Sabarini che "La connessione essere-sapere è
l'affermazione fondamentale, ovvero l'essere che enuncia e scandisce il
suo nome, e il sapere che indica ed esprime la sua realtà."[162] è
possibile intenderla solo se per affermazione fondamentale si intende il
cominciamento non soltanto della manifestazione dell’Essere - ossia
l’affermazione fondamentale che l’Essere fa di se stesso: “Io sono
Colui che sono” – ma anche il cominciamento della metafisica –
ossia l’affermazione fondamentale che la metafisica, come sapere
l’Essere, fa: “l’Essere è”. In questo senso lo stesso
cominciamento è gia un ritorno. Infatti l’affermazione fondamentale
della metafisica deve mirare a oltrepassare, seppure all’infinito, il
dualismo dell'Essere-Sapere, e a coincidere con quella dell'Essere
stesso come primum assoluto. Se l’affermazione fondamentale
della metafisica ha il proprio cominciamento e il proprio fondamento
nell’Essere-Sapere, per cui: "La difficoltà dell'argomento
ontologico tradizionale è così superata: non si tratta di dedurre
l'essere che non si vede da un'idea che si pensa, ma si tratta
semplicemente di sapere l'essere, e di saperlo come assoluto
primo, sì che da tale assoluta primalità si veda sorgere il mondo
nostro umano e società e natura, tutti realmente significanti e
consonanti in esso."[163], pure
la metafisica non si pone soltanto problemi di origine e di storia: è
vero che nel momento in cui, sapendolo, affermiamo l'Essere come primum,
vediamo, e vediamo, dice Sabarini, il tutto come connesso e realmente
dotato di senso e con un proprio Principio. Ma il problema della
metafisica non consiste solo, sapendo l’Essere, nell’affermarlo nel
suo essere Principio cosicché tutto acquisti un senso razionale nella
sua storia e nel suo Principio. Il problema è oltre. Un
altro problema si annida nella certezza, da Sabarini esplicitata, che
l’Essere sia sottoposto nella storia alla propria e alla nostra
affermazione. Sottoporre l'Essere alla affermazione, propria e nostra:
se questa esigenza c'è, è da ritenersi non solo il primo carattere
nella scala della determinazione dell'Essere, ma anche, nella sua
arditezza umana, l'ultimo, quello del ritorno dell'Essere a
se stesso, percorso che può essere visto sia dunque come circolare, che
come lineare dall'alto verso il basso e viceversa. In questo senso il
cominciamento è già un ritorno. Ma questa visione dell'Essere come
atto che si esplica e che dunque ad un livello più alto è potenza che
ha esigenza di esplicarsi – lo stesso dire che è potenza è sottolinearne
una determinazione semmai successiva e avvicinarlo all'io -, non è
avulsa dalle intenzioni di Carabellese che si è sempre tenuto lontano
dalle antropomorfizzazioni di Dio, e dunque dell’Essere, e dall’antropocentrismo,
seppur metafisico? Nella ricerca di una definizione sempre simbolica e
umana dell’Essere e dell'Essere in sé o Idea, che Carabellese
definisce anche l’Ineffabile, come rendere ragione fuori dalle
antropomorfizzazioni e dagli antropocentrismi non solo della
manifestazione dell’Essere (da ricondurre poi a una legge ad essa
superiore), ma anche proprio dell’Essere in sé? Ma tralasciamo queste
domande che oltrepassano l’ambito della manifestazione dell’Essere,
anche perché ne L’Essere e la sua manifestazione, da intendere
in senso rigidamente realistico (in senso stretto), Essere e
manifestazione non sono scissi né distinti, e l’Essere è affrontato
come Essere che si manifesta, come potenza che si fa atto, e non c’è
distinzione nel senso di separazione tra potenza e atto, cosicché è
possibile ad esempio considerare il livello dell’Idea-Principio-Sostanza
come potenza in sé, e potenza avente in sé il suo proprio atto. Si
vuol dire che semmai il problema è nella trinità delle categorie –
categorie da interpretare in senso realistico -, ma non mai nella
separazione tra potenza ed atto o Essere e manifestazione. Tutto il
nostro discorso di questo paragrafo mira solo in sostanza a dire che
anche l’interpretazione realistica che non distingue tra potenza ed
atto poiché fa della potenza un atto in sé (un’esigenza che di
necessità si manifesta senza soluzione di continuità) deve
necessariamente risalire oltre l’Essere - o dare una spiegazione del
suo specchio, il Nulla -, sino all’Assoluto. Sabarini,
al di là del suo limitarsi al sapere l’Essere come Principio e non,
come noi vorremmo in Carabellese stesso, all’Assoluto, proprio
riguardo a questo “veder sorgere il tutto” – ossia la
manifestazione dell’Essere in quanto Principio – e agli strumenti
euristici per giungervi dà un'importante spiegazione della connessione
carabellesiana Essere-Sapere, che peraltro deduce dall'argomentare
carabellesiano, giudicato piuttosto elusivo in materia.
L'Essere-Sapere carabellesiano, più che rifarsi alla tradizionale
opposizione dei due termini interna all'idealismo e al materialismo, è
da ricercarsi nella sua origine nell'argomento ontologico tradizionale
e nella concezione dell'esperienza ad esso sottesa, che evidentemente
Carabellese conosceva e condivideva, pur non esplicitandola. Infatti
per dimostrare l'argomento ontologico vi deve essere un'esperienza
dell'Essere che sorregga l'argomento stesso, esperienza che non è
quella dell'immediato rapporto soggetto-oggetto al quale gli obiettori
dell'argomento ontologico si rifacevano, ma quella che si ha con gli
occhi della mente e che fa leva sull'intellectus fidei. Torna qui
l'importanza della fede per affrontare il cammino verso la comprensione
dell'Essere, così come si inserisce l'intuizione trascendentale e il
rapporto tra fede e sapere di matrice hegeliana. Vi sono
dunque due tipi o piani di esperienza, profondamente diversi tra loro:
l'uno rivolto verso l'"esterno" con gli occhi fisici, l'altro
che guarda questo stesso "esterno" ampliando la portata di
tali occhi fisici mediante l'occhio di Dio o intelletto della fede,
occhio che appunto richiede la fede, ma nel contempo dà vita a
un'esperienza che dilata la visione perché fa leva sull'occhio centrale
- potremmo chiamarlo, invece che l'"occhio della
mente" come fa Sabarini col rischio di dare un significato
troppo restrittivo e fisicalistico a quest'esperienza, l'occhio di Dio,
intendendo con questa espressione non la visione di Dio ma l'esperienza
di Dio, laddove sono ambedue genitivi soggettivi, ma il primo si
riferisce alla visione che ha Dio e il secondo si riferisce evidentemente
all'esperienza che ha l'uomo, un'esperienza non fisica ma spirituale che
si ha attraverso la fede. Ambedue, piano dell'esperienza
"fisica", e piano dell'esperienza dell'intelletto della fede,
sono dunque piani dell'esperienza, che si pongono come in una scala
gerarchica l'uno sopra l'altro. Lo sperimentare ha allora due
significati che non si escludono ma si integrano a vicenda. L'uno è lo
sperimentare dell'esperienza empirica, che riguarda me che vivo e che
morirò, e che nella breve durata dell'atto psichico, misurabile con il
tempo fisico e conservabile mediante la memoria, percepisco più o meno
occasionalmente degli oggetti di esperienza come contigui nello spazio
e successivi nel tempo. E' l'esperienza dell'hic et nunc, "che ha
nella vita e nella morte la sua struttura e la sua misura", e nella
quale la coscienza è separata dall’essere. L'altro è lo sperimentare
pieno e reale delle cose in sé, in cui il tempo non è più fisico ma
ontologico, ossia consente la comunicazione tra gli uomini attraversando
i secoli e i millenni[164],
e in cui l'atto dell'esperienza si apre alla realtà in sé, e in questa
apertura vi è la presenza dell'Essere nella sua visibilità[165].
"Questo, e non altro, sono le cose in sé: e sono tali perché
squarciano l'opacità e la miseria dell'attimo empirico, limitato e
sempre morente su se stesso, e si affermano come tangibile
presentazione dell'essere, e perciò qualificate della essenzialità
(eternità) dell'essere. [...] questo coglierle e vederle e
saperle in questa intima connessione, è ciò che Spinoza chiamava
‘scire sub aliqua aeternitatis specie’; e sono le cose che Dio creò
‘valde bona’."[166] In
questo senso, nella esperienza della cosa in sé, che è
esperienza come "possesso che dura" perché attraversa il
confine tra la vita e la morte e "per durare non ha bisogno di
sopravvivere nel tempo esteso, ma ne raccoglie tutte le dimensioni
riassorbendole in sé", "infinite distanze temporali e
spaziali" si annullano in un tempo che é non "più
frattura, ma pienezza". Questa esperienza che non ha più la
propria "struttura e misura nella vita e nella morte, ma
nell'essere, è il sapere". Ecco perché Essere-Sapere, laddove
l'argomento ontologico tradizionale trova la propria dimostrazione non
nel passaggio dalla possibilità alla realtà, ossia nella deduzione
dall'idea all'essere, passaggio e deduzione irti di difficoltà, bensì
nell'esperienza del sapere l'essere che si fonda sul cominciamento primo
dell'Essere-Sapere e che trova la propria giustificazione nel fatto che
"affermare l'essere è saperlo, affermare il sapere è esserlo”[167]. Qui
la filosofia è divenuta metafisica, ossia affermazione ed esperienza
dell'Essere come "scoperta delle cose in sé, nel loro
esser presentazione dell'essere in e per il quale sono
significanti.", cose in sé che "si sono cercate
nell'iperuranio o in chissà quale altra introvabile regione
dell'essere, e sono invece e sempre sotto i nostri sguardi, purché si
sappia guardare". E qui la filosofia come
metafisica si rifà a Parmenide, laddove l'Essere è ciò che dura, e
dunque il tempo è la qualità dell'essere. "Ricapitolando: l'affermatività
fondamentale è il cominciamento, come connessione essere-sapere, che
si caratterizza come durata, la quale si specifica come tempo, che è
diversificazione qualitativa."[168] Laddove
non si può non dissentire da Sabarini nel momento in cui ci sembra che
il suo sguardo si limiti alla manifestazione dell’Essere e
all’Essere che dura. Non soltanto la metafisica critica dello stesso
Carabellese non si limita alla connessione Essere-Sapere, ma la
oltrepassa interrogandosi direttamente sull'Essere, dove il sapere è
scomparso, poiché evidentemente la stessa connessione Essere-Sapere
appartiene ancora, e di questo Carabellese era consapevole, ad una
visione umanistica dell'Essere, oltreché dualistica, che non può che
trovare il proprio cominciamento, questo sì diretto all’Assoluto,
nell'Essere stesso. L'Essere-Sapere implica ancora l'uomo, o meglio il
soggetto o spirito, dal momento che l'uomo è stato da Carabellese
abbandonato già da subito col parlare di soggetti plurimi che, come
pensanti-che-vivono, oltrepassano il tempo atomisticamente inteso e la
morte. Con ciò non si vuol dire che l'Essere non sia Sapere: sarebbe un
assurdo. Ma semplicemente che al livello dell'Essere, che è per
Carabellese – ma non per noi sulla scia di Hegel - il livello sommo,
questa specificazione non è più necessaria, è implicita. E' per
questo che per la ricostruzione dell'articolazione del sistema della
metafisica carabellesiana sarebbe estremamente importante stabilire de L’Essere, oltre
alla Parte II sull'io, cosa facesse parte come I, qual'è
l'altro Distinto che Carabellese mette in relazione all'io, e che noi
ipotizziamo sia Dio come Assoluto. Infatti, nonostante l’antiumanismo
e i reiterati inviti a non antropomorfizzare Dio e a non cadere nell’antropocentrismo,
Carabellese, pur concependo l'uomo come pensante che vive e negando che
Dio sia Soggetto Universale, pure concepisce nell'Essere il concetto del
Soggetto Universale, l’Io, aprendo il problema della sua
interpretazione in termini dogmatici trinitari. E’ possibile, dopo
Kant e oltre Carabellese, abbandonare qualunque riferimento umanistico
e antropocentrico al soggetto, anche Universale, e guardare
direttamente oltre, nel cuore del problema metafisico, al di là del
processo, che è dialettico nel senso che si è chiarito, al di là
della manifestazione, nella quale trovano posto anche la realtà e
l'attività spirituale umana, al di là del tempo, anche inteso
ontologicamente come durata e dunque qualità dell'essere? E’ ciò che
qui tentiamo di fare, leggendo Carabellese e tenendo conto delle sue
indicazioni, oltre che dei suoi limiti e di quelli che a noi sono
sembrati i suoi progetti in fieri.
9.
Essere e tempo: la storia da divenire a forma della manifestazione
dell’Essere Nel
confronto Hegel-Carabellese specifico sull’Essere-Sapere e sul sapere
l’Assoluto, ci sia consentita una breve incursione che qui ci sembra
necessaria, e non appaia immodesta, nell’ultimo capitolo,
l’ottavo, della Fenomenologia dello spirito, quello intitolato a Il
sapere assoluto. Ciò perché è nostra domanda implicita, sottesa alla
trattazione seppure superficiale del problema dell’Assoluto in
Carabellese, dovuta anche, come si è detto, ai suoi sporadici
riferimenti, se e in che rapporti si trovi il sapere con la ragione, o
se si vuole il Sapere con la Ragione – quale comprenda, e
tolga, l’altro, non solo in Hegel, che è cosa nota, ma anche in
Carabellese e, vorrei dire, nella filosofia d’oggi, oltre che nella
realtà -, domanda metafisica che comporta l’altra, di carattere
gnoseologico: se, in qual modo, donde, con qual fine e perché l’io
possa sapere l’Assoluto. Considero illuminante questo capitolo
hegeliano su Il sapere assoluto ai fini di questa breve
digressione sull’aspetto specifico dell’Essere-Sapere come presa di
distanza di Carabellese da Hegel più retorica che fattuale – sebbene
da considerare attentamente negli scopi finali, i veri motivi della
polemica e della scissione – lungo il corso del suo intero arco di
riflessione e meditazione. Ciò perché in quest’aspetto si ritrovano
motivi da Carabellese sviluppati e ripresi, anche se spesso deviati nei
fini e nei significati, e forse è qui la causa – se di filiazione (Carabellese
conosceva la Fenomenologia ?) e non di autonoma genesi si
può parlare – del silenzio di Carabellese su fonti, o stimoli, del
suo pensiero che noi appunto ci chiediamo se, e in che forma, conoscesse
(problemi di introduzione delle opere hegeliane in Italia, o di loro
lettura in originale, oltre che di curriculum studiorum – in
senso letterale - di Carabellese stesso). Infatti questi
motivi sono da lui, se conosciuti, sottaciuti, e renderli chiari, oltre
a costituire in sé servigio alla letteratura, aiuta nella comprensione
del suo pensiero. Ci sembra di poter ritrovare pure in Hegel il concetto
carabellesiano di Essere-Sapere, già da noi analizzato anche in
rapporto agli stimoli sabariniani in direzione del livello dell’Essere
origine e genesi – Genesi, si potrebbe dire – dell’essere, e se
Hegel tratta l’essere-sapere dal punto di vista dello spirito e della
sua fenomenologia, ossia da un punto di vista storico che richiede il
tempo e lo fonda – in ciò, vedremo, apparentemente lontano da
Carabellese, sempre attento a sconfessare il tempo storico e diveniente
-, questo livello fenomenologico-storico di Hegel è possibile, e qui
entra Carabellese, solo se si pone l’Essere-Sapere come stato
originario, ossia come fondamento di questo stesso sviluppo dello
spirito. Ma bisogna intendersi sulla latitudine da dare al monismo
dualistico dell’espressione Essere-Sapere in Carabellese e sul
significato dunque della Genesi: genesi di che cosa? Non dell’Essere,
poiché il livello della Genesi dell’Essere è dato dalla triade
Essere: Dio Io, laddove l’Io è Soggetto e Dio è Oggetto. La genesi
cui qui, nel livello dell’Essere-Sapere, si fa riferimento, non è
quella dell’Essere, potremmo dire la Genesi assoluta, la
Creazione. E ’ viceversa la genesi successiva, quella che vede
l’Essere-Sapere come stato originario e genetico dello sviluppo
parallelo e circolare della coppia Dio Io, per cui l’Io dice
“l’Essere è” e Dio dice “Io sono colui che sono”. E’ la
genesi dell’identificazione tra filosofia e pensiero di Dio, laddove
il genitivo è a un tempo soggettivo e oggettivo. Questo stesso porre
l’Essere-Sapere come stato stato originario di tale identificazione
pur nella distinzione Dio Io (anche qui una triade, anche se nel livello
inferiore, quello della scissione, Essere-Sapere: Dio Io) è ciò che fa
Carabellese sulla scia della sua (nostra?) reinterpretazione del Vecchio
Testamento, ossia di quello stato mitologico dello spirito – la
religione positiva intesa come rappresentazione - che Hegel considera
un’oggettivazione da togliere, stato rappresentativo che anche in
Carabellese è possibile considerare stato positivo, anche per
Carabellese da superare, di un suo intrinseco teismo profondamente
reinterpretato e non tradizionale. Solo in questo senso
dell’Essere-Sapere come fondamento dell’essere che sa, e del sapere
che è, ossia nell’ottica del superamento, di cui Carabellese vuol
costituire l’asse, della scissione tra filosofia del conoscere e
filosofia dell’essere su tutti i livelli in cui la filosofia si
articola, è possibile interpretare, in uno dei suoi molteplici livelli
e significati possibili, Il sapere assoluto sin dal
sottotitolo, Il contenuto semplice del Sé che sa sé come
l’essere, come primo stimolo, se di stimolo si può parlare,
dell’Essere-Sapere carabellesiano. In questo senso l’Essere-Sapere
è momento originario, e ritorno come fine del movimento che dà origine
a sua volta allo spirito come sapere di Sé, ossia come Sé, presupposto
– non apriori ma storico - del sapere l’Assoluto, ed è momento
originario del movimento stesso. E l’Essere-Sapere ha a contenuto –
contenuto, non oggetto, afferma Hegel – lo spirito assoluto,
l’Assoluto. Altra
cosa che ci appare importante ne Il sapere assoluto, e che si
delinea come un’incomprensione carabellesiana di Hegel, è il concetto
di alienazione. Se Carabellese la vede solo come movimento negativo, per
l’opposizione che essa pone dell’oggetto come altro, essa è da
considerare invece in Hegel, come si è detto più volte a proposito
dell’Aufhebung, stato necessario e positivo, necessario e
positivo, come afferma Hegel, non solo per noi (che guardiamo), ma
anche, oltre che in sé, per l’autocoscienza stessa. E’ ovvio, ma
vogliamo ripeterlo esplicitandolo ulteriormente, che qui si sta
interpretando questo movimento a partire dall’Essere-Sapere
carabellesiano, e nella direzione della coppia qualitativa Dio Io
interpretabile non solo come Oggetto-Soggetto, ma anche come Persona, e
perciò autocoscienza, che trova nella filosofia il suo spazio
d’espressione. In questa chiave interpretativa dell’alienazione come
stato necessario e positivo dell’autocoscienza nel movimento verso il
Sé che passa per lo stato Io=Io (confronto-riconoscimento),
l’iniziale nullità dell’oggetto nell’alienazione di sé
nell’oggetto stesso, nullità che è originaria immediatezza e
semplicità dell’oggetto stesso come cosa in genere – l’Oggetto,
in Carabellese Dio, o meglio quello che è un livello di Dio -, si
trasforma nella progressione del movimento in Universale, cosicché
l’oggetto come intero è il triadico movimento verso il singolare, dal
singolare, verso l’Universale. Questo movimento definisce l’oggetto
come Io in rapporto al soggetto come Io, cosicché si ha il
confronto-distinzione-omogeneità Io=Io, confronto nel quale l’Io del
Soggetto che attua il movimento (e in ciò è Dio, essendo il movimento
Dio Io) viene al Sé – ossia alla sua essenza o interiorità (Hegel
dice che è interno) - nelle sue varie forme dell’esser
certo di se stesso, dell’esserci e del sapere di sé, ossia viene
all’assoluta essenzialità intesa come autocoscienza morale: è questa
che sa l’essere come sapere. Dunque, in Carabellese, il livello di Dio
denominato Essere-Sapere fonda e a un tempo è ritorno (principio e
termine) dell’autocoscienza morale come essere che sa, sapere che è.
In questo senso l’autocoscienza morale è sottesa a tutto il movimento
dal principio al termine. E, afferma Hegel, essa autocoscienza morale,
in quanto Sé, seppure non ancora nella forma del sapere assoluto, e
dunque conchiuso, può porsi come coscienziosità che agisce e che sa
quest’azione come fondata nel puro sapere che il Sé ha di sé. Ma il
sapere dell’Io è veramente sapere sol allorquando raggiunge, dopo il
movimento dal singolare all’universale all’essenza, l’Io stesso,
ossia quando sapere dell’Io e Io si identificano, per cui il singolo Sé
è immediatamente puro sapere o sapere universale.”[169] L’unificazione
dello spirito a partire dalle due forme dell’essere in sé (la
religione, che ha a contenuto l’Assoluto, o meglio, afferma Hegel, il
contenuto assoluto dello spirito) e dell’essere per sé (la coscienza)
deve essere l’unità semplice del concetto. Tale concetto è già dato
nella coscienza intesa come autocoscienza, ossia ancora opposizione,
altro lato (movimento), della riflessione, ma è dato, afferma Hegel,
nella figura dell’anima bella, ossia dello spirito che sa se stesso
come unità pura e trasparente: “non soltanto l’intuizione del
divino, ma l’autointuizione del divino.”[170] Nella
linea ideale che Carabellese traccia come linea maestra dell’idealismo
- Platone, Plotino, Bruno, Galilei, Cartesio, Spinoza, Leibnitz, Vico,
Kant, Rosmini -, l’idealismo concreto si pone dunque come una tappa
verso l’idealismo assoluto. In questa linea ideale, la via che
potrebbe condurre Carabellese ad un ripensamento in positivo dei suoi
rapporti con l'hegelismo, e che mostra tutta l'attualità del suo
pensiero, è il riconoscimento carabellesiano del legame tra Kant ed
Hegel sia nell'innalzamento della dialettica contraddittoria della
ragione dal piano gnoseologico al piano metafisico di legge di movimento
del reale come spirito, sia del ruolo della contraddizione,
che da valore negativo come in Kant assume valore positivo di motore,
potremmo dire, del reale: "[...] non solo la vera conoscenza, ma la
realtà stessa è proprio questa dialettica kantiana, che proprio per il
suo contraddirsi è vera. [...] La metafisica è riguadagnata, in
quanto è riconosciuta come logica dialettica."[171].
E ancor più questa precisa e puntuale considerazione del rapporto
teoretico tra Kant e Hegel viene alla luce quando Carabellese parla di
una "genesi critica" della dialettica contraddittoria di Hegel
e di una trasformazione del pensiero critico in metafisica[172]. In
questo riconoscimento del piano speculativo e reale e non meramente
riflessivo e gnoseologico della dialettica nel passaggio da Kant ad
Hegel, i motivi che conducono Carabellese a non ricomprendere anche
Hegel e l'hegelismo nello sviluppo dell'idealismo da lui tracciato, ma
anzi nel considerarlo come la figura conclusiva della filosofia moderna
che considera l’essere separato dal conoscere, sono ancora sottaciuti.
Nonostante tale affermazione dovrebbe essere seguita da un ponderoso
studio di confronto tra Hegel e Carabellese tutto da fare, pensiamo di
aver se non altro suggerito che il pensiero carabellesiano è una
metafisica anch'essa in qualche modo di derivazione hegeliana, una
metafisica che non può pensarsi senza Hegel. Il suo tentativo di
sviluppo in senso metafisico del criticismo kantiano, infatti, non
poteva non risentire dell'hegelismo in alcuni elementi fondamentali
della sua metafisica, come, in primis, il sapere l’Essere nel
rapporto diretto e immediato tra Dio e io, e poi l'immanenza di Dio e
l'essere il Concreto sia una sua manifestazione sia un'attività che si
esplica attraverso la legge dialettica. Certo una metafisica di
derivazione anch'essa hegeliana, ma che di Hegel rifiutava come formale
e contraddittoria la sua dialettica già in opere molto precedenti a L'idealismo
italiano: in Che cos'è la filosofia?, del 1921, i riferimenti
polemici alla logica dialettica hegeliana si condensano
nell’affermazione che è un assurdo la sua pretesa di volersi
sostituire alla logica comune, dalla quale invece la vera e propria
logica filosofica deve derivare, perché sarebbe un non senso poter
immaginare una logica in contraddizione con quella comune. Per
Carabellese bisogna abbandonare sia l'opposizione dialettica che
l'elevazione del divenire a legge del reale, per ricondurre il divenire
stesso alla sua natura di apparenza. E’ la contraddittorietà della
dialettica hegeliana in altre parole il più radicale motivo
di dissenso dall’idealismo hegeliano, che, espresso ne L'idealismo
italiano come accusa di conservare nella negatività un presupposto
realistico e di essere dunque la "negazione dell'idealismo",
viene ripresa in Da Cartesio a Rosmini[173], dove
si afferma che a causa della negatività l'attività dell'Essere in
Hegel è empiristica e non ontologica, e perciò "schiettamente
umanistica", conducendo per un verso al solipsismo, per l'altro
all'astratto gnoseologismo: in tal modo l’attivismo hegeliano si pone
fuori dall'idealismo concreto. Dunque una metafisica che
risentiva di Hegel ma che di Hegel rifiutava la dialettica, seppure ad
una dialettica alternativa a quella hegeliana l'ultimo Carabellese
giungesse: la dialettica è in Carabellese come in Hegel la legge metafisica
di sviluppo della realtà, ma Carabellese la concepisce, a nostro parere
non penetrando quella hegeliana sino in fondo, come intensiva
e penetrativa, non come alternativa e negativa. Il problema ha
un’importante ricaduta nella concezione del tempo - il rapporto con l'hegelismo
riguardo al problema del tempo è visibile anche ne La coscienza
morale, del 1915[174] - e
della storia, che infatti porta Carabellese a rifiutare lo storicismo a
lui coevo. Carabellese
non concorda con la linea interpretativa di Meinecke e di Croce che
considerano lo storicismo la seconda grande rivoluzione del mondo
moderno dopo la Riforma protestante, ambedue da attribuire
alla Germania, né con Croce che ne rintraccia i prodromi in Vico, ma
anzi reputa lo storicismo e l'hegelismo come la negazione
della storia vichiana[175].
Il rapporto di Carabellese verso lo storicismo da inesistente come nei
primi anni del suo itinerario filosofico si fa polemico[176] in
modo via via più consapevole e maturo, fornendo spunti per la
comprensione della sua metafisica: negli anni in cui, tra il 1914 (data
di pubblicazione de L'Essere e il problema religioso. A proposito
del 'Conosci te stesso' di B. Varisco, dallo stesso Carabellese
indicata come data di inizio del suo periodo precritico) e il 1921
(data di pubblicazione della prima edizione della Critica del
concreto[177],
ma anche anno di pubblicazione del saggio Che cos'è la filosofia?[178],
ambedue a conclusione del suo periodo precritico e a inizio del periodo
critico, in cui comincia ad elaborare anche sulla base
dell'interpretazione originale di Kant il proprio ontologismo critico),
e poi tra il '21 appunto e il 1931 de Il problema teologico come
filosofia, che può essere considerato l'inizio del suo periodo
metafisico finalizzato all'elaborazione di una metafisica critica, e
ancor più il 1934, a cui risale il discorso su L'essenza
della filosofia[179],
(dove Carabellese ribadisce il ruolo della filosofia come
filosofia prima), dicevo negli anni in cui, tra il 1914 e il 1934, o più
ancora il '42 del già ricordato Che cos'è la filosofia?, Carabellese
viene prima elaborando l'ontologismo critico, e poi impostando la
metafisica critica che troverà espressione nei corsi degli anni 1943-48
su L'Essere, su L'Essere e la sua manifestazione e su L'attività
spirituale umana. Prime linee di una logica dell'Essere – e ci
sembra di suggerire così che non vi è termine, se non umano, nella
formazione di un nuovo pensiero filosofico -, il problema della storia e
del suo rapporto con il tempo accompagna sotterraneamente Carabellese,
che vi prenderà posizione in modo esplicito, se si esclude l’articolo
del 1915 su La realtà dei fatti storici[180],
soltanto nella maturità. Non che Carabellese ricerchi una
possibilità di dialogo con lo storicismo, la cui impossibilità era
stata anzi stigmatizzata dalla celebre accusa di Croce alla sua
filosofia di inconcludenza sublime, accusa da Carabellese prontamente
ribaltata in motivo di orgoglio contenutisticamente motivato. Piuttosto
Carabellese prende posizione rispetto allo storicismo della sua epoca
non solo nel ricordato Storicismo o ontologismo critico, del
1941 - dove il fulcro della polemica, al di là dell’incomprensione
della riduzione della coscienza alla cultura, è nell’identificazione
della Coscienza con il Soggetto – ma anche attraverso scritti come
quei Problemi filosofici della storia pubblicati nel
collettaneo Il problema della storia del 1944[181],
da confrontare con quel La storia apparso già nel 1925 negli
altrettanto collettanei Scritti filosofici pubblicati per le
onoranze nazionali a Bernardino Varisco nel suo LXXV anno di età[182].
E qui un'analisi filologica comparata dell'eventuale mutamento del
concetto di storia intercorso tra il '25 e il '44, ossia
tra il Carabellese ancora legato all'eredità filosofica varischiana e
ai suoi quadri di riferimento e il Carabellese maturo ormai decisamente
spostato, secondo noi, verso una ricomprensione dell'hegelismo nella
necessaria articolazione dialettica della sua metafisica, mette
in evidenza in modo circostanziato quella che si presenta come una
sostanziale distanza del concetto carabellesiano di Essere da quello
di divenire, inteso questo nel pensiero carabellesiano come
apparenza fenomenica ma non come sostanza della manifestazione
dell'Essere. Secondo Carabellese l’Essere non diviene, ma è: nella
storia dell’Essere, il divenire è apparente poiché in esso i momenti
del tempo sono intensivi – cioè coeterni - e non estensivi, per cui
il processo è sì manifestazione dell’Essere[183],
ma non è né un processo evolutivo[184] –
l’evoluzionismo essendo in filosofia, in assoluta coerenza con la
concezione carabellesiana del tempo, “naturalismo presocratico”[185] –
né un processo che riguarda soltanto l’uomo. Questa distanza spiega
le ragioni più profonde dell'opposizione di Carabellese allo storicismo
a sé coevo: il rifiuto della storia come processo diveniente che si
attua nella scissione tra uomo e natura e nel privilegiamento della
coscienza come facoltà umana[186].
Il riconoscimento esplicito a Vico e il forte senso del processo
dell'Essere come manifestazione - che non si identifica con l'Essere
inteso come Assoluto - significano allora che nella storia, che è
storia di tutto l’Essere, ossia storia metafisica, si ha l’immanenza
di Dio, la cui trascendenza come Principio significa solo la sua
inesauribilità nella concretezza ma non il suo essere al di là di
essa. E in questa storia che è vichianamente manifestazione divina in
figure dello spirito non soltanto umane – Carabellese fa riferimento
alla acentralità dell’uomo non solo rispetto alla “natura”, ma
anche nel cosmo, con la possibilità di altre intelligenze - si fa
visibile l’eterna Provvidenza. Questa storia non è divenire ma
attività, fare, perché è “una grande falsificazione
intellettualistica di Kant concepire la sintesi come sintesi di tesi e
antitesi”: “(…) l’attività si consegue con l’essere, il
fare non esclude ma richiede l’essere. Chi dimentica questo
principio non può che porre il fare come un disfare (negatività dello
spirito) non può che scambiare l’attività (essere) con la sua
apparenza (divenire)”[187]. Il
valore della filosofia moderna è appunto nel riconoscere che “(…) l’essere
è fare e non stare al di là di ogni fare”[188]. L’essere
in sé e il divenire non sono scissi, ma anzi - è la grande scoperta di
Kant - vi è “unità concreta dell’essere che diviene.”[189],
per cui il divenire ha la sua legge nell’essere, e questo la sua
realizzazione nel divenire, anche se in Kant ancora vi è un concetto di
tempo come fenomeno, per cui l’essere rimane al di là del tempo. Qui
si inserisce il riconoscimento carabellesiano a Hegel, da interpretare
nel senso del realismo della Wirchlichkeit cui abbiamo più
volte alluso. Per Carabellese Hegel, nel togliere la distinzione tra
l’in sé e il divenire dell’atto, sostituisce nella
metafisica la concezione statica dell’essere naturale con quella
dinamica del divenire spirituale, dando piena espressione metafisica
alla concretezza kantiana e eliminando il valore fenomenico del tempo:
in ciò il suo valore storico. Con lui “(…) la realtà diventa
concreta e continua realizzazione. (…) Il manifestarsi temporale è la
stessa realtà concreta. Essere e apparire sonounum et idem, perché
l’essere è attività che si manifesta, e l’apparire è il
manifestarsi dell’essere.”[190] Ci
sembra qui di poter inserire il concetto di continuo, in particolare
come connessione tra fisica e metafisica che riguarda, oltre al tempo e
alla storia, anche il problema del rapporto tra potenza e atto[191]. Nel
contesto delineato, il problema della "storicità come vita
dell'Essere concreto", secondo un'espressione felicemente coniata
da Fulvio Tessitore in un suo complesso intervento[192] ,
è apparentemente in Carabellese totalmente assente: egli non parla
mai di una storia dell'Essere concreto come vita della realtà, sia
perché individua nel termine vita una connotazione, seppure anch'essa
ontologica nell’essere rapportata all'Essere concreto, che può dare
adito a malintesi esistenziali o biologistici, sia forse perché non
vuole confusioni con il concetto cristiano di amore come vita
universale, sia soprattutto perché riserva restrittivamente il termine
vita all'individualità singolare dei pensanti-che-vivono e il termine
storia alla storia umana. Perciò che la realtà sia "storia e
nient'altro che storia", e che questa storia sia hegelianamente
Spirito nel suo "perpetuo crescere sopra se stesso", come la
riflessione storicista più recente viene così profondamente
esplicando, trova anche il Carabellese maturo apparentemente distante, a
meno di non interpretare, come lui stesso invita, lo Spirito nel senso
di spiritualità, che attuandosi esplicita l’implicito crescendo
appunto vichianamente “sopra se stesso”: solo in questo senso si può
parlare in Carabellese di un processo come "crescita dello
Spirito sopra se stesso", processo spiraliforme che
svolge l'Essere e avvolge l'essere[193],
in cui la temporalità è intensiva. Infatti se Carabellese non parla
mai di una storia dell'Essere concreto come vita della realtà, ciò non
significa che rifiuti una concezione dinamica dell'Essere concreto come
processo, dal momento che anzi per lui il tempo ha un valore ontologico. Egli
parla piuttosto di un Essere, che non è l'Essere concreto, che nel suo
manifestarsi diviene processo come manifestarsi dell'Essere in un
processo che è storico in quanto avviene nel tempo, cosicché il tempo
è il tempo del processo: solo in questo senso la dimensione del tempo
è in lui[194] sintomaticamente
presente. Infatti per quanto Carabellese coniughi l'essere con il
divenire, questa coniugazione avviene al livello della manifestazione
dell'Essere, ma tale attività dell'Essere concreto come
processo che ha come cooriginario il tempo non esaurisce l'Essere
stesso: al livello dell'Essere concreto come essere-divenire o attività
Carabellese parla di durata intensiva, all’interno della quale
soltanto hanno senso e valore i concetti di principio e termine.
Pertanto si può dire che egli risente comunque della concezione
hegeliana della temporalità, ossia di una concezione ontologica del
tempo inteso come originaria forma dell'Essere, ma non al
livello dell'Essere. Infatti è da distinguere, pena l’incomprensione
della sua metafisica, il piano della manifestazione e il piano della
durata. Se l’Essere si manifesta, e dunque anche muta nel divenire –
pur nella permanenza della sostanza -, non per questo muta
nell’Essere, o meglio muta l’Essere: la manifestazione è al tempo
stesso un mutare e un permanere identico. E’ per questo che il tempo
è coeternità, ossia che i momenti del tempo non sono successivi e
discreti – ossia atomistici -, ma, pur nella loro distinzione,
penetrativi – potremmo dire continui in senso stretto -, per cui il
presente è sempre anche passato e futuro, il passato anche presente e
futuro e il futuro anche presente e passato, nella loro intensività che
Carabellese fa risalire ad Agostino. Nel La
storia, il saggio del ‘25 in onore di Bernardino Varisco,
Carabellese si inserisce nel dibattito sulla natura e lo statuto della
storia contestando quelle posizioni che riducono la storiografia, in
quanto storia di fatti che non sono più, a una creazione ideale dello
storiografo: nel ritenere mal posto e ozioso il dibattito sulla natura
scientifica o estetica della storia, Carabellese le attribuisce anche un
carattere estetico (in quanto espressione), ma soprattutto vi vede la
necessità di una sintesi tra libertà e dovere scientifico, che fa
rivivere il fatto storico “morto” attraverso il presente e il futuro
che continuamente riscrivono quel fatto in modo nuovo. La storia[195] è historia
rerum che implica la res gestae, operazione di conoscenza
che lo storico attua nel presente sulla res gestae intesa come
creazione umana del passato che viene rivissuta (Carabellese, con
evidente accento diltheyano, dice sentita e voluta) nel presente dalla historia
rerum. Ribadendo che la riflessione filosofica deve far
ricorso alla concretezza della coscienza comune se vuole uscire dalle
morte formule dogmatiche e ritrovare l'impulso al proprio rinnovamento,
Carabellese ritrova nella coscienza comune la visione della storia
come accadere razionale di fatti, e da qui prende le mosse per
delucidare la propria riflessione sul tempo in senso ontologico,
mostrando come una concezione che consideri nullo il passato, in realtà
nullifichi anche il presente, e con ciò tutto l'Essere. Carabellese
vede la radice di questa negazione della storia nella millenaria
concezione che vuole l'Essere come eterno in sé al di là del tempo, e
il tempo, in quanto mutamento, come fenomenicità, come parvenza, come
non essere. Appellandosi all'urgenza di una riforma dell'estetica
kantiana, vista come ulteriore affermazione della fenomenicità del
tempo, Carabellese le oppone una metafisica del divenire che concepisce
l'Essere come un Essere che diviene, dunque un Essere come attività
alla quale è cooriginario il tempo. All'idea hegeliana del tempo come
temporalità essenziale allo Spirito nel suo manifestarsi, che
condivide, rimprovera però di privilegiare uno solo dei momenti del
tempo, il presente, ribadendo invece la compresenza e coessenzialità
di tutti e tre i momenti, passato, presente e futuro, che sono non
estensivi ma intensivi, per cui in ogni momento vi è sempre compresenza
e coessenzialità di presente, passato e futuro, cosicché il divenire
non si fonda sulla contraddizione. Alla temporaneità empirica che il
divenire implica come successione atomistica di istanti posti
estrinsecamente gli uni dopo gli altri con un inizio e una fine, Carabellese
oppone la temporalità che è cooriginaria all'Essere concreto come
durata eterna che non ha né inizio né fine, perché intensivo
e non estensivo[196]. C’è
qui la precisa contestazione dell'idea di eternità sia come assenza di
tempo, sia come eterno presente: per Carabellese “bisogna andare
ancora più in là”, e vedere l'eternità come infinità temporale,
assoluto tempo, temporalità da non confondere con la temporaneità. Se
in questa i tre momenti del tempo sono empiricamente e
fenomenisticamente reciprocamente escludentisi, in quanto circoscrivono
praticamente le singole cose che in essi accadono, in quella passato,
presente e futuro sono reciprocamente implicantesi, in quanto essi
rappresentano le forme essenziali in cui l'Essere si determina. E
questa reciproca implicazione come intensione e non estensione dei
momenti del tempo è esemplificabile dal fatto che la determinazione del
prima e del poi non è assoluta, ma è una questione di prospettiva che
cambia a seconda del punto di vista dal quale ci si pone nell'osservazione:
la temporalità pura non è successione. Identificare la temporalità
con la temporaneità, la durata con la successione, è errore che
appartiene ancora a una visione statica e intellettualistica
dell'Essere. Ciò che Carabellese contesta, in altre parole, è sia l'ontologismo
tradizionale della visione statica dell'essere, sia il realismo del
divenire empirico, seppure trasposto sul piano metafisico. Per quanto
anche per lui l'Essere è attività, tale attività non ha una direzione
temporale estensiva, ma intensiva: i momenti del tempo ontologico -
della temporalità - si coimplicano, e questa coimplicazione avviene
dall'eternità come durata che implica come reciprocamente immanenti la
realtà (presente), il fatto (passato), e la possibilità (futuro):
l'essere è sempre anche essere stato e dover essere. Allora,
"[...] la storia è intesa come scoperta dell'essere [...] e suo
sviluppo inesauribile. In questo disegno la storia della filosofia è il
processo di sviluppo in cui si articola la fondamentale affermazione
metafisica che ad essa presiede [...]. Dalla semplice affermazione:
l'essere è, passiamo così ai suoi caratteri: mentale (Anassagora), in
quanto idea (Platone), e perciò principio di coscienza, ecc. La storia
è pertanto processo progrediente, e cioè sviluppante, ciò - l'essere
- di cui è svolgimento."[197] Questa
stessa concezione ontologica del tempo nella sua cooriginarietà
all'Essere che si manifesta era già chiaramente espressa nella Critica
del Concreto, dove infatti Carabellese afferma che i momenti del tempo
sono i “soli fondamentali concreti” momenti dell'Essere. La
concezione ontologica del tempo, che non è né quella realistica
prekantiana né quella idealistica kantiana di matrice platonica,
corregge il pregiudizio che tempo puro sia successione come rapporto di
prima e poi, e considera il tempo come pura esigenza temporale della coscienza,
la cui durata intensiva è il reciproco penetrarsi delle sue forme: gli
irriducibili passato, presente e futuro sono - come forme - momenti
eterni dell'unica durata[198],
che è l'Essere. La
polemica contro gli storicisti della sua epoca, che a suo parere
dimenticano la concretezza (e ci è parso di aver se non altro suggerito
l'infondatezza di questa posizione carabellesiana alla luce delle
posizioni più recenti dello storicismo italiano) -, si iscrive dunque
nel percorso dell’ultimo Carabellese, che ne L’Essere e la sua
manifestazione procede alla razionalizzazione del processo in
sistema[199].
La comprensione da parte del soggetto del processo come sviluppo da un
lato risente ancora dell'ottimismo illuministico, dall'altro richiede al
soggetto la comprensione non del solo significato, ma anche del senso
complessivo del processo stesso: un innalzamento del soggetto al punto
di vista dell’Assoluto e alla fine sempre provvisoria del processo
stesso che fa essere la filosofia appunto, la nottola di Minerva.
Carabellese coniuga il senso razionale del processo con l’elevazione
del soggetto, dell'uomo come pensante-che-vive – interessante
ripetiamo sarebbe istituire un parallelo con la concezione simmeliana
del “più-vita” e “più-che-vita” -, al piano ontologico,
conservandogli in ciò, oltre alla propria libertà, la propria
responsabilità, la propria azione morale. Perciò egli mostra un forte
senso della storia anche dal punto di vista della storia della filosofia[200].
Il rischio di appiattire il suo pensiero su di un'ontologia di tipo
tradizionale, ossia unilateralmente oggettiva, esiste allora solo per
chi la leggesse in modo superficiale e sbrigativo, mentre essa si pone
se non altro in consonanza con le direzioni più innovative della
ricerca filosofica europea, oltrepassando le tradizionali categorie
dell'essere e della sostanza, e coniugando a livello della
manifestazione dell’Essere l'essere con il divenire nel senso che si
è sopra chiarito. L’Essere carabellesiano non è statico e immobile,
ma un Essere che è manifestazione, movimento, attività, divenire nel
tempo: un Essere che viene all'essere. Quantunque perciò egli si ponga
sempre in posizione fortemente polemica nei confronti dell'idealismo
hegeliano - per la non accettazione del privilegiamento del presente e
della risoluzione dell'Essere nel divenire - pure il suo sviluppo
metafisico del criticismo kantiano riconosce un debito all'hegelismo
nello stesso concetto di Concreto come Essere che è attività.
10. Sintesi a priori fisica e sintesi a priori metafisica. La critica a Kant: la costruzione di una sintesi a priori metafisica e
la ricerca di una critica dell’esperienza di fatto Ma
torniamo ad analizzare più nel profondo, scendendo ora
nell’analisi dei testi, il proficuo rapporto che Carabellese instaura
lungo tutta una vita con le opere kantiane. Kant
secondo Carabellese rappresenta il terzo momento della conoscenza dopo
quello di Cartesio e Hume, il primo che impostò il problema
dell’origine e il secondo quello del valore della conoscenza, eppure
lasciò secondo Carabellese inevaso il vero quesito di Hume, che non
riguardava la conoscenza come scienza, la cui possibilità Kant dimostrò
contro l’affermazione humiana di un’abitudine soggettiva, ma
piuttosto concerneva il problema dell’esperienza empirica concreta.
Kant si è posto la questione quid juris ma non la questione quid
facti: “[…] ha spiegata così la scienza nella sua universalità,
non ha spiegato la esperienza nella sua individuata
determinazione”[201],
cosicché egli ammette una sintesi a priori senza porsi il problema
dell’esperienza nella sua attualità, lasciando in balia dello
scetticismo il problema dell’esperienza: è questo ciò che
Carabellese considera un compito che si apre al pensiero filosofico dopo
Kant, nonostante le correnti empiristiche, pragmatiche e positivistiche,
quello di una critica dell’esperienza concreta. Ecco uno dei motivi
che sono all’origine della Critica del concreto, che Carabellese
ha gia già pubblicato in prima edizione nel 1921 e poi ripubblicherà
nel 1940 e nel 1948. Gli altri Carabellese li esplicita in
una citazione del 1931, illuminante perché in essa egli non si ferma
soltanto al piano dell’esperienza concreta, ma investe direttamente il
problema dell’essere concreto, e dunque dell’attività spirituale
non soltanto umana, distaccandosi dal piano meramente gnoseologico e
ponendosi del tutto sul piano ontologico: “ La Critica […]”,
dice infatti Carabellese ne Il problema teologico come filosofia,
“non può più essere quello che Kant istituì […], non può più
essere soltanto critica della conoscenza […], deve diventare critica
della coscienza, cioè critica della concreta attività spirituale,
critica dell’essere nella sua concretezza […]. La Critica ha
posto capo all’essere come noumeno, e cioè essere
che è coscienza […]. Scoperta la concretezza e cioè l’immanenza
dell’essere in sé come puro oggetto, ad ogni atto con cui la
coscienza del soggetto si realizza, non ci basta più e non è più
necessario neppure sapere come è possibile conoscere […].” E poi
continua con una citazione famosissima della Critica del concreto:
“Al problema kantiano: <<come è possibile conoscere?>>
bisogna quindi sostituire l’altro <<come è possibile
essere?>>. Così la
Critica da problema della scienza diviene problema della stessa
coscienza. Sembra un ritorno a una vieta ontologia dogmatica, ed è
invece il logico sviluppo della conoscenza critica della realtà
[…].”[202] Il
nucleo della critica carabellesiana non tanto e non solo a Kant, quanto
ai suoi successori, è rintracciabile in quell’intellettualismo e
gnoseologismo che hanno voluto ridurre il reale portato della Critica a
mera critica della conoscenza. All’intellettualismo allora bisogna
sostituire per Carabellese il coscienzialismo, ossia una visione della
realtà che privilegi, più che l’intelletto, strumento riduttivo
della conoscenza e della scienza, la coscienza, intesa da un lato come
attività spirituale umana nella sua globalità, ma dall’altro, e ben
più profondamente, come essenza della realtà stessa, ossia non
soltanto come coscienza soggettiva e umana, ma come coscienza assoluta.
La scienza, in questo orizzonte, diviene marginale, in quanto il suo
strumento, l’intelletto, che scinde la realtà in soggetto e oggetto,
non è in grado di cogliere l’essere: “[…] non si può, senza
cadere in un illuminismo intellettualistico e realistico, proclamare la
scienza guida unica e somma dell’attività spirituale umana.”[203] In
questo, e soltanto in questo senso, la filosofia, e dunque la metafisica
come sua massima espressione, non è scienza bensì sforzo, ma ciò non
vuol dire che sia “Volo lirico o annullamento mistico”, poiché né
pura attività fantastica, né trascendenza del soggetto in un Oggetto
posto fuori di sé, perché anzi l’Oggetto puro che il soggetto
ricerca è costitutivo del suo essere, e non è l’altro da sé, ma è
l’in sé. Egli infatti sottolinea come il risultato della Critica
kantiana – l’inconoscibilità dell’essere in sé al livello della
sintesi a priori kantiana – comporti poi come sua conseguenza
esplicita nel pensiero postkantiano che l’essere in sé divenga pura
negazione, e contesta che tale conseguenza sia inevitabile. Egli vuole
sottintendere che l’inconoscibilità dell’essere in sé della
Critica esclude la metafisica dall’ambito delle scienze particolari,
ma non dall’ambito del sapere, perché l’inconoscibilità sensibile
non implica la negazione dell’essere in sé, ma solo la sua esclusione
dal campo della conoscenza sensibile sia a priori che a posteriori. Il
punto è infatti che per Carabellese quest’esclusione dell’essere in
sé dal campo della conoscenza sensibile è accettata per affermare la
positività, e diremmo noi la conoscibilità, dell’essere in sé a un
livello più alto e profondo, a livello non della semplice conoscenza,
ma egli dice della coscienza, ossia del sapere della ragione. Infatti,
dopo aver detto che nella Critica vi è contraddizione tra
l’affermazione della cosa in sé e l’esigenza della sua negazione,
egli invita a credere non tanto alla lettera kantiana, quanto al vero
risultato della Critica: “[…] Kant esplicitamente affermava come
risultato fondamentale della sua Critica l’inconoscibilità
dell’essere (cosa in sé). Ma è veramente questo il risultato della
Critica? […] il risultato vero della Critica, invece, è la noumenicità
dell’essere in sé come puro oggetto, cioè la riduzione della cosa in
sé a Idea. In breve il risultato della Critica è la dimostrazione che
l’essere in sé è l’oggetto della coscienza […] tale essere, pur
pensabile, è assolutamente inconoscibile, in quanto è principio della
conoscenza, ma non è immanente a questa. “[204] Dunque,
dal momento che l’essere in sé è principio della conoscenza, esso è
inconoscibile non nel senso che non se ne può avere esperienza, ma nel
senso che quest’esperienza non è quella delle scienze particolari e
sensibili: esso è oggetto della coscienza, e quindi oggetto del sapere,
non immanente ma trascendente la conoscenza intesa come conoscenza
particolare. Inoltre, Carabellese vuol dire che la Critica ,
nel suo intento e nel suo punto di partenza è indagine sulle possibilità
della metafisica come scienza, nel suo punto di arrivo – vista
l’impossibilità di una sintesi a priori metafisica, almeno appunto
nella Critica, poiché essa richiede il senso per il soprasensibile e
dunque sarebbe in contraddizione con se stessa – è indagine sulla
possibilità della conoscenza come esperienza
della scienza particolare fisico-matematica: il conoscibile in Kant è
ciò che risulta dalla sintesi a priori, e dunque in tal senso
l’essere in sé è l’inconoscibile, ossia è escluso dall’ambito
della conoscenza, intendendo per conoscenza l’ambito della scienza
fisico-matematica e delle sue applicazioni particolari. “Perciò, per
Kant, la proclamata inconoscibilità della cosa in sé, nonostante la
non meno proclamata sua pensabilità, voleva dire l’irriducibilità
della cosa in sé entro gli estremi della scienza,[205] voleva
dire che l’astratto in generale, cui la scienza arriva, non può
essere la stessa cosa in sé, che è l’Oggetto unico assoluto. Kant
certo non vide questo che era implicito al suo pensiero e perciò tentò
di costruire una metafisica con le leggi fisiche ritenute a priori
proprio quando egli le mutuava dalla metafisica, metafisica che perciò
non poteva riuscirgli: rimaneva irrimediabilmente fisica nella sua forma
scientifica. […] La cosa in sé di Kant è quindi l’irriducibile a
scienza. E intesa in tal senso l’inconoscibilità kantiana è
giustificabilissima […].”[206] La
critica carabellesiana alla Critica di Kant va qui molto a
fondo: una metafisica come scienza non è costruibile sulla base degli
stessi apriori che regolano le scienze fisiche, e dunque è
necessario andare oltre la Critica kantiana. In base ad essa,
la cosa in sé è irriducibile a scienza, non è oggetto di
una sintesi a priori, e nemmeno di una qualunque esperienza. Ma
per cercare di approfondire il concetto carabellesiano di esperienza,
cosa che ci appare necessaria dal momento che la costruzione della
metafisica come scienza del soprasensibile non deve escludere
l’esperienza, una forma di esperienza di livello diverso
dall’esperienza comunemente intesa e dalla sua attuazione, ci sembra
più agevole preliminarmente soffermarci sul suo collegamento al
concetto di metafisica: se la metafisica deve essere scienza apriori del
soprasensibile[207],
e scienza si dà per Kant solo con la sintesi a priori, non soltanto
diviene centrale per la fondazione della metafisica critica il concetto
di sintesi a priori metafisica, ma anche più in generale il concetto di
sintesi a priori, che comporta il concorso del concetto e
dell’intuizione, laddove essa sintesi a priori è per Kant “[…]
riferimento essenziale di un’entità logica all’esistenza reale
[…] Da una parte è quel precritico e critico <<più>>,
che caratterizza l’esistenza […] Dall’altra l’immanenza del
pensiero logico nella realtà […]”[208],
immanenza nella realtà che è secondo Carabellese la grande
scoperta di Kant. E
quel “più” dell’esistenza risulta al soggetto proprio attraverso
quella via conoscitiva fino a Kant considerata fallace: il senso o
intuizione, che, collaborando con l’intelletto, è proprio la capacità
realistica dello spirito che ne rende possibile il passaggio dalla pura
logica alla realtà[209].
Come si vede, qui, in questa fase non ancora tarda del pensiero
carabellesiano, l’intuizione è considerata uno strumento euristico
capace di dare conoscenza in modo specifico, mentre nel Carabellese
metafisico non si trova più questa scissione tra la realtà e la sua conoscenza
che l’intuizione colma, e che infatti egli definirà “pura
logica”. E ciò proprio perché la stessa pura logica è quella che a
nostro parere l’ultimo Carabellese, superando programmaticamente la
intellettualistica divisione soggetto-oggetto, considera strumento per
accedere all’essenza della realtà. La vera sinteticità è
per Kant, secondo Carabellese, non quella della matematica e della
fisica, scienze fenomeniche, ma quella della metafisica, di cui Kant
deve porre come scienza assoluta almeno l’esigenza, se non vuole
sconfessare di fatto anche la possibilità della scienza fenomenica
ritrovandosi in quella posizione scettica che Hume aveva determinata. Ne
Il problema teologico come filosofia, Carabellese
sembra individuare come risultato della Critica kantiana
l'inconoscibilità dell'essere in sé, dal momento che la
conoscenza viene fondata sulla sintesi a priori
mediante il concorso del concetto e dell'intuizione, per cui l'essere
in sé viene messo ai margini dell'ambito della
conoscenza, non è più oggetto del conoscere, diviene inconoscibile.
In altre parole, l’appunto di Carabellese a Kant consiste nel non
aver risolto il problema che la Critica si era
posto - la possibilità della metafisica -, ma, attraverso la
sintesi a priori, solo quello della conoscenza (scientifico-naturale) [210],
per cui la kantiana inconoscibilità della cosa in sé diviene per
Carabellese il caput mortuum del kantismo. Il problema
fondamentale di Kant, ossia come sono possibili i giudizi sintetici a
priori metafisici, trova in Kant risposta positiva ma non di contenuto
con la Critica perché la sintesi a priori così come
impostata da Kant comporta quella sensibilità che invece la
metafisica, scienza del soprasensibile, esclude. Bisogna, pensa
Carabellese, fondare “la” metafisica, non più dialettica[211]:
essa è il luogo di fondazione dei giudizi sintetici a priori
metafisici, e il suo programma è espresso da Carabellese molto
chiaramente: “Una tale dialettica critica noi tendiamo a istituire; e
perciò essa non è antitetica ma intensiva.”[212] Ne Il
problema della filosofia da Kant a Fichte, del 1929, Carabellese si pone
nei confronti di Kant in maniera ancora più analitica e polemica,
affermando che il Kant critico non riattualizzò il problema
dell’essenza della filosofia, ma, dopo Cartesio e Hume – che
reimpostarono l’uno quello dell’origine della conoscenza, l’altro
quello del suo valore -, solo quello della sua possibilità,
ponendosi come terzo momento (appunto dopo Cartesio e Hume) della messa
a fuoco del problema della conoscenza. Ma Kant manca di radicalità nel
definirne chiaramente come problema fondamentale l’essenza perché la Critica parte
da un presupposto intellettualistico: da un lato accetta la filosofia
come scienza, dall’altro ritiene ancora valido il dualismo
soggetto-oggetto, ossia la loro intellettualistica divisione. La
polemica carabellesiana si incentra nell’argomento che il vero quesito
di Hume è lasciato inevaso, quesito che riguarda, oltre alla conoscenza
come scienza e non come abitudine soggettiva, della quale Kant dimostra
la possibilità, soprattutto il problema dell’esperienza,
che egli invece lascia ancora aperto. Kant insomma risponde al quid
juris – e l’interpretazione della filosofia kantiana come
filosofia trascendentale così come voleva essere elimina il problema di
una divisione kantiana tra realismo e fenomenismo (che infatti in
Carabellese non è mai realmente presente, intendendo egli in una prima
fase del suo pensiero per realismo il realismo empirico, mentre nel suo
periodo metafisico è a Dio che si dà realtà strictu sensu intesa,
come noi in questo scritto vogliamo). Il fenomenismo
eventualmente si pone a valle, ossia come ultimo livello
della coscienza soggettiva che appartiene ancora all’intellettualismo.
Così Kant, rispondendo al quid juris, e non al quid
facti, lascia l’esperienza in balia dello scetticismo, che
accetta implicitamente[213],
e così manca di radicalità perché, partendo da un presupposto
intellettualistico, ritiene ancora valido il dualismo soggetto-oggetto,
ossia la loro intellettualistica divisione. Perciò la sintesi a priori
kantiana, se apre la possibilità della metafisica come scienza, che è
il primo compito che Carabellese individua e fa proprio dopo Kant, pure
lascia inevaso il vero quesito di Hume, ed è questo l’altro compito
del postkantismo carabellesiano: la critica e la fondazione dell’esperienza
concreta[214],
la questione quid facti [215]. Si
vuole dire che la sintesi a priori inserisce il quid dell’esistenza,
quel “più” di cui parla Carabellese con Kant, all’interno delle
forme della sensibilità e delle categorie, universalizzandolo e quindi
facendogli perdere quel senso proprio di particolarità e unicità che
ha invece l’esperienza concreta nella sua fatticità, lasciando
pertanto inevasa la domanda cui poi abbiamo visto risponderà Rosmini[216], che
Carabellese considera infatti un continuatore del kantismo più vero: il quid
facti dell’esperienza, l’esperienza nella sua fatticità, deve
infatti essere lontana dalla soluzione scettica dell’”abitudine
soggettiva”, e in ciò Rosmini è per Carabellese un
caposaldo di tale soluzione reale, poiché mette in stretta relazione
gnoseologia e metafisica. Il Carabellese critico però va oltre, e vuol
fondare sul piano metafisico l’esperienza concreta. Ma
Kant, con la stessa sintesi a priori, apre alla cosa in sé, che, pur
esclusa dall’ambito della conoscenza, ne costituisce il limite, e
dunque vi è necessaria, pertanto ha uno statuto positivo[217].
Ma se la Critica che bisogna istituire è divenuta problema
della coscienza, allargando di fatto il problema della conoscenza e del
suo campo di azione, nonché quello dello spirito umano da investigare,
la fondazione dell’esperienza di fatto implica che tale
esperienza sia della coscienza tutta intera, implica perciò la
coscienza stessa come punto ormai nodale e compito ineludibile della
filosofia fattasi scienza. Insieme alla fondazione della metafisica
come scienza a partire dai giudizi sintetici a priori metafisici, è
questo della risposta al vero quesito di Hume il compito che si apre per
la filosofia dopo Kant in contrasto, come abbiamo visto, con le correnti
empiristiche, pragmatistiche, positivistiche, in realtà votate allo
scetticismo. Ma
se il concreto Carabellese intende sottoporlo a critica appunto con la Critica del
concreto già nel ’21, è, ripetiamo, con il 1931 de Il
problema teologico come filosofia che egli affronta la questione
sul piano metafisico e non più solo fattico: il Concreto – ossia
l’attività spirituale non soltanto umana: il livello metafisico
dell’esperienza concreta, potremmo dire l’universale
dell’esperienza concreta di fatto. Per cui si può affermare che egli
qui si pone oltre il piano trascendentale kantiano intendendo ora la
filosofia trascendentale in senso prettamente realistico: la critica
deve essere ormai quella della Coscienza, in due modi distinti. Nel
primo, la critica del Concreto deve essere quella del Concreto come
“Essere che sa, Sapere che è”, ossia quello che poi egli stesso
definirà Essere-Sapere, da noi considerato uno dei livelli di Dio ma
non quello sommo. Nel secondo modo della sua critica della Coscienza,
Carabellese, al livello dell’io nella sua singolarità, intende
prendere in considerazione la concreta attività spirituale: il livello
dell’Essere nella sua concretezza fattica. Dopo
Kant, il Concreto è l’Essere come Coscienza, ossia l’immanenza
dell’Essere in sé, come puro Oggetto, in ogni atto della coscienza
del soggetto.[218] La
domanda è oramai quella sulla possibilità dell’Essere – e
dell’Essere nella sua possibilità, si potrebbe oggi dire -, e ciò
proprio per sviluppare il criticismo. Per cui il problema è, nella fase
critica di Carabellese, quello del rapporto tra Coscienza e coscienza,
tra Io e io: è un problema che Carabellese affronta già prima
del ’21 con l’opuscolo su La Coscienza morale[219],
del 1914 e conclude provvisoriamente[220]: nel
periodo metafisico ne L’Essere e la sua manifestazione[221] -
in cui il Concreto come manifestazione dell’Essere a nostro
parere diviene Coscienza qualitativa, che supera il dualismo
soggetto-oggetto sia sul piano trascendentale che su quello più
propriamente metafisico -, e ne L’Essere. Parte II. io[222],
per quanto riguarda la coscienza nella sua universalità, l’Io, mentre
la trattazione dell’io di fatto segue e completa il
programma rosminiano appunto di una critica dell’esperienza di
fatto[223].
11. Il rapporto tra noumeno e cosa in sé conosciuto dalla ragione a
partire dal superamento della distinzione tra soggetto e oggetto I
due capisaldi dell’impostazione critica kantiana sono in sostanza da
Carabellese rinvenuti da un lato nella sintesi a priori, dall’altro
nel rapporto tra noumeno e cosa in sé, che Carabellese fonde, nel
prosieguo e sviluppo del suo pensiero, nella ricerca della metafisica
dell’essere degli ultimi anni, in cui abbandona di fatto la metafisica
critica da cui pure era partito. Egli ricerca la conoscibilità
dell'essere in sé a un livello più alto e profondo, a
livello non solo della semplice conoscenza, ma della coscienza,
ossia del sapere della ragione. Sintesi a priori e rapporto
tra noumeno e cosa in sé: nella ricerca della metafisica critica,
Carabellese cerca poi ulteriormente la conoscibilità dell'essere.
Negli anni ’30 del Novecento però già si orienta verso quest’obiettivo:
è necessario infatti, afferma, credere non tanto alla
lettera kantiana, quanto al risultato vero della Critica,
che è, come abbiamo visto, l'inconoscibilità dell'essere inteso come
cosa in sé, ossia “[…] la noumenicità dell'essere in sé come puro
oggetto, cioè la riduzione della cosa in sé a Idea. "[225] Infatti
il vero punto di arrivo della Critica kantiana è per
Carabellese non l’inconoscibilità dell’essere in sé che è un
portato del suo inserimento entro gli estremi della scienza[226], per
cui la cosa in sé diviene l’”[…] irriducibile a scienza
[...]."[227],
avendosi così come risultato la sua esclusione dall’ambito della
conoscenza, ma la sua noumenicità, ossia pensabilità, affermata come
esigenza della ragione, noumenicità che apre la possibilità della
metafisica come scienza nel momento in cui, si potrebbe dire, si tratta
di stabilire come è possibile il passaggio dalla stessa noumenicità
della cosa in sé, esigenza della ragione come sua pura pensabilità
alla conoscibilità e dunque alla scienza del soprasensibile appunto coi
suoi giudizi sintetici a priori metafisici a partire dalle tre idee
della ragione, passaggio che implica come strumenti euristici
l’abbandono del piano del concorso di senso e intelletto e
l’innalzamento al piano della ragione. E’
la ragione lo strumento: la filosofia intesa quale metafisica è perciò
sforzo, di raggiungere quell’in sé più profondo che rivelandosi e
rivelandolo ne permette la trascendenza in termini jaspersiani, o ascesi
di coscienza. In questa argomentazione dell’immanenza dell’Oggetto
è già chiara non soltanto la metafisica della Coscienza come
Soggetto-Oggetto, ma anche a nostro parere sia la distinzione tra Essere
e Coscienza sia quella ben da sottolineare tra Essere[228] e
manifestazione[229]. Nel
periodo metafisico, con la concezione della Coscienza qualitativa come
rapporto Soggetto-Oggetto, Carabellese supera veramente la
loro dualistica e intellettualistica divisione, e trova nella cattiva
interpretazione di Cartesio – altro approfondito oggetto di studio di
Carabellese -, che pure scinde l’essere in res cogitans e res
extensa dando in realtà legittimazione al materialismo, un
punto nodale e centrale di tale disconoscimento del Concreto e del
rapporto soggetto-oggetto, che, nella sottacenza e implicitezza del
soggetto nel suo rapporto necessario con l’oggetto,
risalendo indietro oltre la questione degli universali, affonda le
radici appunto almeno nella teorizzazione del rapporto
universale-particolare di Aristotele, sebbene Carabellese sia sempre
molto critico nei confronti di Aristotele, secondo argomenti che non è
possibile qui affrontare. La
divisione che Carabellese supera nella distinzione Soggetto-Oggetto, che
è relazione circolare, la supera in quella che per lui è
Coscienza qualitativa come uno dei livelli dell’Essere -
quello della manifestazione - che potrebbe essere definito Universale in
Re e viceversa, nel momento in cui si dia alla Res tutto
il valore idealistico e spirituale che Carabellese intende conservarle:
si può infatti affermare che per Carabellese il dualismo cartesiano tra
le sostanze, e il conseguente riconoscimento della materia
come res, non esiste, appunto perché la materia non è sostanza
ma, si potrebbe dire dispregiativamente nel superamento realistico
carabellesiano del dualismo essere-apparire, empiria, ossia falsa
coscienza dell’essere, a meno di non considerarla, come Carabellese
intende fare, spiritualità anch’essa, proprio perche tutta la realtà
è spirito. E'
nella critica profonda al dualismo
essere-realtà-materia/soggetto-spiritualità-forma
che avviene il distacco consapevole di Carabellese da
Kant: è cioè nel considerare la coscienza non più la
mia coscienza soggettiva ma la totalità dell'essere,
la Coscienza universale, che non è neppure
l'Io penso kantiano come coscienza trascendentale che fonda
tutti i soggetti pensanti possibili in un solo soggetto.
Bisogna però intendersi sul concetto di soggetto, se si vuol far
riferimento ai soggetti empirici soltanto oppure includerli nel concetto
di Spirito: di uno Spirito che pervade, che è, tutto, anche la materia.
InChe cos'è la filosofia? è detto: "Corretto l'errore realistico
e stabilito il concetto positivo di realtà e il
concetto pieno di essere come concreto in quanto
coscienza, l'impostazione della critica non può più essere
quella di Kant, che supponeva come realtà la non coscienza,
il non soggetto. Si pone, ed è necessario porre, il problema critico
non più della scienza [...] ma della coscienza in
quanto concretezza, cioè della coscienza dell'essere (coscienza
che ha essere, essere che ha coscienza) [...]."[230] Ma
in questo porre tout court, nel periodo critico,
l’identità tra Essere e Coscienza e la loro reversibilità,
Carabellese lascia fuori e sembra dimenticare il problema del Non
Essere, e, allargando il discorso, del Male, sia
esso pure il male radicale. Omnis determinatio
est negatio, si potrebbe dire, e allora resta il
problema di dare dell'Essere sommo una definizione
omnicomprensiva anche del Male e del Non Essere, ché altrimenti
ce li ritroviamo a minacciarci l'essere così faticosamente raggiunto. La
reinterpretazione del kantismo si attua perciò nell’assunzione di
concetti-chiave del criticismo, di carattere sia gnoseologico (il
concetto di sintesi a priori e quello di ragione) che metafisico
(fondamentali al fine di comprendere il Carabellese metafisico sono i
concetti di immanenza e di oggettivismo), che vengono trasposti appunto
sul piano metafisico e presuppongono una concezione realistica della
realtà intesa come continuum: nell’ordine, il rapporto
soggetto-oggetto[231],
la sintesi a priori, l’intuizione, la cosa in sé, il noumeno,
l’idea, da Carabellese analizzati approfonditamente in lavori tutti
tesi a ricercare non soltanto nella prima Critica, ma anche negli
scritti precritici kantiani e in quelli sempre kantiani posteriori alle
tre Critiche la verifica della propria interpretazione del
kantismo né come gnoseologia né come metafisica, ma come propedeusi
trascendentale in grado di dare fondazione a una metafisica
trascendentale o critica in vista di una nuova metafisica assoluta. Una
metafisica trascendentale che superi, nella connessione tra
ontologia e gnoseologia che ha caratterizzato e caratterizza
come intreccio inscindibile di problemi il pensiero di qualsivoglia
autore di qualunque epoca abbia voluto affrontare vuoi il problema della
conoscenza umana vuoi quello della realtà metafisica, il realismo o
empiristico o scettico (che sono a nostro parere le due uniche soluzioni
derivanti dalla separazione soggetto-oggetto) della distinzione tra
essere e conoscere: in ciò la sua vicinanza a Heidegger, che pure
conosceva, e di cui cita appunto Che cos’è la metafisica?. A
differenza del realismo razionale o post-razionale, il realismo
empirico, o fenomenismo, che Kant ha il merito di aver scandagliato e
compreso in tutte le sue forme, è quello che, potremmo dire, è il
primo livello della conoscenza, appartenente originariamente a ogni
uomo, a prescindere dalla sua “cultura”: è la considerazione o
conoscenza delle cose appunto come “fenomeni” (da fainomai=
apparire), ossia per come appaiono, e precisamente apparenze che
distinguono la conoscenza in doxa, ossia opinione, e episteme, ossia
concetto della scienza. Dei fenomeni non si può avere scienza, o
meglio, la scienza dei fenomeni è quella che Kant ha in via definitiva
impostato attraverso spazio, tempo e categorie, e da cui, riferita al
mondo storico umano, e al cammino dello spirito, Hegel fa derivare la
fenomenologia dello spirito, ossia l’apparire dello spirito incarnato
nell’uomo in forme e figure storiche del mondo umano, e che poi
Husserl riprende insieme ai concetti cartesiani di dubbio e di
necessaria epoché. Kant ha mostrato come la conoscenza di tipo empirico
si basi sulla distinzione, è cosa nota ma vorremmo ripeterla per
chiarirne meglio le distinzioni col realismo razionale, in
primis tra materia e forma della conoscenza, la materia essendo il
“dato” esterno che “entra” nelle forme a priori della conoscenza
e fa sì che la conoscenza da potenza, o potenzialità comune a
qualsiasi uomo a partire dalla sua venuta alla luce - direbbe
Antonio Rosmini l’accensione della luce della ragione o primo
atto di conoscenza del neonato, ossia sintesi primitiva -, passi dalla
potenza all’atto. Tali forme a priori, com’è noto, sono quelle
della sensibilità, ossia l’intuizione spaziale e quella temporale che
fanno sì che qualsiasi percezione sia determinata in un hic
et nunc imprescindibili, ossia in un punto preciso delle coordinate
spaziali e temporali, e quelle dell’intelletto, che fa sì che
qualunque cosa venga conosciuta attraverso le forme a priori
dell’intelletto, ossia categorizzata secondo la tavola delle dodici
categorie che Kant, derivandola da quella aristotelica, riduce appunto a
dodici e individua. Ma mentre secondo Rosmini, e dopo di lui Carabellese
e Gentile, in questo primo atto della ragione che attiene al neonato, o
sintesi primitiva tra materia e forma della conoscenza, non c’è
distinzione appunto tra materia e forma della conoscenza, né tra io e
mondo, e il neonato percepisce se stesso e la realtà che lo circonda
come un tutt’uno, nel prosieguo della sua vita avviene il distacco tra
il sé e il mondo che lo circonda,
cioè la distinzione, ovvia ma vogliamo ripeterla, tra soggetto e
oggetto della conoscenza. E’ questa distinzione quella che fonda il
rapporto dell’uomo comune con la realtà, appunto il fenomenismo o
anche l’intellettualismo, e che fa sì che il soggetto si chieda in
sostanza qual è il rapporto tra vero e certo, intendendo per “vero”
l’in sé della cosa, che abbiamo precedentemente detto essere un
limite via via estinguibile nel tempo dalla scienza e dalla sua ricerca
nella loro storia, o anche, più comunemente, il vero inteso quale
generale – si badi, non universale - sentimento di certezza
appartenente a un più o meno grande numero di persone – e che spesso
è il risultato della cultura a cui si appartiene -, e per “certo”,
naturalmente, la propria singola conoscenza, che in genere è
accompagnata da un sentimento di certezza interiore il cui valore
numerico può essere alto o basso, e anche variare sia nel confronto con
altri io, sia in quello con altre esperienze dello stesso soggetto. Per
cui, riprendendo la distinzione tra doxa ed episteme, all’uomo comune
attiene la doxa, allo scienziato l’episteme. Ma
la scienza contemporanea e poi post-contemporanea nel suo complesso, già
a partire, in campo filosofico, dall’idealismo, e in particolare da
Hegel e l’hegelismo prima, e poi, nel ‘900 italiano, tra gli altri,
da Pantaleo Carabellese, ha finalmente superato la distinzione che ci
portavamo dietro almeno da Cartesio tra res
cogitans e res extensa, tra materia e forma in
primis della realtà e in
secundis della conoscenza e tra soggetto e oggetto, e ha parlato, in
campo conoscitivo, di concreto, ossia di un tipo di realtà, e della
relativa conoscenza, in cui soggetto e oggetto non sono distinti,
essendo la distinzione un aposteriori (che produce il soggetto quando
riflette da un lato sulla propria conoscenza e sulla conoscenza in
generale, e dall’altro sulla “realtà”), e non un apriori
esistente nella realtà, che, a questo livello, è un unicum (potremmo affermare, con un atto di fede, un Uno-Tutto), e,
seguendo Giuseppe Semerari, parla di “concrescenza
materiale-formale”, ossia appunto di un venire all’essere
dell’essere, nel caso specifico del quale stiamo parlando la
conoscenza, in cui soggetto e “dato”, e soggetto e contesto, siano
un tutt’uno in rapporto dialettico di osmosi tra loro. Pietro Piovani,
per rimanere in Italia e sempre nel ‘900, parla di oggettivazione etica, ossia del necessario rapporto, appunto quello di
oggettivare la realtà in concretizzazioni in particolare etiche, che
lega il soggetto e il mondo che lo circonda, che non è il mondo in
assoluto, ma il suo mondo
sempre frutto di una costruzione, necessità che proviene all’uomo da
ciò che questo autore chiama “assenzialismo”, cioè l’anelito a
superare e a superarsi, e separare e separarsi, dal Male e
dall’imperfezione, in un continuo rovello interiore – di rovello
parlerà anche Semerari per Carabellese – perché ogni meta divenga
nuovo punto di partenza. Teodorico Moretti-Costanzi parlerà a proposito
di questo anelito interiore a superarsi continuamente di ascetismo
(quindi di un necessario movimento della coscienza verso l’alto, verso
una sempre più intensa idealizzazione del rapporto tra l’io e il
proprio mondo), e lo stesso Carabellese, quando verso la fine della sua
esistenza punterà l’attenzione sulla speculazione prima e sulla
meditazione poi, lo farà nello stesso senso, semmai più marcato, di
una simbiosi tra scienza filosofica e ascetismo religioso, ovviamente
intendendo qui per religione non quella confessionale in senso stretto.
Oggettivazione: non dunque una conoscenza assoluta dell’in sé
dell’oggetto, o come afferma Carabellese dell’Oggetto, allo stato
irraggiungibile se non per fede, ma una scoperta – aletheia nel senso
di disvelamento, e non creazione – di ciò che il soggetto rende oggetto della propria esperienza, a partire non soltanto dal
proprio essere, ma anche dal proprio contesto più generale, in quella
che Giuseppe Cantillo definisce l’etica della situazione. In campo
psicologico, si parla oggi di costruttivismo – una derivazione del
comportamentismo vicina al cognitivismo -, ossia di un costrutto,
appunto, che il soggetto si fa della realtà che lo attornia e su cui
egli punta l’attenzione, e in cui si trova: un sistema io-mondo, che
non solo cambia da soggetto a soggetto, essendo ogni soggetto, diremmo
in filosofia, Individuum
metafisico, ossia come minimo un irripetibile, ma anche cambia nella
storia del soggetto col suo andare avanti nel tempo e acquisire nuove
esperienze che mutano il senso e della propria identità e della realtà
che lo circonda, mutando appunto i significati che egli attribuisce alle
sue esperienze. E si parla più precisamente, in psicologia, di
costruttivismo post-razionalista, a mio parere perché finalmente anche
in questo campo da tempo, come in filosofia in modo precipuo ed
esplicito da non molti decenni, si cerca una logica dell’irrazionale
che estenda il senso stesso dell’Individuum metafisico a cui abbiamo accennato. In questo si deve
necessariamente operare un’importante distinzione tra descrizione e
interpretazione: l’una, potremmo dire in termini filosofici, afferente
al fenomenismo, come operazione che il soggetto compie nella conoscenza
di semplice esplicitazione di ciò che vede, l’altra, viceversa, in
senso stretto costrutto del soggetto in cui i confini tra vero e falso,
e tra vero e certo, sono molto più labili, perché interpretare
significa sempre guardare da un determinato punto di vista, inferire non
il Vero, ma ciò che ogni singolo uomo, oppure in campo scientifico ogni
singola prospettiva di una determinata scienza,
getta come luce su una porzione estratta e specifica della realtà
intesa come Tutto (si ricordi il continuum
eterogeneo del reale di Wilhelm Dilthey, da cui il soggetto trae o
un discretum omogeneo, come nelle matematiche, oppure un continuum
eterogeneo, come nelle scienze umane) per cui il costrutto si può
dire sia sempre un’operazione astraente e interpretativa.
Per
tornare alle ricerche in campo filosofico che per prime stabiliscono
come il rapporto tra individuo e realtà sia appunto sempre un rapporto
mediato dalla struttura esperienziale a priori che fa parte della natura
umana, vuoi in senso individuale vuoi umana in senso lato, o più
specificatamente culturale e scientifica, dell’individuo, con Hans
Georg Gadamer si affermerà l’ermeneutica appunto come scienza
dell’interpretazione, che, da lui applicata al rapporto tra soggetto
conoscente e testo da comprendere, vede, nella precomprensione anche
linguistica che sempre precede il contatto diretto e immediato tra
pensiero e realtà, e nel circolo ermeneutico tra interprete e realtà
da interpretare secondo cui a partire appunto dalla precomprensione si
ha un continuo movimento parte-tutto che mira alla comprensione totale,
irraggiungibile, del testo, sia esso un testo scritto, sia esso pure
un’esperienza di cui si è parte o che si mira a comprendere, un nuovo
modo di dipanare l’antico dilemma tra vero e falso. Date allora per
acquisite le forme intellettive che il singolo interpretante “trova”
nella specificità del suo essere uomo, e quelle che gli appartengono
come formazione culturale individuale (di Individuum
metafisico) e collettiva (la civiltà cui appartiene), si può affermare
che il singolo non è mai lui, solo, di fronte alla sua esperienza, ma
è sempre precondizionato almeno da questi tre livelli. Ma ce n’è un
quarto, che Gadamer sottende ma che pure, anche al livello collettivo
dell’umano, almeno nell’istante, non può risolvere: il Vero. E’,
questa, la distanza tra Vero e Storia, che solo la fede individuale,
intesa in senso lato e non specifico, può colmare: per un verso è la
propria Weltanschauung
di Individuo irripetibile, il punto oltre il quale si ferma il
proprio progresso esperienziale che può dirsi concluso solo dalla
morte, e anche più precisamente, sempre in senso esistenziale e non
religioso, il proprio percorso di vita comprensivo dell’eredità
spirituale e materiale che egli, come punto su una linea infinita che
coniuga tradizione e innovazione, lascia ai posteri, e le linee di
continuazione come tracce da sviluppare che egli anche inconsapevolmente
porta all’essere e che altri dopo di lui riprenderanno, per l’altro
è anche, la distanza tra Vero e Storia, la Weltanschauung, potremmo
dire, dell’epoca storica che il mondo nel suo complesso attraversa e
fa propria come vera, nell’osmosi sincretistica e nelle fratture e
nelle collisioni che le sue diverse civiltà contemporanee rendono
concrete. Ma evidentemente qui il confine sempre presente e sinora
sottaciuto, anche dai migliori ingegni del ‘900, il rovello di
filosofi e scienziati, torna: è l’antico dilemma, ripetiamo, tra Vero
e Falso, la distanza incolmabile, all’atto, tra Realtà e
immaginazione, vuoi pure quest’ultima intesa come costrutto ipotetico.
Sogno, direbbe Cartesio, o son desto?
Che cosa c’è al di là dello specchio? La frattura tra Vero e
Falso, anche con l’ermeneutica, anche col costruttivismo
post-razionalista, si ripresenta, semmai spostata più avanti: potremo
mai essere certi del vero, giungere al punto in cui l’interpretazione
si dimostrerà autentica, il punto in cui idealità e realtà si
incontrano? Oppure ancora una volta la scienza mostrerà di non essere
poi così assolutamente distante dal mito? Pur con tutte le
teorizzazioni e le razionalizzazioni, siamo veramente distanti dalla
ormai millenaria separazione voluta come nascita della filosofia tra mutos
e logos? Abbiamo costruito un Logos che anche per chi non crede in
senso stretto è una specifica prospettiva necessaria per comprendere la
realtà vuoi umana vuoi naturale, vuoi del mondo storico vuoi di quello
scientifico-esatto, e in questo senso dobbiamo molto a Hegel, se non
anche a Platone e Aristotele. Abbiamo anche allargato il concetto di logos
o ragione a comprendere vasti campi dell’irrazionale, via via sempre
più chiari. Ma la chiarezza e distinzione delle idee non sempre è
sufficiente, come il cammino della scienza e della storia mostrano: il
percorso conoscitivo sembra non avere mai fine. Torna allora qui il
vecchio distinguo tra perfezione e imperfezione, e prende piede il
dubbio, che, seppure allontanato con l’epoché, o seppure
“sconfitto” dalla distanza che abbiamo assottigliato tra fides e ratio
col cammino della scienza verso il disvelamento, sempre più
avanti e indietro nello spazio-tempo sia naturale che storico, del tì
o della res, e tra l’ideale
dell’uomo vitruviano e la sua realizzazione concreta in termini di
diritti e di ponti, come direbbe Papa Francesco, resta. E allora il
diaframma tra dubbio da una parte, e fede, intesa stavolta in senso
religioso, dall’altra, riappare: lo scontro di civiltà al quale stiamo assistendo
si fa più strettamente religioso, o in senso lato di fede, anche intesa
come fede laica secolarizzata. Non considerando, ovviamente, la scia di
sangue, proprio e altrui, che si portano dietro, sono più “evoluti” o più involuti di noi occidentali gli individui e i
movimenti che stanno sconvolgendo l’assetto tradizionale
dell’Occidente in termini di ratio,
e il suo trionfale cammino in termini di Progresso? Non stanno dicendoci
qualcosa riguardo proprio a quell’allargamento al diverso del concetto
di uomo vitruviano (il simbolo dell’Uomo universale che coincide col
suo mondo) che stiamo noi stessi per nostra parte allargando con
l’ingresso nella storia dell’Occidente di nuovi soggetti politici e
sociali già presenti nel nostro assetto sociale, e “solo”
emarginati? Il diverso così, da presente ma lontano dall’integrazione
sociale e culturale (e si potrebbe dire del valore acquisito dalle
classi popolari e dalle loro culture come di quello dei gay o dei folli,
ma anche dei minori e degli anziani), è anche il diverso ma lontano
geograficamente e storicamente, oltre che culturalmente. L’uomo
vitruviano è anche questo, un uomo che coincide, nel macro come nel
microcosmo, col suo mondo: un ideale da raggiungere, nessuno sa quando,
nessuno sa come. Intanto la fede e la fede nel dubbio continuano a
incontrarsi e a scontrarsi, in tutte le loro forme, e in sempre più
vasti e specifici contesti del piano storico-sociale: IO/tu, NOI/voi:
questo è il punto di non ritorno. Finquando non smetteremo di
considerare il diverso non, come diceva Carabellese, un altro come noi,
ma un altro da noi, non ci sarà soluzione al conflitto. Apparentemente
l’uomo non riesce a uscire da questa dicotomia, che, quando non
dell’altro uomo, ha preso sembianze animali, naturali o aliene: essa
sembra essere un apriori collegato con la dicotomia Bene/Male, che è
innegabile, se non in termini filosofico-religiosi di teoria o fede –
che com’è noto nel campo della filosofia contemporanea sono connesse
-, almeno a livello “naturale”, ossia con la lettera minuscola.
Questa nostra attuale non è, come vorrebbe Domenico De Masi, una società
senza modelli: è una società alla ricerca di un modello comune e unico
per tutti gli uomini, che li ri-orienti in una sola unica nuova
direzione. Solo perciò quando dalla società senza modelli si sarà
giunti alla società con un solo modello potranno riprendere il cammino
la Storia e il Progresso. Per
ora nel popperiano Mondo Tre, quello delle idee – ovviamente non
quelle platoniche, divine, bensì quelle umane -, che già da alcuni
decenni ha preso prepotentemente piede, si assiste, e purtroppo non solo
a livello delle sole parole, allo scontro di pensieri e azioni, delle
ideologie e della loro attuazione spesso non pacifica né dialogante. E
così, il dialogo socratico, che nuove menti e prospettive ripropongono
ancora dopo 2500 anni, potranno realizzarsi nella compenetrazione attiva
delle idee. Carabellese, non solo riguardo al tempo, parlava di
penetratività: oltre al compenetrarsi cioè nell’istante, in ogni
istante, di passato presente e futuro che sono tutti e tre appunto
compresenti in ogni istante della vita della realtà e dell’umano, la
penetratività deve riguardare appunto anche le persone e le personalità
– i pensanti-che-vivono, li definiva Carabellese: un lascito morale e
etico carabellesiano che permette di guardare al futuro con speranza.
Tornando
a guardare la conoscenza del soggetto (genitivo oggettivo), si tratta
oggi in campo scientifico di scandagliare un Individuo, come affermava
già Dilthey e tutto il movimento che a lui fa capo in Germania alla
fine dell’800, che sente vuole conosce, ossia un uomo “intero”,
che, nelle ricerche attuali ma per quanto riguarda l’intuizione almeno
a finire a Kant come suo punto fermo, comprenda, nel doppio senso di
capire e di avere, anche ciò che è al di là del razionale, o meglio
intenda per razionale non solo le potenzialità della sensibilità e
dell’intelletto così chiaramente esplicate da Kant e di cui si diceva
all’inizio di questa lunga digressione, ma anche quelle della ragione,
ma intesa in un senso molto più ampio di quello finora tramandatoci,
ossia che includa elementi apparentemente irrazionali quali, riprendiamo
l’ultimo Carabellese delle sue dispense metafisiche da circa un
decennio pubblicate, la fede, l’intuito, il fato, il destino, ecc. Ecco
forse il punto della questione: la fede, intesa sia in senso
religioso-confessionale sia in senso laico, ossia come credere in senso
lato che qualcosa sia vero, e che faccia parte della propria
Weltanschauung. E’ punto questo che, inteso in senso stretto di
credere in Dio, nella Scolastica in particolar modo la Chiesa cattolica
si pone come nodo da dipanare razionalmente. Infatti che dire a un non
credente per convincerlo a far parte della ecclesia? Già nel Medioevo,
per non dire della storia della filosofia nel suo complesso a partire
dai greci riguardo all’esistenza di un essere e di un mondo divini da
cui derivare il mondo umano e naturale, la Chiesa cattolica si pone il
problema della dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, perché
dimostrazione, appunto razionale, significa che credere in Dio non è più
questione di fede, sia essa illuminazione divina intesa come grazia che
Dio fa al singolo uomo, oppure come credenza che proviene dal sentire
interiore di ognuno. Credere, nel momento in cui si perviene alla
dimostrazione razionale, non è più un atto di fede ma di logica: e
alla logica ogni individuo deve
credere, perché gli appartiene come facoltà in quanto uomo. Qui punto
fermo è ovviamente Tommaso d’Aquino con le sue cinque prove, come
maggior rappresentante dello sforzo della Chiesa cattolica di
superare il pericolo dello scetticismo: dal credo
quia absurdum che risale a Tertulliano (II sec. d.C.), Tommaso passa
al credo ut intellegam e all’intelligo
ut credam, ossia al legame indissolubile tra credere e comprendere,
fede e ragione, compresenti ambedue quando si tratta di affrontare temi
che esulano dall’esperienza immediata. Ma
l’altro enorme passo avanti che Carabellese per primo in Italia ha
fatto è quello tra umanesimo e nuovo
umanesimo, che si distingue nettamente dall’antropocentrismo.
Nell’umanesimo in quanto antropocentrismo, che Carabellese rifiutava
recisamente criticandolo più e più volte nelle sue opere, al centro
dell’universo, appunto, c’è l’uomo in quanto creatura di Dio, il
cui concetto nasce con Cristo in quanto primo Uomo apparso nella storia,
a partire dalla sua evangelizzazione dell’uomo inteso quale Persona,
ossia uomo dotato di pienezza di senso e di valore assoluto nel creato:
in questo senso Carabellese concordava con il pensiero umanista. Ma, come Carabellese acutamente notava, Umanesimo e antropocentrismo, apparentemente sinonimi, non lo sono affatto, perché l’antropocentrismo intende l’uomo non in rapporto immediato con Dio attraverso l’illuminazione spirituale che deriva dalla grazia di Dio, ma come uomo mondano: l’asse si sposta così nell’antropocentrismo dal creato e dal Creatore alla creatura, che a partire dalla fine del Medioevo è completamente secolarizzata, ossia si occupa dello sviluppo del mondo umano, sia in termini fisici, con l’urbanizzazione e la nascita delle città, sia in termini spirituali, con la nascita delle corporazioni e lo sviluppo di arti e mestieri. Si tratta di un concetto di uomo talmente secolarizzato e lontano dalla spiritualità di Dio che nel ‘900 europeo porterà, Carabellese con sagacia ne è consapevole, all’esistenzialismo, e quindi in qualche sua deriva, o meglio alle sue estreme conseguenze, al nichilismo, ossia a un concetto di uomo che nullifica il suo valore spirituale. Ma,
al di là di questo piccolo excursus teoretico sull’affacciarsi già
prima del Novecento dello studio multidisciplinare di una possibile
logica dell’irrazionale, e in conclusione di queste mie poche
osservazioni, è necessario fare alcune precisazioni sul significato dei
termini e dei concetti qui di volta in volta utilizzati e richiamati. Prima
di tutto sarebbe da dipanare il concetto di logica, che nel patrimonio
scientifico comune diviene multicentrico e plurale: perciò, col
soccorso di Hegel e della sua Scienza della Logica, il cui significato
è tutto da approfondire, sembra ormai scontato affermare che le logiche
si pluralizzano e vi si ricercano i punti comuni. Nuovi soggetti si
affacciano alla Storia del Mondo, e di ciascuna categoria, che
sembrerebbe, compito difficilissimo, non voler escludere nessuno, si
ricerca da più parti la logica, e in senso lato la Weltanschauung: è
un aprirsi rivoluzionario alla, si potrebbe dire, democratizzazione del
mondo, in un senso mai visto prima d’ora. E’ in questo senso
interessante il breve saggio, da poco in libreria, del
costituzionalista Michele Ainis, La piccola uguaglianza, in cui si
auspica, come in un nuovo ideale utopico di società, un’uguaglianza
“di partenza”, ossia non l’egualitarismo della vecchia Cina e
della Russia, così mortificanti per l’essere umano perché tendenti
al livellamento “di
arrivo” che costringeva ciascuno a essere, a prescindere dalle sue
potenzialità, uguale all’altro, bensì
la possibilità che ciascuno, a prescindere dal suo background culturale
di nascita, così fortuito, sia messo in condizione di costruirsi, con
strumenti culturali che colmino le differenze inevitabili, almeno per
ora, tra individui e gruppi, un futuro a sé confacente e per sé
soddisfacente. Altra
pubblicazione illuminante, in altro ambito ma sempre attinente a quella
più su definita la “democratizzazione del mondo”, è l’opera
recentissima di Louiss A. Sass, Follia e modernità, sui rapporti molto
ben elucidati tra arte contemporanea (del Novecento) e malattia mentale:
lo scopo, ambizioso e ben riuscito, è quello di rinvenire un ideal-tipo,
alla Weber, della malattia mentale, sia attraverso la comparazione, mai
descrittivamente fine a se stessa, e la ricerca della Gestalt e della
struttura della malattia mentale, in particolare della schizofrenia, sia
mediante la ricerca delle sue attinenze con l’arte soprattutto
pittorica del Novecento. Per
fare un altro esempio di ricerca di una logica specifica ma pure
complessiva, stavolta in ambito più marcatamente filosofico e
psicologico, la realtà dell’esperienza sembra suggerire che, a
partire dalla specifica storia di ciascun soggetto, sia possibile
rintracciarvi, oltre al significato immediato e a quello immediatamente
vissuto, che parcellizzano le esperienze e le cose, un secondo binario,
una seconda logica di esperienza, un’esperienza di secondo livello
(una seconda navigazione di platonica memoria), più sotterranea e
nascosta, che fa parlare tra loro, nel soggetto, come binari paralleli,
flusso del reale e flusso del vissuto, in un continuo rimando di
significati simbolici che “costruisce” una seconda realtà in cui
intuizione interiore e “realtà” esteriore sono, come si chiarirà
più avanti, “concrescenti”. E’ allora evidente che emerge come
questa seconda realtà sia il senso unitario che è rintracciabile al di
sopra e al di là dei singoli significati via via evenienti, e
corrispondentisi, nei due paralleli binari (che sembrano rimandare ai
due modi in cui si dipana la realtà, di Spinoza), senso unitario a sua
volta diveniente in una costruzione piramidale sempre più astratta ed
essenziale, seppure ben ancorata al “dato”: per quel che riguarda il
mondo storico sia intersoggettivo che individuale, si sta parlando qui
di senso della storia e significato della prassi. In tal modo, ci sembra
apparire nel mondo storico la possibilità, finalmente concretizzantesi,
di una comunicazione intersoggettiva tra “monadi senza porte e senza
finestre” ma pure in necessaria comunicazione tra loro grazie
all’Armonia prestabilita: l’utopia leibniziana. Per
tornare alle poche necessarie precisazioni conclusive su concetti fin
qui sottesi, in secondo luogo bisogna chiarire in che senso ci si
riferisce al concetto di fenomenismo, e parallelamente, ma ben
diversamente, a quello di fenomenologia. Se per fenomenismo si è inteso
qui l’attenersi del soggetto al mero scorrere dei fenomeni nel loro
fluire ininterrotto nell’esperienza – altro concetto da precisare -,
così come da ciascuno, in qualsivoglia cultura, viene direi
“automaticamente” apparentemente vissuto e compreso in qualsiasi
attimo del proprio vivere quotidiano, per fenomenologia viceversa si
intende appunto lo studio e la ricerca di una logica dell’esperienza
che tenga conto dei fenomeni non più come dati, ma come prodotti, come
venuti all’essere. Entrano qui in gioco due fondamentali concetti:
quello di concreto e quello di oggettivazione, che grande ruolo hanno
nella Filosofia. Per
concreto si è inteso qui, facendo riferimento alla geniale espressione
utilizzata dal compianto Giuseppe Semerari in un suo noto scritto su
Carabellese, la “concrescenza materiale-formale dell’esperienza”. Perché
concrescenza? Perché è a partire da qui che l’esperienza non viene
più considerata appunto un dato che si rinviene già bello e fatto nel
fluire dell’esperienza di ciascun soggetto, ma un venire all’essere
dell’essere, che viene sì esperito in modo irriflesso da ciascuno
secondo il suo particolare e unico e irripetibile punto di vista, o
sguardo sulla realtà nella quale ciascuno è immerso, ma che,
sottoposto alla riflessione filosofica, si rivela “in
sé” non soltanto come frutto di una creazione dell’Io
trascendentale che coniuga in una produzione sincretica la materia da un
lato e la forma dall’altro dell’esperienza (intendendole in senso
kantiano e postkantiano), ma anche come appunto una creazione da parte
dell’Assoluto della Natura e della Storia che sostiene il Mondo e lo
porta perciò all’essere non una volta per tutte, ma nell’Hic et
nunc che continuamente si riproduce, ogni volta anch’esso irripetibile
e diverso. E’
necessario qui aggiungere però, e ci si sposta sul piano
dell’oggettivazione, che l’Io trascendentale che “crea” (si è
visto non in senso materiale ma esperienziale) la realtà in cui ciascuno
è immerso e vive, la produce nel senso appunto di produrre un’oggettivazione,
ossia, se volessimo dare un senso letterale a quest’espressione, una
“creazione degli oggetti dell’esperienza”,
laddove evidentemente per oggetto non si intende la singola cosa, bensì
il singolo contenuto di ciascuna esperienza. Da
questo punto di vista ciò significa che in ciascun soggetto, il singolo
contenuto di esperienza, così come il suo flusso ininterrotto, e
infine, nei diversi soggetti compresenti e successivi, non
può mai essere uguale, ma sia diverso nell’istante sincronico, sia
diverso appunto nel tempo diacronico. La variabile Tempo, che qui si
intende come sinonimo di Storia, si rivela così fondamentale nel Mondo,
sia esso dei soggetti nella storia, sia esso della natura. Perché allora Essere e Tempo? Heidegger si era prefisso un trattato di metafisica che poi tralasciò, soffermandosi viceversa soprattutto sulla preliminare chiarificazione del rapporto tra essere e tempo del soggetto. Allora il suo intento si riversa su di noi, suoi posteri, per la costruzione di una nuova metafisica, ossia di un nuovo paradigma che tenga conto sia del pluralizzarsi delle logiche, sia dell’irrazionale.
12.
Il concetto di oggetto in Carabellese e in Kant[232]. La
concezione carabellesiana dell'oggetto trova la sua matrice nella
filosofia kantiana come filosofia dell'assolutezza e dell'unicità
della coscienza, laddove ciò che unisce i soggetti è quell'unico che
è in ciascuno, per cui l'essere ideale dell'oggetto è presente come
pura teoria nei soggetti tutti, sostanziandoli e costituendoli nel loro
essere per l'oggetto, che è perciò immanente e trascendente insieme:
immanente perché costituisce la loro idealità, trascendente perché
nessun soggetto può esaurire l'Oggetto, che lo travalica all'infinito.
L’esperienza è allora per Carabellese una specifica forma di
coscienza e una ineliminabile esigenza della coscienza, esigenza e forma
di coscienza che sono state o ignorate o riportate al concetto
realistico di rapporto del soggetto con la realtà esterna mediata dal
senso, che vede l’oggetto fuori dalla coscienza. Per
focalizzare il proprio concetto di oggetto Carabellese prende in esame
il rapporto soggetto-oggetto nel quale l'oggetto è visto
come altro. Secondo Carabellese “[…] il pensiero moderno non ha
saputo risolvere il problema dell’oggetto. Questa la sua deficienza,
che ha il suo culmine nella negazione dell’oggetto che si ha con
l’idealismo. L'oggetto non è l'altro realistico perché nel
concetto di altro è sempre presente anche l'uno a cui
l'altro è perciò omogeneo […], e che perciò implica nel
suo stesso concetto moltiplicazione, molteplicità, per cui
l'oggetto come altro non è neppure estraneo a me come vuole
il realismo, bensì è proprio ciò (Oggetto) in cui i molti
convengono. Qui l’interpretazione carabellesiana di Kant è
apparentemente letterale: l’oggetto, l’oggettività, è il
consentire dei molti in un unico oggetto, è l’universalità e
necessità del consentire. L'oggettività è il consentire
dei molti soggetti nell'unico Oggetto, è l'universalità e
necessità del consentire. In questo senso "[...]
l'oggetto è sempre l'essere in sé che è presente
nella coscienza. [...] Presenza nella coscienza, e quindi
interiorità non esteriorità [...] Oggetto è dunque l'essere unico
costitutivo di tutti questi reciproci nella loro alterità. E'
l'unicità; non è la molteplicità."[233] L’interpretazione
di Kant è solo apparentemente letterale, perché durante
l'argomentazione avviene una traslitterazione dal piano
gnoseologico al piano metafisico. Per il Kant gnoseologo l'oggettività
come consentire dei molti soggetti nell'unico oggetto si
esplica mediante le categorie e fa dell'oggetto l'oggetto della scienza.
Qui universalità e necessità dell'oggetto sono un portato
del soggetto attraverso la categorizzazione, e il
risultato di questo processo consiste nella conoscenza dell’oggetto, o
per meglio dire nel kantiano circolo vizioso tra conoscenza
dell’oggetto e oggetto della conoscenza da parte del soggetto, diremmo con
maggiore chiarezza noi oggi essendo figli di Heisenberg. Infatti già
per un Carabellese contemporaneo del Premio Nobel (1932) per la
Fisica Heisenberg il discorso trapassa dal piano
gnoseologico al piano metafisico, e il suo oggetto non consiste più
in un invalicabile e in fondo inutile circolo vizioso della conoscenza e
del suo soggetto, ma in un aperto e solo in principio sconosciuto essere
dell’essere che si espande nella storia in due modi, l’uno
diacronico nel tempo futuro, l’altro sincronico nell’istante
molteplice. Se
l'"oggetto è l'essere in sé presente
nella coscienza", è da notare innanzitutto quel
“presente alla coscienza”, ossia l’interiorità dell’oggetto
alla coscienza che consente a Carabellese di considerare l’oggetto
come non esteriore, come vorrebbero i realisti empirici: l’oggetto è
il consentire dei molti nella coscienza. Ma, consideriamo ora quell'"essere
in sé" che diviene nella frase successiva
"l'essere unico costitutivo di tutti" i soggetti. A una prima
lettura sembrerebbe che universalità e necessità siano in Carabellese,
come in Kant, un portato del soggetto epistemico attraverso la
categorizzazione, ma in realtà, e qui il discorso trapassa dal piano
gnoseologico al piano metafisico, essi sono una
proprietà dell'Oggetto come Essere in sé in quanto immanente alla
coscienza, che in Kant, permanendo sul piano gnoseologico, era il
noumeno, cosicché “Il valore dell’oggetto in Kant è duplice: a)
metafisico (l’oggetto come cosa in sé , noumeno) b) logico
(oggettività come forma del conoscere; categoria, concetto puro).”[234] Ma
anche con questo avvicinamento dell’oggetto carabellesiano alla cosa
in sé kantiana rimane ancora implicito il senso dell’”essere in sé
come unico costitutivo di tutti” i soggetti, che, sebbene abbia
consentito il passaggio dal piano gnoseologico al piano metafisico, verrà
alla luce analizzando il concetto di cosa in sé. Infatti, possiamo
anticipare, l'oggetto di Carabellese non è l’oggetto gnoseologico
kantiano, ma l'Oggetto metafisico, l'Oggetto unico e assoluto, Dio[235].
Nella Critica del concreto, infatti, Carabellese, mentre afferma la
“diversificazione essenziale” dell’oggetto in termini di verità,
bellezza e bontà in rapporto ai valori del soggetto, mostra
il "fondamentale carattere" di universalità
e unicità dell'Oggetto, così affrontato: "Appunto
perché vale per tutti, appunto perché, cioè, è universale, l'oggetto
è anche unico. L'oggettività non è che l'unicità
dell'essere, di cui noi soggetti siamo
i molti."[236] Si
inserisce qui quel rapporto Uno-molti o Oggetto-soggetti
che caratterizza il pensare di Carabellese: all’Oggetto unico e
universale corrispondono i molti soggetti. Metafisicamente, è la
pluralità e non l’unicità che è propria dei soggetti, perché “La
riduzione dei tutti come tali a unico è la fonte dei più grandi
equivoci […]. Non lo spirito soggettivo ma l’essere oggettivo è
unico. Gli spiriti sono infiniti […] nella unicità del loro
essere.”[237] Qui
è dell'Oggettività Pura che si parla, Oggettività Pura che
è per Carabellese il Bewusstsein uberhaupt, la
Coscienza in generale: separare soggetti e oggetto è per
Carabellese compiere un’astrazione, falsificare l’essere concreto,
che è costituito dai molti soggetti e dall’unico oggetto. Quindi
secondo l’interpretazione della filosofia kantiana come
trascendentale, l’universale e unico, venendo a
costituire la soggettività di tutti, mette in relazione i tutti
tra loro scavalcando la loro separazione e monadicità e
costituendosi come la loro Oggettività. Non c'è
per Carabellese, come si vede, un Oggetto fuori dalla coscienza, cosa
che Kant, col suo residuo realistico dell'inconoscibilità
della cosa in sé e della distinzione tra Objekt e Gegenstand,
non poteva comprendere fino in fondo[238].
Ma, afferma ancora Carabellese: “Si dirà: […] ‘l’oggetto sono
le cose che mi stanno davanti: tante. La oggettività è proprio la
molteplicità, la soggettività proprio l’unicità.’ E avete
ragione, rispondo; ma avete ragione, perché avete già fatto prima
un’altra astrazione, vi siete considerato voi, solo, di fronte alle
cose […] quelle cose vi risultano oggettive, perché tali risultano ai
tanti soggetti, uno dei quali voi siete. […] Questa penna […] come
oggetto, è universale, vale per tutti, è da tutti conosciuta, ma
ognuno la conosce a suo modo […] come oggetto, è sola teoria, la
penna; di questa teoria poi ciascuno fa a suo modo la pratica. […] Il
Concreto? L’unica penna (teoria) che si attua in tante distinte
visioni […] Ma si aggiunge: ‘E la molteplicità delle cose […]?
Non mi avete dimostrato che l’oggetto, il puro oggetto, sia unico
[…] Ci saran quindi più soggetti, ma ci sono anche più oggetti: No
[…].”[239] Ma
che cosa intende dunque già il Carabellese premetafisico per Oggetto?
Non "[...] il singolare 'questo' o 'quello', [...]
perché non può essere in tutti i soggetti. [...] La singolarità,
sia astratta, sia concreta, non è mai oggettività, perché
è soggettività. [...] La pura oggettività, dunque,
essendo schietta universalità, è assoluta unicità. Perciò
l'oggetto non è né dato né prodotto della conoscenza;
l'universale [è] l'attività stessa, che la coscienza
attua in ogni sua forma di concretezza e in tutta la sua
individuazione."[240] Perciò
l'oggetto non può essere separato dal soggetto se non con
un atto di arbitraria astrazione che scinde il concreto nei suoi
distinti. Infatti se "[...] l'essere oggetto di un ente-cosa
abbiam visto che consiste nel suo valere per tutti [allora ciò]
non esclude ma anzi implica gli enti-io che sono questi
tutti."[241] Carabellese
critica ogni sapere sino a lui che vuole soggetto e oggetto
separati e l'oggetto come dato (realismo empirico) o prodotto del
soggetto (idealismo post-kantiano)[242],
affermando viceversa che non solo il soggetto è
attivo ma anche e soprattutto l'Oggetto e l’oggetto:
"[...] la realtà [è] attiva [...]", ma ciò non
significa che soggetto e oggetto sono separatamente
"[...] entrambi attivi; l'attività è concretezza, laddove
soggetto e oggetto sono soltanto termini del concreto. Concreta
è soltanto la coscienza [...] che [...] è la realtà
attiva."[243] Quindi
alla concezione gnoseologica dell’oggetto come ente-cosa, che nella
coscienza è sempre in rapporto col soggetto, Carabellese ne affianca
quest’altra di carattere decisamente metafisico: se l’Oggetto è
sempre in rapporto col soggetto, significa che ha carattere
metafisico[244]:
inserito il concetto di concreto come attività, afferma che: “[…]
concretamente concepita, l’attività risulta dei molti agenti con un
unico principio.” Qui l'Oggetto, nel prosieguo metafisico del pensiero
di Carabellese, non è più considerato gnoseologicamente come quel
qualcosa che, anche se erroneamente, si contrappone al soggetto formando
assieme ad esso i due distinti del concreto, bensì è visto come quell'unico
Principio che attiva i soggetti, comune a tutti, i quali,
nella loro molteplicità, trovano in esso la possibilità del loro
rapporto reciproco, cosicché “Il valore dei soggetti sta in quell’essere,
come agenti, molti, il valore dell’oggetto nell’essere, come
principio di attività, unico.” Ciò che interessa qui Carabellese è
la definizione della soggettività come concreta individuazione, come
singolarità di coscienza che trova nell’oggetto, unico e comune a
tutti, il principio intrinseco dell’attività che rende possibile
l’esplicitarsi dell’attività stessa, tale che “Queste
esplicazioni dell’oggetto, quindi, sono insieme anche lo stesso
sviluppo dei soggetti.” E’ dunque il Principio
intrinseco dell'attività che rende possibile
l'esplicarsi dell'attività stessa, tale che lo stesso sviluppo
dei soggetti non può che essere inesauribile, dato che
"Questo principio immanente [...] visto nella sua unicità dai
soggetti, che ne sono consapevoli proprio come del principio
del loro essere (fare), è, in ciascuno di questi, soltanto
implicito, cioè sempre superante quella qualsiasi esplicazione
che ciascuno di essi abbia
dato." E' qui che si inserisce il tempo come "qualità
universale" dell'Essere, ossia necessaria
forma dell'esplicarsi dell'Essere, per cui
"Agire è eterna esplicazione soggettiva dell'Unico
universale nelle forme diversificate della sua temporalità.
Esplicazione eterna, continua, come l'Unico, di cui è
esplicazione." Il tempo dunque non si oppone all'essere come il
mobile all'immobile, la forma del fenomenico all'essenza
del sostanziale: questo sarebbe ridurre l'Essere a una sola
delle forme del tempo, la presenza, mentre invece l'Essere
Concreto è eterna attività come eterna temporalità che si
diversifica nelle sue forme, eterna temporalità che è intensività e
non estensività di passato, presente e futuro. 13. L’esperienza:
la differenza tra universalità implicita e generalità esplicita. Sul
livello ontologico pertanto, definito l'altro non l'oggetto ma l'altro
soggetto, a me omogeneo, l'esperienza si qualifica come rapporto
non con l'oggetto, ma dei soggetti tra loro, ed è perciò “[…]
reciproca attività dei soggetti, che convengono tutti nel medesimo
risultato, l'oggetto conosciuto. In questo senso l’oggetto
è unitario, e solo in quanto unico per tutti
definisce l'esperienza esperienza e l'oggetto cosa reale.” Qui
saremmo ancora, sembrerebbe, in un’ottica kantiana, ossia ai risultati
della critica come critica della conoscenza, e sicuramente quest’interpretazione
che fa essere unico l’oggetto d’esperienza perché tutti i soggetti
lo definiscono tale è giusta. Ma di quale oggetto si sta parlando, se
è unico per tutti? Certo non dell’oggetto dell’esperienza comune,
che è soggetto a molteplici interpretazioni. E’ quindi dell’oggetto
della scienza, sperimentale e necessario, che si sta parlando.
L’oggetto esperibile sempre identico. Ma in altro luogo Carabellese
ripete: l’esperienza è pertanto "[...] reciproca attività
dei soggetti, che conviene in un risultato
unico, che è attività dell'uno e dell'altro dei soggetti insieme.
L'esperienza, in quanto reciprocità, è dunque questo
convenire dei molti nel produrre. [...] Questa unità
dell'esperienza è quella che diciamo
cosa dell'esperienza, cosa reale. [...] anche
se debbasi ammettere una diversità di esperienza e
quindi ordini diversi di soggetti [...]. Lo
sperimentante non sta dunque, mai, solo
egli con la sua cosa. Se egli solo fosse, neppure
questa ci sarebbe. Perciò la cosa
dell'esperienza non è chiusa nella coscienza singolare di
un singolo sperimentante [...]."[245] Ciò
che noi diciamo cosa reale allora è per Carabellese ciò che
ha una validità comune, e che è specifica in primo
luogo della scienza, ma che si estende oltre la
scienza comunemente intesa, dal momento che
il suo carattere è non l'universalità ma la
generalità, una generalità prodotta dall’attività di ogni
soggetto, mai solo, ma sempre insieme agli altri: e anche qui ci
chiediamo: di quale comunità di esperienza parla Carabellese? Qual’è
quest’attività comune che i molti producono dall’incontro dei loro
molteplici pensieri? Il pensiero comune? La cultura comune? Certamente,
noi diremmo, l’oggettività etica: "La comunità di
esperienza [...] non è mai assoluta universalità; la si può
dire generalità. [...] l'universalità è implicita e
presupposta [...] non può tradursi mai pienamente in
fatto: negherebbe il suo essere. [...] L'universale
perché sia tale deve essere assolutamente unico [...]
La generalità dell'esperienza, invece, è sempre
propria della totalità; risulta dal numerico, non è mai
assoluta unicità; non è in sé, ma proprio e sempre nell'altro; non
è assoluta ma relativa."[246] Infatti
l’universale e necessario consiste nell’assoluta unicità in ogni
tempo e in ogni luogo, possibile e attuale, per tutti i soggetti. Ma
mettiamo un po’ d’ordine: se la cultura comune non può essere
assoluta, ossia universale necessaria e unica in ogni tempo e in ogni
luogo e per tutti, anche i possibili, ciò vuol dire che in questo tipo
di esperienza generale e condivisa è insito il concetto di storia, nei
due sensi dell’essere temporanea, cioè sincronicamente
diversa a seconda delle varie culture viste nel loro confronto attuale,
sia dell’essere diacronicamente relativa, ossia che è diversa a
seconda delle epoche. Carabellese qui, in modo netto, si pone in maniera
polemica, forse al di là delle sue stesse intenzioni e della propria
consapevolezza, contro il solipsismo e l’esistenzialismo, come
d’altronde viceversa fa esplicitamente in alcuni altri luoghi delle
sue opere. Ciò ci consola nell’idea che c’è sempre, in ogni
momento della storia, un altro io cui il soggetto possa dire tu, per
formare un noi, il minimo di comunità sociale cui ogni individuo,
appunto a giudicare dalle parole di Carabellese, ha diritto, perché
semmai il problema, a spostarlo sul piano sociologico, vuoi
sincronicamente nella stessa epoca storica, vuoi diacronicamente,
storiografico, nel corso del susseguirsi delle varie epoche, nasce
proprio dall’incontro, o dallo scontro, di due o più culture, ossia
comunità culturali, diverse, come su scala macroscopica avviene oggi. Ma
inoltre questi passi sono molto importanti per comprendere il
concetto di esperienza di secondo livello, diversa
dall’esperienza di primo livello finora da noi fugacemente analizzata,
quella meramente empirica. La differenza tra universalità e generalità
della conoscenza non spiega per Carabellese soltanto la differenza tra
scienza ed esperienza di primo livello, ossia tra scienza e conoscenza
empirica, generale, a cui quella non è riducibile e che non è mai
universale. Essa spiega vieppiù in Carabellese sia la differenza tra
cosa in sé e cosa empirica, questa astratto
prodotto della scienza quella mai pienamente raggiungibile, e dell'esperienza,
sia quella che all’interno dell’esperienza si dà tra forme di
esperienza diverse per grado, corrispondente a una diversità di
ordine dei soggetti: infatti solo alcuni soggetti giungono
all’esperienza di secondo livello, ossia pensano, mentre la
generalità dei soggetti per Carabellese si ferma all’esperienza
empirica, di primo grado quindi, e vive soltanto. Vi è pertanto un’aristocraticità
del pensiero e della conoscenza in Carabellese, che si connoterà in
termini fideistici: infatti, invertendo i termini del
rapporto, di una generalità intesa come comunità
di credenti e non dell'universalità intesa come l'insieme
di tutti i soggetti possibili sarebbe esperienza la cosa reale, laddove
qui reale è da noi inteso in senso forte, hegeliano. Qui la
generalità che come comunità fa esperienza della cosa reale condivide
l'apertura all'intellectus fidei. Questo sapere,
implicito nella totalità dei soggetti possibili,
è esplicito allora solo nei soggetti, pochi
non fa che sottolineare Carabellese, che si aprono
all'intellectus fidei, alla ragione: è l’esperienza
della cosa reale in senso hegeliano. La cosa reale, infatti, afferma
Carabellese in consonanza con Kant, “[…] la cosa, che è presente
nell’esperienza, non è che l’oggetto-idea che non è il dato, ma il
prodotto della reciproca attività unificante dei soggetti. […] Cosa
reale è dunque quella che risulta all’esperienza perché risulta
dalla esperienza.”[247] Ma
l’esperienza per Carabellese è sempre generale, mai soggettivamente
singolare né oggettivamente universale: essa presuppone come sua
condizione trascendentale la “reciprocità spirituale” dei soggetti,
ossia è prodotto e generazione. 14.
La cosa in sé nell’interpretazione di Carabellese Importantissimo
nel pensiero di Carabellese è il concetto kantiano di cosa in sé. Ciò
che già in Kant denotava un’apertura metafisica come fondamento
ontologico del noumeno, viene da Carabellese lungo l’arco della sua
meditazione via via inteso in senso assoluto, ossia affrontato prima sul
piano della riflessione, poi sul piano della pura speculazione, e,
appunto, vorremmo aggiungere, su quello della pura meditazione: il
concetto di cosa in sé, che già nella filosofia trascendentale era
fondamento ontologico dello stesso noumeno (e relativamente al fenomeno
inteso questo nella sua prospettiva empirico-soggettiva), diviene
anch’esso un’essenziale configurazione dell’Essere: la Cosa in
sé è unica ed è l’Essere soprasensibile. Già
negli anni Trenta, ossia ne Il problema teologico come filosofia, e
ne L’idealismo italiano, Carabellese afferma che la kantiana
possibilità della metafisica come esigenza della ragione è fondata
proprio su ciò che, lungi dall’essere il “caput mortuum” del
kantismo, come nell’interpretazione postkantiana tradizionale, è
proprio la fondamentale scoperta di Kant. La Cosa in sé, di
cui Carabellese riporta la formula tradizionale “das Ding an sich
selbst”, è necessario ricercarla: Carabellese la traspone dal piano
gnoseologico al piano metafisico. Nel
periodo metafisico, la Cosa in sé, che è uno dei nomi di
Dio, diviene il trascendente per eccellenza, l’inesauribile dalla
conoscenza come dall'esperienza come dalla scienza, tutte
considerate in senso reale, appunto perché essa Cosa in sé ne è
Principio. Allora l'unico Oggetto, che, proprio in
quanto unico, non è mai né totalmente né
universalmente esperito, perché, attuatosi completamente,
"negherebbe il suo essere", diviene la radicalizzazione in
termini teologico-metafisici della cosa in sé in senso kantiano. Nell’ultima
parte de L’Essere e la sua manifestazione la cosa in sé è
assoluta, ed è, in quanto configurazione di Dio, il principio immanente
al generarsi della cosa “reale”, immanente non soltanto a questa ma
alla stessa coscienza come suo essere costitutivo, ossia spiritualità,
presenza presenziata nel sentimento[248]:
qui si nota una sottolineatura carabellesiana del concetto di uomo
intero, non limitato soltanto al soggetto gnoseologico. Poiché
il concetto di Cosa in sé viene così radicalizzato, lascia il suo
posto di concetto-limite all’interno della filosofia del conoscere,
così come viene erroneamente interpretata la filosofia trascendentale,
e, trapassando nella metafisica e nella teologia, assume il significato
di fondamento ontologico e poi propriamente teologico all’interno
della filosofia dell’essere: esso diviene il limite assoluto ma
mobile, la Cosa in sé per eccellenza, che distingue, fondando
tale distinzione e nel contempo la storia, l’Essere dagli enti, e nel
contempo l’Essere dall’essere degli enti: l’ente è ente perche
l’Essere, nel periodo metafisico, è anche Cosa in sé. E in questa
manifestazione dell’Essere come Cosa in sé, che nell’ora è
all’infinito e nell’infinito manifesta, nel momento in cui la
mobilità del limite assoluto cade, decade anche la Cosa in sé
come limite assoluto, e l’Essere e gli enti si riuniscono coincidendo:
si ha la fine della manifestazione dell’Essere, il ritorno
dell’Essere a se stesso, argomento che qui non è possibile
approfondire, ma che costituirebbe il vero prosieguo, eminentemente
teologico, del pensiero di Carabellese, come se fosse possibile
riprendere le fila della filosofia carabellesiana nel
post-carabellesianesimo. Se
si guarda a L’Essere e la sua manifestazione nel suo
complesso, Dio in quanto Essere è sotteso a tutti gli argomenti
trattati in questo periodo metafisico. E Dio in quanto Essere è legge
dialettica, nel senso penetrativo espansivo e intensivo che dà
Carabellese alla sua propria dialettica, contro la sua interpretazione
della dialettica di Kant, generatrice di antinomie e paralogismi, o di Hegel,
secondo Carabellese astratta perche oppositiva invece che, appunto,
penetrativa e intensiva. L’Essere in quanto Dio è perciò
ne L’Essere e la sua manifestazione, ossia nella sua
manifestazione, innanzitutto, come si è già detto,la Legge dialettica
delle Forme in cui è esprimibile dall’io che lo ricerca, e che sono
oggettive, reali. Ma è anche la Legge dialettica che regola
il rapporto tra fato e fatto, cui Carabellese dedica due “Temi”
estremamente affascinanti nella loro razionalità stringente, il III,
“ La Necessità ”, e il IV, appunto “Il fato”, dove
tratta del rapporto tra Dio e fato. Ancora, Dio in quanto
Essere è la Legge dialettica che regola il
rapporto tra la realtà e l’attività spirituale umana. In altre
parole, qui l’Essere, essendo la Legge che regola e dunque
è superiore a tutte le Forme della sua manifestazione, è, in quanto
immanente-trascendente, il Dio di Mosè, il Dio della Legge che si
incontra, nella triade Dio Io io (o Persona io, o Coscienza
qualitativa), con l’io. Il Dio di Mosé, dando a questo io la
Legge , configura il Mondo, appunto la Coscienza qualitativa
nei suoi cinque gradi di emanazione. Si può affermare che questi cinque
gradi di emanazione della Coscienza qualitativa corrispondano ai cinque
livelli di ascesi dell’io della Kabala ebraica, definendo
Carabellese conoscitore e accoglitore anche dell’Ebraismo sia
essoterico che esoterico, come nei fatti attesta il suo Disegno
storico, che dopo il brahmanesimo prende infatti in considerazione la
teologia giudaica. Peraltro, seppure immanente, in quanto trascendente
l’Essere come Legge non si identifica con quello che abbiamo chiamato
Mondo: anche la Legge è una manifestazione dell’Essere, e
infatti L’Essere nella Dialettica delle Forme e La
Dialettica fanno parte della manifestazione. Si vuol
dire in altre parole che per Carabellese nemmeno la Legge è
il vero Dio, e in ciò Carabellese, pur contemplandoli nella sua
speculazione e nei suoi studi di teologia (come adesso ci appare in
tutta la sua evidenza il Disegno storico), esce sia
dall’Ebraismo essoterico sia dal kantismo strictu sensu inteso,
ossia come teologia e filosofia del dover essere (“ortoprassi”). Se
Carabellese, precisamente nel Disegno storico come oggettiva
riflessione pura, esce dall’Ebraismo in quanto teologia del
dover essere e dell’Io con la ricerca sul brahmanesimo e con
l’attenzione all’estetismo degli antichi greci inteso come loro
genio, non vi esce né col continuo ritorno sull’importanza del noema
nello stesso Anassagora e non solo, noema fondamentale nell’Ebraismo
appunto come ortoprassi, né per la sua inavvedutezza che l’Essere è
in relazione distinzione col Nulla, che nell’Ebraismo ha valore
positivo essendo uno dei livelli di Dio, e precisamente il Luogo del
Mondo. Perciò la relazione Essere Nulla, oggi allo studio, o meglio
secondo l’Ebraismo Nulla Essere, non soltanto è relazione gerarchica,
ma anche non è relazione cui si possa attribuire un giudizio di valore
e soprattutto un giudizio di valore negativo come nella teologia
cristiano-cattolica. Ciò
che non è manifestazione in Carabellese non è la Legge , ma
l’Essere, che per lui – ed è già storicamente un grande merito
oggi superato - è la vera cosa in sé kantiana, la res o il tì,
il limite. Limite peraltro da lui non raggiunto, perché
dell’Essere non fece in tempo a scrivere nelle dispense metafisiche,
ma solo nel Disegno storico, che così assume un grande valore
anche dal punto di vista teologico-metafisico. Infatti se si fa
interagire il Disegno storico con L’Essere e la sua
manifestazione considerandolo anch’esso una ricerca di carattere
teologico-metafisico che non vi può essere scissa, e quasi,
forzatamente, come un testamento che Raniero Sabarini ebbe il merito di
pubblicare, si scoprono moltissime cose. Si scopre ad esempio non solo
la matrice gnostica di Carabellese ma anche, al di là del continuo
ritorno sul noema e sulla sua perdita, la grande importanza data a
Anassagora, e si comprende finalmente come L’Essere e la sua
manifestazione, come risulta chiaramente dai grafici appostivi (da
leggere tridimensionalmente e non sul piano, e che risultano più che
come circoli come coni), sia in realtà un ritorno a Parmenide ante
litteram [249].
15.
La distinzione tra coscienza e inconoscibilità della cosa in sé: la
concretezza. Secondo
Carabellese, escludere la cosa in sé dall’ambito della conoscenza in
senso generale, non significa poi escluderla dall’ambito della
coscienza, poiché anzi la vera scoperta della Critica kantiana, per
Carabellese, è la dichiarazione della noumenicità della cosa in sé:
l’Essere in sé è noumeno, ossia appartiene all’ambito della
coscienza come Idea. Carabellese capovolge il senso negativo
dell'inconoscibilità kantiana della cosa in sé: per la sua
conoscibilità è necessaria la concretezza, che supera la separatezza
tra essere e conoscere e tra soggetto e oggetto nel concetto di attività
spirituale. Carabellese mette in rilievo la distinzione tra pensabilità
e inconoscibilità della cosa in sé, l’una propria della coscienza,
l’altra della scienza empirica, forma astratta della conoscenza.
“[…] Che cos’altro può voler dire la pensabilità della cosa in sé
pur nella sua inconoscibilità? […] quella cosa in sé […] dobbiamo
affermarla col pensiero, cioè la pensiamo positivamente […] La
pensabilità della cosa in sé kantiana non è che questo vivere l’in
sé nella concreta coscienza: la sua inconoscibilità non è che il
reciso negare che l’essere astratto della scienza sia l’essere in sé. L’inconoscibilità
kantiana quindi può e deve essere ammessa come risultato della Critica
solo nel senso della irriducibilità dell’essere in sé a scienza,
presa questa come forma astratta della conoscenza. E’ quindi da
distinguere nettamente tra l’essere della scienza, che non è affatto
in sé ma è proprio l’essere correlativo, quale viene astratto dalla
relazione in cui vive e quindi così (in quanto astratto) generalizzato,
e l’essere in sé che è il vero, l’unico e assoluto essere
concretizzato da tutto ciò che è.”[251] Vi
è dunque inconoscibilità perché la cosa in sé non è un oggetto tra
altri, ma il principio dell’oggettività, il principio della
conoscenza, e proprio in quanto tale inconoscibile. L’inconoscibilità
significa qui non l’impossibilità di una sua esperienza -
esperienza non empirica -, ma l’inesauribilità che essa, in quanto
principio, impone a questa esperienza stessa, e dunque alla conoscenza.
E poiché è principio della conoscenza, è oggetto puro, oggetto
immanente alla coscienza: l’inconoscibilità, ammessa la noumenicità,
si è trasformata da negazione in positiva affermazione della cosa in sé
come principio di conoscibilità, e ancor più come principio della
stessa coscienza, Oggetto puro. E’ la noumenicità il punto chiave che
consente il rapporto tra cosa in sé e coscienza, e non a caso
Carabellese la ritiene, insieme alla cosa in sé, il vero risultato
della Critica: in tal modo la cosa in sé è affermabile come
immanente alla coscienza, suo oggetto puro. Edoardo
Mirri, che con Furia Valori ha avuto il merito di aver ricostruito per
circa un decennio la speculazione dell’ultimo Carabellese pubblicando
il sistema metafisico fino ad allora inedito, centra nella
interpretazione carabellesiana della kantiana cosa in sé il nucleo
della ripresa che Carabellese fa di Kant, anche se individua
un’improprietà di linguaggio di Carabellese nel definirla Oggetto
puro[252].
La noumenicità significa non estraneità dell’essere alla coscienza,
ma anzi ancor di più il suo esserne principio immanente, ciò per cui
ogni oggetto è oggetto della coscienza. Mirri mette bene in luce la
differenza fondamentale che il Kant interpretato da Carabellese pone tra
cosa in sé e cosa “reale”, empirica: l’una è l’assoluto essere
della coscienza, ciò che la fonda come tale e che in quanto principio
è inconoscibile, cioè non riconducibile ad alcuna rappresentazione,
perché esso stesso fondamento di qualunque rappresentazione, Dio come
Oggetto puro, l’altra, la cosa “reale”, è frutto della reciprocità
dei soggetti nella loro alterità di coscienza, reciprocità il cui
consenso fonda la cosa che si dà nell’esperienza, ed è oggetto della
scienza sperimentale – la natura. La
cosa in sé kantiana è dunque interpretata da Carabellese in chiave
nettamente metafisica e teologica, dandole il valore di essere che in
quanto principio fonda la realtà empirica, e in questo senso si
identifica con Dio. Vi è dunque uno spostamento di piano dall’ambito
gnoseologico kantiano all’ambito ontoteologico carabellesiano:
nell’interpretazione carabellesiana della cosa in sé kantiana come
Oggetto puro di coscienza è possibile infatti intravedere la
trasformazione del problema gnoseologico in problema ontoteologico.
Questa reinterpretazione può considerarsi come la radicalizzazione e al
tempo stesso l’oltrepassamento della concezione kantiana della cosa in
sé come essere in sé oggetto della metafisica. Nell’affermazione
kantiana dell’inconoscibilità della cosa in sé Carabellese infatti
intravede un residuo di realismo acritico, che accetta come fondata la
posizione dell’essere come al di là della coscienza. Ma come fa
notare Leo Lugarini in un interessante saggio, il
ripensamento carabellesiano dell’inconoscibilità kantiana della
cosa in sé implica innanzitutto la distinzione di matrice
aristotelica tra l'Essere in sé, oggetto della metafisica, e l'essere
degli enti, oggetto delle scienze empiriche. La noumenicità della
cosa in sé si inserisce nella distinzione kantiana tra conoscere e
pensare, intelletto e ragione. Inconoscibilità e noumenicità
costituiscono una coppia oppositiva, i cui due elementi si integrano a
vicenda: se la cosa in sé è inconoscibile dall’intelletto con le sue
categorie, che infatti quando vi si applica dà luogo alla
contraddizione che Kant prende in esame nella Dialettica Trascendentale
come costitutiva della ragione umana, pure essa cosa in sé risulta
pensabile dalla ragione con le sue idee. Mentre dunque
l’inconoscibilità è considerata da Carabellese un residuo realistico
e acritico che si riferisce a un al di là della coscienza
inaccettabile, la noumenicità è il punto di partenza per la metafisica
critica, in quanto per Carabellese, ricorda Lugarini, “punto di
appoggio” della ragione sia come concetto-limite che come concetto
razionale. La cosa in sé nella sua noumenicità si trasforma in
Carabellese in idea trascendentale. Carabellese individua in Kant lo
spazio per un passaggio dalla critica della coscienza alla critica
del pensare: la cosa in sé kantiana viene
identificata con "L'idea trascendentale interpretata come
universale e unitario oggetto di coscienza,
[che] si rivela immanente fondamento della coscienza
[...]."[253] Carabellese
ha sempre combattuto contro la riduzione dell’Essere al sapere, che
tacciava di gnoseologismo: l’Essere-Sapere costituisce un livello
dell’Essere che però non può essere considerato, a nostro parere,
assoluto. Perciò se da un lato per Carabellese il problema del sapere
viene riproposto in termini nuovi come Sapere concreto, pure
dall’altro esso non è il problema centrale della sua metafisica, che
perciò non si esaurisce in esso: è necessario non dimenticare
l’inconscio Otto-Novecentesco, che pure Carabellese conserva e assume
nell’implicitezza dell’Universale, quella “notte della
conservazione” di cui parlava Hegel. Anche
Giuseppe Semerari concorda con quest’interpretazione della noumenicità
dell’essere in sé, nella quale vede l’antidogmatismo carabellesiano,
ma continua a vedere in essa, a differenza di Mirri, un
essere esterno alla coscienza, dunque un essere realistico: “Secondo
Carabellese la conquista maggiore della Critica […] è che l’essere,
benché esterno alla coscienza, è tuttavia pensato dalla coscienza in
questo suo essere esterno ad essa. <<E’ questa la
imprescindibile noumenicità dell’essere in sé (Kant diceva cosa in sé)>>.
Tale scoperta […] viene perduta nel pensiero posteriore.”[254] Il
problema della cosa in sé è, secondo Semerari, il punto di “maggior
tensione problematica e ambiguità della Critica”, per cui il ritorno
a Kant di Carabellese è sviluppo critico della Critica, al di là del
dogmatismo persistente del pensiero contemporaneo, che a
partire dal pensiero postkantiano ha ignorato o negato il problema della
cosa in sé. Ma riguardo alla concezione realistica di un essere visto
come il fuori della coscienza ancora in Carabellese, Semerari sembra poi
ricredersi quando individua in Kant il limite oltre il quale tale
concezione realistica dell’essere scompare: “La cosa in sé è, a un
tempo la maggior scoperta e il maggiore limite della Critica, che da un
lato ne fa l’oggetto ineliminabile del pensiero oltre i confini
conoscitivi dell’intelletto, e la regola del conoscere stesso, e,
dall’altro, continua a concepire acriticamente come qualcosa che
esiste sostanzialisticamente, al di fuori della coscienza.”[255] Quindi
vi è un essere che concretisticamente viene all’essere nella
concrescenza di materia e forma, citiamo Semerari che riprende il
neokantiano Masci, primo maestro di Carabellese. Dopo la Critica kantiana,
Carabellese afferma una critica che sia "[...] critica della coscienza,
cioè critica della concreta attività spirituale,
critica dell'essere nella sua concretezza [...] essere che
è coscienza [...]."[256] L’ontologismo
critico carabellesiano si afferma come nuova ontologia nel momento in
cui riconosce l’appartenenza dell’essere alla coscienza e ricerca,
come sua questione critica fondamentale, quell’essere di coscienza
che, come fondamento del sapere, è sempre presente in ogni sapere
concreto pur senza identificarsi con esso. Su questa base Semerari
giunge a dire che “La nuova metafisica […] è il problema del sapere
radicalizzato sino al limite del suo essere.”[257],
laddove non si può non notare che Carabellese ha sempre combattuto
contro la riduzione dell’essere al sapere, che tacciava di
gnoseologismo, e inoltre che l’Essere-Sapere è non solo interpretato
da Carabellese in termini ontologici, ma costituisce un livello
dell’essere che, ripetiamo, non può essere considerato assoluto. A
nostro parere perciò, se da un lato sicuramente in Carabellese il
problema del sapere viene riproposto in termini nuovi come sapere
concreto, pure dall’altro esso non è il problema centrale della sua
metafisica, che perciò non si esaurisce in esso: il problema di
Carabellese in altre parole non è umanistico, come continuamente egli
ci ripete, ma è il problema ontologico, il problema dell’essere in sé,
che sconfina oltre i limiti del sapere del soggetto e che mette in campo
tutto il lavoro novecentesco dell’inconscio, e forse anche oltre, in
quella “notte della conservazione” di cui parla Hegel. Al di là di
questo, Semerari sottolinea come l’oggetto è recuperato da
Carabellese nella sua pluridimensionalità, che travalica il limite
angusto dell’oggetto di conoscenza per divenire in diversi
modi oggetto di coscienza, e vede inoltre, forse un po’ riduttivamente,
lo sfondo dell’opera carabellesiana nel rinnovamento della concezione
dell’uomo in polemica sia con l’antropocentrismo che con il
naturalismo “che limita al puro attualismo il valore dell’uomo”,
rinnovamento, seppure secondo lui macchiato da uno spiritualismo che si
lascia sfuggire la drammaticità dell’esistenza dell’uomo tesa nel
conflitto delle possibilità.[258] Carabellese,
a nostro parere, considera la Coscienza non soltanto
come coscienza umana, bensì come Coscienza che pervade tutto
l'essere concreto e di cui l'Essere in sé costituisce il Principio,
dunque Coscienza divina che è attività spirituale, e di cui
l'attività spirituale umana e la coscienza umana sono
particolarizzazioni, concretizzazioni parziali. Questo Essere come
Coscienza, e dunque come Pensiero, d'un colpo elimina quel
dualismo tra essere e pensiero, tra realtà
e coscienza (umana) che, dice Carabellese,
ha attraversato tutto il pensiero filosofico
come problema della possibilità di conoscere questo essere altro
e che ha condotto l'idealismo post-kantiano alla
"proclamazione del valore assoluto della
contraddizione". L'Essere come Pensiero, l'Essere come
Coscienza è allora una seconda forma di essere, l'Essere
Concreto: tutto ciò che ha l'essere in sé immanente, tutto ciò
che è distinto e relativo, nel doppio
senso di essere in relazione ad altro e di non essere
assoluto. Ma tra Essere in sé e Essere Concreto c’è una distinzione
precisa e una differenza di livello. Afferma infatti Carabellese:
"[...] stiamo bene attenti a non confondere l'essere in sé
con l'essere concreto nel quale pur tale essere in
sé si realizza [...]."[259] 16.
Cosa in sé, cosa reale, cosa astratta Siamo,
nella considerazione della cosa, di fronte a tre distinte forme d'essere,
di cui solo le prime due sono poste da Carabellese
sul piano ontologico: l'Essere in sé, l'essere in
altro, l'essere astratto della scienza empirica
che scinde l'essere in un soggetto e in un
oggetto e vede quest'ultimo come il fuori della coscienza.
Perciò è necessario per Carabellese distinguere
innanzitutto tra cosa in sé e cosa reale:
"Questa è relativa, quella è assoluta; questa è la
cosa nel suo generarsi, quella è il principio stesso
immanente alla generazione: quella è Dio, questa
è natura. [...] la cosa in sé, scopertasi come
l'oggetto puro della coscienza, non solo non è fuori
della coscienza, ma ne è l'essere costitutivo,
è la stessa spiritualità [...]."[260] Soffermandosi
in questo passo sulla concezione carabellesiana di cosa reale, è
possibile dedurre la concezione dell’essere e inoltre mostrarne la sua
interpretazione come Coscienza, dal fatto che Carabellese, nel proporre
una nuova Critica che dopo la Critica kantiana non sia più
critica della conoscenza ma Critica della Coscienza, afferma: “[…]
critica della coscienza, cioè critica della concreta attività
spirituale e critica dell’essere nella sua concretezza […] essere
che è coscienza […]”[261] Qui
implicitamente la Coscienza è intesa non soltanto come
coscienza umana, bensì come Coscienza che pervade tutto l’essere
concreto, e di cui l’Essere in sé costituisce il Principio, dunque
Coscienza divina che è attività spirituale, di cui l’attività
spirituale umana e la coscienza umana sono
particolarizzazioni, concretizzazioni parziali. L’Essere come
Pensiero, l’Essere come Coscienza è allora una seconda forma di
essere, l’Essere concreto: tutto ciò che ha l’essere in sé
immanente, tutto ciò che è distinto e relativo, nel doppio senso di
essere in relazione ad altro e di non essere assoluto. Ma tra l’Essere
in sé e l’Essere concreto c’è una distinzione precisa e una
differenza di livello: l’essere concreto è l'"essere correlativo",
l'essere in relazione, che viene "astratto dalla
relazione in cui vive e generalizzato". Questa
operazione di astrazione che Carabellese attribuisce alla scienza è in
singolare consonanza con la tesi del già ricordato Rickert, secondo cui
la scienza opera una razionalizzazione del reale con la quale astrae dal continuum eterogeneo
del reale stesso per costruire o un discretum eterogeneo delle
scienze empiriche, qualitativo e reale, e che a sua volta è diviso in
scienze della natura e scienze della cultura, o il continuum omogeneo
della matematica, quantitativo e irreale.[262] Ma
qui soprattutto si chiarisce il perché della continua critica
carabellesiana all’intellettualismo: la distinzione tra scienza e
coscienza, tra conoscenza e coscienza, è distinzione tra due modi di
approccio al reale, l’uno che coinvolge il solo soggetto epistemico,
un soggetto parziale e che a sua volta parzializza la realtà,
l’essere concreto, astraendone un solo lato, quello che poi chiama
“realtà”, raggiungendo così la cosa astratta, e l’altro che
costituisce quest’Essere Concreto, che, a sua volta, coinvolge tutto
l'uomo e la realtà, è la Cosa Reale. Riguardo alla scienza,
Carabellese dice infatti che essa non raggiungerà mai in nessun
progresso conoscitivo la cosa in sé: “La scienza […] non scoprirà
mai la cosa come tale, che richiederà sempre quel quid […].
Ma, implicitamente, nel procedere stesso delle sue ricerche, lo
scienziato come l’uomo comune continuerà a porre la cosalità della
cosa in quel quid unificante.”[263] Coscienza
comune e scienza dunque presuppongono ambedue nella conoscenza la cosa
in sé come base e fondamento della conoscenza stessa, ma pure non la
raggiungeranno mai perché la Cosa in sé è l’Universale.
Mentre la coscienza comune e la scienza la presuppongono, la coscienza
speculativa – la filosofia – la tematizza: Essa è quel più del
concetto che nessun concetto riuscirà mai a cogliere pienamente, per
quanto, dice Carabellese, essa ne costituisca il punto di partenza. E’
in questo senso che la Cosa in sé è Oggetto puro: “Oggetto
puro traducibile in termini […] di realtà di esperienza: ecco
l’inconoscibilità kantiana della cosa in sé […]”[264] Così
avviene il passaggio dalla concettualità alla noumenicità che
Carabellese interpreta prima nel senso che la Cosa in sé
diviene esigenza suprema della coscienza e sua condizione
intrascendibile, poi nel senso che la Cosa in sé
da specifico essere determinato diviene Essere in sé ”[…] quid
unificante, costitutivo di ogni cosa perché è la cosalità stessa.” [265] Da
un lato dunque interiorità e non esteriorità della cosa in sé,
dall’altro sua estensione a “principio fondamentale di ogni
singolarità”. 17. L'Assoluto carabellesiano: la
possibile connessione tra Kant e Hegel nella direzione del sistema
metafisico Questi
due aspetti costituiscono l’interpretazione originale che Carabellese
dà della cosa in sé kantiana, interpretazione che gli consente di
identificare cosa in sé e Oggetto puro. Se infatti la cosa in sé è
assoluto unico, valido universalmente, e pertanto immanente alla
coscienza, la cosa in sé si rivela come Oggetto puro, che, dopo e oltre
Kant, è l'Assoluto[266]. L'essere
l'Assoluto come unità del relativo in quanto ad
esso immanente, ma non totalità del relativo perché altrimenti
vi si identificherebbe, fa sì che la filosofia di Carabellese
esuli dal rischio di panteismo. Perciò riguardo al rapporto tra
relativo e Assoluto[267],
che è poi rapporto tra soggetti e Oggetto come condizioni
trascendentali della Coscienza, "[...] è
proprio nelle intime viscere del relativo che bisogna
ricercare l'Assoluto. L'essere oggettivo che io ritroverò in me
non è solo ciò per cui io dipendo da voi e voi da me, l'essere cioè
reciproco, ma è l'essere pel quale unicamente siamo io e voi, l'essere
unico, ineffabile [...]. [...] L'assoluto oggetto è la cosa in
sé." [268] Le
tappe di quest'identificazione tra assoluto Oggetto e cosa in
sé sono la concezione della cosa in sé come
noumeno immanente alla coscienza, la concezione della cosa
in sé come Essere unico, la concezione
della cosa in sé come Oggetto puro, condizione
trascendentale e principio della coscienza dei soggetti, e in cui tutti
i relativi coincidono e trovano il loro fondamento, e infine come Essere
assoluto in cui Soggetto puro e Oggetto puro hegelianamente trovano il
loro spazio nello Spirito assoluto. In tal modo, la trasformazione del
problema gnoseologico in problema metafisico è compiuta, manca ancora
solo l’esplicita dichiarazione che questo Assoluto è, come Oggetto
puro, Principio immanente della coscienza soggettiva, è Dio. Quando
questa dichiarazione troverà il supporto della necessaria
argomentazione, il problema metafisico si preciserà essere
onto-teologico. Ne
Il problema teologico come filosofia è chiara
l'interpretazione carabellesiana della cosa in sé come Dio:
"[...] la cosa in sé in quanto oggetto puro
[...] è assoluta [...] è il principio stesso
immanente alla generazione [della cosa reale] [...] è
Dio [...]."[269] Così
Dio da un punto di vista oggettivo è coscienza
omnipervasiva e principio spirituale che immane al concreto,
da un punto di vista soggettivo è oggetto della coscienza dei singoli
soggetti spirituali, e nell'un caso come nell'altro è
"costitutivo", secondo Carabellese. Che continua: "L'Essere
in sé adunque, o è l'Unico o non è assolutamente.
[...] Quella cosa in sé, adunque, che è l'Oggetto puro, essendo,
come tale, assoluta unicità di coscienza, è
quello che da tutti intendesi come Spirito assoluto: è
Dio."[270] Così,
cosa in sé e Oggetto puro sono i due aspetti di Dio,
l'uno oggettivo, l'altro soggettivo: ciò che dal
punto di vista oggettivo è l'essere in sé delle cose, la cosa in
sé come ciò che costituisce le cose nel loro essere
cose, dal punto di vista soggettivo è l'Oggetto puro della
coscienza. L'essere in sé dunque, che si
realizza nell'essere concreto o Coscienza (sua manifestazione),
è Dio. Come si vede, il concetto kantiano di
cosa in sé assume un significato molto più ampio
che in Kant: da cosa in sé diviene Essere in sé, da concetto
relativo che esprime ciò che ogni cosa è in se stessa diviene concetto
assoluto esprimente Ciò che è immanente in tutto l'essere, vera
e propria essenza di tutte le cose, ma intesa
unitariamente e non come essere delle cose. Si tratta di una
diversa interpretazione che Carabellese dà della cosa in sé kantiana.
E’ un’estensione dell’in sé che potrebbe anche fare a meno di
dirsi cosa, se non fosse fondamentale per Carabellese il fatto che
questo Essere in sé è l’Oggetto puro che sostiene e fonda
l’attività spirituale non solo umana ma di tutto
l’essere, e può sostenerla e fondarla in quanto è in se stessa Idea.
Dio è Idea, principio attivo, che mentre è essere, è anche
movimento, divenire, e, in quanto è spiritualità,
spirito: ne La filosofia di Kant Carabellese precisa
tutto ciò con queste parole : “…] la cosa nella sua purezza,
la cosa che non è questa o quella cosa, in breve la cosa in
sé sarà la stessa idea nella sua purezza, sarà cioè l'oggettività
pura, sarà l'unicità dell'essere universale
[...]. E superare la concezione statica dell'essere
non è negare l'essere per il divenire, ma
concepirlo come continua, attiva realizzazione che
dura. [...] Essere è attività; e attività è spiritualità
della quale soltanto siamo consapevoli. Tutto sta a
guadagnare veramente la concezione dinamica dell'essere.
[...] Ha ragione Rosmini: l'idea, che è idea per
eccellenza e soltanto e sempre idea, è unica; è l'Essere.
[...] L'Idea, dunque, è Dio, e solo così possiamo
concepire la creazione evitando le grossolanità del concetto
tradizionale. L'Idea, nella sua purezza, è l'assoluta
coscienza."[271] Dove
sono da notare, insieme alla trasposizione metafisica del concetto
kantiano di cosa in sé come Dio, e l’avvicinamento (che
nell’ultima fase sarà anche distinzione), sempre sul piano
metafisico, del concetto di Cosa in sé con quello di Idea come Dio, sia,
contro certa critica neoscolastica, il concetto
carabellesiano di Dio come creatore, sia la vicinanza, al di
là delle differenze che meriterebbero uno studio specifico,
con il concetto di Assoluto in Hegel, che supera la distinzione tra
relativo e assoluto e tra soggettivo e oggettivo e si pone
come assoluta coscienza in sé che si attua nel movimento del
divenire, e così facendo si pone come creatore. L'Assoluto
come Idea, se da un lato risale a Kant, dall'altro non solo
nel suo essere Idea, ma anche nel suo essere in sé, rimanda
all'Assoluto hegeliano. In questa fase critica del pensiero
carabellesiano questo rimando è all’Assoluto hegeliano inteso come,
citando espressioni famosissime della Fenomenologia dello Spirito di
Hegel, "essenza o ciò che è in sé", "sostanza come
movimento" e "Spirito come intatta eguaglianza
e unità con sé". Nella fase tarda del sistema metafisico invece,
è da verificare, secondo noi, l'influenza dell'Assoluto
hegeliano come "intero che è il vero", nel senso
che è "l'essenza che si completa mediante il suo sviluppo",
per cui "è essenzialmente Resultato", "Spirito
come l'effettuale", sistema. Al di là della persistente
critica carabellesiana alla dialettica hegeliana e alla presunta
negazione hegeliana della soggettività plurale, è rintracciabile,
oltre all'appartenenza al comune orizzonte dell'idealismo
oggettivo, una possibile coincidenza dell'Assoluto hegeliano
come intero con l'Essere carabellesiano. In questo caso, si
porrebbe il problema storico-teoretico di uno sviluppo del
concetto di Assoluto in Carabellese nel passaggio dall'Assoluto
come in sé dell'essere del periodo critico, all'Assoluto
come Essere nei suoi diversi livelli e nelle
sue distinte articolazioni nel disegno della
metafisica carabellesiana dell'ultimo periodo, ossia, se ci si passa la
terminologia non completamente hegeliana, Essere in sé (Idea o
Principio), nella sua distinzione in Dio e Io, Essere per sé, nella manifestazione
della sua articolazione dialettica in Fatto e Atto, e Essere in sé e
per sé, nella sua logica costituita ad un primo livello dall'attività
spirituale umana[272]. A
proposito di questa dimensione dell'Assoluto in Hegel come superamento
della distinzione tra soggettivo e oggettivo e critica alla
filosofia della soggettività incarnata soprattutto da Fichte,
nell'intento di precisare chiaramente i termini nei quali si può
parlare in Hegel di un concetto di Assoluto
come soggetto, Walter Jaeschke, riferendosi
alla Prefazione della Fenomenologia dello
spirito che chiude il periodo jenese di Hegel nel 1807,
citando Hegel stesso afferma: "Ma cosa
significa allora intendere l'assoluto come soggetto? 'La
sostanza vivente e inoltre l'essere che in
verità è soggetto, ovvero - il che significa lo stesso - che in verità
è reale solo in quanto è il movimento del porre se stesso.'
'Essere soggetto' viene così spiegato con 'movimento',
ovvero, come si dice in seguito, con divenire, e
dunque con un movimento determinato, il
'movimento del porre se stesso', 'l'automovimento della forma',
'il divenir se stesso'. L'assoluto è
'solo l'essere che si compie attraverso il suo sviluppo': come
risultato ' è solo alla fine quello [...] che è in verità'.
Concepire l'assoluto come soggetto non significa
affatto, dunque, concepirlo come soggetto assoluto
o soggettività assoluta, nel senso che Hegel ha criticato
nei suoi primi scritti jenesi. [...] chi pensa l'assoluto come
soggetto (ossia [...] rappresenta Dio come
persona nel senso comune della parola) [...]
manca necessariamente l'idea della soggettività dell'assoluto, e
non la manca solo, ma nasconde anche la vera
idea della soggettività, cioè l'idea che l'assoluto
è il movimento che produce se stesso ed in questa produzione
sa di sé."[273] Per
verificare la vicinanza a Carabellese, vogliamo ora citare
direttamente dalla Prefazione alla Fenomenologia dello
spirito cui fa riferimento Jaeschke, dove Hegel afferma: "La
sostanza viva è bensì l'essere il quale è in
verità Soggetto, o, ciò che è poi lo stesso,
è l'essere che in verità è effettuale,
ma soltanto in quanto la sostanza è il movimento del porre
se stesso [...] - non un'unità originaria come tale, né un'unità
immediata come tale -, è il vero. Il vero è il divenire di
se stesso, il circolo che presuppone e che ha all'inizio la
propria fine come proprio fine, e che solo mediante l'attuazione e
la propria fine è effettuale. La vita di Dio [...]. In sé [an sich]
quella vita è l'intatta eguaglianza e unità con sé [...]. Ma
siffatto in-sé l'universalità astratta, nella quale, cioè,
si prescinde dalla natura di esso di essere
per sé, e quindi, in generale, dall'automovimento
della forma. Qualora la forma venga espressa come eguale
all'essenza, si incorre poi in un malinteso [...] - se si pensa
che l'assoluto principio fondamentale o l'intuizione assoluta
rendano superflua l'attuazione progressiva
della prima [la forma] o lo
sviluppo della seconda [l'essenza].
Appunto perché la forma è essenziale
all'essenza, quanto questa lo è a se stessa, quest'ultima non
è concepibile né esprimibile meramente come
essenza, ossia come sostanza immediata o come
pura autointuizione del divino; anzi, proprio altrettanto
come forma, e in tutta la ricchezza della forma sviluppata; solo
così è concepita ed espressa come Effettuale. Il vero
è l'intiero. Ma l'intiero è soltanto l'essenza che si completa
mediante il suo sviluppo. Dell'Assoluto devesi dire
che esso è essenzialmente Resultato, che solo alla
fine è ciò che è in verità; e proprio in ciò consiste la
sua natura, nell'essere effettualità, soggetto o
divenir-se-stesso. [...] Il cominciamento, il principio
o l'Assoluto, come da prima e immediatamente viene enunciato,
è solo l'Universale."[274] E
poi Hegel continua: "Che il vero sia effettuale solo
come sistema, o che la sostanza sia essenzialmente Soggetto,
ciò è espresso in quella rappresentazione che enuncia l'Assoluto
come Spirito, - elevatissimo concetto appartenente alla età
moderna e alla sua religione. Soltanto lo
spirituale è l'effettuale; esso è: - l'essenza o ciò che è in
sè [an sich]; ciò che ha riferimento e determinatezza, l'esser-altro
e l'esser-per-sé; e ciò che in quella
determinatezza o nel suo esser fuori di sé resta entro se stesso;
ossia esso è in sé e per sé."[275],
laddove, oltre alla vicinanza della concezione dell'Assoluto
come Spirito, ossia come Assoluto che si fa Effettuale nello
sviluppo di se stesso e solo come intero è
il vero, in particolare le ultime frasi di
quest'ultima citazione ci sembrano molto importanti ai fini
di un confronto tutto da fare con l'ultimo
Carabellese del periodo metafisico e con l'articolazione del suo
sistema. Ci sembra che in Carabellese, fin dal periodo critico,
e precisamente dal suo La filosofia di Kant. I L’idea teologica,
del 1927, cui la sua argomentazione qui riportata si riferisce, si possa
dire che si rinvenga una coincidenza di intenti se non anche di vere e
proprie teorizzazioni con l’idea di Assoluto in Hegel. Al di là
infatti della matrice kantiana di queste argomentazioni così come
esplicitato fin dal titolo dell’opera cui stiamo facendo riferimento,
il concetto di Assoluto come Idea, se da un lato risale a
Kant soprattutto nella sua connotazione di cosa in sé, dall’altro non
solo nel suo essere appunto Idea, ma anche nel suo essere in sé –
poiché come abbiamo suggerito la conservazione della denominazione di
cosa è del tutto funzionale a Carabellese, a stabilire che ci si muove
sul piano metafisico e non gnoseologico della Critica kantiana -,
rimanda all’Assoluto hegeliano. In questa fase critica del pensiero
carabellesiano, questo rimando è all’Assoluto hegeliano inteso come
essenza o ciò che è in sé, così come anche “sostanza come
movimento” e “Spirito come intatta eguaglianza e unità con sé”.
Nella fase tarda del sistema metafisico invece, è da verificare
l’influenza dell’Assoluto hegeliano come “intero che è il
vero”, nel senso che è “l’essenza che si completa mediante il suo
sviluppo”, per cui “è essenzialmente Resultato”, “Spirito come
l’effettuale”, sistema. In questo rimando e in questa influenza che
suffragano la tesi più volte in questa ricerca esemplificata di una
vicinanza del pensiero carabellesiano al pensiero hegeliano, al di là
della persistente critica carabellesiana alla dialettica hegeliana della
soggettività plurale, è rintracciabile, oltre all’appartenenza al
comune orizzonte dell’idealismo oggettivo, una possibile coincidenza
dell’Assoluto hegeliano come intero (ossia Spirito che è
l’effettuale nel suo sviluppo e solo così è il vero come sistema)
con l’Essere carabellesiano. In questo caso si porrebbe il problema
storico-teorico di uno sviluppo del concetto di Assoluto in Carabellese
nel passaggio dall’Assoluto come in sé dell’essere del periodo
critico all’Assoluto come Essere nei suoi diversi livelli e nelle sue
distinte articolazioni cui abbiamo accennato nel disegno della
metafisica carabellesiana dell’ultimo periodo, ossia, se ci si passa
la terminologia non completamente hegeliana, Essere in sé, Idea o
Principio nella sua distinzione in Dio e Io, Essere per sé nella
manifestazione della sua articolazione dialettica, e Essere in sé e per
sé nella logica costituita a un primo livello dall’attività
spirituale umana. Ma non bisogna dimenticare che, come sottolinea
Giuseppe Pinto nella ricostruzione a nostro parere imprecisa in alcuni
punti degli ultimi anni di vita del maestro[276],
da questo sistema dell’Essere, che costituiva la Metafisica ,
era, come si dice in nota, esclusa la Fisica , ossia la natura
e l’esperienza, che perciò non rientrano in quello che è da noi
definito Essere per sé, il quale per tale motivo non costituisce, come
per Hegel, il momento della alienazione dell’Essere, poiché secondo
la visione carabellesiana l’Essere metafisico non si aliena ma si
manifesta: Carabellese avrebbe forse usato, se avesse potuto stendere la
Fisica , il concetto di alienazione, come Hegel, appunto sul piano
fisico della natura e dell’esperienza. La
nostra ipotesi che nelle intenzioni di Carabellese, anche a
partire dai titoli, il ciclo di corsi su L'Essere e il ciclo di
corsi su L’Essere e la sua manifestazione, che non possono pensarsi
diversi per semplice noncuranza, fossero da tenere ben distinti,
riguardando, il primo, il primo livello di quella Metafisica
che, sono parole di Pinto, Carabellese voleva realizzare, cioè quello
che potremmo chiamare il livello dell'Essere che pensa Se Stesso, mentre
il secondo, L’Essere e la sua manifestazione, riguardante il secondo
livello di quella stessa Metafisica, ossia quello della manifestazione
dell’Essere, dunque l'ipotesi che i cicli fossero due e non lo
stesso, ipotesi che porta come conseguenza l'altra,
ossia che il corso sull'Io fosse, seppure il
primo in ordine cronologico (A.A. 1946-47), il secondo in
ordine logico di un’opera ancora da scrivere perché mancante, probabilmente
perché non tenuto, più difficilmente perché disperso,
il corso sulla Parte I, che noi ipotizziamo essere su Dio
anche a partire dai ripetuti richiami carabellesiani alla
specularità del rapporto tra io e Dio,
tutte queste ipotesi suffragano la tesi che
Carabellese, assolutamente interno all'orizzonte del Cristianesimo,
fosse, oltre la sua stessa conoscenza, assolutamente
interno, almeno nell'ultima fase del suo pensiero, all'orizzonte
dell'idealismo assoluto hegeliano. La tesi
centrale espressa da Walter Jaeschke nella Relazione citata, con
documenti su Hegel evidentemente sconosciuti all’epoca da Carabellese,
è che appunto in Hegel, sebbene non chiaramente, si ritrova da Glauben
und Wissen sino agli ultimi scritti la possibilità
di una connessione tra la soggettività assoluta e la soggettività
infinita, anche se i due concetti non sono
sempre distinti con precisione da un punto di
vista terminologico. Ora la soggettività assoluta è precisamente
l'Assoluto di cui stiamo discutendo, mentre la
soggettività infinita hegeliana è concetto che si ritrova, sebbene
in modo non così articolato come in Hegel, anche in Carabellese,
che infatti più volte ritorna sul concetto dell'infinità del
soggetto inteso come spirito. A
proposito della soggettività infinita in Hegel, Walter Jaeschke di
nuovo ci fa comprendere, come anche Giuseppe Cantillo, che essa
costituisce per Hegel il principio del mondo moderno e il suo carattere
distintivo rispetto all’antike, a partire dalla venuta di Cristo:
col Cristianesimo si ha la diffusione e la coscienza della soggettività
come spirito infinito, sconosciuta sia al mondo orientale che al mondo
greco, dai quali il concetto di individuo come persona, nella quale si
attua l’unità dell’universale con il particolare, e che dunque
comporta il concetto di libertà come sapere che l’uomo ha di
se stesso, resta escluso. E’ importante citare Jaeschke per portare
alla luce e comprendere come in realtà in Carabellese si trovino due
concezioni della soggettività, l'una vicina a Hegel,
l'altra da questi criticata: "La ragione di questa libertà,
l'infinità della soggettività si trova nel contesto
complesso secondo cui il ritorno alla coscienza, il ritorno
della coscienza in sé è nel contempo un uscire dalla sua
particolarità, un passare all'universalità. Questo
passaggio, però, non si trova nella situazione logica
che il soggetto come individuo è un
particolare - che ogni io particolare come io è
precisamente quello che sono tutti gli io. Il passaggio all'universale
e all'infinità del soggetto poggia piuttosto sul
fatto che l'elemento più caratteristico del soggetto è il pensare.
Nel pensare il soggetto è presso se stesso, e nel contempo esso è
momento del pensare in quanto attività dell'universale.
Questa relazione di particolarità e
universalità è costitutiva per il concetto della soggettività
infinita."[277] Il
concetto carabellesiano di soggettività è dunque vicino a
quello di Hegel, nelle due concezioni della soggettività quantitativa
degli io plurimi e uguali, per la quale "ogni io è
un ciascuno uguale a ciascun altro e ad esso omogeneo, un
quanto" - concezione che Carabellese mantiene intatta sino
all'ultima fase del suo pensiero tanto che la si ritrova nella prima
sezione dell'Io e che è anch'essa di chiara derivazione cristiana
-, e della soggettività qualitativa del "pensante-che-vive"
come "spirito infinito che non nasce e non
muore", anch'essa mantenuta e anch'essa
cristiana. Infatti è possibile in particolare al carabellesiano
pensante-che-vive l'incontro con la concezione hegeliana della
soggettività infinita poiché questa si definisce come pensiero:
"L'universalità è piuttosto quella del pensare, che è il
processo mediante e mediato in cui viene costituita la verità.
Nel concetto della soggettività infinita Hegel pensa questo
processo della mediazione di soggettività (nel
senso di sapere) e sostanzialità: che il soggetto si
forma il vero mediante il pensiero 'e raggiunge e conquista
la verità solo mediante il pensiero'. Ciò
che è vero è mediato dal pensiero. [...]
Il momento peculiare del pensiero è proprio il
fatto che non appartiene meramente al soggetto, come l'opinione che è
solo 'mia' e non ha bisogno di essere mostrata
intersoggettivamente [...] correrebbe in realtà il rischio [...]
di mancare l'universalità che pretende."[278] Sebbene
qui si parli di Hegel e non di Carabellese,
queste riflessioni costituiscono il punto di passaggio
per la comprensione non soltanto del pensante-che-vive
carabellesiano, ma anche del suo oscillare tra una conoscenza
immediata dell'Assoluto mediante l'intellectus fidei, che
potremmo tradurre in termini speculativi moderni
come intuizione intellettuale o intuizione
trascendentale, e una conoscenza mediata
dell'Assoluto attraverso, appunto, il pensiero. E’ appunto il pensiero
il punto di congiunzione tra soggettività assoluta e
soggettività infinita in Hegel, secondo la
tesi centrale portata avanti da Jaeschke come
direzione di ricerca pur nella distinzione da lui sottolineata come
necessaria in Hegel tra Assoluto e Soggetto. Questa connessione,
affermata da Hegel nell'Introduzione al corso del
1827 sulla Filosofia della religione,
da Jaeschke considerato fondamentale e
poco conosciuto, è articolata da Hegel nell’esposizione dello
sviluppo della storia della religione a partire dal momento cardine in
cui, nella religione testimoniata dal Vecchio Testamento, il Dio di
Israele viene concepito per la prima volta come Soggetto Assoluto e non
più come Sostanza: come Dio. La critica hegeliana al Dio ebraico è
analoga a quella di Carabellese, sebbene questi non distingua
esplicitamente come fa Hegel e come noi stiamo facendo qui per
Carabellese stesso tra Antico e Nuovo Testamento: tale critica muove
dalla constatazione della distanza, e dunque dalla scissione, tra Io e
Dio e tra Dio e Mondo, e, articola Hegel, dal dominio su di essi come
dominio assoluto, che si caratterizza come unico rapporto possibile,
oltre quello della creazione: la scissione ha generato la
rappresentazione come forma di religione inferiore a quella della
“comprensione del puro pensiero e del concetto”. E’ 'solo con
l'apparizione del concetto cristiano di Dio come
Spirito nel Cristianesimo, come afferma anche Giuseppe Cantillo, che
si ha la realizzazione della religione in
religione assoluta e della soggettività assoluta
come Assoluto in senso positivo. La vicinanza
con la concezione carabellesiana dell'Assoluto è evidente:
il Dio cristiano che toglie, in senso hegeliano, le forme
precedenti di religione è "soggettività infinita,
assoluta, spirito. [...] lo spirito viene
saputo come soggettività assoluta, ma
poiché questo sapere è un sapere di se stesso, anche l'aspetto
di questo sapere nella sua forma più elevata va concepito come
soggettività infinita. O viceversa: lo spirito può essere
realmente concepito come soggettività assoluta solo quando il
soggetto che deve comprendere questo concetto sa di sé come un
soggetto infinito."[279] E'
questo il punto centrale del rapporto tra io e Dio: nel pensiero di sé
e del soggetto dell'Assoluto e nel pensiero di sé e dell'Assoluto
del soggetto, soggettività assoluta e soggettività infinita si
incontrano: la scissione tra io e Dio è tolta. Il
toglimento della scissione, sulla quale Carabellese
ritorna come motivo polemico nei confronti
del cattolicesimo senza una distinzione tra Antico e
Nuovo Testamento, è da lui espresso nel periodo critico nella
concezione del rapporto tra Principio e Termini, mentre nel
periodo metafisico è solo ipotizzabile, a partire dall'Io, un
superamento della scissione nella distinzione tra Io e
Dio. E' anche per questo, oltre che per i motivi che abbiamo
più volte sottolineato, che tale ipotesi a noi sembra più
che plausibile: una congettura. E’ chiaro che, come
abbiamo mostrato anche a partire dall’opera sull’Io, tale
superamento avviene sia sul piano dei soggetti infiniti ma plurimi, sia
sul piano dell’Io puro: in ciascuno dei due piani il significato è
profondamente diverso, seppure sempre di carattere metafisico, dal
momento che nel primo questo superamento avviene per il tramite del
pensiero inteso come ragione che, negli io plurimi, si configura come
intellectus fidei, o anche come intuizione trascendentale, mentre nel
secondo si tratta di una distinzione interna al Pensiero stesso in sé:
forse per questo motivo Carabellese non ha tenuto subito il corso su
Dio, facendolo precedere da quello sull’Io e facendo seguire a questo
quello su L’attività spirituale umana. Prime linee di una Logica
dell’Essere.[280]
18.
Il ruolo dell’intellectus fidei nella metafisica critica della Ragione
assoluta Questa
del rinnovamento carabellesiano della metafisica classica nell’innesto
di Kant con l’avvicinamento a Heidegger è un'ipotesi offerta dall'Heidegger
del Kant e il problema della metafisica nel quale lo stesso
Semerari rinviene l'innovazione di Carabellese. L’importanza
dell’intuizione trascendentale, che noi abbiamo chiamato intellectus
fidei, è supportata dal rapporto istituito tra l'Heidegger
del Kant e il problema della metafisica e l'Hegel di Glauben
und Wissen da Fabio Ciaramelli, che in un problematico
e interessante saggio[283] afferma: "Le
pagine di Hegel in Fede e Sapere e quelle di Heidegger in Kant
e il problema della metafisica convergono, com’è
noto, nell’attribuire un ruolo primordiale e decisivo alla capacità
d’immaginazione trascendentale, considerata da entrambi non già come
il termine medio che congiunge e unifica per dir così estrinsecamente
sensibilità e intelletto, bensì come facoltà originaria, espressione
d’una unità preliminare [...]. […] per Hegel l’originarietà
dell’Einbildungskraft in quanto idea veramente speculativa
attesta la capacità della ragione umana d’accedere conoscitivamente
all’infinito e all’assoluto […]. Ciò che avvicina Heidegger a
Hegel è proprio ciò che, nonostante tutto, lo allontana da Kant: è,
cioè, la pretesa speculativa della conclusiva accessibilità immediata
dell’origine. L’identità originaria, benché inizialmente perduta e
nascosta, dev’essere tuttavia presupposta all’esperienza della
scissione e della dispersione: e proprio per questo motivo, essa sola
costituisce la posta in gioco del movimento del pensiero filosofico. In
tal modo, l’unità originaria resta promessa alla ricerca e perciò
preconizza il soddisfacimento del desiderio filosofico mirante al
raggiungimento d’una trasparenza teoretica, attingibile esclusivamente
nella forma di un sapere dialettico-speculativo, implicante alla fine
del suo itinerario l’accesso trasparente all’autodonazione
dell’originario. E’ proprio questa natura speculativa del sapere
dell’origine, il suo poter ritrovare la visione dell’identità
originaria come sorgente nascosta d’ogni sapere derivato, che gli
conferisce una natura intuitiva. […] Questa sintonia, questa ripresa
dell’eredità hegeliana nell’interpretazione di Kant, è
riscontrabile esplicitamente in Kant e il problema della
metafisica, in modo particolare nel già accennato riconoscimento della
capacità d’immaginazione trascendentale kantiana come facoltà
primordiale, in cui, com’è noto, Heidegger individua la radice comune
ma nascosta d'intuizione e concetto, insistendo sulla sua originarietà ai
fini dell’instaurazione del fondamento della metafisica. […] Hegel e
Heidegger utilizzano, dunque, in direzioni almeno apparentemente
contrapposte, la scoperta kantiana della centralità originaria della
capacità d’immaginazione trascendentale. Se tale centralità per
Heidegger significa la fondazione temporale della trascendenza finita
del Dasein, per Hegel essa preconizza l’attingimento
speculativo dell’assoluto. Nei due casi, tuttavia, ne va della
conclusiva accessibilità immediata dell’originario. […] Questa
verace apriorità, cioè l’originaria capacità sintetica
dell’immaginazione, non va più contrapposta all’aposteriorità, ma
dev’essere in grado di mediarla assolutamente, e può farlo se e solo
se essa precede originariamente ogni scissione. " [284] Abbiamo
voluto citare questi lunghi brani di Fabio Ciaramelli non soltanto perché,
come abbiamo premesso, essi ci consentono di approfondire quel
rapporto tra Heidegger e Carabellese rispetto al Kant metafisico che
Carabellese stesso, e poi Semerari[285],
aveva evidenziato, nel contempo avvalorando la tesi che stiamo
portando avanti di un innesto carabellesiano del criticismo
kantiano sull'idealismo oggettivo che vedrebbe, pur tenendo
conto delle stesse dichiarazioni di Carabellese,
Carabellese e Hegel almeno appartenere - nella fase
critica carabellesiana - a un orizzonte
comune, se non anche - nella fase metafisica - Carabellese
progettare un disegno del proprio sistema metafisico seppur
diverso in alcuni punti essenziali - come
l'alienazione e la dialettica degli opposti - affine al
sistema hegeliano in altrettanti punti essenziali. Ma non è solo
questo: l'intuizione intellettuale su cui si concentra Ciaramelli
è precisamente, a nostro parere, quell'intellectus fidei come
strumento essenziale e tassello mancante per comprendere quella
sintesi a priori metafisica di cui Carabellese, a partire
da Kant, si propone di andare alla ricerca, e che costituisce una
delle molteplici direzioni rinvenibili nel suo pensiero. L’intuizione
trascendentale di cui quindi qui si parla è vista nel suo sviluppo
moderno da Kant a Hegel attraverso Heidegger, mentre ci riserviamo di
dare, esulando dalle nostre competenze, se non altro cenno della sua
presenza in ambito medievistico in rapporto alla simbolizzazione
analogica di Kant sempre in merito ai giudizi a priori metafisici, che
costituisce uno dei due centri intorno a cui ruota non
soltanto il rapporto tra Carabellese e Kant qui in esame, ma
anche il passaggio e si potrebbe dire l’identificazione carabellesiana
tra gnoseologia e ontologia in direzione metafisica. 19. Alla ricerca dei giudizi sintetici a priori metafisici in Kant: la sintesi a priori metafisica nell’interpretazione di Carabellese: il ruolo dell’analogia e il progresso della metafisica in Kant nel kantiano I
progressi della metafisica Ne Il
concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni. I Kant[286],
del 1928, Carabellese ritiene che la cosa in sé che Kant dimostra
irrefutabilmente nella prima Critica, è l’ostacolo che Kant si trova
di fronte per la costruzione di una nuova metafisica, dal momento che ne
dà una definizione negativa, sebbene per Kant il solo fatto di
affermarne positivamente la realtà è già un darne una definizione
positiva, per quanto con un contenuto indeterminato. La difficoltà
centrale per fondare i giudizi sintetici a priori metafisici e
dunque una nuova metafisica consiste nel contrasto tra la pura pensabilità
del noumeno e la sinteticità, che comporta il rapporto col senso. Sulla
questione, com’è noto, Kant torna nello scritto Quali
sono i reali progressi che la metafisica ha fatto in
Germania dopo i tempi di Leibnitz e Wolff[287],
del 1793-95 (e pubblicato postumo nel 1804), scritto
incompiuto per il medesimo tema messo a concorso dalla Reale
Accademia delle Scienze di Prussia di Berlino[288],
oltre che nell'Introduzione alla terza Critica.
Carabellese afferma che lì Kant sembrerebbe rispondere
alla questione posta nei Prolegomeni ad ogni futura metafisica sulla
possibilità dei giudizi sintetici a priori metafisici
con l'introduzione della simbolizzazione
analogica come mezzo per una conoscenza del soprasensibile, che
trasformerebbe la sintesi a priori naturalistica in sintesi a priori
metafisica[289].
Ma, continua Carabellese, questo passo avanti non è realmente
compiuto perché manca all'analogia quel "più" esistenziale
necessario a che una conoscenza sia sintetica, più esistenziale
che già a partire dall'Unico argomento per una dimostrazione razionale
dell'esistenza di Dio Kant chiariva essere una
posizione assoluta inderivabile dal concetto, e non una
determinazione tra altre. Il soprasensibile allora si
conferma negativamente conoscibile non in sé ma per noi, cioè
per esseri conformi al fine che è il Sommo Bene. Ma
nonostante questo limite negativo e invalicabile della conoscenza, che
è sempre una conoscenza per noi, e mai una conoscenza dell’in sé, in
questo modo ciò che Kant veramente dimostra
è l'appartenenza dell'in sé alla ragione[290]. Confrontiamoci
allora direttamente con ciò che Kant
afferma ne I progressi della metafisica a proposito
della metafisica: la definizione kantiana è quella di
"una scienza scolastica e un sistema di sicure conoscenze teoretiche
a priori di cui si fa un uso immediato", come "sistema
della filosofia teoretica pura" inteso quale
"sistema di tutti i principi della conoscenza
razionale teoretica pura mediante concetti". Il progresso della
metafisica è legato propedeuticamente a quello dell'ontologia
in quanto fondazione della metafisica stessa e come esatta
definizione dei limiti della conoscenza intellettuale e quindi
dell'esperienza verificabile e dei principi
che la guidano, ed è legato anche alla chiara
definizione dei confini che separano i due territori del sensibile
e del soprasensibile, dal momento che l’ordine dei principi che
guidano l’intelletto nella conoscenza del sensibile non è lo stesso
di quelli che guidano la ragione nella conoscenza del
soprasensibile, dato che l’ordine dei principi nella sfera
dell’intelletto è Dio, libertà, immortalità[291].
Infatti, "[...] questi momenti della conoscenza
pratico-dogmatica del soprasensibile [dell'ontologia] [...]
hanno inizio dall'illimitato possessore del sommo bene originario,
procedono (attraverso la libertà) verso ciò che è derivato dal mondo
dei sensi, e terminano con le conseguenze di questo scopo finale
oggettivo degli uomini in un mondo futuro intellegibile.
Essi stanno in tale ordine collegati sistematicamente:
Dio, libertà e immortalità."[292] Ma
Kant si spinge non oltre il punto di dare sì
realtà oggettiva agli oggetti soprasensibili (che per
lui si limitano a Dio, libertà e immortalità), ribadendo però
che a tale realtà oggettiva noi diamo il nostro libero
assenso perché mossi non da un intento teoretico ma da un intento
pratico, ossia dallo scopo finale che è il Sommo Bene. Infatti
afferma che noi dobbiamo "[...] agire come se noi
sapessimo che questi oggetti fossero reali: tale tipo di
rappresentazione [è] [...] necessario [...] solo sotto
l'aspetto morale, al fine di promuovere ciò a cui noi siamo già
collegati, cioè l'avanzamento del sommo bene nel mondo
[...] noi ci formiamo questi oggetti, Dio, la libertà nella
qualità pratica, e l'immortalità, in base all'esigenza delle leggi
morali, fornendo ad essi liberamente realtà oggettiva,
perché siamo convinti che in queste idee non si possa
trovare contraddizione alcuna [...]."[293] In
questo passo è chiaro che il primum oggettivo, che
Kant ammette senza dimostrazione come apriori
invalicabile, è il Sommo Bene, mentre il primum soggettivo,
ad esso collegato e anch'esso indimostrato, è la moralità,
ossia la conformità allo scopo finale che è il Sommo bene stesso.
All'interno di questo quadro di reciproco rimando tra
Sommo Bene oggettivo e conformità soggettiva
allo scopo finale, o telos, del Sommo Bene
stesso, ossia moralità, Dio libertà e immortalità
da un lato possono essere gli unici oggetti soprasensibili - ci
troviamo in un ambito pratico-dogmatico e non teoretico-dogmatico,
come Kant ha più volte sottolineato, la cosa in sé
è scomparsa, non si danno altri oggetti soprasensibili per Kant, il
legame tra gnoseologia e ontologia nella metafisica è negato, e
quest'ultima diviene in fondo, se non anch'essa negata come
scienza del soprasensibile, nel caso migliore soltanto
una disciplina sottoposta ai vincoli della
ragion pura pratica -. Dall'altro
lato Dio, libertà e immortalità abbisognano,
come realtà oggettive della ragion pura pratica
stessa, del libero assenso della fede, ossia di quanto di
più soggettivo possa esserci, e la cui libertà, che è
apparentemente un atto di volontà del singolo, è soggetta in
realtà a un dono almeno nella sua scintilla iniziale. La
questione del credere o non credere, in altre parole,
è troppo complessa perché possa essere discussa e possa
ridursi a un atto di libertà come assenso o dissenso finalizzato
nel primo caso allo scopo finale del Sommo Bene, perché in questa
visione rischia, per chi assente su tali
oggetti soprasensibili, di ridurli non a sostanze o cose in sé, ma a
funzioni in vista di un primum a loro esterno e anch'esso
assunto per fede, e, di fronte a chi dissente rispetto
ad essi, di lasciare indecisa la questione
della loro realtà oggettiva in sé e non per noi,
ossia di lasciare aperta la strada al dubbio se non allo scetticismo.
In tal caso la via della costruzione della metafisica come
scienza è negata, ed essa rimane appunto soltanto la dottrina
della saggezza di cui parla Kant, come patrimonio che la tradizione ci
tramanda non in forma di scienza progressiva ma in forma di credenza
culturale, cui noi non possiamo aggiungere nulla. Tenendo conto
del solco della tradizione, ma anche,
quando è necessario, volgendosi oltre di essa, deve essere
possibile costruire ancora, anche per dare un
senso all'azione di ciascun nuovo individuo. Infatti
l'ottica cambia se l'affermazione di una necessaria appartenenza
dei tre oggetti soprasensibili alla ragion pura pratica
viene intesa non nel senso da Kant attribuitovi di oggetti
finalizzati allo scopo finale del Sommo Bene
cui la ragion pura pratica stessa è
necessariamente conformata, e che essa perciò costruisce
- ossia interni alla moralità come primum soggettivo dell'uomo, il
primum oggettivo essendo, lo si ripete, il Sommo Bene -, ma, con
Carabellese, abbattendo la separazione tra ragion pura e
ragion pratica, e dunque tra conoscenza e volontà
(per Kant volontà morale), pur conservandone la
distinzione a fini teorici. Carabellese, lo si è già detto,
contesta, in originale consonanza con coeve teorizzazioni europee,
la separazione della teoria come conoscere dalla pratica
come volere, mirando a una visione unitaria dell'uomo che sente
vuole conosce, per cui la teoria è l'universale idea che vive
solo nella pratica degli atti concreti, che sono al
tempo stesso conoscitivi volitivi e coinvolgenti la sfera del
sentimento e della sensibilità. In
questa visione siamo liberi di uscire dalla visione kantiana
di una moralità omnipervasiva a cui, poiché
necessariamente conforme al Sommo Bene, tutte le azioni dell'uomo
sono finalizzate, da un lato per articolare in modo più complesso
il concetto stesso di uomo, ma dall'altro
e soprattutto per lasciare aperta la strada, altrimenti chiusa,
ad una conoscenza teoretica del
soprasensibile che pur coinvolgendo appunto
l'uomo intero - e dunque anche l'uomo morale - non per
questo è riducibile a quello, così come non ai soli tre oggetti
soprasensibili è riducibile la metafisica. Si vuol dire che
l'aver Kant posto come primum nell'uomo la moralità avente come
scopo finale il Sommo Bene gli ha impedito di aprire la
strada ad una conoscenza teoretica del soprasensibile
- un soprasensibile, lo ripetiamo, non limitato alle
tre idee ma esteso alla cosa in sé - ossia gli ha impedito
di aprirsi alla vera metafisica come scienza teoretica
che si estende oltre i confini
dell'ontologia come scienza a priori dei concetti delle cose in
generale, limite che egli impone alla metafisica come scienza
teoretica, e oltre la Critica , che così
diviene, secondo la definizione carabellesiana, criticismo
metafisico. Ma questa vera metafisica, che non è dottrina della
saggezza ma vera e propria scienza teoretica del soprasensibile,
secondo la visione dell'innesto dell'innovazione nella tradizione non
rinnega il cammino che Kant ha percorso, ma anzi ne tiene conto, nella
sua necessaria impostazione del problema critico, per procedere,
a partire da essa, oltre i limiti e le difficoltà che essa pure
presenta, nella direzione della fondazione dei giudizi a priori
metafisici. In questa impostazione il ruolo della fede cambia.
Da punto di arrivo della conoscenza teoretica del soprasensibile
e punto di partenza della sola azione morale in vista dello
scopo finale del Sommo Bene, diviene punto di partenza della
stessa conoscenza teoretica, che così può procedere oltre i
limiti impostile da Kant. Nel
Kant dei Progressi della metafisica, la fede[294] è
diversa sia dalla persuasione come assenso che il soggetto
non sa se basare su principi soggettivi od oggettivi, sia
dalla convinzione che, sebbene sentita come oggettiva, non
è chiaramente esprimibile, come d'altronde la persuasione, in
una rappresentazione chiara comprensibile e comunicabile: fede
per Kant è "[...] un'ammissione, un presupposto (ipotesi) [...]
necessario solo in quanto si basa necessariamente su una regola oggettivo-pratica
del comportamento, nella quale certo non
intendiamo teoreticamente la possibilità dell'adempimento e
dell'oggetto in sé che ne risulta, mentre vi riconosciamo
soggettivamente l'unico tipo di accordo con lo scopo finale.
Una tale fede è il ritenere per vera una proposizione teoretica,
ad esempio vi è un Dio, mediante la ragione pratica considerata come
ragione pura pratica in questo caso in cui cioè lo scopo finale,
l'accordo dei nostri sforzi verso il sommo bene, sta
sotto una regola in ogni modo necessariamente pratica, cioè
morale, ma il cui effetto non possiamo pensare come possibile
se non sotto il presupposto dell'esistenza di
un sommo bene originario, che allora siamo costretti
ad ammettere a priori dal punto di vista pratico.
[...] questo credo, dico io, è un assenso libero, altrimenti
non avrebbe neppure alcun valore morale. Non ammette
dunque nessun imperativo (nessun crede) e il principio di
dimostrazione di questa sua esattezza non è la prova della verità
di queste proposizioni [Kant le cita precedentemente: credo in un
unico Dio, credo di accordare lo scopo finale con il Sommo Bene
nel mondo, credo nella futura vita eterna come
condizione di un incessante approssimarsi del mondo
verso il Sommo Bene] considerate teoreticamente, cioè esso non è un
insegnamento oggettivo della realtà degli oggetti stessi, essendo ciò
impossibile riguardo al soprasensibile, ma soltanto un insegnamento
soggettivo, quindi praticamente valido, e [...] sufficiente per
agire come se noi sapessimo che questi oggetti fossero reali
[...]."[295] Questa
lunga citazione ci è sembrata necessaria per mostrare come
in realtà in essa Kant sbarri la strada ad una metafisica
come scienza del soprasensibile e per mostrare come in lui la fede
divenga certezza soggettiva di carattere morale. Che infatti Kant sbarri
la strada a qualunque conoscenza del soprasensibile è detto
chiaramente quando, subito dopo, egli afferma
che dimostrazioni teoretiche di queste dottrine
di fede sono impossibili anche solo come probabilità, dato che il
"[...] probabile è ciò che ha per sé un fondamento
di assenso che sia maggiore della metà del principio di ragion
sufficiente; esso è dunque una determinazione matematica della
modalità dell'assenso in cui i suoi momenti devono essere presi come
omogenei [...]."[296] Cosicché
"[...] il soprasensibile si trova diviso dal conoscibile
sensibile proprio secondo la specie stessa (toto
genere), perché si trova al di sopra di ogni nostra
conoscenza possibile [...]"[297],
per cui "[...] anche con i massimi sforzi
della ragione non giungiamo affatto più vicino alla
convinzione dell'esistenza di Dio, all'esistenza del
sommo bene, e alla prospettiva di una vita
futura, perché degli oggetti soprasensibili non
esiste in noi in natura conoscenza alcuna. Ma
sotto l'aspetto pratico ci formiamo noi stessi
questi oggetti [...]."[298] La
strada ad una conoscenza teoretica del soprasensibile, che
significa un'estensione della conoscenza oltre i limiti imposti
dall'intuizione empirica, sembra chiusa da queste perentorie
affermazioni, che inoltre d'un sol colpo spazzano via
tutto il lavoro di secoli della Scolastica
medievale, richiudendo in un ambito soggettivo e interiore,
quello della coscienza, qualcosa che appunto la
Scolastica voleva tradurre in termini universalmente oggettivi,
ossia non semplicemente affermando "vi è un
Dio" e chiedendo l'assenso interiore della
fede, ma dimostrando, o almeno tentando di dimostrare, che Dio è.
E nello stesso tempo questa chiusura della conoscenza entro
i limiti del fenomenico se non per quanto riguarda la ragion pura
pratica si connota storicamente perché non tiene conto
nemmeno come ipotesi possibile nel futuro da un lato di un
allargamento del campo della coscienza ad altre forme e
livelli di esperienza che implichino altre forme di
intuizione non chiuse nella dicotomia tra intuizione
sensibile - propria dell'uomo - e intuizione intellettuale -
propria di Dio - ma si pongano tra questi due
estremi come livelli intermedi, quelli di un'intuizione
pura che non si limiti allo spazio e al tempo. In
questo senso è necessario rifarsi all'amor Dei intellectualis di
Spinoza, ma intendendolo come livello della conoscenza intuitiva
capace di estendere la conoscenza teoretica al
soprasensibile non limitato al solo
"oggetto" Dio. Dall'altro lato la
chiusura kantiana della conoscenza soprasensibile alla
ragion pura pratica non tiene conto dell'avvenuta estensione, dopo
Kant, della conoscenza pura che va nel
senso della dimostrazione delle realtà soprasensibili, e,
a partire da qui, della loro applicazione pratica: del
cammino della scienza fondato, nell'ambito scientifico-naturale,
sulle due scienze a priori kantiane, la matematica pura
e la fisica pura. In questo senso ciò che era soprasensibile
all'epoca di Kant, almeno nel campo della conoscenza
basata sulle scienze a priori fisico-matematiche, non lo è
più oggi, così come ciò che è soprasensibile oggi potrà non esserlo
domani. Ma forse un'apertura a tale conoscenza teoretica
del soprasensibile nel campo della metafisica è concepibile
considerando diversamente la fede non come necessario
presupposto per fondare l'azione morale - da qui deriverebbe inoltre
che c'è azione morale solo laddove c'è fede, escludendo
la possibilità di una moralità laica che si rifaccia
a valori, seppure non trascendenti, altrettanto assoluti
-, quindi praticamente, ma come necessario presupposto
per fondare l'azione teoretica nella conoscenza del
soprasensibile, quindi teoreticamente come intellectus
fidei. Infatti è vero che la fede ha un risvolto pratico nel
comportamento, ossia nella serie discendente che
la pone come fede tout court, nell'accezione comune
e generale, ma è anche vero che essa apre ad esperienze
teoretiche di livello non empirico in cui essa è posta
come base di una serie ascendente verso queste
esperienze stesse. Questo diverso modo di intendere
la fede, come, se vogliamo usare un'espressione
riduttiva, strumento conoscitivo, non è contemplato dal
Kant dei Progressi della metafisica, il cui sforzo è
anzi non nel dimostrare teoreticamente la cosa in sé,
ma nel fondare a priori la vita morale, fondazione
in cui la fede è necessario presupposto
dell'azione morale a sua volta presupponente un sommo
bene, che viene dunque fondato non in sé teoreticamente, ma su quello
praticamente. Infatti Kant afferma: "Ormai si può
segnare il terzo stadio della metafisica nei
progressi della ragion pura verso il suo scopo finale. Esso
costituisce un circolo la cui circonferenza torna in se
stessa, includendo così un totale della conoscenza del soprasensibile,
oltre il quale non vi è niente altro di questo genere, che
comunque racchiude tutto ciò che può bastare all'esigenza
di questa ragione. Infatti la ragione, dopo che si è
staccata da tutto l'empirico [...] nei due precedenti
stadi, nonché dalle condizioni della intuizione sensibile
[...] postasi dal punto di vista delle idee da cui
essa considera i suoi oggetti per ciò che essi
sono in se stessi, descrive il suo orizzonte, il quale
iniziando in senso teoretico-dogmatico dalla libertà
quale facoltà soprasensibile, [...] vi ritorna sotto
l'aspetto pratico-dogmatico, cioè diretto
allo scopo finale, che è il sommo bene da promuovere
nel mondo, di cui completa tale possibilità
attraverso le idee di Dio, dell'immortalità, e la certezza
di riuscire in questo scopo, dettata dalla stessa moralità; e in
tal modo a questo concetto viene procurata una realtà
oggettiva, ma pratica. [...] ora da ciò risulta anche la
singolare conseguenza che il progresso della metafisica nel
suo terzo stadio, nel campo della teologia, è il più facile di
tutti, proprio perché mira allo scopo finale [e i] filosofi [...]
sono costretti ad orientarsi per mezzo di essa
per non smarrirsi nell'esaltazione. La
filosofia come dottrina della sapienza ha
questo vantaggio sulla filosofia come scienza speculativa, di
essere derivata da nient'altro che dalla facoltà
della ragione pura pratica, cioè dalla morale
[...]."[299] Ora,
se è vero che l'ipotizzare una conoscenza nel campo del soprasensibile
corre il rischio di "smarrirsi
nell'esaltazione", è pur vero che negarla a priori sulla base
del solo passato ha il sapore di negare, con la
ragione, le metafisiche che pure dopo Kant
si sono storicamente date, e di ridurre, come Kant sembra
voler fare nell'ultima frase, la filosofia a dottrina
della conoscenza, negandole il valore, che essa ha e deve avere,
di scienza speculativa. Inoltre Kant è consapevole che nel
momento in cui pone il sommo bene possibile nel mondo come primum e
apriori della moralità, l'esistenza di Dio è dimostrata
non in sé ma come idea necessaria in relazione al fine
stesso della moralità, ossia il Sommo Bene. In questo senso
è fondata una teologia che non è teosofia, ossia conoscenza
della natura divina, e dunque "l'argomento morale è un argumentum
kat'avtpottov distinto dall'argomento
teoretico-dogmatico kat'alnteiav": è un'impostazione
umanistica e non ontologica del problema di Dio, e, con esso,
degli enti soprasensibili[300].
Ma mentre sin qui ha negato la possibilità di una metafisica
come scienza del soprasensibile, Kant allo stesso modo la
ripropone come "[...] idea di una scienza che può
e deve essere costruito dopo il compimento della
critica della ragion pura [...]: si tratta di un totale che, come
la logica pura, non abbia bisogno né permetta alcun accrescimento
[...]. Questo edificio non è affatto ampio, ma [...]
avrebbe bisogno dell'unificazione e degli sforzi e del
giudizio di molti artisti per portarlo a una condizione eterna e
immutabile [...]."[301],
"[...] in modo tale che, in primo luogo, ogni principio vi sia
dimostrabile in se stesso, e, in secondo luogo,
che [...] esso riduca inevitabilmente tutti gli altri principi,
anche in qualità di mere ipotesi, a conseguenze [...]
due [sono] gli assi attorno a cui essa ruota:
primo, la dottrina della idealità dello spazio e
del tempo [...] secondo, la dottrina della realtà del
concetto di libertà [...]. Ma questi due assi sono conficcati,
per così dire, nello stipite del concetto razionale
dell'incondizionato nella totalità di tutte le condizioni reciprocamente
subordinate, in cui deve essere eliminata l'illusione
che produce un'antinomia della ragion pura mediante lo
scambio di fenomeni con le cose in sé, e che contiene
in questa stessa dialettica un metodo per
il passaggio dal
sensibile al soprasensibile."[302] Una
scienza del soprasensibile che dunque sia un
totale chiuso, un sistema, immutabile ed eterno, essenziale
e dimostrabile, frutto dello sforzo di più pensatori, basato
sull'idealità di spazio e tempo e sulla realtà della libertà,
ma ancor più fondato dal concetto dell'incondizionato come
termine ultimo nella serie delle condizioni
considerata come totalità, da costruire secondo il metodo
dialettico: la strada per la metafisica come scienza è aperta. Nel
primo dei Supplementi, nella Sezione prima:
Del problema generale della ragione che si sottopone da
sé ad una critica, Kant riprende il problema della metafisica
il cui strumento, la ragione, si serve dei giudizi analitici a
priori come mezzi per determinare i giudizi sintetici a priori,
gli unici atti veramente all'ampliamento della conoscenza cui la
metafisica mira come suo fine. E questa possibilità
dell'ampliamento della conoscenza tramite la ragion pura, ossia
i giudizi sintetici a priori metafisici, è dimostrata dalla
realtà della matematica, che appunto con la
ragion pura e tramite quei giudizi estende la conoscenza[303]. Nel Secondo
Supplemento, Secondo stadio della metafisica. Il suo arrestarsi
nello scetticismo della ragion pura, Kant fa l'esempio dei
due giudizi sintetici a priori, che possono
essere entrambi veri come in logica due giudizi subcontrarie,
che "nel mondo tutto avviene per cause naturali" e "nel
mondo non tutto avviene per cause naturali". Nel primo
giudizio il mondo è considerato come fenomeno, nel secondo come
noumeno, poiché nel primo il mondo è considerato come una
totalità di condizioni sensibili (di causa-effetto), nel
secondo è ammessa una causa esterna a tali condizioni, una causa
non sensibile ma intellegibile, libera dal rapporto di causa-effetto
meccanicistico ma che pure non lo contraddice ma si
affianca ad esso. In questo modo "non vi è
arresto scettico, ma possibilità di estendere la
conoscenza razionale oltre i limiti dell'esperienza possibile e del
sensibile", ossia possibilità della metafisica "sia oltre
l'empirismo sia oltre gli abbagli della filodossia": ciò,
afferma Kant, è stato possibile dopo la critica della ragion pura[304]. Ma,
a ribadire che la possibilità della metafisica è
data solo in campo pratico, nel Terzo Supplemento,
le Note a margine, Kant fa riferimento allo
schematismo come principio della conoscenza sintetica
a priori, schematismo che è reale (trascendentale) o per
analogia (simbolico): "A principio della conoscenza
sintetica a priori sta il fatto che la composizione
è l'unico a priori che, producendosi secondo lo
spazio e il tempo in generale, deve essere fatto da noi. Ma la
conoscenza in vista dell'esperienza contiene lo schematismo:
o lo schematismo reale (trascendentale), oppure lo schematismo
per analogia (simbolico). - La realtà oggettiva
della categoria è teoretica, quella dell'idea è soltanto pratica. -
Natura e libertà."[305] Dunque
mentre da un lato sembra aprire alla possibilità della
metafisica attraverso lo schematismo basato su quella
che Carabellese chiama la simbolizzazione
analogica, dall'altro Kant ribadisce che la
funzione di quest'ultima è soltanto pratica, come la realtà
oggettiva dell'idea. Infine, nei Fogli sparsi riguardanti i
Progressi della metafisica e intitolati Tema del
concorso, ritorna l'argomento dell'analogia come
mezzo per comprendere le cause intellegibili a noi sconosciute
di fenomeni conosciuti. Afferma infatti Kant:
"Della buona o della cattiva volontà in
quanto appartengono al mondo delle massime si può solo dire secundum
analogiam che è Dio a donarla [...]. Noi
conosciamo soltanto le azioni e i fenomeni della loro
ammissione nelle nostre massime, ma non
possiamo indagare il carattere intellegibile su cui esse si
fondano."[306] Ma
forse un'apertura al soprasensibile è nascosta in
queste parole contenute, sempre nei Fogli sparsi, nella parte
riguardante Sull'incapacità degli uomini a comunicare pienamente
tra loro, dove però si ribadisce ancora una volta il rapporto al
soggetto e alla volontà, dunque una conoscenza pratico-dogmatica
e non teoretico-dogmatica: "Che non
vi sia alcuna probabilità riguardo al soprasensibile, ma un
passaggio da un genere del tutto differente di assenso
mediante la ragione; ed esso è di certo valido generalmente, però
è pensato in rapporto al soggetto, cioè esso è qualcosa da
ammettere per vero in rapporto alle massime della volontà che
sono necessarie, altrimenti si tratterebbe di
una vuota volontà senza oggetto."[307] In
conclusione, dal confronto diretto col testo kantiano cui Carabellese
si riferisce vedendovi una fondazione dei giudizi sintetici a
priori metafisici non si evince la possibilità della metafisica
come scienza. E' ipotizzata da Kant la possibilità di una
costruzione, nella storia della filosofia a lui posteriore,
di un sistema della metafisica che faccia leva sullo
schematismo della simbolizzazione analogica, tema questo di grande
complessità che meriterebbe un approfondito studio specifico.
Riportare come fa Kant alla ragion pura pratica come suo
fondamento e suo scopo finale, il sistema chiuso immutabile e
eterno della metafisica (e considerarlo scienza, anzi scienza somma),
quello della moralità come conformità al Sommo Bene, significa
ammettere, pur nella sua possibilità, un sistema che
avrebbe fuori di sé la sua ragion d'essere, il suo fine non
teoretico ma pratico, in definitiva un fine non puro, nel senso che
apparterrebbe a un'altra forma dell'essere, a meno che non si ammetta
che il Sommo Bene è, come deve, la Verità , secondo ciò che
anche Carabellese nel periodo metafisico considera la triade
Vero-Bene-Bello. Si vuol dire che il fine di un sistema
scientifico della metafisica, da raggiungere peraltro secondo Kant
in un progressus in infinitum come costruzione, secondo
le parole di Kant, di "molti artisti", deve
avere in sé il proprio fine come fine puro, la verità, non
contaminato da fini esterni, siano essi pure un fine alto come la
conformità della moralità al Sommo Bene. Altrimenti si
rischia una confusione di piani che non giova né alla
scienza né alla moralità. A meno, appunto, di non far coincidere verità
e moralità, considerando il Sommo Bene un modo della Verità, e la
Verità un modo del Sommo Bene, ambedue, insieme al Bello, espressioni
dell'unico Essere, Dio. E questa è in effetti proprio la soluzione
prospettata dal Carabellese metafisico, quando dice distinti i tre
Valori assoluti, Vero, Bene e Bello, in continua traslitterazione tra
loro. Perciò Dio, libertà, immortalità sono esigenze della ragione
umana non solo come principi della conoscenza nel campo del sensibile,
ma proprio come esigenza della ragione umana di determinare conoscenze
effettive della ragione stessa: se per il primo tipo di esigenza Kant ha
proceduto a fondare la critica della ragion pura e la critica della
ragion pratica, per il secondo tipo di esigenza non si ha bisogno di
alcuna dimostrazione, perché la metafisica, col suo “ininterrotto
travaglio verso questo scopo”, sta lì a dimostrare proprio questo.
Nella seconda Sezione prima dell’opera, Dell’estensione
dell’uso teoretico-dogmatico della ragion pura, Kant afferma che
la metafisica può procedere nell’estensione della conoscenza ma non
sa se ad essa corrisponde qualcosa fuori di noi o se invece
“l’oggetto è sempre entro di noi”. Nonostante questo
“grave dubbio”, la metafisica può comunque procedere
all’”estensione dell’uso teoretico-dogmatico della ragion pura”,
“[…] perché le percezioni dalle quali ricaviamo […] la nostra
esperienza secondo principi tramite le categorie, possono pur sempre
essere in noi […] dato che non possiamo in nessun caso attenerci agli
oggetti, ma unicamente alla nostra percezione, che è sempre in noi.”[308] Dunque
secondo Kant è possibile un’esperienza che si presenti come
estensione dell’uso teoretico-dogmatico della ragion pura, ossia come
esperienza conoscitiva del soprasensibile, se accettiamo il fatto che
non sappiamo se quest’esperienza è in noi o fuori di noi, e ci
atteniamo unicamente alla nostra percezione, ossia a qualcosa che è
dentro di noi ma che pure si riferisce a oggetti esterni. In
questa concezione è rinvenibile dal punto di vista gnoseologico,
dominato come si sa dall’intelletto e non dalla ragione umana –
perché dal punto di vista metafisico, dove entra in un ruolo di primo
piano la ragione, il concetto di concreto significa tutt’altro - il
concetto carabellesiano di concreto, inteso non in senso metafisico, ma
come superamento del dualismo gnoseologico tra soggetto e oggetto: la
percezione rappresenta il mezzo per questo superamento, l’esperienza
si fa concreta, ossia supera il limite del sensibile e entra nel campo
del soprasensibile, il suo strumento non è più l’intelletto ma la
ragione, anche se Kant afferma subito dopo che “Da ciò [dal fatto che
dobbiamo attenerci esclusivamente alla percezione che è in noi] segue
il principio della suddivisione dell’intera metafisica: del
soprasensibile, per ciò che riguarda la facoltà speculativa della
ragione, non è possibile conoscenza alcuna (noumenorum non datur
scientia). Questo è quanto nell’epoca contemporanea è
accaduto […] nella filosofia trascendentale, prima che la ragione
avesse potuto compiere un passo, anche uno solo, nella metafisica vera e
propria […].”[309] Questo
in altre parole è il progresso della metafisica fino alla Critica,
ossia prima di questo scritto kantiano sui progressi della metafisica,
con cui appunto si tratta di estendere tale progresso alla conoscenza
del soprasensibile, ossia di dare realtà oggettiva ai concetti puri
della ragione: riguardo alla realtà oggettiva dei concetti in
generale, nell'importante paragrafo Sul modo di fornire realtà
oggettiva ai concetti puri dell'intelletto e
della ragione, Kant afferma che fornire
realtà oggettiva, ossia "rappresentare un concetto
puro dell'intelletto (o della ragione) come pensabile in un oggetto
dell'esperienza possibile", significa conoscere, perché
nel caso contrario il concetto è vuoto.
Questo conferimento, com’è noto, avviene, nel campo del sensibile,
mediante l'intuizione, ossia immediatamente,
attraverso lo schematismo, ma, ed è questo il punto che ci interessa,
nel campo del soprasensibile mediante la simbolizzazione del
concetto, ossia non immediatamente ma nelle conseguenze del
concetto stesso. Pertanto qui Kant introduce la conoscenza
del soprasensibile, da un lato ribadendo che essa non sarà mai una
conoscenza vera e propria, ma solo una conoscenza pratica,
dall’altro affermando che tale conoscenza avviene attraverso la
simbolizzazione analogica: una conoscenza solo per analogia[310] attraverso
il simbolo[311]. Ma,
se ci si consente questa breve digressione storica mirante a
inquadrare meglio il problema dell’analogia e a darne, pur nelle
notevoli differenze, anche non un solo riferimento al
concetto carabellesiano di Dio, può essere individuata nella
Scolastica medievale[312] quell'analogia,
articolata nelle sue diverse figure, che assume valore metafisico[313] -
si ricordi l'analogia entis di San Tommaso, che sviluppa il
problema dell'analogia come partecipazione a partire
dalla logica aristotelica - come propria del concetto di ente e dei
concetti trascendentali di Uno, Vero e Buono. Perciò nell’analogia ne
viene fatto un uso metafisico-teologico
per distinguere ma al tempo stesso per rapportare Dio alle
creature, che sono tra loro né equivoci, ossia diversi, né
univoci, ossia identici, ma, appunto, analoghi. Ma quest'analogia
tra Dio e gli enti creati è tale perché, come afferma
San Tommaso nella Summa Theologiae,
l'essenza e l'esistenza sono in Dio coincidenti in quanto
Egli è il primo principio universale, mentre nelle
creature, proprio perché create, sono separati, e dunque in questo caso
l'essere è per partecipazione[314].
Nella Scolastica del XIII e del XIV secolo numerose sono le
dispute sull'"analogia di proporzionalità" tra
l'essere di Dio e l'essere delle creature. Per San Tommaso e i
Tomisti, che si rifanno ad Aristotele, vi è un'unica
sostanza, l'essere in quanto essere, che possiede vari modi che
definiscono i vari sensi dell'essere. Contro costoro Duns Scoto, il
maggior critico del Tomismo, rifacendosi anch'egli ad Aristotele,
considera l'essere come concetto univoco e non analogo che accomuna
l'essere di Dio all'essere delle creature. Solo così, considerandola
univoca e non analoga, è possibile per concatenazione
causale induttiva dalle creature a Dio, conoscere e
pronunciarsi su Dio. In caso contrario la concatenazione
induttiva si spezza e Dio diviene l'assolutamente Altro, di
cui non è possibile dire nulla, con esiti
nichilistici come ad esempio nella teologia negativa. Nella
filosofia moderna Locke e Leibniz considerano l'analogia
come strumento di conoscenza probabile per
oggetti che trascendono l'esperienza, mentre
lo stesso Kant nella Critica della ragion pura definisce
l'analogia come "l'identità del rapporto tra principi
e conseguenze". Tornando
appunto a Kant, e precisamente a I progressi della metafisica, il
simbolo di un'idea è infatti da lui definito "[...]
una rappresentazione dell'oggetto secondo l'analogia,
ossia secondo una relazione a certe conseguenze
che è uguale a quella che l'oggetto in se stesso mantiene
con le sue conseguenze [...]", per cui "[...] il
soggetto di questo rapporto mi resta nascosto nella sua
costituzione interna, sicché può essere rappresentato
soltanto il soggetto, questa in nessun modo."[315] Nel
secondo stadio della metafisica, che Kant, com’è noto, chiama
“[…] della cosmologia trascendentale, perché spazio e tempo, nella
loro grandezza intera, saranno considerati come l’insieme di tutte le
condizioni e rappresentati quali contenitori di tutte le cose reali
connesse; e così il totale di queste cose, in quanto [spazio e tempo]
le riempiono tutte, sarà rappresentato sotto il concetto di un mondo”[316],
la ragione cerca di progredire dal condizionato all’incondizionato
ancora mediante gli strumenti dell’intelletto, inserendo
l’incondizionato come membro di una serie di condizioni, seppure come
termine ultimo della serie ascendente stessa e suo fondamento. Ma,
com’è noto, poiché “nello spazio e nel tempo tutto è condizionato
e l’incondizionato è irraggiungibile”, si giunge alla dialettica
della ragione con le sue antinomie e al conflitto tra le varie
metafisiche che hanno preceduto la Critica , ossia allo
scetticismo: il passaggio all’incondizionato e al soprasensibile (alla
conoscenza della cosa in sé) risulta impossibile, perché tesi e
antitesi risultano ambedue possibili, tranne nel caso in cui sono
entrambe vere come nell’antinomia dinamica della ragion pura, che si
riferisce alla causalità dei fenomeni – nella tesi considerandola
come legge meccanicisticamente necessaria di causa-effetto,
nell’antitesi considerandola, in alcuni casi, come causalità libera,
ossia non sottoposta alla legge di causa-effetto. Infatti tesi e
antitesi sono entrambe vere perché il soggetto delle proposizioni in
cui ci si riferisce nell’una e nell’altra è diverso:
nella tesi si fa riferimento ai fenomeni (causa phaenomenon),
nell’antitesi alle cose in sé (causa noumenon), per cui uno stesso
soggetto può essere considerato una volta come fenomeno, l’altra come
cosa in sé, senza contraddizione né scetticismo. Cosicché
l’antinomia dinamica è molto importante perché “ […] attraverso
la critica […] risulta che un tale noumeno, come cosa in sé, è
realmente conoscibile e proprio secondo le sue leggi, almeno dal punto
di vista pratico, sebbene esso sia soprasensibile. La libertà
dell’arbitrio è questo soprasensibile che mediante la legge morale
non è dato soltanto come reale nel soggetto, ma anche dal punto di
vista pratico è determinante riguardo all’oggetto: un soprasensibile
che sotto il rispetto teorico non sarebbe per nulla conoscibile e che
invece è l’autentico scopo finale della metafisica.”[317] La
libertà per Kant, dunque, in questa costellazione di problemi, risulta
il mezzo per giungere a una conoscenza di Dio e dell'immortalità
dell'anima, infatti: "[...] il soprasensibile
(Dio, al quale lo scopo propriamente mira) può
essere conosciuto, perché una legge della libertà è data
come soprasensibile. Lo scopo finale è diretto al soprasensibile nel
mondo (la natura spirituale dell'anima) e al
soprasensibile fuori del mondo (Dio), quindi
all'immortalità e alla teologia."[318] La
libertà dunque, nello stadio pratico-dogmatico della metafisica,
insieme allo scopo finale della ragion pura pratica, ossia
il Sommo Bene, cioè l'incondizionato nella serie
dei fini, sebbene in questo secondo stadio della
metafisica non possano essere conosciuti come realtà oggettive,
pure valgono incondizionatamente come realtà pure pratiche, e
sono rimasti due concetti, anche se "contestati scetticamente,
inconfutati"[319]. Dire,
come fa Kant, che "è un dovere progredire verso […] lo scopo
finale, così che bisogna avere uno stadio della metafisica per
progredire in esso", e che se ne ha una
conoscenza pratico-dogmatica significa dire che se ne ha esperienza. La
metafisica "deve esistere [quaestio juris] in
quanto è rivolta al compimento dello scopo
finale", ossia il Sommo Bene, e nello
stesso tempo esiste di fatto (quaestio facti)
come esigenza della ragione umana che si è concretizzata in
un "ininterrotto travaglio come campo di ricerca
essenziale"[320] Kant
opera una riduzione di tali oggetti soprasensibili da
sostanze, o cose in sé, a funzioni connotate dal
"per noi" e dal "come se", e apre
così la strada allo scetticismo in sede teoretica e all'anarchia
dei valori in sede pratica[321],
ma al contempo afferma che: “Si tratta ora di vedere se nondimeno
possa esserci una conoscenza pratico-dogmatica di questi
oggetti soprasensibili; essa sarebbe allora il terzo
stadio della metafisica, che porterebbe interamente a compimento
il suo scopo."[322] Kant
dunque, com’è noto, da un lato limita la conoscenza a una
conoscenza pratico-dogmatica che non tocca la natura degli oggetti
soprasensibili e riduce tutta la questione della conoscenza di
tali oggetti a questione pratica per noi, che ha valore
solo in quanto essi fondano l'azione morale (e al tempo stesso
sono fondati dal puro principio morale, lo scopo finale che è
il Sommo Bene) quindi in realtà svaluta
Dio, la libertà e l'immortalità a funzioni della
moralità e del Sommo Bene che per lui è il primum ontologico,
e così facendo si limita a un'impostazione empiristica e
umanistica del problema della conoscenza degli oggetti
soprasensibili come conoscenza non teoretica ma
pratico-dogmatica[323],
togliendo agli oggetti soprasensibili il carattere di sostanze, di cose
in sé, e riducendole a funzioni, a cose per noi.
20. Il passaggio dalla quaestio juris alla quaestio facti: la
possibilità della conoscenza delle tre Idee kantiane mediante la
simbolizzazione analogica E’ necessario
perciò per Carabellese preparare un quarto stadio della
metafisica in cui si entri nella conoscenza teoretica di tali oggetti
soprasensibili da un lato come loro fondazione, dall'altro come
fondazione della possibilità della loro conoscenza (esperienza
non empirica), uscendo dalla loro riduzione ad oggetti
per noi, poiché l'assenso di cui essi in tal modo abbisognano
nel conoscere pratico-dogmatico lascia la strada
aperta sul piano pratico al dissenso, sul piano teoretico allo
scetticismo, con conseguente riduzione della scienza
del soprasensibile, la metafisica, a scienza
empirica tra altre scienze empiriche. Solo così, nella
fondazione della conoscenza teoretica di tali oggetti e
nell'allargamento del concetto di coscienza e del concetto
di esperienza a esperienza oggettiva di cose in sé, la
ragione potrebbe dirsi pienamente realizzata, dal
momento che la sua funzione è la conoscenza delle cose in
sé nella loro realtà oggettiva, seppure, come dice
Kant, non nella loro natura intesa come principio o origine di
tali oggetti in sé. E' questo il compito che si apre al pensiero filosofico
dopo ma oltre Kant, e che consente di uscire da quel
circolo kantiano tra apriori e aposteriori, tra quaestio juris
e quaestio facti, nella considerazione delle tre cose
in sé per eccellenza, Dio, la libertà, il mondo: fondare
teoreticamente la possibilità della loro conoscenza vuol dire che
esse, non più semplicemente degli apriori indimostrabili e
necessari come idee alla nostra azione (dei postulati dogmatici
funzionali e non delle sostanze) passano ad essere proprio
fondamenti in senso forte, ontologico, ciò che
costituisce non soltanto l'azione morale, ma la possibilità
stessa dell'azione libera (la libertà), la possibilità
stessa di pensare Dio (Dio) e la possibilità stessa di pensare il
mondo (il mondo). In questo caso della fondazione oggettiva, Dio
libertà e immortalità lasciano la loro apparenza
di "come se" derivati a posteriori dall'esperienza e
posti surrettiziamente a priori a fondare l’azione morale, in un
circolo vizioso di rimandi tra a priori e a posteriori, per
disvelarsi nella loro natura reale di cose in sé. Essi da
un lato sono idee in quanto queste hanno non solo realtà soggettiva per
noi, ma anche realtà oggettiva in sé, in un superamento
concretistico della chiusura della conoscenza in se stessa, e della
filosofia del conoscere, e della divisione tra Objekt e Gegenstaende che
finisce per escludere le Gegenstaende stesse, ossia elimina,
nel campo della speculazione, l’oggetto come fenomeno, per
soffermarsi solo sull'Objekt, intendendolo come conoscenza oggettiva
delle cose in sé (speculazione). Dall’altro lato Dio, libertà e
mondo, in quanto idee realmente oggettive nella concretisticamente
superata separazione tra essere e conoscenza, ossia cose in sé,
costituiscono il fondamento, cioè l’in sé dell’apriori, ciò che
rende possibile l’apriori stesso al di là e prima, in senso logico
trascendentale, della quaestio facti, ma anche della quaestio
juris, ossia del loro essere come apriori ciò che è necessario affinché
un’esperienza si dia. Si vuol dire che non è perché si danno
azioni libere (quaestio facti) che si postula
dogmaticamente una libertà (quaestio juris),
non è perché esiste un creato che si postula dogmaticamente un
Creatore, e non è perché le azioni libere
si fanno risalire all'immortalità della persona che
si postula dogmaticamente tale immortalità. Questo è
procedimento induttivo che non appartiene alla filosofia come
scienza. E' piuttosto viceversa perché Dio,
la libertà, l'immortalità sono reali in senso
forte che si dà un creato, si dà la persona nella sua
infinità e il soggetto nella sua moralità libera e
responsabile, nella sua autonomia. In altre parole, sgombrato il
campo dalla quaestio facti, e dal circolo vizioso in cui fa
involvere l'intelletto, è la quaestio juris a
richiedere un fondamento oggettivo, e a esistere perché esiste un
fondamento oggettivo, il quale per un verso è
bisognoso di dimostrazione, per l'altro viene
postulato al fine di fondare la questio juris. In
questo spostamento, e in questo abbandono della questio facti,
avviene veramente il passaggio dal piano dell'intelletto al piano
della ragione, dal piano della riflessione con i suoi circoli al piano
della speculazione. E' necessario perciò rompere il circolo tra quaestio
juris e quaestio facti, e ammettere la quaestio juris come
apriori della quaestio facti, e non come aposteriori,
da questa dedotto, della realtà oggettiva della cosa in sé che
si pone come il vero apriori intrascendibile. Semmai la questione
diviene allora appunto quella, congiunta tra gnoseologia e
ontologia nella metafisica, da un lato di fondare la possibilità della
conoscenza teoretica di tale cosa in sé (questione critica de
jure), dall'altro di mostrare la sperimentabilità di
questa conoscenza teoretica stessa (questio facti). Ma
dall’altro ancora per un verso di dimostrare come quaestio juris e quaestio
factitrovino il loro fondamento e la loro possibilità non in
un “come se” e in un “per noi” aperti allo scetticismo, ma in un
in sé oggettivo, e soprattutto di dimostrare questo in sé oggettivo, e
in ciò abbattere la separazione tra essere e sapere. 21. Apriori ed esistenza: il
superamento dell'apriori logico dell'intelletto nell'apriori
ontologico della coscienza e la conoscibilità razionale dell'essere
in sé Carabellese
ritiene, ne La filosofia dell'esistenza in Kant (dai
corsi degli anni accademici tra il 1940 e il 1943), che si
debba andare oltre Kant, che non riuscì a superare né l’eterogeneità
di materia e forma, né l’essere l’apriori un al di là della
coscienza. Infatti afferma: "Il problema dell'apriori, così,
dopo Kant, [...] si pone come il problema dello stesso
essere. E c'è forse modo, allora, di scoprire
quali sono le esigenze fondamentali che sogliamo dire
materia e forma di coscienza e di superare quella loro
eterogeneità, che determinò i confini che la speculazione kantiana
non riuscì a superare, e che è, o dovrebbe essere, problema
vivo e aperto, in quanto non si è ancora
saputo andare al di là di Kant. L'idealismo
tedesco postkantiano è l'arresto della speculazione di
fronte alla difficoltà creata dalla scoperta di
Kant (cosa in sé), è la ricaduta nell'empirismo. Quelle
che noi diciamo individuazione e diversificazione
di coscienza ci par che risolvano il dissidio
kantiano della materia e della forma. Io
ritengo che, ponendo il problema dell'apriori di
coscienza o meglio anche della coscienza a priori come lo stesso
problema dell'essere, continuiamo Kant, rompendo quei
confini in cui egli aveva chiusa la sua
speculazione. Questo significa ontologismo critico
o idealismo ontologico: significa che l'esigenza a
priori dell'essere, che la coscienza ha, non deve
essere soltanto un argomento (ontologico) per un problema (Dio),
ma è l'esigenza fondamentale, in base alla quale vanno risoluti
tutti i problemi."[324] Questo
Carabellese considera ontologismo critico: problema della coscienza e
problema dell’essere si incontrano nel problema dell’apriori – che
è al tempo stesso problema gnoseologico e problema ontologico -,
apriori che non sta più soltanto a indicare il limite assoluto della
conoscenza, ma per un verso viene a spostarsi e relativizzarsi in
direzione proprio della conoscenza dell’essere – si ricordi la tesi
masciana della “concrescenza materia/forma della conoscenza” che
Semerari rileva essere l’eredità che Carabellese accetta dal
suo maestro neokantiano, Masci, e in questo Carabellese è modernissimo
– per l’altro indica proprio lo spazio oltre il quale la
conoscenza non è più conoscenza dell’intelletto ma della
ragione – Carabellese la chiama coscienza – e oltre il quale ci si
pone direttamente sul terreno dell’essere. L'apriori,
pur relativizzato e disancorato dalle sue forme immutabili
kantiane, viene a costituire il punto di apertura all'essere
che consente di porsi sul terreno della ragione, dove scompaiono sia il
rapporto materia/forma a vantaggio della loro concrescenza[325] sia
il dualismo soggetto-oggetto del dato a favore del reciproco
prodursi in concreto. Ma appunto per porsi sul piano dell'essere bisogna
oltrepassare l'apriori, considerato non soltanto in senso kantiano
come immutabile ma tout court come apriori logico
dell'intelletto, e vederlo non più come limite invalicabile, ma
soltanto come punto oltre il quale si apre la ragione,
e con essa la conoscibilità dell'essere. Qui siamo ancora
apparentemente su un terreno che vede Kant reinterpretato dal
neokantiano Masci, primo maestro neokantiano di Carabellese. Infatti
la facoltà che scopre la cosa in sé è la
ragione, vera e propria facoltà del reale in grado di avere
un uso trascendente che superi il limite dell'esperienza sensibile
pur senza essere in grado, per Kant, di entrare completamente nel
mondo noumenico, ma restando appunto sul limitare, sul confine tra
mondo noumenico e mondo fenomenico, perché la cosa in sé è in
lui realtà extramentale inconquistabile, l’essere al di là del
conoscere, l’oggettività reale al di là dell’oggettività
fenomenica della conoscenza. Ma come si sarà compreso dalla
concezione carabellesiana della concretezza, è proprio questa
dualità di mondi che Carabellese contesta, ossia la distinzione
tra un mondo in sé e un mondo mentale[326],
ossia la distinzione tra essere e apparire. Così
il concetto di esperienza si allarga a altre sfere[327],
appunto la coscienza, la conoscenza non è più conoscenza
dell'intelletto ma della ragione, che diviene lo strumento che
l'uomo ha per sconfinare nel territorio inesplorato
dell'essere. L'apriori non è più limite invalicabile
dell’intelletto, ma punto oltre il quale si apre la
ragione, e con essa la conoscibilità dell'essere. La cosa
in sé è per Kant la garanzia del non ridursi delle cose a
rappresentazioni: ciò gli consente di professare il realismo
empirico, che vede le cose esterne alle rappresentazioni
come fenomeni che si presentano alla coscienza.[328] Nella
distinzione tra un mondo in sé e un mondo mentale[329] operata
da Kant, il mondo mentale è divenuto il mondo dell’esperienza
oggettivamente valido per tutti i soggetti a partire dalla coscienza in
generale . Carabellese
in altre parole critica in Kant che la ragione conduca solo fino al
limitare del mondo dell’essere in sé, ossia nel confine tra mondo
noumenico e mondo fenomenico. L’ontologismo integrale di cui
Carabellese parla talvolta non può consentire che la ragione abbia un
uso così limitato, che si fermi al noumenico e che non abbia una
conoscenza dell’essere in sé, e d’altra parte non può
consentire che tra mondo dell’essere e mondo del conoscere si apra uno
iato: la sua concezione del Concreto sta lì a dimostrarci il contrario.
Il progetto implicito è quello di dimostrare, oltre anche se dopo Kant,
e nello stesso tempo, risalendo indietro nei secoli, alla Scolastica
medievale, che riteneva possibile una conoscenza dell’essere in sé,
una continuità tra mondo noumenico e mondo dell’essere in sé che
consenta una conoscibilità di tale mondo dell’essere in sé. Questa
conoscibilità è stata esclusa dal Kant critico, che ha parlato
soltanto di noumenicità, ossia di pensabilità. Il Kant critico,
argomenta polemicamente Carabellese, conserva un tacito presupposto
realistico, perché identifica “ […] l’esistenza con
l’oggettività ritenuta realtà non mentale” [330] cioè
cosa in sé, e con l’identificazione tra esistenza e cosa in sé,
sostanzialmente mette da parte quest’ultima. Infatti la conseguenza
della cosa in sé è che anche il mondo dell’esperienza, il mondo del
senso, è un mondo mentale: l’essere si separa dal conoscere[331]. E
infatti, spiega, Kant inserisce l’esistenza come una delle modalità
presenti nella tavola dei concetti puri, assieme a possibilità e
impossibilità, necessità e contingenza: l’esistenza è da Kant
considerata un apriori logico. In tal modo l’esistenza necessita, per
essere affermata, dell’apporto del senso, ossia è possibile
dichiarare un ente esistente solo a posteriori, a partire cioè
dall’esperienza: “E allora […] vediamo che l’apriori
dell’esistenza è l’esigenza dell’aposteriori, e cioè
dell’empirico: l’esistente a priori è il sentito empirico, cioè
l’aposteriori.” [332] In
questo senso l’esistenza del Kant critico è ancora quel più del
concetto del Kant precritico, un limite invalicabile e raggiungibile
soltanto attraverso il senso: l’oggettività reale in senso forte che
collega mondo fenomenico e mondo dell’essere in sé. Infatti questo più
del concetto sarà il fondamento della Confutazione dell’idealismo che
Kant aggiungerà alla Seconda Edizione della Critica nel 1787,
ove dirà che l’avvicendarsi delle rappresentazioni nel tempo richiede
un quid permanente che non si risolve in esse. Ma
l’impostazione formale del problema dell’esistenza nel
Kant critico gli consente di risolvere il problema della realtà e di
superare la difficoltà del realismo, “[…] mostrando che il
conoscere trae bensì origine dall’esistere, ma che l’esistere non
ha significato che entro il conoscere.”[333] Ciò
che preme a Carabellese di questo significato dell’esistenza nel
conoscere consiste nello spostamento che l’esistenza stessa assume in
Kant da più del concetto che come quid permanente si
definisce come limite invalicabile irraggiungibile e conoscibile
soltanto mediante il senso a esigenza formale della coscienza, come
avviene nella seconda edizione della Critica, ove c’è
uno spostamento di significato per quanto riguarda l’esistenza
da più realistico del concetto a esigenza formale della coscienza.
Dire come vuole Carabellese che l’esistenza è esigenza formale della
coscienza significa per un verso dire che l’esistenza non è un più
realistico del concetto, il quid permanente kantiano, bensì
proprio, ancora kantianamente, ma mettendo in luce la sua natura formale
e non sostanziale, per un verso un apriori intellettuale per quanto
riguarda gli oggetti di esperienza – da qui la sua battaglia contro
l’attribuzione dell’esistenza a Dio -, un’esigenza apriori della
coscienza per quanto riguarda l’esistente molteplice, omogeneo e
relativo – i soggetti - , per l’altro verso dire che è una forma
della coscienza (la coscienza in generale) che, superando l’apriori
intellettuale, porta l’essere nella coscienza e quindi dimostra che
l’essere è spirituale: l’oggetto diviene l’oggetto unico in cui i
molti convengono mediante la coscienza in generale. Quest’ultima
Carabellese chiama la concretezza della coscienza, che Kant poteva
raggiungere se non avesse considerato la cosa in sé come esistente e
come fuori della coscienza. “La vera oggettività kantiana non è
rispondenza alle categorie: questa sarà l’oggettività logica. Ma
l’oggettività veramente oggettiva è quella che la cosa in sé assume
col presentarsi, sì, alla coscienza, ma rimanendo in qualche modo
esterna ad essa. L’oggetto, nel suo esser dentro alla coscienza, non
è veramente oggetto, è un sentito dell’intelletto, è sempre un
<<esse in mente>>, non un <<esse in re>>, che,
per Kant, è dato solo dalla cosa in sé”. [334] In
questo considerare la cosa in sé come esse in re Carabellese
concorda con Kant, perché infatti Carabellese considera l’unico vero
apriori, non logico ,ma ontologico, e non dell’intelletto ma della
ragione, l’essere. Questa è l’oggettività “veramente
oggettiva”, l’oggettività reale di Kant. Ma in quel
separare kantiano la cosa in sé come esse in re dall’esse
in mente la strada di Carabellese procede oltre Kant: la cosa in sé
non è l’inconoscibile proprio perché non è separata dall’esse in
mente. Invece separando l’esse in mente dall’esse in re Kant,
afferma Carabellese, dà dal punto di vista della conoscenza un concetto
negativo – non può esser conosciuta – ma nello stesso tempo
positivo perché non dubita della sua realtà, che anzi costituisce quel
permanente come punto di riferimento della rappresentazione.[335] La
cosa in sé è per Kant la garanzia del non ridursi delle cose a
rappresentazioni: ciò gli consente di professare il realismo empirico,
ossia quel realismo che vede le cose esterne alle rappresentazioni come
fenomeni che si presentano alla coscienza. [336] Come
si è già detto poco sopra, secondo il Carabellese de L'idealismo
italiano, "[...] Kant cade nella contraddizione
dell'essere in sé che è insieme noumenico
e cioè idealistico, non raggiunto dalla mente e
cioè realistico."[337] La
sintesi a priori da un lato esclude il riferimento al reale che non è
oggetto di coscienza, ma dall’altro lo lascia sussistere pur
affermandone l’inconoscibilità, e dunque implicitamente afferma la
trascendenza dell’essere alla coscienza in generale. Così non
soltanto si ha un residuo realistico nella posizione kantiana che
conduce a uno scetticismo o almeno a un agnosticismo, ma soprattutto la
certezza non è riportata alla verità, l'immanenza rimane
un'esigenza irrealizzata, ossia rimane quel distacco tra l'essere
e il conoscere che per Carabellese è necessario conservare come
distinzione, ma eliminare come separazione, perché il problema
della conoscenza - come è possibile certezza soggettiva dell'essere
oggettivo - sia veramente risolto e perché possa parlarsi realmente di
idealismo - l'idea come oggetto nella coscienza dei
soggetti. Pertanto la posizione di Carabellese rispetto a Kant in
quest'opera è critica: Kant ha posto ma non risolto
il problema della conoscenza, perché non è salito dal
piano gnoseologico al piano ontologico, dal piano della
certezza a quello della verità - o meglio, non ha posto il
problema dell'immanenza della verità nella certezza, lasciando
sussistere la cosa in sé come estranea al soggetto
e trascendente rispetto alla conoscenza [338].
Già con la filosofia del Risorgimento italiano, secondo
Carabellese, ossia con Rosmini, Gioberti e Mazzini, si
comincia a vedere "[...] l'astrattezza di tale impostazione
del problema della conoscenza nella sua pretesa di prescindere da
ogni oggettiva indagine metafisica."[339] Anche
qui Carabellese sottolinea il suo consapevole
passaggio dal piano gnoseologico al piano ontologico, o meglio la
necessità per lui che gnoseologia e ontologia siano strettamente
correlate, come dichiara: "Ora fino a Kant l'inavvertito
errore fondamentale era l'affermazione della
possibilità di una ontologia indipendente dalla
gnoseologia. La scoperta kantiana, il suo copernicanesimo, è la
denunzia di questo errore [...] l'errore del dogmatismo
metafisico. [...] Ma come conseguenza si affermò, dopo Kant, il
chiudersi rigoroso della filosofia nella conoscenza
stessa kantianamente concepita. L'ontologia scomparve
e scomparve così non soltanto la metafisica dogmatica ma ogni
metafisica [...] la filosofia divenne non più dell'essere, ma del
conoscere. [...] La conquista kantiana invece così non è stata
proseguita [...] l'errore realistico, denunziato da Kant, è continuato
[...] [esso] afferma l'essere come esistente [...] al di là della
coscienza che se ne ha [...]"[340] L'inscindibilità del
sapere dall'essere e della gnoseologia
dalla metafisica, secondo Carabellese, Kant la esprime col
concetto di cosa in sé, che è al tempo stesso
noumeno, ossia idea della coscienza, e cosa in sé, ossia appartenente
all'essere: nella cosa in sé kantiana c'è in germe e intrinseco
questo rapporto tra sapere ed essere, tra
soggettività ed oggettività, ambedue necessari per parlare di
ontologismo integrale. Non è possibile porre problemi gnoseologici
senza porre contestualmente problemi ontologici: è il noumeno
kantiano nella sua intrinseca contraddittorietà di essere
pensabile eppure cosa in sé, ossia nella mente e fuori di essa,
che rappresenta l'anello di congiunzione tra gnoseologia e metafisica, e
tra soggettivismo e oggettivismo[341] . Secondo
il Carabellese di Che cos'è la filosofia?, Kant scopre, ed è
questo suo merito fondamentale, la cosa in sé, e così fonda, o meglio
rifonda, dopo Platone e Aristotele, la metafisica: a suo parere, né
l’aver dichiarato Kant l’inconoscibilità della cosa in sé, né
l’aver egli definito l’impossibilità della metafisica come scienza,
appartengono al vero Kant. Sono la critica e la filosofia successive che
hanno decretato, “[…] l’annullamento dell’essere come sapere
proprio della filosofia, o la dichiarata esclusiva negatività di tale
essere.”[342] E’
insomma per Carabellese la successiva interpretazione che è errata,
perché “[…] messa in rapporto con la concezione
gnoseologicistica-realistica dell’essere”.[343] Ma
evidentemente Carabellese nella sua severa critica di tutta
la filosofia postkantiana, non si riferisce al Kant della Critica quando
afferma che “[…] la vera scoperta kantiana [è] quella dell’essere
come oggetto dello speciale sapere filosofico[344],
“[…] quell’essere al quale Kant, dicendo cosa in sé, si teneva
saldamente avvinghiato […].”[345] Ma
Carabellese è consapevole che Kant non ha realizzato il suo pensiero
metafisico quando poi afferma implicitamente che il compito, dopo Kant,
è sviluppare “[…] la scoperta kantiana dell’appartenenza
dell’essere al pensiero (noumenicità) nelle sue esigenze profonde.”[346],
perché "Il sapere filosofico è quello che persegue l'essere
e non si contenta del fenomeno."[347] Quindi
la grande scoperta ontologica di Kant è l’essere come cosa in sé[348],
con cui egli riapre la via metafisica. Ogni filosofia prima di Kant non
poteva essere trascendentale, ma dopo Kant si è elusa la difficoltà
insita nella cosa in sé e si è abbandonata la via filosofica kantiana
vera perché non empiristica[349].
Poiché per Kant la scienza è apriori, cioè è indipendente
dall’esperienza, la metafisica come scienza apriori del soprasensibile
costituisce la scienza per eccellenza, e dunque negare la possibilità
della metafisica equivale a coinvolgere in questa negazione ogni altra
scienza, e dunque la scienza tout court. Ma
mentre Kant pensava a una metafisica come scienza assoluta
immutabile e definitiva una volta costituita, per Carabellese la
metafisica, pur essendo espressione massima della filosofia,
non può esser concepita con una sua "[...] universale
oggettività incontestata e incontestabile, compiuta e
però né mutabile né aumentabile. E' l'antistoricismo del Cartesio che
permane in K., che non vuol vedere l'oggettiva filosofia nel
soggettivo filosofare, perché teme di ridurre quella oggettività ad un
vano dialettizzare. E' l'antistoricismo dell'Illuminista
(...]."[350] Ma,
aggiungeremmo, Kant non vede nemmeno quell’essere la filosofia prima,
ossia la metafisica, come sarà poi da Hegel in poi, come uno dei
linguaggi dell’Assoluto che si fa Storia. 22.
Sintesi a priori metafisica e noumeno Sul
piano gnoseologico, Carabellese istituisce un rapporto in Kant tra
sintesi critica e noumeno: la sintesi è possibile perche la cosa in sé
è noumeno, ossia è l’immanenza dell’essere nella coscienza che
rende possibile la sintesi. Infatti: “Sinteticità è
dunque per Kant […] riferimento essenziale di un’entità logica alla
esistenza reale, sinteticità è il comporsi necessario di elementi
logici rappresentativi, comporsi in modo da avere nonostante questa loro
natura schiettamente logica, mercé questo loro comporsi (ed ecco
letteralmente la sinteticità) un’ineliminabile rapporto all’essere.
Donde l’insistenza del reale nello spirito. Perciò la sinteticità è
“[…] Quel precritico e critico <<più>> che caratterizza
l'esistenza; ma posto [...] nello spirito [...]. E' quindi
quel carattere dello stesso spirito, pel quale questo ritrova in
sé l'essere [...]: è quindi l'immanenza dell'essere nello
spirito, che è pensare."[351]:
l’immanenza dell'essere nello spirito come pensare che è la
cosa in sé come noumeno, e la sua dimostrazione, che Kant dà con la
sintesi a priori, è per Carabellese la grande scoperta di Kant, “Non
quindi quella del limite della conoscenza com’egli credeva; e neppure
il non essere della cosa come credettero i suoi
epigoni."[352].
Ma Carabellese vuol sottolineare di Kant la ripresa del
valore della sinteticità, perché in tal modo Kant ridà
valore alla sensibilità contro il disvalore che questa, come
senso oscuro e confuso, aveva in Cartesio e Leibniz[353]:
la conoscenza è possibile anche grazie al senso
che, come capacità ricettiva, raggiunge "[...]
quel <<più>> che caratterizza l'esistenza di
fronte al concetto puro [...]."[354] ,
e così la sintesi apriori, attraverso il
senso come "capacità realistica dello
spirito conoscitivo", passa dall'oggettività soltanto
logica all'oggettività reale. Sotto questo aspetto, non si parlerebbe
più di sola pensabilità ma di conoscibilità della cosa in sé, che
invece Kant dichiara inconoscibile appunto perché quel più
esistenziale che risulta al senso nella sintesi risulta non in sé ma
come fenomeno, cioè nel suo apparire: è questa, afferma
Carabellese, la "difficoltà fondamentale di
tutta la Critica , il problema vero",
perché la negazione di una scienza dell'in sé
e la riduzione della scienza a scienza fenomenica riaprono
la strada allo scetticismo humiano, togliendo valore
di scienza alla conoscenza. E' qui che deve avvenire il salto
dalla sintesi a priori naturalistica alla sintesi a priori metafisica,
dall'intelletto che è fisico alla ragione che è
metafisica. Mentre l'in sé è inconoscibile per
la sintesi a priori naturalistica propria dell'intelletto -
l'in sé è qui negativo - è nonostante ciò pensabile per
la ragione, che quindi deve dimenticare la
dialettica che l'ha caratterizzata finora nelle
diverse metafisiche sino a Kant per l'uso errato della ragione,
quello naturalistico, e deve metter capo a una sintesi a priori metafisica.
Questo il progetto di Kant a partire dalla Dissertazione del
1770. Ma questa speciale sinteticità metafisica non
è però giustificata dalla sola noumenicità, che
rende l'in sé interno alla coscienza. La
noumenicità costituisce il punto di partenza della
metafisica come scienza, dal momento che è possibile intendere la
stessa noumenicità come sintesi. E' questo secondo
Carabellese il problema kantiano della metafisica come
scienza: "O, dunque, la noumenicità è sintetica, e di una
sintesi che non ha bisogno di intuizioni neanche pure, e potremo
costruire la metafisica come scienza assoluta, di fronte
alle scienze del fenomeno; o non v'ha altra
sintesi a priori che quella racchiudente l'intuizione
e allora [...] [la] cosa in sé [sarà vista] come inconoscibile [...]
La scienza metafisica sarebbe un non senso."[355],
e l'unica scienza sarà quella del fenomeno: questa
seconda via negativa è una delle due percorse dalla
filosofia postkantiana, l'altra è quella della
trasformazione della Critica in metafisica,
trasformazione che Carabellese chiama criticismo metafisico, e che
dichiara lontanissima dai propositi di Kant. Kant infatti, nel
porre l'oggetto della metafisica, l'oggetto soprasensibile,
secondo Carabellese definisce che "Esso non è l'oggetto
concreto delle nostre intuizioni, ma è."[356],
ossia lo pone positivamente, laddove "[...] l'<<è>>
si riferisce al noumeno, cioè all'idea [...]. Cioè la
ragione è per suo conto sintetica: l'essere è proprio il suo
oggetto."[357] .
In altre parole secondo Carabellese, sebbene "Il dogmatismo
intellettualistico di K. sta nel conservare il
pregiudizio di un'altra oggettività al di là di
quella della ragione [...]"[358],
il noumeno rappresenta la sinteticità metafisica ricercata da
Kant, sinteticità né naturalistica né fenomenica, ma
propria della ragion pura, nonostante permanga in Kant la
confusione realistica tra la positività del noumeno come
appartenenza dell'essere alla coscienza che si
fonda sulla ragione e la negatività dell'inconoscibilità
della cosa in sé che si fonda sulla sintesi a priori
naturalistica. Tale confusione è in parte diradata dalla
distinzione kantiana tra ragione e intelletto, ragione
che, dice Carabellese in stretta consonanza con
Jacobi, è per Kant in rapporto alla fede[359].
Ufficio della ragione in Kant è infatti quello di svelarci l'in sé
"al di là e al di sotto del fenomeno", non come
soltanto positivamente pensabile, bensì proprio "[...] nella
sua intima esigenza di ragione, cioè di coscienza
incondizionata: nella sua Idea. E così è
sintetica." [360] Il
prodotto di questa sintesi a priori metafisica
della ragione è la cosa in sé come Idea,
sintesi che ha origine nel noumeno. Vengono così a delinearsi due
interpretazioni carabellesiane della cosa in sé di Kant: l’una
fenomenistica che considera la cosa in sé presupposta dal sentire e
origine dell’intuizione, ma inconoscibile e dunque negativa, l’altra
critica che considera la cosa in sé come noumeno: "La cosa in sé
di K. è, tutta, quella presupposta dal sentire,
che pone la Critica in così grave imbarazzo; o non
v'ha anche, e più vitale pel sistema di pensiero kantiano,
un'altra cosa in sé, quella noumenica [...]?
[...] la cosa in sé veramente critica è questa noumenica
della ragione e non quella da sentire [...] il valore della Critica sta
proprio nella scoperta di una oggettività in sé
che non è quella naturalistica del senso, sta nella
[...] radicale affermazione dell'essere, più che nella
negazione della sua conoscibilità."[361] E’
dunque l’aver posto l’accento sulla cosa in sé come presupposto
inconoscibile del senso che ha deformato l’interpretazione
postkantiana della Critica trasformandola in dottrina fenomenistica
della conoscenza, secondo Carabellese, considerando la conoscenza
soltanto come sintesi a priori naturalistica. Ma questa deformazione è
motivata in qualche modo dalla stessa Critica dal momento che
essa postula, e si ferma sul limitare della cosa in sé come
noumeno pensabile ma inconoscibile, "[...] il dualismo tradizionale
di soggetto come conoscenza, e oggetto come essere che è il presupposto
causale del senso [...]"[362] Così la Criti ca si
trova di fronte al "famoso dilemma" che Carabellese esprime
in questi termini: "C'è, ineliminabile, un sentire. Il
sentire a sua volta è fondato su presupposti oggetti che facciano
impressione sui sensi. Tale presupposto, a sua volta, è fondato sulla
credenza alla validità oggettiva della nostra
percezione. [...] Ora la Critica distrugge
proprio questa credenza, riducendo a rappresentazioni gli oggetti
dei sensi; ma per procedere a questa distruzione parte proprio dal
sentire e quindi anche dal suo presupposto. Perciò, mentre
per entrare nella Critica dobbiamo partire
da questo presupposto [...] per restare [...]
idealisti trascendentali [...] dobbiamo abbandonare il presupposto
stesso."[363] Per
sottrarre la Critica al dualismo tra un essere
presupposto e fondamento del sentire, da esso separato e dunque
inconoscibile – la cosa in sé -, e un essere interno alla coscienza
– il noumeno -, in cui quella separazione tra essere e conoscere e
quella inconoscibilità si rivelano una rappresentazione del soggetto
empirico, il pensiero postkantiano ha proceduto, secondo Carabellese,
alla progressiva eliminazione della cosa in sé partendo
dall’accettazione della sua inconoscibilità intesa in senso non
naturalistico ma metafisico, mentre avrebbe dovuto “[…] mostrare nel
noumeno la vera positiva oggettività dellaCritica […] nella
imprescindibilità del suo essere pensato, cioè del suo costituire il
pensiero.”[364] Nel
pensiero postkantiano mondo dell’essere e mondo del conoscere si
separano, e così, secondo Carabellese, si rinviene in
esso l'eliminazione progressiva della cosa in sé: così la
conoscenza si chiude rigorosamente in se stessa eliminando ogni
riferimento ad altro da sé e assumendo un
valore schiettamente idealistico: la cosa in
sé diviene pura negazione inconoscibile e dunque irrazionale,
la metafisica non è più dogmatica e contraddittoria
scienza dell'essere ma scienza del conoscere, la metafisica come
ontologia cioè scienza dell'essere è abbandonata, il criticismo metafisico,
ossia la trasformazione della Critica in metafisica, si
compie[365].
Invece per Carabellese problema interno della filosofia, ossia problema
della filosofia come conoscere metafisico, e problema esterno della
filosofia, ossia problema oggettivo dell’essere, sono inscindibili.
Bisogna porre la cosa in sé nella sua positività affermativa
dell’essere, non separata dalla sua noumenicità affermativa del
sapere. Essere e sapere non sono separati ma distinti: ecco il Concreto
o Coscienza, di cui il sapere umano e la coscienza umana sono
manifestazioni.
23. L’oggetto
come valore In
questa visione dell’oggetto reale a un tempo come cosa in
sé e noumeno, l'oggetto non si pone più come al di
fuori della coscienza, bensì come norma non soltanto
della conoscenza, ma anche dell'azione volontaria e del sentimento[371]. Allo
stesso modo in cui vuole attribuire all'intelletto una funzione non
meramente empirica, così Carabellese vuole riscattare il senso
dall'essere, da Cartesio e Leibniz in poi, una modalità
della conoscenza inferiore all'intelletto perché confusa,
e vuole attribuirgli, come si è già detto, una sua propria
chiarezza specifica, rifacendosi a Kant, che dà grande
valore alla conoscenza del senso e su di esso fonda in
particolare la geometria: l'intuito è intuizione non del semplice ma
del composto[373].
Intelletto, volontà e sentimento non sono dunque scissi tra loro,
ma si richiedono a vicenda in un rapporto che esclude la
preminenza di uno sugli altri. Tra essere, fare e
sapere si stabilisce un circolo che esclude
l'intellettualismo e conduce al coscienzialismo[374] Se
dunque l'oggetto si pone come norma del conoscere, del
fare e del sentire, significa che esso è valore.
Discutendo le tesi di Masci contrarie alla filosofia dei valori come
filosofia insufficiente a dar ragione della realtà concreta, e
pensiero esposto alle critiche del positivismo e del materialismo,
Carabellese definisce che cosa è per lui valore: il concetto universale
che la parola riferita alla cosa significa. "La cosa che noi
abbiamo presente è sempre la cosa pensata."[375] Quindi
l'oggetto non vale in sé nella sua individualità, ma in quanto espressione
di un'idea, il concetto di quella cosa appunto. E' questo il suo valore,
tanto maggiore quanto più esprime pienamente
e soddisfacentemente l'idea di cui è espressione, o meglio
realizzazione concreta, concretezza d'essere: "[...] il
valore di una cosa sta nell'oggettività sua, e la sua
valutazione non è altro che la sua
oggettivazione."[376] E
ancora, valore e concetto sono equivalenti, per cui si parla
di valore di una cosa quando si dimentica che è in rapporto a me che
la conosco, si parla di concetto invece quando la
si guarda nella sua oggettività conoscibile. Ciò significa che
Carabellese vuole affermare l'assolutezza del valore: il valore
è assoluto e non soltanto in rapporto al soggetto pratico che valuta.
Il valore di un oggetto è ciò che è l'idea, il concetto di quell'oggetto
nella sua oggettività, senza alcun riferimento al soggetto
pratico-empirico nella sua individualità. Carabellese combatte
la riduzione del valore a sentimento, ad assenso: una cosa non ha
valore perché noi glielo attribuiamo con l'assenso del nostro
sentimento: sono vane tutte le distinzioni tra valore
come sentimento e giudizio valutativo. Il punto fondamentale della
questione è come è possibile un ordine dei valori, ossia
una gerarchia che è essa stessa certamente anche un valore.
"Quello che deve essere, è.": questa per Carabellese la
posizione fondamentale ma irta di difficoltà
della filosofia dei valori. Dire che ciò che deve
essere è significa dire che "il valore consiste nel
dover essere, ossia nell'essere necessario e universale, nell'essere
in quanto idea. I valori sono le idee."[377] Ma
allora, si chiede Carabellese, che cosa è l'idea? E' riducibile
tutto l'essere ad essa? E' l'antico problema del realismo
e dell'idealismo, che si ripropone nell'indeterminatezza
dei concetti e delle parole, ma che è
appunto ciò che fa antichissima la filosofia dei
valori nei suoi motivi fondamentali. Riguardo al rapporto tra valore e
conoscenza, la distinzione che viene fatta tra giudizi
valutativi e giudizi conoscitivi è possibile soltanto
se la verità non viene vista come valore, perché se
la consideriamo tale, e come il supremo dei valori, allora la
distinzione tra giudizi di valore e giudizi di conoscenza non può
essere valida, e si deve considerare ogni giudizio valutativo
anche conoscitivo e viceversa. Infatti,
afferma Carabellese, dire che la verità è un valore,
e un valore tra altri, significa dire che "è
funzione della valutazione" e ad essa subordinata:
un assurdo. E' per questo che i più conseguenti
tra i filosofi del valore escludono dal campo dei
valori la verità, e il relativo giudizio lo tengono
ben distinto da quello valutativo. Dire che la verità
è il supremo dei valori significa dire che è origine e
fonte di tutti gli altri, ad essa subordinati, e che è essa che subordina
a sé la valutazione e non il contrario. "Questa equivoca
concezione del valore" - quella che considera la
verità un valore e dunque subordina ad essa la valutazione - rende meno
limpidi i rapporti tra filosofia e religione. Per
Masci la religione si giustifica in quanto la filosofia è una
concezione unitaria ma finita e non assoluta dell'esperienza poiché
questa non è mai né assoluta né infinita, cosicché il limite
della filosofia diviene lo spazio della religione.
Carabellese obietta che bisogna intendersi sul concetto
di esperienza: è necessario dire che l'esperienza del
singolo è finita e limitata solo in termini di temporaneità:
la filosofia oltrepassa con la ragione il limite naturale
dell'uomo. Inoltre e soprattutto bisogna intendersi sul
concetto di filosofia e di ragione che questa corrente
di pensiero ha: "Può l'esperienza porre limiti alla ragione,
quando la ragione è la necessaria forma dell'esperienza? E può
la filosofia essere altra cosa che scienza della ragione? Della
ragione, si intende, vissuta nella esperienza, della ragione che diremo
kantiana [...]. Io non so se in questa illimitatezza la filosofia
troverà l'assoluto o il relativo, il noumeno o
l'idea, la sostanza o il fenomeno; so soltanto
che essa non può riconoscersi limiti [...] La
filosofia non può essere continuata che da se medesima,
quand'anche debba, con questa continuazione pervenire
al mistero, raggiungere la propria
negazione. [...] il Masci [...] forse ritiene che [...] oggetto
della filosofia son proprio le verità e non i
misteri. A me pare invece che contraddizione ci sia; il mistero
è verità [...] questa religione con tutta la sua parola misteriosa
rientra nella filosofia."[378] Secondo
Carabellese filosofia dei valori e positivismo,
commettendo lo stesso errore umanistico di
vedere il valore o nella forma del trascendentismo
come assolutamente fuori dell'uomo o nella forma
dell'immanentismo come relativo all'uomo, rifiutano
la vera indagine che è quella metafisica
intorno all'essere. Essere che non è altro che il
valore e la stessa coscienza: il "[...] valore (cioè
coscienza, cioè essere) presuppone come principio
l'incondizionato Assoluto [...] La coscienza è tale, e
quindi vale, non perché umana, ma perché
attingente l'assoluto Principio dell'essere, cioè la stessa
inseità dell'essere."[379] Tutto
il problema del valore riceve dunque
una soluzione concretistica alla luce
della reimpostazione che riceve dall'argomento dell'inseità
dell'Oggetto puro di coscienza. Ne L'Essere e il problema religioso, a cui queste pagine di Che cos'è la filosofia? rimandano, commentando la sezione dedicata al valore dell'opera di Varisco I Massimi Problemi, Carabellese nega che il valore sia un sentimento, ossia qualcosa di semplicemente soggettivo che dal soggetto si riflette sulle cose, e afferma invece che il valore è nelle cose stesse, è oggettivo, ed è un attributo dell'oggetto determinante affinché quell'oggetto si costituisca come tale: "[...] valore dell'oggetto sarà ciò che costituisce oggetto l'oggetto [...]."[380], ossia l'essenza, considerata come il concetto universale e necessario della cosa stessa. Valore di un oggetto è allora più precisamente la rispondenza dell'oggetto concreto al suo concetto universale e necessario, di cui essa è determinazione. Il valore "[...] riguarda il rapporto tra la cosa reale e la ideale oggettività sua, esso è nient'altro che la stessa oggettivazione [...] E il vero problema del valore non è che [...] il problema della realizzazione dell'Essere."[381] Carabellese nega che il valore possa rinchiudersi nell'orizzonte della soggettività, del valere "per me", ossia che il valore necessiti di un soggetto che lo crea come termine della soddisfazione di un bisogno, termine oggettivo di un atto soggettivo. E' vero che nel valore è sempre implicito un rapporto col soggetto che lo riconosce come tale, ma questo rapporto non toglie l'oggettività del valore, che si pone come l'idea: "Perciò il valore delle cose sta nella loro concreta essenza, che le costituisce, sta nella loro idea. Non nella statica idea platonica estranea alle cose reali e modello che queste imperfettamente mostrano (e quindi falsificano) realizzandolo; ma nella idea dinamica del loro essere fenomenico e quindi nella continua realizzazione di questa. Delle cose ciascuna ha il proprio inalienabile valore; [...] la fonte del loro valore, il loro primo valore, è l'Essere."[382] E ancora: "[...] non c'è valore se non [...] nell'attuarsi dei soggetti nell'oggettività, e nell'esistere degli oggetti nella soggettività [...]."[383]: ciò significa che soggetti e oggetti, presi separatamente, non sono che astrazioni dell'Essere. 24. Alcune note conclusive sul rapporto teoretico tra Carabellese e Kant. Oltre
Kant: Carabellese pro e contro Kant Il rapporto
tra Carabellese e Kant può pertanto dirsi complesso e
sfaccettato: a colui il quale il Carabellese maturo considera
uno dei suoi due maestri, l'altro essendo
Rosmini, egli guarda con occhio critico, nel
senso non dispregiativo ma letterale del termine, mettendone
in rilievo con sereno distacco quelle che secondo lui sono le luci e
le ombre. Secondo
Carabellese, dunque, il problema centrale in
Kant è il problema metafisico: la fondazione dei giudizi sintetici
a priori metafisici, che egli imposta sin
dalla Dissertazione del 1770 e risolve, seppure in modo
incompleto, con la simbolizzazione analogica de I progressi
della metafisica degli anni 1793-95, che darebbe la sintesi a
priori non più naturalistica della Critica, ma metafisica. Nonostante
questa insufficienza di Kant in campo metafisico, Carabellese intravede
nel Kant critico colui il quale ha innanzitutto
operato una rivalutazione del senso e della sensibilità,
che, non più confusi, e nel concorso con l'intelletto,
costituiscono la ragione. Il concetto di sintesi, inteso
come riferimento di un'entità logica all'esistenza
reale, rappresenta un concetto centrale di grande
valore in Kant perché in essa si ha
l'immanenza del pensiero logico nella realtà,
ossia nell'essere, con un superamento del "più"
precritico esistenziale che risultava ancora staccato dal
pensiero e pertanto da esso inattingibile: ed è appunto il
senso a fungere da tramite tra pensiero e realtà,
essere e conoscere, e in questa funzione rivalutata
fornisce dunque oggettività alla conoscenza. Nel
concetto di noumeno Carabellese ritrova uno
dei contributi più rilevanti del Kant critico, poiché
in esso vede la possibilità di un'apertura
metafisica consistente nel collegamento tra l'essere e la coscienza:
nella noumenicità della cosa in sé è insita l'appartenenza dell'essere
alla coscienza come idea. Resta in Kant
l'inconoscibilità della cosa in sé, ma essa, proprio per il
concetto di noumeno come appartenenza dell'essere alla
coscienza, non è vista da Carabellese come separazione
dell'essere dal conoscere, ma come irriducibilità dell'esperienza
della cosa in sé nei limiti e nei termini delle scienze particolari. Il
rapporto teoretico di Carabellese con Kant, che egli come detto
considera suo maestro e al quale ha dedicato numerosi
studi lungo tutto l'arco della sua riflessione filosofica sino
agli ultimi corsi universitari postumi, può
dirsi quindi ambivalente: per un verso egli ne mette in luce
l'importanza in campo criticista, alla quale vuole ritornare come
punto di partenza per una riapertura del problema metafisico che
reimposti il problema dell'essere e in termini concretistici e
in termini teologici, per l'altro verso ne rileva i limiti
sia in campo criticista sia in campo metafisico. Infatti,
riguardo al primo punto, Carabellese imputa a Kant di aver
impostato il problema della possibilità ma non quello
dell'essenza della filosofia, fondamentale per lui a partire
dalla concezione della filosofia come metafisica, che
avrebbe evitato la degenerazione post-kantiana del criticismo
metafisico come elevazione della Critica a metafisica e
avrebbe collegato il problema interno della filosofia, il
problema non solo della sua possibilità ma anche del suo
oggetto e del suo metodo come filosofia prima in senso
aristotelico, con il problema esterno della filosofia stessa, ossia il
problema dell'essere. Qui si spiega il continuo ritorno
carabellesiano sul problema di "che cos'è la filosofia?" come
impostazione della filosofia come scienza, in ciò completamente interno
all’orizzonte Otto-Novecentesco mitteleuropeo. Inoltre,
sul piano gnoseologico, nel permanere critico di un
dualismo tra soggetto e oggetto del conoscere
Carabellese rintraccia i residui di un intellettualismo che separa
l'essere dal conoscere, al di là del riconoscimento che tale
separazione è superata nel concetto di noumeno. E questo
intellettualismo è da Carabellese considerato un
portato del realismo empirico kantiano per cui da un lato la
realtà non è coscienza e la coscienza non è la realtà,
dall'altro si ha una distinzione tra Objekt e Gegenstand che
Carabellese contesta come ulteriore
dualismo di oggetti, e che conduce Kant a una distinzione tra mondo
mentale e mondo extramentale: qui si inserisce il livello
gnoseologico del concreto carabellesiano come "concrescenza
materiale/formale" delle condizioni della conoscenza. A questo
collegato, anche se non apparentemente perché posto sul
piano metafisico, è il problema che permane nel Kant non
solo critico dell'inconoscibilità dell'essere in sé,
che è indice di una separazione tra l'essere e
il conoscere che coinvolge non soltanto il piano
gnoseologico del dualismo soggetto-oggetto, ma anche il piano
metafisico del pensiero e della realtà. Infatti
il non avvenuto innalzamento in Kant
della coscienza dal piano umano o anche dell'Io trascendentale al
piano metafisico del coscienzialismo assoluto carabellesiano,
per cui la coscienza è coscienza assoluta o Concreto, fa sì che
la separazione tra essere e conoscere che Carabellese rintraccia come
residuo intellettualistico sul piano gnoseologico si
riproponga sul piano metafisico della separazione tra
pensiero e realtà, e non giunga a quella sintesi, che
è distinzione ma non separazione, costituita dal Concreto. Ma
due sono i punti più critici del rapporto di Carabellese con
Kant. L'uno è costituito dalla considerazione che Kant ha
lasciata inevasa la questione scettica di Hume, ossia la quaestio
facti della conoscenza empirica concreta nella sua
fattualità: Kant ha rivolto la sua attenzione solo
alla fondazione della possibilità della conoscenza
attraverso le forme a priori della sensibilità e dell'intelletto,
ma non ha risposto alla domanda su come il soggetto
empirico può dirsi certo dell'esperienza nella sua
oggettività concreta, e così facendo Kant ha lasciato aperta
la strada allo scetticismo. L'altro
punto, se è possibile ancor più fendente, si
condensa nell'affermazione carabellesiana che la fondazione
della metafisica come scienza era impossibile al Kant
critico a partire dagli a priori fisici, che potevano fornire
una sintesi a priori naturalistica, ma giammai
una sintesi a priori metafisica. A questo punto si collega il problema
della simbolizzazione analogica nei Progressi: il simbolo
di cui l'analogia si serve per estendere la conoscenza
sembrerebbe costituire l'apriori che consente il giudizio sintetico
a priori metafisico. Ma, come fa rilevare Carabellese e come
abbiamo direttamente potuto accennare nel paragrafo relativo ai Progressi,
anche attraverso lo schematismo della simbolizzazione analogica
il soprasensibile è conoscibile non in sé ma per
noi, ossia "come se" fosse la cosa in sé, in altre
parole manca una vera oggettività che fonderebbe la metafisica come
scienza, manca, in altre parole, il rapporto tra verità e certezza.
Carabellese ritiene che ad esso soprasensibile manchi
il più esistenziale necessario alla sintesi,
e che inoltre esso, in quanto per noi e non in sé,
presenti un limite negativo avvalorato dall'essere un per
noi finalizzato al Sommo Bene, e, seppure appartenente in ciò
come idea alla ragione, da essa separato appunto dall'essere
un per noi che lascia fuori di sé l'in sé. Giunti a questo punto
possiamo individuare i compiti che Carabellese sente aperti dopo Kant.
Un primo problema lasciato aperto da Kant Carabellese lo vede risolto
da Rosmini, che anche per questo ritiene suo maestro
assieme a Kant: la dimostrazione della quaestio
facti dell'esperienza concreta. Problema questo di importanza
gnoseologica, ma che l'interesse prevalente di Carabellese per il
livello metafisico della conoscenza induce a ritenere non
primario nel suo pensiero. E' piuttosto perciò il passaggio
dalla critica della conoscenza alla critica del
concreto, dalla Critica della Ragion pura alla Critica
del concreto, che impegna Carabellese, ossia il porre
la questione sul piano ontologico dell'essere
concreto, per cui la coscienza assume il valore
dell'essere nella sua concretezza, e diviene così
attività spirituale non solo umana. Carabellese chiama la
coscienza "l'ambiente omnicomprensivo non soltanto umano ma
ontico". La concretezza significa "immanenza dell'essere
in sé come puro oggetto in ogni atto che la coscienza
del soggetto realizza". In tal modo il piano della
coscienza trapassa dal livello umano al livello assoluto, per cui
si è parlato di onto-coscienzialismo carabellesiano. Il
problema kantiano della scienza intesa come scienza pura in ambito
scientifico-naturale diviene e deve divenire secondo
Carabellese, dopo Kant e oltre Kant, problema della
coscienza, ed è per lui questione ancora aperta, che egli
si pone come telos, e che è propedeutica al
problema stesso della fondazione della metafisica come
scienza e alla fondazione del sistema della metafisica. Il
compito che pertanto nel riguardare l'itinerario
carabellesiano nel suo complesso più sembra costantemente presente a
partire dalla rilettura metafisica di Kant è quello di una
fondazione della metafisica non soltanto come esigenza della
ragione ma come vera e propria scienza del
soprasensibile. In questa chiave i giudizi a priori metafisici
sono da fondare per Carabellese su un'esperienza
diversa da quella delle scienze particolari, un'esperienza dunque non
empirica e nemmeno pura nel senso della matematica e
della fisica a priori, ma concreta, ossia superante il
dualismo soggetto-oggetto e facente pertanto appello alla coscienza
nella sua interezza, che, sebbene Carabellese la lasci come
lacuna più sottintesa che negata, implica la fede. In
questo progetto carabellesiano di un oltrepassamento di Kant nella
direzione di una fondazione della metafisica come
scienza, si inserisce la trasposizione
dell'oggetto come universale in cui i molti convengono e che tutti
costituisce dal piano gnoseologico kantiano al piano metafisico della
cosa in sé. Ma questa cosa in sé che in Kant aveva ancora il carattere
di un quid appartenente ad ogni cosa, come il suo più proprio
se stessa a prescindere dalla conoscenza, diviene in Carabellese
il quid che come essenza sostanzia tutte le cose, unificandole nella
sua assolutezza: Dio come l'Essere unico e assoluto. Concludendo,
e perciò guardando all’itinerario carabellesiano nel suo complesso,
se il ciclo critico di Carabellese può dirsi apparentemente risolto nel
suo inizio e nel suo arrivo inconcluso all’Essere, non altrettanto può
dirsi del suo periodo precritico: l’Essere è il punto di partenza del
percorso critico come il punto centrale non tematizzato in un’opera
specifica della metafisica critica, è l’idea di confine a un tempo
positiva in quanto generatrice, e negativa in quanto la morte di
Carabellese, pur riempendo lo spazio speculativo dall’Essere diremmo
verso il basso – e neppure tutto -, pure ha lasciato vuoto in termini
speculativi (ossia non sistematizzato) non solo l’Essere stesso in sé,
ma anche il percorso inverso (ciò che precede l’Essere come sua
origine), e la coppia Essere-Non Essere. Questo risalire a monte
dell’Essere è il percorso che si apre dopo Carabellese. Egli è
giunto all’Essere con l’intuito che lo ha guidato lungo tutto
l’arco della sua ricerca (l’intuito come potenza, affrontato in
diversi articoli tra il 1907 e il 1912, a partire dalla Tesi
di Laurea in Filosofia, La teoria della percezione intellettiva in
Antonio Rosmini[384]),
testimoniato dal suo pensiero e appunto dal continuo ricorso
a Rosmini come suo maestro. In questo senso si può dire che il periodo
precritico di Carabellese è irrisolto, e dunque che il patrimonio da
lui lasciato non è concluso, poiché si pone il compito di investigare
in termini sia gnoseologici sia trascendentali sia metafisici sia
teologici il percorso dall’intuito dell’idea dell’Essere
all’Essere in sé, e in una metafisica veramente positiva, di dire e
cosa precede logicamente l’Essere come sua origine assoluta e in che rapporto
è l’Essere col Non Essere – che solo in un livello molto più basso
è se si vuole il Nulla inteso come Male – come presenza positiva. Un
lascito carabellesiano che deve investigare il binomio Intuito Essere, ossia
tornare sul problema dal quale aveva preso l’avvio il suo percorso
filosofico: l’intuito – sintesi di “ratio e inventio” -,
importante principio generatore della storia del suo pensiero. Pertanto
una riflessione sul valore dell’intuito in Carabellese, punto di
partenza e strumento di indagine del suo pensiero su quell’Essere che
è arrivo da sviluppare della sua metafisica critica, e che Carabellese
sceglie di considerare punto di origine del suo percorso critico, è
ancora tutta da scrivere. Consideriamo
valide queste nostre riflessioni tendenti ad abbracciare con un unico
sguardo tutto il pensiero filosofico di Carabellese, anche nel c.d.
periodo metafisico, nonché negli sviluppi possibili che a partire dalla
sua metafisica si aprono dopo di lui: si è preso in considerazione qui
soltanto il c.d. “periodo critico” di Carabellese. Pertanto i
confini all’interno dei quali ci si è situati dal punto di vista
storiografico sono quelli interni delimitati dal “periodo precritico”
da un lato, e dal “periodo metafisico” dall’altro, che sono
esclusi, se non per brevi cenni e incursioni, dalla trattazione – è
chiaro che tali delimitazioni, per quanto suffragate da Carabellese
stesso, sono da considerarsi se non arbitrarie, quanto meno interne alla
continuità e unitarietà di un pensiero che si è però
visto in progressione dinamica, e che consente anche nuovi sviluppi. In
più di un caso perciò vi sono, come si è visto, delle trasgressioni a
tali confini storici, resesi necessarie per una migliore comprensione
del pensiero carabellesiano. I
confini teoretici, invece, si situano a cavallo tra gnoseologia,
ontologia, filosofia trascendentale, metafisica e soprattutto teologia,
il cui senso è da intendere, e non soltanto si muovono nella direzione
di trasformare in fisica la metafisica, spostando di quest’ultima in
avanti i confini – il limite della ragione kantiana che trasforma il
possibile in reale -, lasciandole nuovi più profondi quesiti da
risolvere, ma pure, tali confini teoretici sono da considerarsi in
connessione, se è vero che a rigore a un determinato livello
dell’Essere è impossibile scindere (come Carabellese stesso
testimonia con la sua concezione della Coscienza), se non a posteriori,
gnoseologia e metafisica. In particolare già nel primo Carabellese
l'indagine sulle condizioni di possibilità della conoscenza
costituisce il punto di apertura del discorso metafisico, e in
ogni caso il livello gnoseologico è uno dei possibili livelli di
lettura, il primo, anche della sua metafisica critica, laddove è da
sottolineare nuovamente che per lui essere e apparire sono unum et
idem, e che appunto la battaglia del suo periodo ontologico consiste nel
superamento della scissione tra essere e conoscere, e tra essere e
fenomeno, in una impostazione che lo condurrà a un realismo metafisico
distinto da quello neoscolastico, ma che lo ri-comprenda nella direzione
del realismo posthegeliano. D’altro canto, l’importanza della
connessione tra gnoseologia e metafisica è sottolineata da un critico
dell'epoca di Carabellese, Devizzi: la gnoseologia costituiva
in generale già prima di Carabellese il terreno di scontro
apparente tra diverse scuole filosofiche in vista di più profonde
lacerazioni che riguardavano la concezione metafisica della realtà, e
che dunque essa gnoseologia, implicando il problema dell'oggettività
della conoscenza e quello del rapporto tra verità e certezza,
sottintendeva diverse concezioni di Dio[385]. Se
dunque l’Essere è il livello pregenetico e poi postgenetico sia in
senso metafisico che teologico che spirituale tout court, anche se il
Vecchio Testamento lo pone come postgenetico perché vi antepone Dio
come Persona e la Genesi stessa, esso è in Carabellese, che
appunto nelle dispense non tematizza il Nulla né positivo né negativo,
il primo dei livelli in cui si attua il sistema della Ragione Assoluta.
Perciò è possibile dare alla teologia metafisica carabellesiana nuovi
sviluppi, perché essa non si pone soltanto come punto di arrivo dell’ontologismo
critico, ma come nuovo punto di partenza per la costruzione di una nuova
metafisica critica oltre kantismo e hegelismo, si è detto nella
direzione di un neorazionalismo assoluto: una nuova metafisica della
Ragione Assoluta che trasformi l’infinitum finito potenziale di
cui parla Carabellese in infinitum finito in atto – pena la
non realizzazione della Sostanza -, è possibile se si includono nel
sistema della Ragione Assoluta anche elementi apparentemente irrazionali
quali, per Carabellese, al livello spirituale umano, l’arte, il
sentire e il sentimento, e siamo certi che un prosieguo della sua
ricerca avrebbe riguardato anche la fede e l’intuito, così come ha
riguardato al livello metafisico il caso, il destino, il fato, su
cui Carabellese ha scritto bellissime e densissime pagine ne La
Dialettica. L ’inclusione dell’irrazionale nel razionale, o
meglio l’allargamento del concetto di razionalità in direzione
posthegeliana significa concludere da un lato il ciclo che va dal Nous anassagoreo
alla sua manifestazione nel Concreto passando per l’Illuminismo – ma
si è già notato che il Disegno inizia da radici orientali e
non greche o ebraiche -, dall’altro il ciclo illuministico stesso come
fede nel progresso della Ragione. In
tal modo, quello di una razionalizzazione dell’irrazionale, la
Storia diviene Storia della Ragione Assoluta ab e
in infinitum, ossia nello spaziotempo, da distinguere da ab ed in
aeternum, che richiedono e presuppongono il solo tempo. Ciò, nello
spirito di Carabellese, per giungere al Regno dei puri spiriti o Regno
dei Fini, in cui la Storia – uscendo dal processo - diviene
Metafisica, e la Metafisica si identifica con la Teologia[386].
Il ricchissimo lascito carabellesiano consiste allora nel radicalizzare
e oltrepassare l’esperienza sensibile e quella intellettuale nel loro
diritto e nel loro fatto per aprire con la speculazione il campo
dell’esperienza razionale e dei suoi tre oggetti: qui si saldano
neokantismo e neohegelismo carabellesiani nel neorazionalismo che noi
oggi dobbiamo continuare. Definire Carabellese neokantiano è possibile
solo se si comprende che la ripresa della questione kantiana della
possibilità dell’esperienza implica un diverso concetto di esperienza
e un suo diverso e più largo campo. Perciò inscrivere il
percorso di Carabellese – il quale non a caso si pone il problema
della scienza concreta né a posteriori né a priori, ma dimostrativa
– in tale sviluppo della scienza è possibile se retroattivamente si
rompono i confini del suo neokantismo e se ne allarga il concetto
facendo interagire Kant e Hegel, dal momento che la sua meta finale è
una teologia metafisica e critica, per non dire, a nostro parere, un
teismo, che nel periodo critico si interroga sulla possibilità
teoretica, e cerca una risposta relativa al contenuto reale, delle tre
domande kantiane su Dio, Io e Mondo, ciò non è possibile se non
tenendo conto dell’importante cammino compiuto dalla filosofia con
l’hegelismo, al di là della polemica che pure ci fu tra Carabellese e
il neoidealismo italiano, in particolare di Gentile, che semmai fornisce
elementi di comprensione del suo pensiero. [1] Carabellese
parla, in singolare consonanza col Dilthey delle Idee per una
psicologia descrittiva e analitica, del 1894, di uomo intero
che sente, vuole, conosce, ma se allarga a tutte le sfere
dell’esistenza dell’uomo il concetto di soggetto, pure lo devìa in
direzione decisamente metafisica. [2] In
questa nostra stessa direzione sembra andare Marco Sgarbi, La
logica dell’irrazionale. Studio sul significato e sui problemi della
Kritik der Urteilskraft, Mimesis, coll. Morphé, Milano-Udine,
2010. [3] Ma
in Carabellese ritroviamo una particolare impostazione di
quest’importante elevazione a strumento euristico del rapporto tra ratio e inventio come
intuito dell’essere ideale: afferma infatti egli a p. 88 del suo L’essere
e la sua manifestazione, riferendosi a Rosmini: “Finché questo
essere ideale non si fa intrinseco e costitutivo anche di chi lo
ricerca, finché si ammette questo ricercante come avente una sua
propria costituzione reale, cui viene ad aggiungersi dal di fuori, per
intuito, l’essere ideale, l’attività spirituale di questo
ricercante sarà inficiata alla sua base reale, mancante proprio di
quell’essere che deve costituire la sua ricerca.” Cfr. P.
Carabellese, L’essere e la sua manifestazione, Parte Prima La
dialettica delle forme, con Saggio introduttivo di
Furia Valori, ESI, Napoli, 2003. [4] E’
da approfondire il concetto di essere come flusso, dal momento che si può
pensare sia che il flusso in cui il soggetto si trova si “distende”
muovendosi insieme al soggetto – e in questo caso come negli altri è
da stabilire direzione e forma del moto del flusso -, sia che il flusso
stesso - ma allora sarebbe flusso solo se lo si considerasse
in moto in uno spazio fisso all’interno del quale tale flusso
dell’essere si muove -, si muova con all’interno un
soggetto che esso stesso si muove a suo volta avanzando nel flusso, come
nella teoria dei moti sommati della relatività einsteiniana. In altre
parole c’è da chiedersi se i moti sono due – quello del flusso e
quello del soggetto al suo interno -, il che significa che non c’è
coincidenza, o corrispondenza, almeno attuale tra moto del flusso e moto
del soggetto, oppure se tra i due moti esiste corrispondenza
coincidente, al punto da poter radicalmente essere considerati un moto
solo, come corrispondenza assoluta dei due moti, il che non appare se
non nel senso dell’Io. Nel penultimo caso, in cui il moto del flusso
è fisso rispetto al soggetto al suo interno ma non in sé, a meno di
sconfessare il concetto stesso di flusso è necessario considerare
evidentemente un terzo livello dell’essere, quello in cui il flusso
stesso si muove, e per potersi muovere deve farlo in uno “spazio” ,
o meglio uno spazio-tempo, a sua volta fisso, a meno di non moltiplicare
il problema all’infinito. Qui è necessario porre il
problema che se c’è uno spaziotempo fisso, e fisso rispetto, o
relativamente, al moto del flusso e del soggetto, tale spaziotempo
dovrebbe essere anche fisso in sé, o anche rispetto ad un eventuale
Soggetto che lo osservi, il che potrebbe anche significare
l’identificazione tra tale spaziotempo e tale “Soggetto”. E’
chiaro che il discorso non ha semplici implicazioni fisico-geometriche
– a meno da non intendere come qui si fa la Geometria in
senso reale – ma teo-logico-metafisiche, dal momento che
qui per flusso si intende il divenire o Storia, per soggetto il
pensante, vivente o no, e per “Soggetto” l’Assoluto.
Tutto questo discorso si inserisce sempre nel progetto della
decodificazione della Ragione Assoluta. [5] Devo
a Gerschom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica,
Einaudi, Torino, 1982, III ed. 1993, p. 17, questa importante
definizione di Tommaso, nonché la possibilità di collocare e definire
l’esperienza vissuta in termini mistici di ascesi della coscienza,
nello spirito, prima ancora che di Carabellese e poi di Moretti-Costanzi,
del pensiero teologico ebraico, che rinviene il significato della
reincarnazione in molteplici vite, il cui arco di tempo può anche
essere lunghissimo, nel tentativo non necessariamente riuscito in ogni
vita, di elevarsi attraverso cinque livelli di ascesi sino
all’annullamento in Dio. Ringrazio a questo proposito il già maestro
di culto della Comunità ebraica di Napoli, Pierpaolo Punturello, per le
interessanti conversazioni teologiche, e vorrei citare, dello studio di
Emilia D’Antuono, Ebraismo e filosofia. Saggio su Franz
Rosenzweig, Judaica, Guida Editori, Napoli, 1999, la felice
espressione di “tirannide del logo”, con cui titola il par. Dal
primato del conoscere alla tirannide del logo del cap. I Dalla
morte. L’esodo della filosofia, p. 26 sgg. In questo senso qui si
interpreta la tirannide del logos come uscita e toglimento
del logos occidentale, che significa suo allargamento e elevazione in
vista, ci permettiamo di ambire con l’immaginazione, di una sua
dimensione cosmica. [6] Non
sembri peregrina questa nostra incursione nel Brahmanesimo: lo stesso
Carabellese fa iniziare la sua originale reinterpretazione di storia
della filosofia, il Disegno storico della filosofia come
oggettiva riflessione pura, dal Brahmanesimo, e precisamente dal
rito che mette in comunicazione l’Athman con il Brahman, il Dio
Assoluto impersonale. Ciò anche se a nostro parere, nonostante questi
ultimi studi carabellesiani di fine anni Quaranta in Italia possano
agevolmente essere considerati innovativi nella scia degli studi
storico-religiosi rivolti a Oriente, soprattutto per il loro fine
filosofico atto ad allargare il quadro del pensiero, essi si mostrano,
probabilmente perché in fieri e interrotti dalla
morte, soprattutto con un intento ancora molto legato a un’ottica
ancora novecentesca di centralità dell’Occidente cristiano cui tutto
il volume – che infatti si interrompe nonostante le intenzioni ad
Agostino -, così come si potrebbe dire tutto il suo pensiero, resta
ispirato, benché Carabellese indichi del cristianesimo con precisione i
limiti, di fatto imboccando la strada che ne rende possibile l’uscita
con la messa in valore, oltre che dell’ebraismo e della filosofia
greca incentrata su Parmenide, appunto del rapporto diretto Io-Dio che
si ha nel rito Brahman-Atman, risalente a duemila anni prima di Cristo.
E’ cioè chiaramente visibile l’operazione carabellesiana di
rinvenire nel Brahmanesimo, come coscienza dell’Assoluto, il primo
nucleo di quella storia dell’Assoluto che in Occidente si concreterà
in quella che Hegel chiama autocoscienza dell’Assoluto, nucleo primo
che si ha nell’osmosi tra religione e filosofia (tra sacro e saggio)
che non è che teologia come pensiero dell’Assoluto su se stesso. Cfr.
P. Carabellese, Disegno storico della filosofia come oggettiva
riflessione pura, raccolta dei corsi universitari 1944-45,
1945-46 e 1946-47, Castellani, Roma, 1947, 2 voll.: vol. I: Filosofia
orientale e greca, vol. II: Filosofia del Cristianesimo,
II ed. postuma in un solo volume a cura di Raniero Sabarini per
l'Editoriale Arte e Storia, Roma, 1953. [7] Vorremmo
qui citare il breve saggio di Walter Belardi, Dal “Non
essere” parmenideo all’”alterità” platonica: un caso di
paralogismo verbale, in AA. VV., “Atti dell’Accademia Nazionale
dei Lincei. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche”,
“Rendiconti”, A. CCCXCIV – 1997, Serie IX, Vol. VIII, fasc. 4,
Roma, pp. 633- 47, in particolare in riferimento al
considerare Platone il Nulla positivo d’essere, e precisamente, in
riferimento a Russell, come Nulla “operativo” in cui lo zero è
“potenza”. Vorremmo inoltre notare la strana coincidenza che ciò
che Russell definisce termine, ossia ciò che è numericamente identico
a se stesso e numericamente – ma non qualitativamente - diverso da
tutti gli altri, può esser certamente riferito al concetto di io come
Termine del Principio in Carabellese. [8] P.
Carabellese, L’Essere e la sua manifestazione cit., p.
379. [9] L’interpretazione
di Kant avviene a partire dal 1923 e fino almeno al 1943, con un
prolungato e approfondito studio di tutta l’opera di Kant, dovuto
all’esigenza di mettere a fuoco in modo via via sempre più
consapevole e articolato l’interpretazione del Kant metafisico. L’interpretazione
di Kant avviene non soltanto attraverso le traduzioni, le note e i
commenti agli scritti kantiani: a partire dal 1923, egli cura infatti
gli Scritti minori, nel ’23 appunto (I. Kant, Scritti
minori, a cura, con Introduzione e note di P.
Carabellese, Laterza, Bari, 1923, II ed. riv. e accresc. da Rosario
Assunto e Rodolf Hoenemser col titolo Scritti precritici,
Laterza, Bari, 1953, che è quella a cui si fa riferimento), i Prolegomeni, nel
’25 (I. Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica, a
cura di P. Carabellese, Laterza, Bari, 1925), e la Metafisica dei
costumi, nel ’36 (I. Kant, Fondazione della metafisica dei
costumi, cura, traduzione e commento di P. Carabellese, Sansoni,
Firenze, 1936). Ma la ripresa di Kant avviene anche attraverso lo studio
approfondito di tutta l’opera di Kant, studio che ci ha lasciato opere
come La filosofia di Kant, unico dei quattro volumi
progettati, del 1927 (P. Carabellese, La filosofia di Kant. I.
L’idea teologica, Vallecchi, Firenze, 1927), o Il concetto
della filosofia da Kant ai nostri giorni, del ’28 (P. Carabellese, Il
concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni. I. Kant,
Trimarchi, Palermo, 1928), o Il problema della filosofia da Kant
a Fichte, del ’29 (P. Carabellese, Il problema della
filosofia da Kant a Fichte (1781-1801), Collana Quaderni di
Filosofia e Storia diretta da Vito Fazio Allmayer, Trimarchi,
Palermo, 1929), o Il problema della filosofia in Kant, del
’38 (P. Carabellese, Il problema della filosofia in Kant, La
Scaligera , Verona, 1938), e infine La filosofia
dell’esistenza di Kant, cui ha dedicato tre anni di corsi
universitari dal 1940 al 1943 (P. Carabellese, La filosofia
dell’esistenza in Kant, dispense universitarie dattilografate Soc.
An. AA. AA. 1940-41, 1941-42, 1942-43, Castellani, Roma, 3 voll., poi
rist. postumo in un unico volume col titolo La filosofia
dell’esistenza di Kant, pubblicato dall’Istituto di Filosofia
dell’Università degli Studi di Bari, a cura e con una Nota
Introduttiva di G. Semerari, Adriatica ed., Bari, 1969). Opere
tutte, citate in rigoroso ordine cronologico, che costituiscono un lungo
ciclo di studio dovuto all’esigenza di mettere a fuoco il Kant
metafisico, che Carabellese considerava il vero Kant. C’è inoltre da
notare che alcune delle opere carabellesiane sono rimaste ferme al solo
primo volume, quello sul Kant teologico precisamente, essendosi
evidentemente esaurito dopo di esse l’interesse precipuo che muoveva
Carabellese verso l’opera: si pensi soprattutto a quel La
filosofia di Kant. I. L’idea teologica, appunto rimasto fermo,
dopo l’iniziale progetto di altri tre volumi, al solo primo sulla
teologia, visto come punto di partenza per la fondazione della
metafisica critica (il che spiega perché anche altre opere
carabellesiane che si presupponeva avessero un seguito si fermavano
tutte al solo volume su Kant, come Il concetto della filosofia
da Kant ai nostri giorni. I. Kant). [10] Secondo
il Carabellese dell’Introduzione agli Scritti
precritici, II ediz. Riv. E accresc. da R: Assunto e R. Hoenemser
cit., pp. VI-VIII, in prima stampa Idem, Scritti minori, a
cura, con Introduzione e note di P.Carabellese cit.,
tutto il pensiero precritico di Kant, che egli seleziona e raccoglie
secondo questa prospettiva nell’opera citata, non è altro che la
continua e varia riproposizione secondo diverse chiavi di
lettura dello stesso problema metafisico incentrato nelle tre idee di
Dio, del mondo e dell’anima, rispettivamente affrontate nell’Unico
argomento, nella Monadologia phisica, nella Dottrina
del moto e della quiete, nel Primo fondamento della
distinzione delle regioni nello spazio, e infine nei Sogni
di un visionario. Ne La filosofia dell’esistenza di
Kant, cit., Carabellese afferma che già nei Sogni
di un visionario, del 1766, Kant ribadisce la distinzione tra
possibilità concettuale e sperimentabilità a proposito del problema
dell’esistenza degli spiriti, nature spirituali non sperimentabili ma
non perciò impossibili. Per Carabellese la pluralità dell’esistente
singolare implica però che alla singolarità non appartenga la
sostanza: l’esistenza non è sostanza proprio perché non è unicità
e inseità ma pluralità e relazione. Non si può non vedere qui la
vicinanza non soltanto con tesi dell’aristotelismo (per quanto
Carabellese sia sempre molto critico nei confronti di Aristotele), ma
anche con le concezioni che lo stesso Carabellese svilupperà a
proposito della sua teoria dell’io molteplice, e della sua teoria
della sostanza, cui dedica una sezione de L’essere e la sua
manifestazione. [11] Ne Il
concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni cit, pp.
11-29, già dunque negli anni Venti, Carabellese, ponendosi
in consonanza con una consolidata tradizione storiografica che vede la
filosofia moderna come filosofia del conoscere, afferma che, come si
evince già dalla Dissertazione del 1770: “Kant
dunque non si propone di uccidere la metafisica […] ma di farla essere
quale deve […] <<scienza apriori del soprasensibile>>”,
e che dunque bisogna oltrepassarlo. [12] Dell’impostazione
del Carabellese metafisico, e del passaggio tra periodo critico e
periodo metafisico, vorremmo solo sottolineare che il confine, sebbene
precisamente rintracciabile in quel 1931 della pubblicazione de Il
problema teologico come filosofia, non è tale da poter essere
considerato un taglio netto che sposti l’asse da un Carabellese neo o
postkantiano a un Carabellese posthegeliano: in realtà noi
vediamo in tale punto preciso dell’itinerario carabellesiano – il
1931, come è stato detto da Edoardo Mirri (Cfr. E. Mirri, Introduzione,
a P. Carabellese, Il problema teologico come
filosofia, I ed. pubblicazione della Scuola di Filosofia della
Reale Università degli Studi di Roma, Tip. Del Senato G. Bardi, Roma,
1931, rist. anast. post. con lo stesso titolo a cura di E. Mirri,
Pubblicazioni dell’Università di Perugia, Facoltà di Magistero,
Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1994) -
non uno spostamento che chiude il kantismo di Carabellese in direzione
hegeliana, bensì la ricomprensione del patrimonio hegeliano
nell’ottica postkantiana, che prevede non scissione ma continuità con
la fase precedente, per cui Carabellese può essere considerato al tempo
stesso postkantiano e posthegeliano. Ciò proprio a partire dal suo
esplicito progetto, che però dovrebbe essere storicizzato ai suoi
ultimi anni di vita, di costruzione di una metafisica critica, ossia di
un sistema che inglobi soluzioni e problemi posti sia da Kant che da
Hegel, facendoli interagire in un sistema assolutamente originale, il
cui asse è perciò individuabile nell’asse Kant-Hegel-Carabellese. [13] La
prima a parlare di un rapporto circolare Dio Io è Furia Valori, in vari
luoghi dei suoi scritti su Carabellese, tra i quali l’ultimo è Furia
Valori, Fede e filosofia in Pantaleo Carabellese, in AA.VV., La
ricerca di Dio, a cura di Edoardo Mirri e Furia Valori, Quaderni
dell’Istituto di Filosofia, Università degli Studi di Perugia, Facoltà
di Scienze della Formazione, Edizioni Scientifiche italiane, Napoli,
1999, p. 193, dove Valori rimanda anche al suo L’argomento
ontologico: il circolo carabellesiano, in AA.VV., Filosofia
in dialogo, a cura di Franco Fanizza e Mario Signore, Roma,
Pellicani Ed., 1998, pp. 581-606. [14] Pantaleo
Carabellese, L’Essere e il problema religioso. A proposito del
“Conosci te stesso di Bernardino Varisco, Laterza, Bari, 1914. [15] Sui
rapporti tra Essere e Dio, vorremmo ricordare di Giorgio Penzo, Essere
e Dio in Karl Jaspers, 1971. [16] Tutto
il nostro studio sottende una considerazione realistica della geometria,
e intravede nelle teorie ed elaborazioni concettuali di Carabellese una
passibilità di traduzione in termini geometrici. Ci si soffermerà a
questo scopo più volte sulla figura della croce, sottesa a nostro
parere in molte sue accezioni a molto del pensiero di Carabellese. Qui
si fa riferimento al circolo, figura geometrica per eccellenza, e
vorremmo in quest’ambito di riflessione, vastissimo e agli inizi,
ricordare lo studio di Enzo Melandri, La linea e il circolo.
Studio logico-filosofico sull’analogia, Il Mulino, Bologna, 1968. [17] Pantaleo
Carabellese, L’Essere e la sua manifestazione cit.. Quel Parte
I La dialettica delle Forme fa riferimento a L’Essere.
Parte II: io, con la minuscola, che va a concludere il sistema, che
noi abbiamo ipotizzato quadrangolare, o, se si vuole, ellittico. [18] La
teoria dei distinti, e il concetto di distinto, attraversa tutto il
pensiero del Carabellese maturo, ed è molto importante ai fini di una
giusta comprensione del suo pensiero. “Distinto” è differente da
diverso: implica al contrario non un’assoluta estraneità, ma un
rapporto di implicazione, e in alcuni casi di coimplicazione. Così ad
esempio, Dio è distinto dall’Io, così come il Vero è distinto dal
Bene e dal Bello (facciamo riferimento al Carabellese metafisico), ma
pure Bene, Vero e Bello trapassano l’uno nell’altro, sono in
rapporto di reciprocità e penetratività (altre categorie fondamentali
nel pensiero di Carabellese), così come Dio e Io sono l’uno Oggetto e
l’altro Soggetto, anch’essi in rapporto, in questo caso di
coimplicazione, perché posti sullo stesso livello dell’Essere. Così
ancora, l’io di ciascuno è distinto da quello di ciascun altro, ma
non diverso, perché ciò implicherebbe assoluta estraneità,
solipsismo, impossibilità di comunicazione, e di comunione,
oltre che di scambio e di crescita. Anche qui il rapporto è sullo
stesso livello, e dunque di coimplicazione reciproca. In altre parole la
categoria di distinzione implica la possibilità di un rapporto diretto
tra i distinti, come quello principe, quello tra Principio e termini. In
questo caso però non si può parlare di coimplicazione bensì solo di
implicazione, perché se il Principio implica i termini, non i termini
(se non nel significato di immanenza) implicano il Principio: il
Principio è superiore ai termini, seppure all’interno di un rapporto
diretto. A questo proposito vorrei ricordare che nella teologia ebraica
Kadosh significa Distinto, ed è uno dei nomi con cui si indica Dio, per
cui Dio è distinto dal cosmo e dall’io, ma non il cosmo, né l’io,
sono distinti da Dio. In questo caso dunque il rapporto, pur essendo di
implicazione, non è di coimplicazione, ossia non è reciproco nel senso
dello stesso livello: Dio, il cosmo, l’io sono su livelli diversi, in
cui il primo comprende gli altri, ma non viceversa. [19] Pantaleo
Carabellese, La teoria della percezione intellettiva in Antonio
Rosmini, con Prefazione di Bernardino Varisco, Edizioni Dante
Alighieri, Bari, 1907. [20] L’itinerario
carabellesiano si chiude col sistema dell’Essere, oggettivato nelle
dispense da pochi anni edite a cura dell’Università di Perugia, ma
che ho già citato nelle primitive edizioni litografate ad uso degli
studenti di Carabellese stesso, e che qui ricito perché si comprenda
bene sia la successione del loro apparire in stampa sia la differenza
fondamentale che io ho rinvenuto sia tra Io e io sia tra Essere e
manifestazione. Perciò, ricordo, L’Essere e la sua
manifestazione. Parte I: L’Essere nella dialettica delle forme.
Lezioni di filosofia teoretica; vol. II La dialettica. Lezioni di
filosofia teoretica; vol. II La realtà e l’attività spirituale
umana. Lezioni di filosofia teoretica; dispense universitarie
dattilografate, AA.AA. 1943-44; 1944-45, 1945-46, Università degli
Studi di Roma, Castellani, Roma, 3 voll.; e L’Essere Parte II io,
dispensa universitaria dattilografata, A.A. 1946-47, Università degli
Studi di Roma, Castellani, Roma. 12
Il problema del continuo, da intendere in Carabellese nel senso di
manifestazione continua o di rivelazione continua dell’Essere, è
sotteso a tutta la sua metafisica, e ci ha guidato come strumento
euristico e categoria interpretativa tra altri. Ma il problema del
continuo è com’è noto sotteso a tutta la storia della filosofia
almeno a partire da Zenone, e riguarda non solo Carabellese, ma anche ad
esempio Leibniz. Infatti il Leibniz epistemologo e fisico teorico
utilizza la categoria metafisica di continuo, che esprime anche nel
fondamentale assunto che “la natura non fa salti”, apriori sintetico
tuttora vivo e applicato nell’elaborazione scientifica contemporanea.
Perciò il problema del continuo è molto complesso ed estremamente
sfaccettato, sia per livello che per ambito, ma soprattutto per
l’interazione tra livello euristico e livello ontologico. A partire da
questo problema, noi vediamo perciò la possibile connessione tra più
ambiti di pensiero ad ora separati, e sarebbe interessante comprendere,
in base a questo concetto, il rapporto che lega fisica, metafisica e
matematica (pure o teoriche), rapporto nel quale il continuo è da
interpretare nel senso di un possibile “ponte” (tutto da costruire)
tra questi tre ambiti del pensiero. A nostro parere, uno dei problemi
è quello di individuare il criterio secondo cui è possibile
teoreticamente – e non contraddittoria logicamente - la continuità
interna a una serie gerarchica di continui a loro volta finiti. Come si
vede, la tematica, che è di carattere metafisico, rompe i confini
disciplinari della sola metafisica, o meglio comprende nel suo abbraccio
più ambiti, e, anche per il suo essere in connessione col concetto di
infinito, riguarda anche, oltre alla matematica, la fisica e
in particolare la cosmologia e l’astronomia, giungendo alla teologia.
Pur mantenendoci nei limiti dell’epistemologia della scienza esatta,
ossia al livello specificatamente teoretico, e non sconfinando nella
scienza applicata, si deve perciò guardare il problema del continuo
come un problema metafisico che ha livelli crescenti di approccio e di
realtà, ed è infatti in questo senso che ci interessa specificamente
in Carabellese, dal momento che in lui la cosmologia sconfina, com’è
ovvio, nella teologia, oggetto del nostro studio. Nel nostro specifico
disciplinare, oltre ai classici dell’epistemologia filosofica Ernst
Cassirer, Sostanza e funzione. Sulla teoria della relatività di
Einstein, La Nuova Italia , Firenze, 1973, e Idem,
Storia della filosofia moderna. Il problema della conoscenza nella
filosofia e nella scienza, Vol. II Da Bacone a Kant,
Tomo primo. Gli inizi dell’empirismo. Continuazione e
compimento del razionalismo, Libro quinto. Capitolo II. Leibniz (punto
di riferimento essenziale per il dibattito per la sua differenza tra
infinito potenziale e in atto e per il calcolo infinitesimale, che
sottende appunto il problema del passaggio da un discreto all’altro,
passaggio già vivo come questione ai tempi di Zenone), pp. 153-221, vorremmo
appunto prendere le mosse da Aldo Masullo, Il problema del
continuo nel pensiero di Zenone di Elea e di Aristotele, Libreria
Scientifica Editrice, Napoli, 1956, per poi proseguire con Imre Toth, I
paradossi di Zenone nel Parmenide di Platone, Bibliopolis, Napoli,
1994, Idem, Aristotele e i fondamenti assiomatici
della geometria, Vita e Pensiero, I ed. 1994, II ediz. 1998, Idem,
De interpretazione. La geometria non-euclidea nel contesto della oratio
continua del Commento a Euclide, La Città del Sole,
Napoli, 2000. Per quanto riguarda l’ambito delle
scienze esatte, per ora la bibliografia si ferma a Jules-Henri Poincaré, La
scienza e l’ipotesi, Introduzione, traduzione e note di Clara
Ciapetti Angelini, Classici della filosofia, Signorelli, Roma, 1976
(anche in edizioni Dedalo, Bari, 1989), Idem, Scienza e metodo,
Biblioteca Einaudi, Einaudi, Torino, 1997, e ancora Idem, Il
valore della scienza, e anche Idem, Opere
epistemologiche, a cura di Giovanni Boniolo, vol. I, Capitolo
Secondo La grandezza matematica e l’esperienza,pp. 71-82,
Piovan Editore, Abano terme, 1989, e poi di Alexandre Koyré, Dal
mondo chiuso all’universo infinito, I ed. it.
Feltrinelli, Milano, 1970, IV 1981, mentre in ambito matematico troviamo
di Hermann Weyl, Il continuo. Indagini critiche sui fondamenti
dell’Analisi, Bibliopolis, Napoli, 1977, di Willem Kuyk, Il
discreto e il continuo, Boringhieri, Torino, 1982, J. Paul Cohen, La
teoria degli insiemi e l’ipotesi del continuo, Feltrinelli, oltre
alla Rivista americana “Continua”, che in rete riporta il dibattito
in corso e gli interventi a un Convegno di matematica sull’argomento.
Ma qualche indicazione – seppure improntata alla tesi del discreto, e
relativa soprattutto alla fisiologia e alle scienze naturali -, oltre
che una piccola bibliografia straniera e rimandi ad altre voci, si può
trovare in Jurij Ivanovic Manin, Continuo/discreto, voce
dell’Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino, 1978, 15 voll.,
vol. 3, pp. 963-86. Vorremmo segnalare infine, del
cibernetico Giuseppe Trautteur, l’inedito Analog Computation
and the Coninuum-Discrete Conudrum, Napoli, 2000. Al problema
del continuo è ispirata la mia traduzione qui sul web edita dal latino
dell’inedito di Leibniz sulla causa e l’effetto. [22] Cfr.
A. Devizzi, La critica di P. Matteo Liberatore all'ontologismo,
in AA.VV., Atti del XIV Congresso Nazionale di Filosofia,
tenutosi a Firenze dal 21 al 25 ottobre 1940 e promosso dal Reale
Istituto di Studi Filosofici, Secondo Tema: La critica di fronte
all'ontologismo, Bocca, Milano, 1941, pp. 331-34. [23] A
un senso positivo del Nulla, lontano dal nulla esistenziale e negativo
dell’esistenzialismo che Carabellese critica come foriero di angoscia
e di annullamento del valore e del pensiero, di nichilismo (significato
limitato e limitativo), e da intendere viceversa positivamente come
Nulla metafisico spirituale e pieno – da cui deriva il Nulla fisico
che permette la Creazione -, è vicino il pensiero teologico
ebraico, per il quale Dio è Nulla, cosicché tutto parte dal Nulla e
ritorna al Nulla. In questo senso dell’inizio e della fine nel Nulla
sono da intendersi i cinque livelli dell’ascesi di coscienza a cui si
è accennato. [24] P.
Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit., del
1931. [25] Idem, Il
rinnovamento della filosofia italiana, in Id., Da Cartesio a
Rosmini. Fondazione storica dell'ontologismo critico, per il
progetto poi abbandonato (fu ristampata ancora soltanto la Critica del
Concreto nel 1948, la cui prima edizione era del 1921 per la
Libreria Pagnini di Pistoia) dell'ediz. delle Opere
complete di Pantaleo Carabellese, Serie III: Ricerche
storiche, Sansoni, Firenze, 1946, p. 287. Nella prima edizione, del
’21, della Critica del Concreto, è ristampata:
“L’attività concreta. Introduzione allo studio del Bene”, 1920. La Critica del
Concreto ebbe anche una II ediz. riv. presso la casa
ed. Signorelli, Roma, 1940. La III ed., che è quella cui si
fa riferimento nel testo, ossia il progetto mai ultimato delle Opere
complete di Pantaleo Carabellese, ebbe una I serie: Primi
saggi di ontologismo critico, Sansoni Firenze, 1948, in cui
sono ristamp. le voci “Certezza”, 1931, “Concreto”, 1931,
“Cosa in sé”, 1931, “Astratto”, 1930, “Errore”, 1932, tutte
in Grande Enciclopedia Italiana, Treccani. [26] Sulla
concezione della metafisica come scienza Carabellese aveva un pensiero
articolato: basti ricordare che ad alcuni rari e importanti luoghi della
sua opera in cui parla di metafisica come dimostrazione, se ne
affiancano altri, i più, in cui si sottolinea il carattere di sforzo inconcluso
del lavoro filosofico, che torna incessantemente sui medesimi problemi
per risolvere i nodi che da essi si dipartono. Evidentemente le due tesi
non si escludono a vicenda, dal momento che la scienza è continuo
sviluppo, se non vuole essere dogmatica. A questo rovello che
caratterizza lo stesso pensare carabellesiano fa riferimento il titolo
degli Atti del Convegno tenutosi a Molfetta il 5 e 6 dicembre 1977 per
il centenario della nascita di Carabellese (1877-1977), AA. VV., Pantaleo
Carabellese, il tarlo del filosofare, Dedalo, Bari, 1979, presentazione
di B. Finocchiaro [27] La
natura soggettivo-oggettiva di cui parla Furia Valori a proposito di Dio
in Carabellese è lettura che in parte condivido (credo che Dio in
Carabellese, come si è già detto, non sia quello di cui si parla nella Dialettica
delle forme, e che secondo me fa riferimento non solo e non tanto a
Dio quanto alla coppia circolare Dio Io, ma quello che riguarda il
livello dell’Essere – e non quello della sua manifestazione -, e sul
cui livello assoluto nel senso di sapere l’Assoluto Carabellese non ha
scritto, ma coi suoi studi sul bramanesimo stava riflettendo). A partire
da questa lettura si può giustamente parlare ancora di un Dio Persona
in Carabellese, oltreché di un Dio oggettivato nelle forme in cui
l’io lo conosce e lo nomina. In questo senso, quello che vede questo
livello di Dio nella coppia circolare Dio Io, si può inoltre a ragione
parlare ancora di dualismo soggetto-oggetto con cui si può leggere il
rapporto circolare Io Dio non soltanto nell’Essere di Coscienza puro
ma anche nella Coscienza qualitativa. Vedi
F. Valori, Saggio introduttivo a P. Carabellese, L’Essere
e la sua manifestazione. Parte Seconda. Io, Pubblicazione
dell’Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Scienze della
Formazione, Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli, 1998, passim. [28] I
nostri studi ritornano su questo punto più volte, qui nel significato
che l’esperienza a priori è innalzata sul piano metafisico come
esperienza di Dio, nel senso del genitivo soggettivo: vedi L’Essere
nella dialettica delle forme, passim, e anche lo schema grafico
finale dell’opera, da leggere tridimensionalmente nello spazio, e
niente affatto come superficie apparirebbe. [29] Cfr.
G. Semerari, La sabbia e la roccia. L’ontologia critica di
Pantaleo Carabellese, p. 12, come per la citazione successiva, e,
per tutta l'argomentazione, p. 11 sg. Semerari, ricordando come già nel
1942 Augusto Guzzo esprimeva la stessa esigenza di dar rilievo al
pensiero di Carabellese, antepone la sua profondità di pensiero e la
sua finezza di analisi a quelle dei filosofi "istituzionali"
Croce e Gentile, considerandolo "uno dei pensatori italiani più
originali della prima metà del secolo": vedi Ibidem, Nota
introduttiva, pp. I-III, ed anche cap. 4, pp. 86-87. [30] Il
primo a parlare di un necessario rapporto tra Hegel e Carabellese è
Edoardo Mirri in Pantaleo Carabellese, L’attività spirituale
umana. Prime linee di una logica dell’essere, dispensa
universitaria A.A. 1947-48, Castellani, Roma, 1948 poi riedito postumo
con lo stesso titolo (“senza alcune righe iniziali di collegamento con
le parti precedenti”, ossia a nostro parere con il corso su L’Essere
e la sua manifestazione e con quello su L’Essere,
ma aprenti invece anche, come da titolo, a una nuova riflessione sulla
Logica dell’Essere), in “Giornale critico della filosofia
italiana” nn.3-4, pp. 261-78; e ancora, sempre postumo e con lo stesso
titolo, a cura e con Introduzione di Edoardo Mirri,
Pubblicazione dell’Università degli Studi di Perugia, Facoltà di
Magistero, Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli, 1991, pp. 33-36. [31] Sui
rapporti non solo teoretici che intercorsero tra Carabellese e Gentile
potrebbe essere fatta una ricerca, mentre io qui mi limiterò a darne
pochi spunti per inquadrare meglio il pensiero di Carabellese ai fini
della mia ricerca. [32] Semerari,
ricordando come Gentile considerasse il neokantismo “più schietta
filologia che filosofia" e ribadisse che l'idealismo era "la
sola prosecuzione legittima del criticismo kantiano", riprende dal
Gentile della Storia della filosofia italiana, Firenze 1969,
vol. II, p. 478, un "discorso perentorio, che si poneva come un
“aut-aut" e che "riguardava Filippo Masci, neokantiano
e primo maestro di filosofia di Carabellese" : "<<Dopo
Kant bisogna risolversi: o l'apriori è tutto, e la materia si dilegua
“[...] O assoluto idealismo o assoluto realismo. O gnoseologia o
psicologia>>.". Cfr. G. Semerari, La sabbia e la
roccia cit., p. 13, laddove è da notare che in un suo
intervento, Fulvio Tessitore ha posto un analogo aut-aut tra ontologia e
antropologia. A mio parere, confortato da Carabellese, si tratta di
livelli distinti e compresenti sia di lettura che di articolazione
dell’essere. [33] P.
Carabellese, Il soggetto universale, in Id., Critica
del Concreto, I ed. Libreria Pagnini, Pistoia, 1921, II ed. riv.,
Signorelli, Roma, 1940, III ed. riv. e ampl. per il progetto dell'ediz.
delle Opere complete di Pantaleo Carabellese, Serie I: Primi
saggi di ontologismo critico (oltre quest'opera uscì soltanto Da
Cartesio a Rosmini, 1946), Sansoni, Firenze, 1948, cap. VII, pp.
145- 77, in partc. p. 150, p. 162-63, p. 168, citaz. pp.
148-49, che è quella a cui faremo riferimento. (Nell'ultima di
copertina della Critica del Concreto è stampato il
piano completo delle opere, di cui alcune inedite). [34] P.
Carabellese, Il neohegelismo italiano contemporaneo, in Id.,
L'idealismo italiano. Saggio storico-critico, I ed. Loffredo,
Napoli, 1938, II ed. con aggiunte, Edizioni Italiane, Roma, 1946 (che è
quella a cui faremo riferimento), cap. VII, n. 1 di p. 135. [35] E'
Carabellese stesso a chiarire nella n. 1 di p. 221 dell'Appendice III
La pedagogia nell'attualismo al suo L'idealismo
italiano cit., pp. 221-39, quali sono i luoghi del suo incontro
col pensiero di Gentile: l'opera La teoria della percezione
intellettiva di A. Rosmini cit., dalla tesi di laurea in Filosofia,
con Prefazione di B. Varisco, 1907, e poi i due
articoli polemici Intuito e sintesi primitiva in A. Rosmini,
in "Rivista di Filosofia", a. III, fasc. I, Formiggini,
Modena, 1911, pp. 78-96, e La potenza e l'intuito come potenza
nell'ideologia rosminiana, in "Rivista di Filosofia", a.
IV, fasc. I, Formiggini, Modena, 1912, pp. 1-36. Ne L'idealismo
italiano invece, dedica all'analisi dell'attualismo il cap. VII Il
neohegelismo italiano contemporaneo, pp. 105-136 e l'Appendice
III La pedagogia nell'attualismo, costituita da I La
pedagogia come filosofia, recensione al I vol. di G. Gentile, Sommario
di pedagogia come scienza filosofica, vol. I: Pedagogia
generale, Laterza, Bari, 1913, recensione già pubblicata in
"Logos", vol. I, fasc. I, Perugia, 1914, e da II La
didattica, recensione al II vol. della medesima opera gentiliana: La
didattica, recensione già pubblicata in "Il
Conciliatore", a. II, fasc. II, Torino, 1915. Per i
luoghi carabellesiani del rapporto con Rosmini rimandiamo invece al
par. su I maestri di Carabellese di questo lavoro. [36] L'interpretazione
carabellesiana di Rosmini è proprio uno dei motivi più
importanti di dissenso e di polemica con Gentile: la polemica
Carabellese-Gentile, che risale alle rispettive Tesi di Laurea, riguarda
in primo luogo l'interpretazione carabellesiana di Kant
mediata dalla concezione rosminiana
dell'essere e dalla prospettiva masciana di Kant come colui il quale
fonda, come dice Semerari, la formazione coeva del dato e della forma
della conoscenza. Per Rosmini bisogna uscire dallo gnoseologismo ed
entrare nella metafisica, laddove la formazione coeva del dato e della
forma della conoscenza messa in luce da Masci (il quale rappresenta
perciò secondo Semerari il primo e più remoto stimolo per il
concretismo di Carabellese) veniva interpretata sul piano ontologico
dell'essere concreto. Cfr. G. Semerari, La sabbia e la roccia cit.,
pp. 13- 17, in partc. p. 14 sg., e p. 24. [37] G.
Gentile, Rosmini e Gioberti, Pisa, 1899. [38] Per
i rapporti teoretici che legano Carabellese a Rosmini, e per un
approfondimento del significato dei temi dello scontro
Carabellese-Gentile, si rimanda al par. I maestri di Carabellese. [39] P.
Carabellese, Intuito e sintesi primitiva in A. Rosmini cit.,
p. 79 [40] Carabellese
cita per Gentile la Recensione alla sua propria
Tesi di Laurea in Filosofia La teoria della percezione intellettiva
in A. Rosmini, in " La Critica ", Anno VII,
fasc. IV,
lugl. 1909. [41] Ibidem, pp. 81-84 [42] P.
Carabellese, La potenza e l'intuito come potenza nell'ideologia
rosminiana, in "Rivista di Filosofia", a. IV, fasc. I,
genn.-febbr. 1912, pp. 1-39. [43] A
questo proposito vorremmo ricordare di G. C. Atzei, S. Babolin, A.
Boccanegra, L. Bugliolo, G. Contadini, G. L. Brena, G. Cenacchi, B.
D’Amore, C. Fabro, J. B. Lotz, U. Pellegrino, A. Rosso, Il
problema del fondamento, Atti del IV Convegno dei docenti italiani
di filosofia nelle Facoltà, Seminari e Studentati religiosi d’Italia,
Sapienza, Rivista internazionale di Filosofia e di Teologia, Anno XXVI,
nn. 3-4, Luglio-Dicembre 1973. [44] P.
Carabellese, Intuito e sintesi primitiva in A. Rosmini cit.,
p. 89-93, vedi anche n.2 di p. 95, in cui si ribadisce che
l’idea dell’ente è fondamento, ed è fondamento del sistema
rosminiano. [45] Cfr. Idem, La
pedagogia nell'attualismo, in Id., L'idealismo italiano cit.,
pp. 222-24 [46] Idem, Il
neohegelismo italiano contemporaneo cit., p. 109. [47] Ibidem, p. 110. [48] Ibidem, pp. 112-15. [49] Ibidem, p. 116. [50] Ibidem, p. 123. [51] Ibidem, p. 125 sg. [52] Ibidem, p. 127. [53] Ibidem, n. 1, p. 135. [54] Cfr.
G. Semerari, La sabbia e la roccia cit., Nota
introduttiva cit., pp. II sgg. [55] Ciononostante
questo allineamento con gli impulsi più vitali che dentro e fuori
d'Italia animavano il passaggio tra Ottocento e Novecento e più ancora
il Novecento filosofico europeo non deve far pensare a una figura di
pensatore piattamente inserita nell'orizzonte sia pur vivo del suo
tempo. Ché anzi i suoi rapporti teoretici con le linee di tendenza
del panorama filosofico italiano dell'epoca furono anche improntati alla
presa di distanza piuttosto che alla ricerca di un terreno comune,
quando non piuttosto alla polemica. Sicché può dirsi che, nonostante
come si vedrà si possa parlare di un lascito carabellesiano tuttora
vivo nei suoi allievi più diretti, nondimeno egli si staglia rispetto
alle correnti filosofiche della sua epoca in una posizione di
controcanto che ne ha fatto per molti versi un pensatore solitario
convinto portatore di una nuova scuola, e che perciò si rispecchiava
con difficoltà in qualsivoglia corrente di pensiero della sua epoca,
pur non negando, ma anzi riconoscendo, il suo debito verso quei maestri
che identificò come propri. [56] Cfr.
P. Carabellese, L'idealismo italiano cit., p. 21, continuaz.
di n. 1 di p. 20. [57] Per
l'affermazione del vero idealismo come idealismo concreto, si fa
riferimento a Idem, Da Cartesio a Rosmini cit.,
p. 249, dove dice "[...] il mio ontologismo critico o idealismo
concreto [...]", e p. 254, dove afferma che l'Enciclopedia hegeliana
non è "[...] concretamente idealistica [...]." [58] E'
proprio il problema del rapporto tra verità oggettiva e certezza
soggettiva, ossia su come sia possibile dal punto di vista soggettivo
essere certi della verità oggettiva, quello che secondo Carabellese
connota il pensiero moderno e la cui soluzione segna la
scissione della riflessione filosofica in due distinte linee
fondamentali: la linea oggettivistica propria della filosofia
dell'essere e la linea soggettivistica propria della filosofia del
conoscere, alla quale Carabellese ascrive Cartesio, Kant e Fichte, e
nella quale mostra come la linea oggettivistica sia rispuntata qua e là
con intuizioni e scoperte poi abbandonate. Ad esempio, in Cartesio è
fondamentale la scoperta del cogito Deum, scoperta
metafisica in quanto pone la spiritualità divina nella coscienza
soggettiva, ossia la sostanzialità spirituale in me pensante. Questa
deviazione dalla filosofia del conoscere dovrebbe spingere Cartesio ad
abbandonare l'idea della sostanzialità della materia (la res
extensa), che è idea ingenuamente realistica di derivazione
scolastica (esse in mente e esse in re) e che lo
conduce al dualismo. Cfr. M. Anna Rocchi, Pantaleo Carabellese
storico della filosofia, Schena, Fasano, 1988, cap. VI, passim. [59] Alla
concezione carabellesiana della Coscienza abbiamo dedicato un saggio, al
quale rimandiamo. Qui ci sembra opportuno anticipare, per la
comprensione del nostro discorso, che a proposito dell'identificazione
carabellesiana di Essere e Coscienza, Semerari nota acutamente che
l'essere non è il realistico essere fuori della coscienza, ma esigenza
primordiale della stessa coscienza, si potrebbe dire esigenza dell'oggettivarsi
dell'Idea. Cfr. G. Semerari, La sabbia e la roccia cit., Nota
introduttiva cit., passim. In questa concezione, e
qui più che altrove secondo il nostro punto di vista, si attua la saldatura
del pensiero carabellesiano col pensiero hegeliano che stiamo sperando
di mettere in luce, a partire dal concetto di Idea come "Dio prima
della creazione", a finire all’io come Quanto dell’Essere
passando per il concetto di realtà nel superamento della separazione
tra essere e apparire. Ma soprattutto, tornando alla
coincidenza-identificazione di un determinato livello dell’Essere con la
Coscienza , si dovrebbe intendersi e non confondersi sulla
latitudine e il campo semantico da attribuire al termine coscienza in
Carabellese, che talvolta è usato in riferimento al soggetto come
coscienza soggettiva, talaltra, il più, in ambito prettamente
metafisico, come più pregnantemente era nelle intenzioni di
Carabellese: la Coscienza è l'Uno-Tutto, dunque gli uomini
appartengono alla Coscienza, e non la Coscienza , ma la
coscienza, agli uomini. Il piano trascendentale è sempre risolvibile
per Carabellese nel piano metafisico. [60] Per
tutta questa argomentazione si rimanda a P. Carabellese, L'idealismo
italiano cit., passim, poi alle già cit. Prefazione e Introduzione,
al cap. I, e in partc. alle pp. 38-45 e 50-51. [61] Mentre
secondo la conoscenza comune Bernardino Varisco incentrò il suo Scienza
e opinioni, del 1901, sulla sua prima concezione positivistica del
problema dell'atto conoscitivo in senso psico-fisico, Carabellese
invece vede quest'opera come la prima autocritica del
Positivismo in Italia, considerando quindi come suo maestro il Varisco
spiritualista e antineoidealista espressosi a partire da La
Conoscenza , 1905, ma abbandonandolo poi dichiaratamente nel
1936 soprattutto per il varischiano rigetto, dovuto al raggiunto teismo
(con il Sommario di filosofia, 1928, e il postumo Dall'uomo
a Dio, 1939) del precedente immanentismo e pluralismo
coscienzialistico, che pur salvava l'individualità del soggetto con l'autolimitazione
del soggetto assoluto. [62] Carlini
attribuì come maestri a Carabellese Varisco e Gentile, Carabellese
rispose che egli si sentiva debitore nei confronti di Rosmini e Kant.
Cfr. Armando Carlini, Orientamenti e problemi speculativi del
pensiero filosofico nell'età presente, in "Giornale critico
della filosofia italiana", fasc. 1-2, 1936, pp. 44-45, e P.
Carabellese, Risposta a Carlini, in "Giornale critico
della filosofia italiana", fasc. 6, 1936, poi rist. come app. VI in Id.,
L'idealismo italiano cit., II ed., 1946, pp. 275-84. [63] Si
laureò nel 1900 con una tesi in Storia: il relatore era Giuseppe De
Blasiis, "patriota e combattente nella guerra di Crimea, Segretario
della Società Napoletana di Storia Patria, amico di B. Croce",
l'argomento era il papato in età medievale, la tesi fu successivamente
pubblicata con il titolo Sulla vetta ierocratica del Papato.
Idee, fatti, intuizioni, Sandron, Milano-Palermo-Napoli, 1910.
Cfr. M. A. Rocchi, Pantaleo Carabellese storico della filosofia cit.,
pp. 1-3. [64] Le virgolette
riportano espressioni di G. Semerari, La sabbia e la roccia cit.,
in partc. p. 14. Per il rapporto Masci-Carabellese, cfr. Edmondo De
Liguori, Il problema interno della filosofia in Pantaleo
Carabellese, Bulzoni, Roma, 1988, pp. 25- 29, in cui De
Liguori approfondisce il discorso partendo da Semerari. [65] G.
Semerari, “L'ontologismo critico di P. Carabellese. Genesi e
significato”, in AA.VV., Pantaleo Carabellese, il
<<tarlo del filosofare>> cit., pp. 22 sgg. [66] Sul
pensiero del maestro Carabellese scrisse, come ricorda nella n. 1 p. 241
del suo L'idealismo italiano cit., oltre al già cit. L'Essere
e il problema religioso, 1914, anche Il pensiero filosofico
di Bernardino Varisco, già discorso pronunciato all'Università di
Roma nel 1926 in occasione del Giubileo in onore di
Bernardino Varisco a cui partecipò anche Giovanni Gentile,
stampato in "Giornale critico della filosofia italiana",
fasc. IV, a. VII, 1926, poi rist. in App. IV a P. Carabellese, L'idealismo
italiano cit., II ed. 1946, Il pensiero pedagogico di
Bernardino Varisco, recensione a B. Varisco, La scuola per
la vita. Scritti pedagogici, II ed. Venezia, 1927, in "Giornale
critico della filosofia italiana", fasc. VI, a. VIII, 1927, poi
rist. in Ibidem, Bernardino Varisco, in Annuario della
Reale Università degli Studi di Roma, A.A. 1933-34, poi rist. col
titolo La personalità speculativa di B. Varisco in Ibidem (i
tre saggi, I, II, III, che compongono l'App. IV sono alle pp. 241-63), e
infine Bernardino Varisco, voce in Grande
Enciclopedia Italiana, Treccani, 1937. Per tutta l'argomentazione da
qui svolta sui rapporti tra Carabellese e Varisco si fa riferimento a
questi saggi. Per le lettere al maestro, Cfr. F. Bonatelli, R. Ardigò,
G. Vailati, F. Juvalta, G. Gentile, F. De Sarlo, P. Carabellese, P.
Martinetti, Lettere a Bernardino Varisco (1867-1931). Materiali
per lo studio della cultura filosofica italiana tra Ottocento e
Novecento, a cura di Massimo Ferrari, Firenze, 1982. Per
un’analisi de L’Essere e il problema religioso si
rimanda a Furia Valori, Saggio introduttivo a Pantaleo
Carabellese, L’Essere e la sua manifestazione. Parte
Seconda. Io, (a cura di Furia Valori), Pubblicazione
dell’Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Scienze della
Formazione, Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli, 1998. .
Parte II: Io,
pp. 16-28, che inoltre riteniamo molto utile ai fini del sostegno della
nostra tesi che Carabellese voglia radicalizzare l’Io penso Kantiano. [67] R.
Sabarini, Dalla critica alla metafisica: P. Carabellese, in Id.,
Criticismo e metafisica, Editoriale Arte e Storia, Roma, 1953, pp.
89-90. Ringrazio vivamente la Signora Elena Ottolenghi per
aver voluto donarmi copia di questo volume di Raniero Sabarini, che
considero ricco di stimoli. [68] Cfr.
P. Carabellese, L'idealismo italiano cit., App. IV
La filosofia di B. Varisco, I. Il pensiero filosofico,
p. 244. [69] Cfr.
Pantaleo Carabellese, L’attività spirituale umana. Prime
linee di una logica dell’essere, a cura e con Introduzione di
Edoardo Mirri, Pubblicazione dell’Università degli Studi di Perugina,
Facoltà di Magistero, Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli, 1991, p. 138. E’ la ristampa delle dispense
universitarie del corso di Filosofia Teoretica tenuto da Carabellese
nell’A.A. 1947-48 all’Università degli Studi di Roma, I ed. e I
rist. postuma 1948. Su tutta la tematica dell’”uomo
pensante che vive”, della soggettività plurale e
dell’attività spirituale umana si sono infatti mossi a partire dagli
anni ’90 i lavori sia di pubblicazione degli inediti metafisici
carabellesiani sia di riflessione teorica di Edoardo Mirri nel cit. L’attività
spirituale umana; e Furia Valori, L’uomo pensante che vive,
Pubblicazione dell’Università degli Studi di Perugia, Facoltà di
Magistero, “Quaderni dell’Istituto di Filosofia”, n. 12, s.d.
(1996); Idem, Il problema dell’io in Pantaleo Carabellese,
Pubblicazione dell’Università degli Studi di Perugia, Facoltà di
Magistero, Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli, 1996; Idem (a cura di), Pantaleo Carabellese, L’essere
e la sua manifestazione. Parte Seconda. Io cit. [70] Cfr.
Pantaleo Carabellese, L’idealismo italiano cit.,
App. IV La filosofia di B. Varisco, III. La personalità
speculativa, pp. 260-63. [71] Il
pensiero di Varisco, secondo Carabellese, mira alla giustificazione
della religione. Questo avviene in tre momenti distinti che sono in
correlazione: l'opposizione tra sentimento religioso e ragione,
l'espressione di tale sentimento in termini razionali per cui Dio
diviene assoluto Pensiero come assoluto Essere (dottrina varischiana
del valore) e la dimostrazione razionale di Dio nella sua oggettiva
necessità, che comporta il superamento completo dell'iniziale
opposizione tra ragione e sentimento e l'assorbimento di questo nella
ragione, che così ne dimostra l'oggetto. Quest'accordo
Carabellese, seppure in tutte le sue lacerazioni, non lo ha mai cercato,
portando avanti un pensiero prettamente filosofico libero
dall'osservanza ai dogmi, e lo ritrova, oltre che in Varisco, anche in
Gentile, il cui attualismo vede come una trasposizione in termini
filosofici del dogma cristiano. Ma ci è sembrato di poter suggerire che
pur nella ricchezza delle ascendenze mistico-orientali del pensiero
filosofico-religioso occidentale di cui Carabellese va in cerca operando
di fatto uno spostamento a Oriente della teologia nelle sue radici
sempre più da approfondire, lo sguardo carabellesiano resti nonostante
tutto ancorato a una visione ancora troppo
occidentalocentrica – in ciò storica -, in cui il Cristianesimo si
pone come perno e punto di arrivo anche nella filosofia contemporanea e
nella sua propria filosofia, ricca di riferimenti ai suoi dogmi anche
nella sua non istituzionalità. [73] Cfr.
Pantaleo Carabellese, L’idealismo italiano cit., App. VI
Risposta a Carlini cit., p. 276 sg. [74] Cfr. Ibidem,
L’idealismo italiano cit., II. Il pensiero pedagogico,
p. 252. [75] Sul
pensiero di Spinoza Carabellese scrive Il concetto spinoziano
dell'errore, in Septimana spinoziana, The Hague-Martinus
Nijhoff, 1932, poi rist. in Id., Da Cartesio a Rosmini.
Fondazione storica dell'ontologismo critico, Sansoni, Firenze, 1946.
Ma il riferimento a Spinoza, seppur raro, è presente anche in altri
saggi, mentre Giuseppe Pinto, in Pantaleo Carabellese, in
"Giornale critico della filosofia italiana", a. XXVIII, Terza
Serie, vol. III, fasc. I, genn.-mar. 1949, p. 10, parla di quattro corsi
inediti su Spinoza che Carabellese tenne all'Università di Roma sulla
Cattedra di Storia della Filosofia che Carabellese ricoprì dal 1929
alla sua morte. [76] La
riflessione carabellesiana sul pensiero di Cartesio ci ha lasciato: Il
circolo vizioso di Cartesio. Nota di Pantaleo Carabellese,
estratto da Rendiconti della Classe di Scienze morali, storiche
e filologiche della Reale Accademia Nazionale dei Lincei,
Bardi, Roma, 1938, Sez. VI, vol. XIII, fasc. 11-12, pp. 471-532, poi
rist. come cap. II in Id., Da Cartesio a Rosmini cit.,
pp. 31-101; Cartesio e Vico, in Problemi e
discussioni della Reale Accademia Nazionale dei Lincei, Classe
di Scienze morali, storiche e filologiche, Bardi, Roma, 1938,
fasc. II, poi rist. come App. I Essenza del vichismo in Id.,
L'idealismo italiano cit., II ed. 1946, pp. 207-212; La
riconquista del cartesianesimo, conferenza inclusa nel ciclo
organizzato dalla Sezione Piemontese dell'Istituto di Studi
Filosofici, tenutosi nel 1942 presso l'Istituto di Filosofia
dell'Università di Torino e poi raccolto nei 2 voll. AA.VV., L'attualità
dei filosofi classici. I: Filosofia antica e medievale, II: Età moderna,
a cura di A. Guzzo, Bocca, Milano, 1943, pp. 1-20, poi rist. come cap. I
in P. Carabellese, Da Cartesio a Rosmini cit., pp.
1-29; Le obbiezioni al Cartesianesimo, Casa ed. D'Anna,
Messina-Città di Castello, 1946, 3 voll.: I: L'idea, II: La
dualità, III: Il metodo. [77] P.
Carabellese, La riconquista del cartesianesimo cit., p.
11. [78] Allo
studio del pensiero di Rosmini, oltre alla tesi e ai già ricordati a
proposito della polemica con Gentile Intuito e sintesi
primitiva in Antonio Rosmini, 1911, e La
potenza e l'intuito come potenza nell'ideologia rosminiana, 1912,
sono dedicati: L'elemento categorico kantiano nell'ideologia
rosminiana, in AA.VV., Atti del IV Congresso internazionale
di filosofia tenutosi a Bologna nel 1911, Formiggini, Modena,
1912-16; Originalità storica e attualità speculativa del
pensiero filosofico rosminiano, Bocca, Milano, 1940, rist. anche,
nello stesso anno, in AA.VV., Studi rosminiani, sempre
Bocca, e poi, col titolo Originalità e attualità di Rosmini,
in P. Carabellese, Da Cartesio a Rosmini cit., cap.
VIII, pp. 227-257; Il problema filosofico di Rosmini,
Signorelli, Roma, 1941. [79] Sul
Tema La critica di fronte all'ontologismo si svolse
un'intera sezione del Congresso, la seconda, di cui ora si parlerà nel
testo. Cfr. il già cit. AA.VV., Atti del XIV Congresso
Nazionale di Filosofia, Secondo Tema: La critica di fronte
all'ontologismo, pp. 249-428. [80] A.
Beccari, Tentativi di metafisica critica: l'ontologismo del
Carabellese, in AA.VV., Atti del XIV Congresso Nazionale di
Filosofia cit., pp. 263-270. [81] G.
Bontadini, Osservazioni sull'ontologismo di P. Carabellese, in AA.VV.,
Atti del XIV Congresso Nazionale di Filosofia cit., pp. 283-304. [82] L’essere
Rosmini interno o meno a questa corrente di pensiero è tra l'altro
oggetto delle relazioni di Gianfranco Bianchi e di Paolo Dezza. Cfr. G.
Bianchi, La critica di fronte all'ontologismo in P. Galluppi,
A. Rosmini, V. Gioberti e in Giovanni Maria Bertini, e P. Dezza, L'ontologismo
di A. Rosmini e la critica di S. Sordi, ambedue in AA.VV., Atti
del XIV Congresso Nazionale di Filosofia cit., rispettivamente
alle pp. 271-82 e 335-40. [83] Anche
Carabellese dunque partecipò al Congresso. Cfr. P. Carabellese, Dalla
critica all'ontologismo critico, in AA.VV., Atti del XIV
Congresso Nazionale di Filosofia cit., pp. 309-318. [84] A.
Devizzi, La critica di P. Matteo Liberatore all'ontologismo cit.,
in AA.VV., Atti del XIV Congresso Nazionale di Filosofia cit.,
pp. 331-334. [85] Non
si può non intravvedere in ciò la vicinanza con l'intuizione immediata
dell'Assoluto che Hegel attribuisce come compito all'intuizione
trascendentale, che si libera dalla restrizione kantiana all'ambito
gnoseologico e alle forme dello spazio e del tempo per assumere un ruolo
euristico nella metafisica. [86] P.
Carabellese, Originalità e attualità di Rosmini cit.,
in Id., Da Cartesio a Rosmini cit., pp. 227-257. [87] Ibidem, pp. 232-33. [88] Ibidem, p. 234-36, p.
242. [89] Si
aprirebbe qui una bellissima direzione di ricerca tesa a dimostrare la
coincidenza possibile in infinitum tra, nell’ordine,
essere pensabile, essere possibile, essere oggettivo, essere necessario,
essere reale, coincidenza possibile nel momento in cui si consideri da
un lato lo spostamento in avanti del limite del pensabile, e di
conseguenza del limite del possibile e del reale, dall’altro
l’allargamento del campo di ciascuno di questi ambiti. [90] Ibidem,
p. 255. [91] Cfr.
B. Varisco, Tra Kant e Rosmini. A proposito del libro di P.
Carabellese: La teoria della percezione intellettiva in A. Rosmini,
in "Rivista di filosofia", n. 1, Formiggini, Modena, 1909. [92] P.
Carabellese, Originalità e attualità di Rosmini cit.,
in Id., Da Cartesio a Rosmini cit., p. 244. [93] G.
Semerari, La sabbia e la roccia cit., pp. 14-15. [94] P.
Carabellese, Originalità e attualità di Rosmini cit.,
in Id., Da Cartesio a Rosmini cit., pp. 250-51. [95] Ibidem, pp. 250-52. [96] Ibidem, p. 247 [97] Questa
felice espressione di Raniero Sabarini è in Criticismo e
metafisica cit., passim. [98] P.
Carabellese, Originalità e attualità di Rosmini, in Id. Da
Cartesio a Rosmini cit., p. 252. [99] Idem, Che
cos'è la filosofia? cit., p. 242. [100] Idem, Critica
del concreto cit., Prefazione alla II edizione, p.
XVII. [101] Ancora Idem, Che
cos’è la filosofia? cit., p. 242. [102] Ibidem,
p. 183. [103] A
Dio come Uno-Tutto fa riferimento la teologia ebraica, per la quale
inoltre tutto è in Dio e non solo Dio è in tutto: “Dio è il luogo
del mondo, e non il mondo è il luogo di Dio”, dal Midrash Rabbà:
Genesi, 69, e Esodo, 45, ossia da Il Grande Commento, scritto dai Grandi
Dottori tra il I e l’VIII sec. d. C. In Carabellese è presente questa
tesi nella concezione dell’immanenza-trascendenza di Dio. Ma il senso
dell’essere Dio il luogo del mondo è molto profondo. [104] Ornella
Nobile Ventura ricorda come Carabellese fosse stato profondamente
influenzato nei suoi interessi religiosi, prima ancora che dalla
formazione ricevuta al liceo nel Pontificio Seminario Vescovile di
Molfetta, dall'educazione estremamente pia ricevuta dalla madre.
All'origine della successiva interruzione degli studi seminariali in
vista dell'abito talare, che si espresse in una vera e propria crisi
religiosa, ci fu sicuramente la maturata consapevolezza della distanza
che intercorreva tra il suo pensiero e quello rigorosamente dottrinale,
distanza che si espresse all'epoca dell'Università in posizioni
fortemente polemiche e accesamente anticlericali, influenzate anche
dall'atmosfera culturale universitaria in cui era immerso in quegli
anni prima a Napoli (con lo storico Giuseppe De Blasiis) e poi a Roma
(con Bernardino Varisco). Probabilmente è anche facendo riferimento
alle tesi sostenute da Carabellese in questo periodo giovanile del suo
pensiero che si è potuto tacciarlo di ateismo: non crede alla
Rivelazione, critica l'ingerenza della Chiesa nella vita dei singoli e
dello Stato, auspica uno Stato laico, stigmatizza l'intolleranza
religiosa come matrice di guerre e persecuzioni verso i singoli e
verso i popoli, ma soprattutto considera il Cristianesimo
nietzscheianamente come una dottrina che, oltre a controllare la vita,
vuole toglierle ogni valore in vista di una vita
ultraterrena, santificando il dolore e aprendo nel contempo la strada
all'intolleranza. Cfr. O. Nobile Ventura, Filosofia e religione
in un metafisico laico: P. Carabellese, Bocca, Milano, 1951, pp.
12-19 e 26-31. [105] Carabellese
fece parte anche del modernismo, movimento di riforma religiosa contro
il potere temporale della Chiesa e per un suo ritorno alla purezza delle
origini. Già dalla gioventù gli scritti di Carabellese sulla religione
sono numerosi: Sulla vetta ierocratica del Papato. Idee, fatti,
intuizioni cit., dalla Tesi di Laurea in Lettere del 1900; Stato
e Chiesa (a proposito di formule), in "La riforma laica",
n. 8, 1910; Sul concetto di religione, in "La riforma
laica", marzo 1911, ottobre 1911, dicembre 1911 e gennaio 1912; Religione
e libertà, in "Rivista di filosofia", n. 2-3, 1913; La
coscienza religiosa in Italia. Risposte di Pantaleo Carabellese,
Firenze, 1916; Religione e filosofia, Prolusione
all'insegnamento sulla Cattedra di Filosofia teoretica a Palermo, in Biblioteca
filosofica di Palermo. Annuario, Palermo, 1923, vol. VI, fasc. I,
pp. 1-18, e in "Logos", Napoli, 1923, poi rist. in Id.,
Che cos'è la filosofia?, II ed. con postille e altri saggi,
Signorelli, Roma, 1942; Stato etico o teismo politico?, in
"Archivio di Filosofia", Quaderno La crisi dei valori,
Roma, 1945, pp. 7-14, poi rist. in Id., L'Idea politica
d'Italia, Ed. F.V. Nardelli, Roma, 1946. [106] Ornella
Nobile Ventura fa notare come però l'interesse per i temi religiosi non
si limitasse per Carabellese, nemmeno in questa prima fase, alla critica
sulle questioni riguardanti gli aspetti dottrinari, politici e formali
della religione, ma riguardasse anche l'essenza stessa della
religione, con una riflessione che ne mette in luce l'imprescindibilità
e si potrebbe dire l'immutabilità per l'animo umano: la religione come
fede è la proiezione nel Divino oggettivato di un sentimento soggettivo
che si estrinseca sì in contenuti specifici come atti di culto o
rituali formalizzati, ma tali che trovano la loro matrice in quest'oggettivazione,
necessaria allo spirito umano ma non esclusiva, tant'è vero che
quest'oggettivazione si ritrova positivamente nel mondo in forme
molteplici e differenti, appunto perché Dio è indefinibile. Direi che
la vicinanza con Troeltsch e con tutto il movimento di ricerca
dell’essenza della religione è evidente. Vi è dunque in questi anni
giovanili una duplice posizione di Carabellese nei confronti della
religione, nella distinzione tra gli aspetti esteriori (siano essi
rituali, dottrinari, sociali o politici) e gli aspetti interiori (soggettivi,
di fede, adorazione) della religione: riguardo ai primi egli esercita
una critica sferzante ai limiti dell'ateismo, che lo conduce a prevedere
e auspicare che il cammino dell'umanità vada verso una trasformazione
dei valori religiosi in valori spirituali tout court, ossia
laici, da realizzare in uno "Stato ateo", mentre rispetto ai
secondi egli inizia qui quella riflessione che lo accompagnerà per
tutto il suo percorso speculativo sull'ineludibilità della religione
come rapporto con la trascendenza che rende possibile l'incontro con
la filosofia intesa anch'essa come pensiero della trascendenza. In
questa seconda chiave di lettura del fenomeno religioso, il superamento
della religione auspicato si colora di un accento nuovo, che più che
una negazione di tale forma di coscienza diviene un ulteriore sviluppo
in una forma superiore della religione, quasi una sua purificazione
dagli aspetti mondani e perciò profani presenti nella religione
positiva. Cfr. O. Nobile Ventura, Filosofia e religione in un
metafisico laico: P. Carabellese cit., pp. 32-38 e 40-46. [107] Per
i rapporti di potere tra Stato e Chiesa rimandiamo al cap. 2 Religione
ed etica indipendente del cit. La sabbia e la roccia di
G. Semerari, ove si fa anche il punto sull'itinerario carabellesiano
in materia di filosofia della religione, lo si mette in rapporto con
Husserl per la distinzione tra religione positiva e religione come idea
(v. p. 41 sgg.) e in contrasto con la kantiana religione nei limiti
della sola ragione (v. p. 49). [108] Anche
qui, come nella tesi fondamentale dell'ontologismo che comporta
un'immediata intuizione dell'Assoluto che può tradursi sul piano
speculativo hegeliano nell'intuizione trascendentale, troviamo, se non
un'influenza, almeno una vicinanza, al di là del proclamato
antihegelismo carabellesiano, al pensiero di Hegel: si pensi solo, tra
gli altri, alla tesi fondamentale sottesa al saggio jenese del 1802 Glauben
und Wissen dello Hegel giovane, pubblicato sul "Kritisches
Journal der Philosophie" fondato assieme a Schelling. Cfr. Glauben und Wissen, oder die
Reflexionsphilosophie der Subjektivitat in der Vollstandigkeit ihrer
Formen, als Kantische, Jacobische und Fichtesche Philosophie, in
"Krithisches Journal der Philosophie“, Zweiten Bandes erstes
Stuck, Tubingen, 1802, pp. 3-188, tr. it. Fede e Sapere o Filosofia della riflessione della soggettività
nell'integralità delle sue forme come filosofia di Kant, di Jacobi e di
Fichte,
in Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Primi scritti critici,
Introduzione, Traduzione e note a cura di Remo Bodei, Collana Biblioteca
di Filosofia diretta da Luigi Pareyson, Mursia, Milano,
1971-81, pp. 121-253. [109] A
nostro parere il concetto di fede travalica i limiti della meditazione
teologica per porsi come necessario fondamento dell’agire dell’uomo,
del pensante che vive, in tutti i campi: solo nel senso della fede è
infatti ad esempio, ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi,
comprensibile la realizzazione della ricerca in campo scientifico. Essa
implica infatti la fede in un ordine razionale, o almeno razionalmente
leggibile, anche in quelle teorie, come le teorie del caos,
apparentemente riconducibili all’irrazionale. [110] Primo
motivo della polemica carabellesiana contro il neotomismo fu di essere
una filosofia istituzionale, funzionale alla Chiesa cattolica. Sul piano
più strettamente teoretico, per Carabellese il neotomismo si fondava
sulla separazione implicita tra essere e coscienza, da una prospettiva
realistica. Cfr. G. Semerari, La sabbia e la roccia cit.,
p. 10, n. 19 di p. 153 sg., e p. 44. [111] Ci
si riferisce alla famosa polemica con Padre R. Lombardi, P.
Carabellese. L'uomo e l'idea, in "Civiltà cattolica", a.
91, vol. IV, n. 2171, 7 dicembre 1940, pp. 332-44; P. R. Lombardi, Nella
<<coscienza>> di Carabellese, in "Civiltà
cattolica", a. 92, vol. I, n. 2173, 4 gennaio 1941, pp. 49-62; P.
R. Lombardi, Primo bilancio dell'opera di Pantaleo Carabellese,
in "Civiltà Cattolica", a. 92, vol. I, n. 2175, 1 febbraio
1941, pp. 202-14; P. R. Lombardi, Discussione con Carabellese,
in "Civiltà Cattolica", a. 92, vol. I, n. 2177, I marzo 1941,
pp. 369-82, e n. 2178, 15 marzo 1941, pp. 429-40. Ma anche agli
sferzanti giudizi (su cui tra poco torneremo nel testo), sebbene
affiancati da analisi lucidissime, di Michele Federico Sciacca, L'ontologismo
critico di P. Carabellese, in Id., La filosofia oggi, I
ed. Fratelli Bocca Editori, Roma-Milano, 1945, 2 voll., vol. II, II ed.
agg. Bocca, Roma-Milano, 1954, (che è quella a cui si fa riferimento),
2 voll., vol. II, cap. VI: L'idealismo italiano nei suoi sviluppi,
par. 2b, pp. 32- 41, in partc. 37-40, e M. F. Sciacca, P.
Carabellese, in Id., Il Secolo XX, Bocca,
Milano, 1942, 2 voll., Parte I Dal Pragmatismo allo
Spiritualismo cristiano, cap. VI L'idealismo critico, par.
4, pp. 299- 335 in partc. pp. 325-35. [112] La
polemica sull'ateismo di Carabellese, iniziata nel 1940 da Padre R.
Lombardi, si protrasse fino al 1948 (anno della morte), quando
finalmente Carabellese, amareggiato, scrisse un piccolo articolo in
risposta ai suoi detrattori: Tra arcaismo e ateismo,
estratto dal "Giornale critico della filosofia italiana",
fasc. I-II, Firenze, genn.-giu. 1948, su cui torneremo. [113] L'accusa
di ateismo era un'accusa pesantissima nell'Italia di allora, ma
soprattutto ingiustificata, poiché Carabellese, sebbene laico come fu
detto - Cfr. O. Nobile Ventura, Filosofia e religione in un
metafisico laico: P. Carabellese cit. - pur era animato da una
fede profondamente religiosa, che determinò tutto il suo percorso
filosofico. Il laicismo carabellesiano allora deve essere inteso nel
senso più proprio e letterale, da abbinare semmai a termini come
credente aconfessionale (ma Carabellese non lo fu, perché è
profondamente cristiano), e non, come fu fatto e come talvolta si fa
ancor oggi, nel senso dispregiativo di indicare una distanza dai temi
del pensiero religioso. [114] Ma
in Carabellese, nonostante questa tesi apparentemente “risolta” nel
senso di chiara e lineare, vi è un rovello non risolto sul concetto di
esistenza, non più soltanto in riferimento all’esistenza del
pensante,ma in generale dell’ente, come “più” inspiegabile dal
concetto, che Carabellese spera di risolvere a partire da Kant, sul cui
concetto di esistenza si soffermerà infatti nei due ponderosi volumi
che compongono il già cit. Il problema dell’esistenza in Kant,
dalle dispense degli AA.AA. 1940-43, poi ripubblicato a cura di Semerari.
Inoltre occorre dire che il concetto di esistenza dell’io in
Carabellese, sebbene tale radicalizzazione assoluta sia implicita, non
giunge fino al punto radicale di tematizzazione dell’esistenza dell’Individuum
metafisico – come noi vorremmo -, nonostante la
tematizzazione, anch’essa radicale, e di radicalizzazione dell’Io
penso kantiano, dell’Io. E’ da stabilire se tale radicalizzazione
assoluta – di rapporto tra Io, io, esistenza intesa in senso nuovo e
tempo -, che appunto noi vediamo implicita nella sua concezione del
soggetto e del Soggetto, sia esclusa, ci si scusi la ripetizione del
solo termine, per tempo – visto anche il suo continuo ritorno a Vico e
le sue incursioni nel pensiero teologico estremo-orientale - o per
radicale formazione cristiana, almeno coeva. [115] Si
veda per questo, il paragrafo di questo mio studio sulla polemica con
l'attualismo gentiliano come traduzione filosofica di concetti religiosi
del cattolicesimo. [116] M.
F. Sciacca, P. Carabellese cit., in Id., Il
secolo XX cit., pp. 333-35. [117] Idem, L'idealismo
italiano nei suoi sviluppi: b) L'ontologismo critico di P. Carabellese cit.,
in Id., La filosofia oggi cit., più in generale pp.
32-41, citaz. pp. 39-40. Come sull'accusa di ateismo, non concordiamo
nemmeno sull'accusa di panteismo, che meriterebbe uno spazio apposito
di discussione e che invece nel corso del nostro lavoro si è solo
potuto sfiorare, soprattutto in relazione al concetto di Concreto come
Essere-Sapere. Nello sviluppo che la sua filosofia avrà nell'ultimo
periodo, al concetto di Concreto egli affiancherà, o meglio anteporrà
l'Essere. Inoltre occorre dire che retroattivamente è possibile
interpretare in un senso più profondo, di cui mettere eventualmente in
discussione, e analizzare, la causa, l’affermazione di Sciacca che Dio
non esiste in sé: nel senso di una necessità di Dio (genitivo
soggettivo) di un rapporto con l’io. [118] Anche
se poi Sciacca dirà che "[...] al Carabellese resta il merito di
aver indicato la possibilità di rinnovare la metafisica tradizionale
negata dall'idealismo trascendentale, al lume dell'esigenza critica.
L'esigenza resta ed è fondamentale per la filosofia
contemporanea." Cfr. Idem, P. Carabellese, in Id.,
Il secolo XX cit., p. 335. [119] A
proposito dell’intuizione come potenza razionale, occorre dire che
Carabellese, che la studia a partire da Rosmini per la sua Tesi di
Laurea in Filosofia, come si è detto, dunque proprio all’inizio del
suo percorso filosofico, pur servendosene lungo tutto il suo arco di
pensiero, non le trova un posto nel suo discorso metafisico finale,
nemmeno quando tratta del livello della manifestazione dell’Essere
riferito alla triade penetrativa Intendere-Sentire-Volere. La cosa
appare strana, se si pensa che egli certamente considera l’Idea come
un uno-tutto in cui è conchiuso tutto l’essere che poi si manifesterà.
Ciò fa pensare a un’ulteriore possibile direzione di ricerca in cui,
più che identificare Idea e intuizione a livello metafisico, si potesse
dar spazio alla loro distinzione come ulteriore livello dell’Essere. [120] A
questo proposito Carabellese scrive: "[...] ogni fede in Dio, ogni
dimostrazione di Dio, ogni pensiero, direi, richiede Dio principio di
quella fede, di questa dimostrazione, di questo pensiero, cioè richiede
Dio come Oggetto puro di coscienza dei soggetti. [...] la diversità
delle chiese non esclude ma richiede l'unicità di Dio; e l'unicità di
Dio non richiede ma esclude la soggettività di Lui." Carabellese
pensava a una Chiesa universale? Cfr. P. Carabellese, Critica
del concreto cit., continuaz. p. 175 di n. 1 di p. 174. [121] Per
un’analisi dettagliata delle aporie insite nella concezione
carabellesiana della Coscienza qualitativa al livello del circolo Dio
Io, che pure non sono quelle a cui nello specifico qui si alludeva, si
fa riferimento a Furia Valori (a cura di), L’Essere e la sua
manifestazione, Parte II, Io cit. , passim. Vorrei
aggiungere che Valori, nell’analizzare dettagliatamente con acuta
ermeneusi il problema dell’Essere in Carabellese a partire dalla sua
prima pubblicazione critica, L’Essere e il problema religioso
(a proposito del “Conosci te stesso” di Bernardino Varisco) cit.
consente di avvalorare l’ipotesi della presenza in Carabellese di un
Soggetto Universale immanente nei soggetti (e con essi in quel rapporto
che abbiamo chiamato di reciproca ma non biunivoca penetratività, o
appartenenza immanente trascendente) – si fa riferimento alle pp.
16-28. Tale Soggetto Universale, o Io, è leggibile in termini religiosi
umani come Cristo, ossia incarnazione di Dio, identico per tutti e in
quanto tale unico, fondante il dialogo tra diversi omogenei io, se lo si
guarda dal punto di vista, dal livello, dei pensanti-che-vivono e non
dei pensanti in generale. In termini filosofici tale Soggetto
Universale, universale in quanto a livello dell’io fa riferimento ai
pensanti in generale presenti nell’universo, o a un possibile futuro
prossimo dei pensanti-che-vivono (Carabellese pensava a un cristianesimo
mondiale?), è leggibile a livello della coppia circolare Dio Io
kantianamente come Io penso – si fa riferimento alle pp.12, 19, 24, 25
-, per cui dal punto di vista teologico-mitologico la coppia
si sintetizza nel concetto di Dio Persona, dal punto di vista
teologico-filosofico stretto, ponendosi la coppia sul medesimo livello
dell’Essere, è possibile pensarla in termini di
distinzione-correlazione dell’Io che pensa se stesso come Oggetto e di
Oggetto che si specchia nella sua immanenza nell ‘Io, o anche di
Essere-Sapere, secondo le stesse indicazioni carabellesiane che vede
questo livello di Dio come Soggetto-Oggetto o Essere-Sapere. Si dice ciò
– ossia che è presente in Carabellese il Soggetto Universale da
intendere come Io penso kantiano – consapevoli non solo delle diverse
indicazioni della critica anche più attenta, ma anche dello stesso
Carabellese, che ha sempre criticato il Soggetto Universale unico:
l’operazione ermeneutica fatta va però nella direzione di intendere
in senso letterale la lettera carabellesiana. Per Carabellese il
Soggetto Universale, e anche il Soggetto tout court, non è
Dio – non è l’Assoluto, che Carabellese tendeva a vedere come
impersonale sulla scia del Brahmanesimo, o almeno lì si è fermato. La
chiave è nei ripetuti ritorni di Carabellese che il concetto di
soggetto si richiama quello di oggetto, a lui speculare, sia sul piano
metafisico di Soggetto-Oggetto, sia sul piano gnoeseologico del chi e
del che cosa della rappresentazione. Il Disegno della
storia della filosofia, e ci scusiamo per il continuo ricorso che vi
facciamo, inizia proprio con l’inserire il brahmanesimo nella
filosofia della soggettività come soggettività indistinta che poi il
giudaismo renderà distinta nell’Io e nel concetto di Dio-Persona come
Yhwh . Dio, l’Assoluto, per Carabellese non è Soggetto, Carabellese
ha ripetutamente contestato che Dio sia Soggetto: qui la vera noce della
polemica con l’idealismo tedesco e il neoidealismo italiano. Si dice
ciò credendo nell’oggettività di questa analisi fondata sulle fonti
e sulla loro interpretazione profonda, sul loro senso oltre che sulla
loro lettera, al di là delle convinzioni personali in campo teologico.
Afferma infatti Carabellese, come abbiamo ricordato a proposito della
polemica contro il soggettivismo di Varisco e Gentile, che pensare Dio
in termini di Soggetto “è solo un’astrazione vuota”. E’
necessario in altre parole, per quanto possibile, oggettivare
criticamente Carabellese tralasciando di farsi fuorviare dal proprio
credo personale, e riconoscere che il livello della soggettività di Dio
è in correlazione a quello della sua oggettività e solo a quello, e
che in questo senso della reciproca correlazione è leggibile anche il
livello di Dio del rapporto Essere-Sapere, secondo il quale il Sapere
afferma (sa) l’Essere e l’Essere dà l’essere (è) il Sapere. E’
questo il fondamento che Carabellese dà al realismo che supera il
fenomenismo nell’unum et idem di essere e apparire,
superando anche la scissione essere e conoscere, così come è questo il
vero fondamento della prova ontologica e della possibilità del rapporto
tra Dio e l’io, laddove l’Essere-Sapere è interpretabile, sul piano
metafisico dell’io come pensante, appunto proprio come io, come essere
che sa e sapere che è, e questo sapere e questo essere che è l’io,
questo sapere-essere=io sa, intuitivamente come razionalmente,
immediatamente come mediatamente, implicitamente come esplicitamente,
Dio nella sua in-finita rivelazione. Infatti se di fenomenismo si può
parlare in Carabellese, e di deviazione dal realismo di cui si parlava,
esso fenomenismo è nel concetto di manifestazione, se in esso, oltre
che un’intenzionalità divina riportabile al concetto di volontà
(speculare a quello di involontario), si scinde, pur rapportandoli
tramite la congiunzione, come fa Carabellese titolando le sue dispense L’Essere
e la sua manifestazione, la manifestazione dall’Essere, e non
si interpreta viceversa l’Essere e la sua manifestazione come
correlazione-distinzione-identità di Essere e mnanifestazione, in senso
appunto rigidamente realistico con ascendenze kantiane. [122] A
questo proposito, che sottende la risposta carabellesiana alle tre
domande metafisiche kantiane (su cui torneremo), vorrei dire che è in
atto un avvicinamento a velocità esponenziale tra Dio, io e cosmo,
leggibile non solo nella storia, molto lenta anche se ineluttabile, ma
anche, se la si intende come storia dell’Idea, nella virtualità.
Voglio dire che se lo scambio fisico (dove per fisico si intende anche
geografico, storico, culturale, religioso, scientifico, antropologico,
politico, economico, ecc.) è molto evidente e via via più veloce nella
direzione di un “villaggio globale” o concetto di Mondo probabile
presupposto dello scambio con altri mondi, e che in tale villaggio
globale il confronto, e la relazione, io-tu, o io-io, si fa più stretta
nella direzione dell’emergere della Verità, pure tale Mondo, in cui e
con cui l’io entra direttamente in confronto e relazione, è già
virtualmente, e quindi idealmente, realizzato nel Web. In questo senso
il passo successivo, ma il cinema di fanta-scienza lo ha già compiuto,
e ancor prima la letteratura (penso ad Alice) è l’ingresso dell’io
nel mondo delle idee, e quello successivo ancora, anch’esso ipotesi
fanta-scientifica già comunicata, che il tutto sia un mondo delle idee,
in evoluzione anche genetica, come la scienza genetica prova. In questa
direzione ritornerebbe il bergsoniano concetto di evoluzione creatrice,
cui Carabellese si rifà nel concetto di durata intensiva, e Bergson si
incontrerebbe col concetto scientifico-cosmologico della creazione
continua, cui Carabellese, con la sua ferma opposizione al
vetero-testamentario concetto di creazione e rivelazione come unicum
– nonostante abbiamo visto e vedremo tale concetto è da lui assunto,
ma anche tolto - , darebbe sicuramente la sua adesione,
visibile nel concetto di Coscienza. A proposito della creazione continua
in ambito filosofico-scientifico, vorrei citare, come inizio di una
possibile direzione di ricerca, oltre ai classici Jacques Monod, Il
caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia
contemporanea, EST Edizioni Scientifiche e Tecniche Mondadori,
Milano, I ed. 1970, II ed. 1971, e F. L. Boschke, La creazione
non è finita. La ricostruzione scientifica dei “sette giorni” della
Genesi,Garzanti, Milano 1963, I ed. “I Garzanti”
1970, II ed. 1973, Willem Kuyk, Il discreto e il continuo.
Complementarietà in matematica, Boringhieri, Torino, 1982. [123] Vorrei
dire qui sul valore sacrale della parola. Inoltre, in questo senso
radicale di intendere il rapporto Dio io come rapporto che c’è in
ogni istante – dove io è il vivente in quanto organismo
non solo umano, si potrebbe dire la creatura, e l’io pensante è
carabellesianamente lo spirito, ma dove anche io è riferito in senso
molto largo all’ente, che comprende l’oggetto, per cui Dio è l’Uno-Tutto
laddove tutto è in rapporto con Dio – la responsabilità dell’io
nei confronti del Male cresce a dismisura, e richiede uno sforzo
costante di vigilanza non sempre sostenibile, se è vero che ogni
pensiero, parola, atto, oggetto, ha una valenza sacra e una giustizia
(un senso) che spesso travalica la consapevolezza dell’istante, ma a
cui pure non solo è necessario tendere, ma di cui pure è necessario
farsi coscienti. Si intende dire che sebbene la razionalità del Tutto
oltrepassi la stessa intenzionalità dell’ente (e si vuole qui
carabellesianamente superare la distinzione tra enti-io e enti-cose), ciò
non diminuisce semmai aumenta la responsabilità stessa, dal momento che
la funzionalità dell’ente nel Tutto, si potrebbe dire il suo scopo
intrinseco e la ragione dell’ente (ragione oggettiva, non soggettiva),
è quella di coincidere – non semplicemente ritornare, stadio
precedente in cui l’ente non si dissolve – col Tutto. In questo
senso radicale della coincidenza dell’uno col tutto si può intendere
l’Uno-Tutto, liddove esso appare allora, seppure panteisticamente
inteso nel suo senso più profondo, come ancora
dualisticamente separato in due, potremmo chiamarle, entità che seppure
in circolo e relazione biunivoca posta sullo stesso livello
dell’essere, sono ancora distinte, come un livello inferiore, e uno
stadio da superare, del e nell’Assoluto. Tutte queste
riflessioni trovano la loro radice nell’interpretazione profonda di
concetti presenti in Carabellese, e a questi concetti (distinto,
dualismo, ecc., cui aggiungere concetti ermeneutici come circolo,
livello, biunivoco, ecc.), pur oltrepassandoli nella radicalizzazione
del loro senso – radicalizzazione che conduce o almeno è in relazione
a una diversa disposizione logico-metafisica -, si rifanno. [124] In
realtà crediamo di poter dire che per Carabellese la religione in
quanto rito (ci riferiamo al rito Brahman-Athman, col quale inizia il
suo Disegno), codificato o sperimentale nel senso di
procedente per prove ed errori, è momento successivo e umano, di
ricostruzione, di un rapporto immediato e diretto con l’Assoluto che
lo fonda, che lo precede e che lo segue. In questo senso Gerschom
Scholem parla della mistica come momento successivo, il terzo, del
rapporto Dio-io, quello della volontà della ricostruzione, attraverso
tentativi successivamente codificati o da codificare, dell’unità
primordiale in cui non vi era separazione, e trascendenza, tra Dio e io,
e tutto il mondo era divino, in unità di Dio, io, cosmo. Scholem vede
il momento dell’unità, il mondo divino, identificabile in termini
mitici con l’Eden prima della caduta, in termini filosofici col mondo
delle idee come forme pure, come momento iniziale del Tutto. Noi abbiamo
qualche dubbio che questo sia l’inizio, poiché ci sembra anch’esso
separativo nella distinzione tra Dio, io, cosmo, oltre che, nel caso di
Scholem come della storia delle religioni come della religione,
post-genetico oltre che fisico. Il problema è risalire (e
oltrepassare) al di là della Genesi, anche delle forme pure. Ma il
problema non è solo risalire dalle idee all’Idea: è comprendere la
distinzione tra Assoluto e Idea, la ragione della sua procreatio.
Qui il termine emanazione non ci sembra appropriato, poiché fa
riferimento a un’attività che trova in una necessità superiore
all’atto, in una legge, il suo senso, mentre invece intendiamo far
riferimento a una distinzione dell’Assoluto dall’Idea in cui, come
anche Carabellese suggerisce nella penetratività di libertà, necessità
e dovere – vedi grafico finale della dispensa su L’Essere e
la sua manifestazione. L’Essere nella dialettica delle forme - le
tre categorie che rendono possibile l’atto coincidano nella potenza.
Resta, oltre al perché di una distinzione nell’Assoluto tra atto e
potenza, che sottende il perché dell’atto, riferibile anche ad ogni
livello successivo dell’Essere – e qui la coincidenza
delle tre categorie, come spiegazione di questo stesso perché,
risulterebbe superiore alla distinzione tra atto e potenza, configurando
anche l’Assoluto come Io – resta la domanda, impertinente e forse
blasfema ma non atea, bensì semmai razionale nel suo costituirsi, in
quanto domanda risposta, come l’obiezione risolutiva nella
dissoluzione dell’ateismo in termini di ragione intesa come sapere
esplicito (e non solo di fede), resta dicevo la domanda sul perché
l’Assoluto. E’ necessaria però qui una riflessione, con gli stessi
strumenti che ci fornisce Carabellese, non tanto sui rapporti tra
ragione e fede, che noi vediamo in termini inclusivi, per cui, partendo
dall’assunto razionalistico carabellesiano che chi pensa pensa Dio (il cogito primo
e integrale è il cogito Deum), chi ragiona crede, quanto,
sulla scia di Carabellese che afferma che chi sa, sa Dio, per cui fede e
sapere non sono scissi ma l’uno comprende l’altra, una riflessione
dicevo sui rapporti tra ragione come sapere esplicito o in fieri,
essoterico potremmo dire, e ragione come sapere implicito, per cui, come
afferma Carabellese sulla scia di Rosmini, “appena l’uomo
è, è ragione”. E’ da intendersi questo, come si diceva
in altra nota, che qualunque atto dell’io ha, è, ragione, inserita
sacralmente nella Ragione assoluta? Ma allora in che senso bisogna
pensare la ragione come rapporto tra sapere implicito e
sapere esplicito? Carabellese non lo dice, non nell’io: egli allarga
il discorso alla molteplicità degli io omogenei nel sapere implicito e
diversi nel sapere esplicito, ma non si sofferma né sul cammino per
renderli omogenei anche di fatto e non solo di diritto (tema non solo
storico-politico), né sul cammino per rendere in ciascun io esplicito
il sapere implicito (Moretti-Costanzi proseguirà nel concetto di ascesi
di coscienza questa scintilla carabellesiana), né sulla differenza tra
ragione e sapere. Se in altre parole chi sa, sa Dio anche solo come
Oggetto implicito della coscienza, per cui tutti sanno Dio e sono
omogenei anche se non tutti pensano e perciò sono diversi (chi pensa
pensa Dio), e se appena l’uomo è, è ragione, e aggiungiamo noi, chi
ragiona crede, allora o si accetta, contro la lettera carabellesiana,
che non tutti gli uomini sono ragione (né di diritto – omogeneità
virtuale - né di fatto – omogeneità storica -), inficiando il suo
stesso assunto, oppure, per salvarlo, bisogna porre al suo interno la
distinzione tra sapere implicito come origine omogenea dell’esistenza
ed esplicito come fine diversa della vita, in modo tale che solo quando
sapere implicito ed esplicito coincidono e si risolvono l’esistenza
finisce, dopo un cammino di ascesi variabilmente lungo. In questo senso
il sapere è distinto dalla ragione, che lo include, e solo nel senso
metafisico di un ruolo attivo, ma pure hegelianamente funzionale, della
ragione nella Ragione è comprensibile e da comprendere il senso non
solo della vita, ma anche dell’esistenza. In questo senso non
esistenzialistico ma metafisico dell’esistenza come ciò che ha
Principio e termine oltrefisico è leggibile in altra chiave l’essere
per la morte heideggeriano, laddove la morte non è il limite della
vita, come Carabellese infatti sapeva, ma il limite dell’esistenza,
che inizia e finisce nel Nulla (ebraico). E in questo senso ancora
l’esistenza è dell’io – o meglio dell’io divenuto al termine
dell’esistenza Io -, non di Dio, in Carabellese: attribuire a Dio
l’esistenza significherebbe, in questo quadro, inserire la sua infinità
finita, la sua eternità temporalmente limitata. Infinito, Eterno, sono
qualificazioni che appartengono ancora a una dimensione spaziotemporale
che, oltre che fisica, le geometrie non euclidee e la teoria della
relatività hanno dimostrato essere finita (ci riferiamo, oltre che allo
spaziotempo curvo, anche al suo derivato, che gli infiniti si
incontrano, e che infinito fratto zero dà un infinito più grande, per
cui vi è una gerarchia tra infiniti). In questo senso l’Io è
infinito ed eterno, non Dio inteso come Assoluto, che sentirei di
qualificare soltanto come Sommo. Per gli stadi in cui compare
la mistica nel suo rapporto col divino facciamo riferimento a Gerschom
Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica cit.,
pp. 20-21, che consideriamo molto importanti. [125] Non
è un caso che Il problema teologico come filosofia cit.
si apra intitolando il cap. primo con la domanda E' possibile
una metafisica critica?, che è una domanda solo apparentemente
retorica poiché nel corso del testo la possibilità di una metafisica
critica è dimostrata, e che dunque è, in quanto domanda, progetto di
ricerca, interrotto dalla morte: Carabellese pensava già nel 1931
a un passaggio dall'ontologia alla metafisica che non sconfessasse
il suo percorso ma lo integrasse, e che perciò fosse una metafisica
critica. Per questo argomento della chiusura di una fase e dell'apertura
di un'altra pur nella continuità, relativamente alle lettere del 1931
a Benedetto Croce, che da qui infatti si interrompono, si veda il
mio saggio di taglio storico sulle lettere a Croce, corredato di
documenti. [126] Si
vedano per tutti Michele Federico Sciacca, Linee di uno
spiritualismo critico, Perrella, Napoli, 1936; Corrado Dollo, Momenti
e problemi dello spiritualismo (Varisco, Carabellese, Carlini, Le
Senne), Parte II: L'Assoluto come oggetto in Pantaleo Carabellese,
Pubblicazioni dell'Università di Magistero di Catania, Cedam, Padova,
1967, pp. 87-154. [127] P.
Carabellese, Fondazione storica dell'ontologismo critico, in
G. Bozzetti, C. Bayer, P. Carabellese, G. Capograssi et alii,
Studi rosminiani, a cura dell'Istituto di Studi Filosofici, Bocca,
Milano, 1940. [128] Idem, Dalla
critica all'ontologismo critico cit., in Atti del XIV
Congresso Nazionale di Filosofia cit., pp. 309-18. [129] Idem, Disegno
storico della filosofia italiana come oggettiva riflessione pura cit.,
, Cap. I, Lez. III, “La soggettività indistinta”, interna alla
sezione sulla “Filosofia religiosa orientale” come “Filosofia
della soggettività”, pp. 23-30. [130] Tutti
questi lavori, insieme ad altri come ad esempio quelli su Kant o
ancora L'idealismo italiano, hanno consentito di estrapolare
un Carabellese storico della filosofia dalla lettura del suo pensiero
secondo una prospettiva di carattere storiografico, come ha fatto una
dei suoi numerosi allievi, M. Anna Rocchi. Cfr. M. Anna Rocchi, Pantaleo
Carabellese storico della filosofia cit. [131] Franco
Fanizza, Conoscere ed essere: Carabellese e l'esigenza dell'ontologismo
integrale, in AA.VV., Pantaleo Carabellese, il <<tarlo
del filosofare>> cit., pp. 41-88. [132] Cfr. Ibidem,
p. 54 e anche le pp. 57 sg. e 64 sgg. [133] Nella
critica carabellesiana al, diremmo con espressione troeltschiana,
"cattivo storicismo", e nella sua polemica con Calogero sul
concetto di filosofia e sulla sua filosofia come concretezza e
rivoluzione che parte dall'arcaico, da quell'arcaico che considera
l’Essere ciò che sempre è e non ciò che si crea, perché
"[...] questa creazione presuppone a sua volta l'essere che è. Ed
è questo ultimo essere che la filosofia guarda.", Carabellese
sembra riecheggiare l'Heidegger della polemica contro l'ontologia
occidentale che ha obliato l'Essere, quando dice: "Questo aver
perduto di vista l'essere che è, è forse il grande errore della
filosofia dal Cristianesimo in poi [...]. Il significato profondo del
ritorno all'antico che oggi si tenta, è questo." Cfr. P.
Carabellese, Che cos'è la filosofia? cit., pp. 85-87, citaz.
p. 86 e p. 87. Inoltre nella lunga n. 1 di pp. XIX-XXI della Prefazione alla
II edizione della Critica del Concreto cit., alla p.
XXI. Carabellese ricorda come, oltre al suo studio su La
filosofia di Kant del '27, anche l'Heidegger del Kant
und das Problem der Metaphysik del '29 voglia dare una lettura
metafisica di Kant, sebbene Carabellese aggiunga subito dopo che le due
valutazioni di Kant sono per il resto differenti. Cfr. Martin Heidegger, Kant
und das Problem der Metaphysik, I ed. 1929, II ed. 1950,
III ed. 1965, IV ed. Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main, 1973, tr. it. Kant
e il problema della metafisica, Silva, Milano, 1964, tr. it. di
Maria Elena Reina rivista da Valerio Verra Kant e il problema
della Metafisica, con Introduzione di Valerio Verra
e Prefazioni alle edizioni tedesche di M. Heidegger,
Collana "Biblioteca di cultura moderna", I ed. Laterza,
Roma-Bari, 1981, I ed. Biblioteca Universale Laterza, Laterza, Bari,
1989. [134] G.
Semerari, Storia e storicismo. Saggio sul problema della storia
di P. Carabellese, Vecchi e C., Trani, 1953, II ed. accresc.
col titolo Storicismo e ontologismo critico, Lacaita,
Manduria-Bari-Perugia, 1960. [135] P.
Carabellese, Da Cartesio a Rosmini cit., pp. 284-85. [136] Idem, Il
rinnovamento della filosofia italiana cit., p. 278. [137] Idem, Da
Cartesio a Rosmini cit., pp. 248-49. [138] Ibidem,
pp. 250-51. [139] Idem, Il
rinnovamento della filosofia italiana in Id., Da
Cartesio a Rosmini cit., pp. 289-91. E' da notare che sul Trattato
dei Principi della conoscenza umana di Berkeley Carabellese
tenne un corso di Filosofia teoretica all'Università di Palermo
nell'A.A. 1928-29, la cui dispensa fu edita col titolo Berkeley.
Appunti di Filosofia teoretica dalle Arti Grafiche G. Castiglia,
Palermo, 1929 e poi riedito a cura di M. Gambino e S. Romano. [140] Ibidem, p. 292. [141] Ibidem, p. 298. [142] Idem, Critica
del concreto cit., Prefazione alla II ed., p.
XXVII. [143] Ibidem, pp. XXI sg. [144] Idem, Esistenzialismo
o ontologismo critico?, intervento nella discussione su L'esistenzialismo
in Italia, in “Primato", fasc. IV, 15 febbr. 1943, poi rist.
in AA.VV., L'esistenzialismo. Scritti di K. Jaspers, N.
Abbagnano, F. Battaglia, V. A. Bellezza, P. Carabellese, E. Castelli, R.
De Rosa, P. Filiasi Carcano, C. Luporini, A. Massolo, C. Mazzantini,
Quaderno della Riv. "Archivio di Filosofia", a. XV, n. 1-2,
Roma, 1946, pp. 61-72. [145] Vedi
Rocco Donnici, Comunità e valori in Pantaleo Carabellese,
Marsilio, Venezia, 1982, pp. 35-41, dove Donnici individua nel pensiero
carabellesiano un avanzamento della filosofia italiana del '900 perché
esso si inserisce in quel generale movimento filosofico novecentesco,
comune anche all'esistenzialismo e alla fenomenologia, di superamento
dell'impostazione soggettivistica cartesiana e di apertura dell'io a un
mondo che è sempre un mondo intersoggettivo, in cui l'io è sempre in
relazione ad altri io. Alterità e relazione sono pertanto categorie
comuni sia all'ontologismo, sia all'esistenzialismo, sia alla
fenomenologia. Rispetto ai rapporti con l'esistenzialismo, vedi anche
Enrico M. Forni, Il problema dell'esistenza in Kant,
nell'interpretazione di Pantaleo Carabellese, in "Kant Studien",
Band 53, I Heft, 1960-61, poi rist. in AA.VV., Giornate di studi
carabellesiani, Silva, Milano-Genova, 1964, in partc.
pp. 305-309. [146] P.
Carabellese, L'Essere e la sua manifestazione. Parte I L'Essere
nella Dialettica delle Forme. Lezioni di Filosofia teoretica,
dispensa dattilografata dell'A.A. 1943-44, Castellani, Roma, 1944. [147] Idem, Il
rinnovamento della filosofia italiana cit., in Id., Da
Cartesio a Rosmini cit., p. 288. [148] Ibidem, n.
1 di p. 274-75. [149] E’
possibile, mi chiedo, che dalle riflessioni di Carabellese in questo
testo sia da individuare una delle tappe dello sviluppo dello spazio
filosofico che ha dato vita alle geometrie non euclidee? [150] E’
chiaro che qui per scienza si intende la scienza esatta, quella che
giunge alla formula della relatività di Einstein (E=mc2) e individua
nella formula dell’energia (E) una costante, la velocità della luce,
che ha carattere metafisico non solo per come è stata trovata, ma anche
perché sinora costituiva un limite invalicabile per l’uomo (si è
scoperto che sono possibili viaggi a ritroso nel tempo, per cui un ente
che viaggia a un tempo t, giunge a destinazione nel tempo t-x, ossia
prima che cominciasse il viaggio stesso, laddove la x è un qualunque
preciso valore temporale determinato precedente a t (e dunque minore
come misura e maggiore come valore se si considera il vettore temporale
come crescente in senso orario secondo il senso comune) e che è
possibile sia in rapporto al viaggio. Questo, che si è verificato, è
possibile perché si è scoperto – a Princeton Ljiun Wang e al CNR di
Firenze Daniela Mugnai, Anedio Ranfagni e Rocco Ruggeri - che la velocità
della luce non è di 300.000 Km/sec., ma di più. Vedi La
Repubblica del 31 maggio 2000). La luce è un elemento a un tempo
fisico e metafisico, non spiegabile ma misurabile soltanto, attualmente
incomprensibile, sebbene il limite della sua velocità si sia spostato
nella conoscenza umana. Vedi diagramma di Hermann Minkowski, uno dei
maestri di Einstein e il primo a fornirgli elementi per la relatività
generale, sui coni di luce come raffigurazione dello
spazio-tempo quadridimensionale, rappresentato da un doppio cono che
ricorda una clessidra, e infatti può essere anche capovolto invertendo
il sopra e il sotto, o fatto ruotare su un piano orizzontale per trovare
le corrispondenze in cui il sopra e il sotto che si corrispondono,
divenute destra e sinistra, possono essere tutti i punti del piano
orizzontale, o ancora possono essere fatti ruotare all’interno di una
sfera in cui i punti che si corrispondono possono essere infiniti come i
piani all’interno della sfera stessa: in ambedue i casi, quella della
rotazione all’interno di uno spazio bidimensionale e quello della
rotazione all’interno di uno spazio sferico quadridimensionale perché
al suo interno le linee che definiscono la direzione dello spazio e la
direzione del tempo sono bidirezionali a partire dal punto zero che è
il centro, questo stesso centro è il qui ed ora, il presente, l’hic dei
latini. Qui l’hic ha valore di pronome dimostrativo, e così
è usato da Cicerone per indicare l’intero mondo, l’universo, oppure
ha valore di avverbio e sta a indicare il qui=ora (vedi Vocabolario
Italiano-Latino Badellino-Calonghi, in 2 Voll., : Calonghi),
appunto l’incrocio dello spazio-tempo, nel quale
carabellesianamente si concentrano in modo intensivo il passato e il
futuro. Ma l’hic dei latini ha anche valore di pronome
indicativo, ossia Esso (Badellino). Ma anche col diagramma di
Minkowski siamo sempre all’interno del tempo-spazio cartesiano, anche
se i raggi di luce che disegnano il doppio cono lo cròciano
doppiamente, e hanno la possibilità di farlo in tutte le direzioni
possibili, ossia non c’è un solo spazio-tempo, ma infiniti
spazi-tempi. Siamo, al più, al centro di una rappresentazione
parmenidea dell’essere. Ma ciò che è veramente costante e
unidirezionale all’interno dell’universo tracciato dal diagramma di
Minkowski è la direzione della luce, che va sempre, all’interno
dell’universo, dal passato al presente al futuro, e ne disegna
veramente il senso in relazione al tempo: la luce scomposta nei suoi
raggi e la sua direzione, da qualunque parte del fuori-universo giunga
(visto che ci troviamo all’interno di una sfera e la luce disegna un
doppio cono di luce), come la sua velocità, sono una costante, perciò
metafisica. In questo senso bisogna ricostruire il momento del “Fiat
lux” non nella materia (il big bang) ma
nell’idea, e Carabellese si muove in questa direzione nell’Essere.
Ma non solo. Il problema è che se veramente vogliamo uscire dal
materialismo (eliminare il dualismo fisico-metafisico insito ancora
anche nel concetto di luce) dobbiamo risalire al di là del Dio che dice “Fiat
lux”, al di là della genesi e della creazione anche come punto
zero, ossia in Carabellese Idea-Principio-Sostanza, e non occuparci più,
dopo Carabellese, in termini filosofici nemmeno della sua continua
rivelazione, ossia manifestazione. Andare in altre parole al di là di
Hegel, oltre Hegel. A proposito della formula einsteiniana E=mc2 c’è
inoltre da dire che essa può anche essere interpretata in termini
trinitari laddove la c (la costante della velocità della luce)
costituisce un elemento che rimanda a un qualcosa – la luce – a un
tempo esterno e interno alla formula stessa, e quindi, in quanto
esterno, superiore di livello ad essa. E’ possibile dunque
interpretare la luce come Padre della formula stessa. Essa, la luce,
costituisce il quarto elemento necessario alla
formula perché formula ci sia, e interno alla formula come suo
costitutivo metafisico espresso in termini numerici o di valore di
velocità (trecentomila km/sec.), ma anche esterno, e in ciò quarto,
cioè vero elemento genetico della formula stessa, perciò Padre. In
questo senso si può dire che è il Padre che afferma “Fiat lux”,
il Padre ebraico che dà il comando, e la lux è la c della formula. [151] P.
Carabellese, L'Essere e la sua manifestazione Parte I L'Essere
nella dialettica delle Forme. Lezioni di filosofia teoretica cit.,
Vol. II La dialettica. Lezioni di filosofia teoretica, Vol.
III La realtà e l'attività spirituale umana. Lezioni di
filosofia teoretica, cit. [152] Idem, L'Essere,
Parte II io, dispensa universitaria dattilografata, A.A. 1946-47,
Castellani, Roma, 1947, poi rist. postumo come L'Io,
Editoriale Arte e Storia, Roma, 1954. Su questa parte della metafisica carabellesiana che
qui si sta delineando non nei suoi contenuti, che meritano uno studio
approfondito e specifico, ma nelle sue linee essenziali a partire dalla
scansione degli ultimi corsi, è uscito un denso studio, che inoltre per
la prima volta parla per Carabellese di storiografia filosofica, dando
un quadro sintetico ma significativo dei suoi studi di storia della
filosofia, di Furia Valori, Il problema dell'io in Pantaleo
Carabellese, Pubblicazioni dell'Università degli Studi di Perugia,
Facoltà di Magistero, Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli, 1996, che, pur partendo dall'ipotesi di un Carabellese
metafisico degli anni 1943-48, attribuisce (vedi p. 8) il corso sull'Io
alla seconda parte de L'Essere e la sua manifestazione e
non a L'Essere, come era originalmente voluto da
Carabellese come titolo delle sue dispense, tant’è che è poi uscito
(a sua cura e con un suo Saggio Introduttivo) L’Essere e la
sua manifestazione, Parte seconda. Io, Pubblicazione
dell’Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Scienze della
Formazione, Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli, 1998 (dove Valori nell’Avvertenza presenta secondo
il suo schema il sistema dell’Essere). Pur suggerendo una distinzione
tra ontocoscienzialismo e sistema metafisico, Valori nel volume del 1996
non presenta ancora il sistema nella sua interezza che sola potrebbe
restituirne tutti o quasi le implicazioni e i significati - ossia il
disegno e il suo senso -, anche e soprattutto, come si è detto,
nell'interazione con i contemporanei corsi di storia della filosofia, ma
concentra l’attenzione soprattutto sulla parte relativa all'Io, che
risulta in tal modo dispersa e incompresa nel suo posto e nel suo
valore nel sistema dell’Essere, seppure, messa da lei in relazione con
il corso del 1946-47 riedito a cura di Edoardo Mirri su L'attività
spirituale umana. Prime linee di una logica dell’essere, mirante a
restituire una nuova concezione dell’uomo e della soggettività. In
tal modo, in altre parole, pur mettendo in risalto il rilievo che
l’ultimo Carabellese intendeva dare nella sua filosofia alla
soggettività, da un lato non si centra del tutto, a nostro parere,
l’obiettivo carabellesiano di una futura scienza metafisica che abbia
ad oggetto, dell’Essere, proprio l’Essere in sé Assoluto, ma ci si
ferma all’oggetto della speculazione di Carabellese – l’Essere
trino Idea-Principio-Sostanza -, senza individuare il progetto,
dall’altro, partendo dalla soggettività, se ne aumenta il valore nel
sistema dell'Essere, rischiando, nell’analizzare secondo la
prospettiva di un nuovo umanismo metafisico soprattutto il piano
pluralistico e quello dell’io singolare, un nuovo antropocentrismo
lontano dalle intenzioni di Carabellese. [153] Ma
la numerazione della Biblioteca che raccoglie e conserva tutti questi
corsi tra il 1943 e il 1948 è progressiva, dunque nell’eventualità
che questa nostra ipotesi sia vera, essa non potrà mai trovare il
supporto della scrittura – né quello della voce, anch’essa
esplicita -, a meno di non riferirsi a un eventuale appunto
della scrivania di Carabellese, da indagare assieme alla sua biblioteca. [154] Sul
simbolismo della Croce, che è anche acristiano nel senso di molto
precedente il Cristianesimo, si sta muovendo in ambito precristiano
Boris Ulianich, a sua volta allievo dell’ultimo Carabellese, e che
alla storia del Cristianesimo ha dedicato tutto il suo percorso di
pensiero, e che ha anche promosso una serie di iniziative, di cui lo si
deve ringraziare, tese a rischiarare il simbolismo della croce
nell’incrocio interdisciplinare di più saperi. Tale rischiaramento è
appena agli inizi e gli studi, molteplici e complessi, in prospettiva
numerosi: il tema è enorme. Vogliamo però qui far riferimento al
Convegno internazionale tenutosi all’Università “Federico II” di
Napoli dal 6 all’11 dicembre 1999, di cui vedere gli Atti editi, su La
croce. Iconografia e interpretazione (secoli I – inizio XVI), e
alla mostra, inauguratasi ad aprile 2000 al Castel Nuovo di
Napoli, su “ La Croce. Dalle origini agli inizi del secolo
XVI”, che per esemplari riporta una storia della Croce in ambito
cristiano, con un’interessantissima teca di “cocci” del
cristianesimo delle origini ricchi di simboli da interpretare. Nel
catalogo omonimo, che riporta tali cocci aggiungendovi anche una moneta
col simbolo del Chi-Rho di immenso interesse (nella nota successiva si
tenta un’interpretazione del Chi-Rho a partire dall’affresco già
prima esposto al British Museum), l’interpretazione è affidata
piuttosto alla descrizione dei simboli impressi sui singoli pezzi,
mentre di notevole interesse è il saggio introduttivo denso di
riferimenti e allusioni di Boris Ulianich, Per un tentativo di
lettura della Mostra, in cui si parla, tra l’altro, oltre che di
croce in termini di segno e non di simbolo, di “scandalo della
croce”, perciò irrappresentata nei primi due secoli del
cristianesimo, per la portata rivoluzionaria del concetto di
resurrezione, vorremmo aggiungere ancor oggi limitato dalla teologia
cristiana almeno essoterica, in questo mondo, a Gesù in quanto Cristo. Ulianich
dà dense indicazioni sui problemi che l’interpretazione del binomio
morte-resurrezione – in questo senso è estremamente interessante il
simbolo impresso sulla lanterna n. 12 di p. 64 del catalogo, dove
l’omega è seguita in ordine cronologico a nostro parere da una
campana di risveglio, o ancora la croce di p. 85, l’interpretazione
dei circoli della quale, piuttosto discussa, è forse esprimibile in
termini di ciclo, appunto, come ciclo chiuso (e ritornante su se stesso)
in senso non hegeliano ma vichiano, Vico che ricordiamo Carabellese
riconosce (i cicli circolari sulla croce sono nove, più uno centrale
ellissoidale – o “ovoidale”, ma i due sensi sono opposti – si
ricordi che l’ellissi è figura ricorrente non solo in Carabellese, ma
anche nella nuova geometria kepleriana, oltre che nella tradizione
esoterica pitagorica. Vedi gli studi essoterici di Giorgio Stabile) -
comporta in ambito teologico cristiano sin dai primi secoli,
soffermandosi poi sulle feste. A questo proposito è sperimentale il
lavoro più che trentennale di lettura delle feste religiose popolari
meridionali in termini di triade passione-morte-resurrezione che conduce
appunto da tempo con modalità di visual anthropology Raffaello
Mazzacane (vedi, per un primo punto, Lello Mazzacane, Struttura
di festa. Forma, struttura e modello delle feste religiose meridionali,
Franco Angeli, 1985). Sarebbe in definitiva denso di stimoli
e di conoscenze essoteriche un saggio di Boris Ulianich sul valore reale
della croce anche in rapporto, oltre che ai suoi segni grafici, anche ai
suoi materiali: in questo senso raccolgo le allusioni all’oro, alla
gemmatura, ai cerchi, al Cristo con gli occhi aperti, e ricordo, in
mostra, il coccio con la figura umana con la croce nella mano sinistra,
quella del passato – o del destino da cui si proviene e da superare
(togliere, o a cui ritornare?) -, e, sul catalogo, la figura n. 15 di p. 66,
in cui lo scorpione simboleggia il suicidio per rinascere. Vorrei
infine dire che credo di interpretare la “morte e resurrezione”
(minuscolo) di Ulianich non nel senso dell’unicum della
Morte e Resurrezione, ma nel senso dell’exemplum della
morte e resurrezione: in questo senso assume valore simbolico enorme la
vicenda di Lazzaro, a partire dalla quale si può dire che la morte da
una vita e il risveglio a un’altra vita è sulla linea di continuità
della stessa esistenza intesa come identità dell’Individuum
metafisico. Da qui si potrebbero inserire studi sulla continuità
della creazione, cui Carabellese credeva, sia in ambito teologico che in
ambito cosmologico e delle “scienze esatte” in genere (mi riferisco
anche alla matematica e all’odierna scoperta del genoma umano in
termini di lettere). [155] A
noi sembra che Carabellese conoscesse, e abbia utilizzato, il simbolo
cristiano del Chi-Rho greco (IV sec. d.C., H-P) – vedi immagine in
copertina del volume di Carlo Maria Martini, Vivere i valori del
Vangelo, Einaudi, Torino, 1996, VI ristampa 1999, poi anche in
mostra a Napoli – da un affresco conservato presso il British Museum
di Londra. In quest’ipotesi, la Rho , o “uncino”, indica
il rapporto tra Principio e Termini, o meglio tra il Principio e ciascun
termine, o io, e l’alfa e l’omega poste sul piano orizzontale la
diade o coppia circolare Dio Io (si parla qui di diade e non più solo
di coppia coscienziale pura o coppia circolare in riferimento alla diade
infinita contenuta nel Politico platonico cui fa
riferimento Imre Toth). La Chi indica la ventiduesima lettera
dell’alfabeto greco, e, avendo anche valore di misura, come misura
(cifra) è uguale a 60, mentre la Rho , che è la
diciassettesima lettera dell’alfabeto greco, come misura è uguale a 10.
In questo senso, il simbolo nel suo complesso, che raffigura una
ruota sul piano, rappresenta il tempo infinito (e ciclico, con un punto
iniziale e finale del ciclo rappresentato dalla Rho, e un inizio e una
fine dei cicli stessi rappresentati dall’alfa e dall’omega posti sul
diametro orizzontale, mentre il rapporto tra Dio e io è rappresentato
dalla Rho che è posta sul diametro verticale) dato dagli otto raggi.
L’incrocio tra chi e rho, che il simbolo rappresenta, nel punto
centrale - oltre a tagliare in croce il cerchio secondo i due diametri
verticale e orizzontale -, indica la chiave di volta del tempo tra
essere e non essere, e, se si valuta il simbolo secondo il suo valore di
misura numerica, la cifra è 5, perché la chi, che vale 60, incrocia la
rho, che vale 10, nel suo punto centrale, per cui il rapporto è 10/60,
o 1/6. O ancora la cifra è 30, perché la rho divide la chi nel punto
centrale (60/2=30): in questo caso il rapporto di incrocio tra chi e rho,
che è inizialmente di 10/60, diviene di 5/30 (ossia la metà esatta
delle due misure iniziali), e questo 5/30 è uguale a 6, ossia ai sei
bracci dati dall’incrocio di chi e rho. E sempre a
proposito di simboli esoterici che Carabellese utilizzava per esporre
graficamente le sue teorie metafisiche, è secondo noi indicativo, e
molto esemplificativo e chiaro se correttamente interpretato, e perciò
importante, il grafico che si trova alla fine del primo volume della Dialettica
delle forme. Esso rappresenta per noi non Dio, ma la
coppia coscienziale qualitativa (il centro del grafico è detto
“Coscienza qualitativa”) Dio Io. Infatti solo in questo senso –
quello che si tratti della coppia coscienziale qualitativa Dio
Io, e non del solo Dio, come una lettura superficiale potrebbe far
pensare - è spiegabile che, come si evince continuamente nel
testo stesso cui si fa riferimento, il continuo traslitterare
carabellesiano da qualità di Dio (come tempo, valore assoluto, ecc.) e
categorie usate dall’Io che rimandano a Kant (come sostanza, ecc.) che
vengono però poste sempre sul piano metafisico, nella radicalizzazione
dell’Io kantiano, e in questo senso vanno lette. Il simbolo esoterico
che ci sembra di poter individuare nel grafico è in realtà uno
strumento scientifico. Se invece di leggere il grafico sul piano lo si
pone come volume nello spazio, e si fanno sfalsare i suoi vari cerchi
nello spazio stesso, ci si troverà di fronte alla sfera armillare,
ossia alla rappresentazione volumetrica dello spazio tolemaico in cui la
terra è posta al centro del sistema solare – e nel caso di
Carabellese la terra è identificata col centro del grafico, la
Coscienza qualitativa -. Così i vari circoli concentrici che
ruotano intorno al centro, e che sono, secondo le nette indicazioni di
Carabellese, penetrativi, ossia tali che ciascun elemento
delle diverse triadi che compongono i cinque cerchi intorno alla
Coscienza qualitativa (ma c’è da dire che nella sfera armillare,
oltre alla Terra centrale, gli altri cerchi concentrici sono otto (nove
col Sole) trapassa negli altri due, in un moto perpetuo e ciclico, sono
da porre nello spazio, come fasce, o linee o circonferenze, incrociatisi
le une con le altre. Secondo il vocabolario (Devoto-Oli, 1990), la sfera
armillare è un antico strumento astronomico i cui anelli rappresentano
i principali circoli della sfera celeste, la cui rotazione solo in
alcuni di essi è oraria. In questo senso, Carabellese utilizza per la
rappresentazione del rapporto tra Dio e Io ancora una concezione
tolemaica, e parmenidea, dello spazio e del rapporto del centro con
esso. Ma da qui nascono le geometrie non euclidee, che però a mio
avviso fanno riferimento sempre a un fuori e a un dentro della sfera
spaziale (lo spazio-tempo curvo), e all’incrocio dei piani cartesiani
derivante dagli assi cartesiani stessi come interni alla sfera
spazio-temporale, da cui si dovrebbe finalmente uscire per avere una
vera rivoluzione in campo matematico-geometrico (Cartesio è fondante
nelle matematiche poiché è colui il quale collega algebra, e quindi
matematica, e geometria, nelle funzioni), e dunque anche filosofico. In
questo senso trovo estremamente interessante da un punto di vista
filosofico il rapporto tra infinito e zero, laddove infinito/0 (infinito
diviso zero) dà un infinito più grande (ci sono evidentemente vari
livelli di infinito, a prescindere dal fatto che il concetto di infinito
è sempre in relazione al finito, cosicché è da preferire, come
livello superiore, o meglio qualitativamente diverso, il concetto di
Assoluto, che comprende il relativo e non ha con-fini, ossia fine),
mentre infinito fratto infinito dà come valore un qualsiasi numero, è
indeterminato. [156] Cfr. Ibidem,
in partc. l'Indice riassuntivo e l'Indice schematico alla fine della
dispensa. [157] P.
Carabellese, L'attività spirituale umana. Prime linee di una
logica dell'Essere, dispensa universitaria A.A. 1947-48, Castellani,
Roma, 1948, poi riedito con lo stesso titolo a cura e con Introduzione di
Edoardo Mirri, Pubblicazioni dell'Università degli Studi di Perugia,
Facoltà di Magistero, Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli, 1991. C’è da notare la compresenza in quest’ultimo
periodo carabellesiano di due corsi incentrati sull’attività
spirituale umana, uno relativo alla manifestazione dell’Essere come
sua realtà, l’altro alla logica dell’Essere. [158] In
questa nostra ricostruzione a posteriori a partire dalle dispense e
dall'ipotesi di un loro "buco", vogliamo sottolineare il
silenzio, per ora, della critica. La testimonianza di un
allievo diretto di Carabellese, Giuseppe Pinto, viceversa riporta dalla
voce di Carabellese il progetto “a valle”: in Pantaleo
Carabellese, in "Giornale critico della filosofia
italiana", a. XXVIII, serie III, vol. III, fasc. I, genn.-mar.
1949, pp. 6- 17, a p. 13, Pinto scrive di: "[...] cinque
corsi, dal 1943 al 1948. I primi tre corsi (che, col titolo
<<Dialettica delle forme>>, trattavano dell'essere
qualitativo, come egli ora preferiva denominare quello che una volta
diceva essere oggettivo) col quarto (che tratta dell'Io, cioè
dell'essere quantitativo), dovevano costituire, secondo un suo piano, la
I parte (la <<Metafisica>>) d'un'opera complessiva
sistematica, avente per oggetto il <<Concreto>>, mentre il
quinto corso che iniziava la trattazione della <<Logica
dell'essere>> intesa come attività spirituale umana, doveva
trovar posto nella II parte. La III doveva essere costituita
dalla <<Fisica>> cioè dal problema della natura e
dell'esperienza [...]." Proprio l'essere i corsi cinque, sino alla
morte nel 1948, non esclude che nelle intenzioni di Carabellese almeno
un sesto corso dopo il 1948, forse il più impegnativo e dunque
rimandato, riguardasse Dio come Assoluto. Ciò lo si dice ben
consapevoli che la storia, in questo caso la scienza, non la si fa con i
se, ma nonostante ciò si ipotizza questo corso con una qualche speranza
di certezza a partire dalla visione complessiva di questi ultimi corsi
integrata con la conoscenza del pensiero carabellesiano ad essi
precedente, e con un'attenta e approfondita riflessione sulla
suddivisione degli stessi e sulla loro articolazione interna e con il
vaglio critico delle notizie bio-bibliografiche riguardanti non soltanto
l'ultimo periodo metafisico, ma anche il Disegno storico
e i continui riferimenti polemici e teoretici al Dio unico impersonale e
non (solo) trino, e all’Assoluto stesso. [159] Questo
periodo è espresso secondo Sabarini in opere come La Coscienza morale, la Critica del
Concreto, Il problema teologico come filosofia, Che cos'è
la filosofia?, e inoltre nelle opere di carattere storico come La
filosofia di Kant, Il problema della filosofia da Kant a Fichte, Da
Cartesio a Rosmini, Le obbiezioni al cartesianesimo, ecc. Cfr.
R. Sabarini, Dalla critica alla metafisica: P. Carabellese, in
Idem, Criticismo e metafisica cit., p. 89 sgg. [160] Secondo
Sabarini, questa tematizzazione della coscienza che ha l'essere soltanto
come suo presupposto apre sul piano della concezione della filosofia una
frattura: o la filosofia, intesa come critica, dà "la serie
completa delle condizioni che, in quanto apriori, sono già tutte date
anche se l'attività coscienziale ha davanti a sé uno sviluppo
infinito", oppure "la stessa filosofia, intesa come attività
trascendentale, partecipa anch'essa del processo infinito dell'attività
coscienziale, e dunque non può dare l'esplicazione piena
dell'Essere." Cfr. ibidem, p. 90. Qui si inserirebbe la spiegazione
del doppio significato che Carabellese attribuisce alla filosofia, da un
lato come "scoperta dell'eterno essere", dall'altro come
"sforzo e non conquista". [161] Questa
suddivisione di Sabarini mi conforta nella mia ipotesi che il periodo
metafisico di Carabellese, pur nella continuità con quello critico, sia
da esso distinto. A questa suddivisione del pensiero carabellesiano si
rifà Furia Valori, nel Saggio Introduttivo a L’Essere
e la sua manifestazione. Parte seconda. Io cit., n. 3 di p.10,
riportando lo stesso pensiero di Sabarini (1953), Tebaldeschi (1956),
Moretti-Costanzi (1964). Inoltre Sabarini ci dà notizia che i corsi
di metafisica, che si concludevano con quello dell'A.A. 1947-48 su L'attività
spirituale umana cit., dovevano avere un'edizione ufficiale,
per i tipi della Editoriale Arte e Storia, nella stessa Collana dedicata
al maestro in cui era il suo Criticismo e metafisica. Cfr.
R. Sabarini, Criticismo e metafisica cit., n. 1 di p.
92. Il che significa che oltre all'edizione delle Opere complete
di Pantaleo Carabellese presso la Sansoni di
Firenze, c'era un altro progetto, riguardante però soltanto il
Carabellese metafisico, poi fortunatamente ripreso da Edoardo Mirri e
dalla sua scuola. [162] Cfr.
R. Sabarini, Dalla critica alla metafisica: P. Carabellese cit.,
p. 96. [163] Ivi. [164] Nel
continuo ritorno dell’ultimo Carabellese sul tema della morte e del
finito è da vedere l’affermazione recisa del concetto di persona, che
trova nell'Essere-Sapere come sapere relazionale il suo fondamento. In
questo senso la morte non è un opposto, ma soltanto una misura
insipiente della vita, dal momento che persona ed eterno coincidono: il
pensante-che-vive fa riferimento a un soggetto che travalica i limiti
umani e che, nella sua eternità, vive di una vita spirituale della
quale la vita umana è un incidente di percorso, seppure necessario
alla determinazione dell'essere. Cfr. P. Carabellese, Noi e la
morte, in Quaderno Il problema dell'immortalità della
Riv. "Archivio di filosofia", n. 1064, fasc. III-IV, 1946, pp.
3-17, dove afferma: "Se noi non vogliamo negare del tutto noi
stessi nella nostra moltitudine, [...] dobbiamo concepire la pluralità
pura non come particolare, limitata, impenetrabile, ma come infinita,
singolare, penetrativa; e questo significa spiritualità. Se non si
ammettono gl'individui spirituali (apriori), sono assurdi anche
gl'individui materiali (empirici). [...] Ecco la scoperta di Cristo (mi
fermo alla riflessione pura filosofica) [...].", pp. 8-9, e ancora
"In questa alterità pura, quando cioè ci facciamo attivi
individui, noi attingiamo l'Eterno, siamo gli individui di Dio, siamo
spiriti puri, che in questo attingere non cominciamo e non finiamo, non
nasciamo e non moriamo.", p. 10, e poi "[...] la morte è il
limite che rende il vivere fenomeno dell'essere. Abolito il limite
(negata la negazione) è in pieno l'essere dell'ente che non si risolve
nel puro fenomeno (vivere), che cioè non sia soltanto un vivente, ma un
pensante. [...] il nostro [modo], copernicano, è anche un credere alla
morte, ma è superare la vita e credere all'essere spirituale che
sottende il vivere (si ricordi: il vivere è fenomeno, l'essere della
coscienza è essere). [...] Sacra, dunque, la morte, non perché ci
immette in un'altra vita, ma perché con l'eliminarsi del limite che
essa è, del vivere, il vivere, nell'ente che sia, che cioè non sia
solo vivente, non sia solo fenomeno, cede il posto all'essere.",
p. 13, e infine "Vivere dunque devo nella piena coscienza del non
essere della mia morte, vivere come se (non è pura ipotesi) la mia
morte non ci fosse; vivere ‘essendo’ è ignorare, non temere la
morte mia.", p. 16. Cfr. anche P. Carabellese, L'uomo,
estratto dal "Giornale critico della filosofia italiana", a.
XXVIII, Serie III, vol. III, fasc. III, lug.-sett. 1949, pp. 261- 78,
in partc. pp. 272-78. [165] Ibidem,
p. 102. Non è un limite del Carabellese metafisico (come Sabarini
vorrebbe), ma un rimanere ancorato a un’impostazione di tipo critico
che evidenzia la continuità tra i due periodi carabellesiani, il
continuare a conservare, accanto all'esperienza delle cose in sé, un
concetto kantiano di esperienza come esperienza di cose finite e un
concetto di essere come apriori della coscienza. A noi sembra che i due
tipi di esperienza si pongano lungo una stessa linea di continuità come
livelli progressivi di avvicinamento all’Essere. [166] Ibidem,
pp. 95-96. [167] Qui
Sabarini fa una digressione sul sapiente come colui che sa l'essere, e
sul fatto che tale sapiente, in quanto umanamente è limitato, non può
avere una piena totalità della sua persona, e dunque dell'essere che sa
comunque in modo valido. Ciononostante la sua è una chiamata, che
proviene dall'essere stesso dall'eternità prima ancora che egli ne
abbia chiara consapevolezza. Cfr. Ibidem, pp. 97-98 e anche,
per la sua concezione della persona, che rimanda alla metafisica
ascetica di Moretti-Costanzi di cui anche Sabarini fu allievo, il cap.
successivo e conclusivo dell'opera L'esperienza metafisica,
in Id., Criticismo e metafisica cit., cap. VII, passim e
in partc. pp. 122 sgg., dove Sabarini in realtà spiega il rapporto
Carabellese-Moretti-Costanzi, e l'ascesi di coscienza, come
una traduzione metafisica (di Moretti Costanzi) in termini
personalistici dell'esperienza dell'Essere-Sapere di Carabellese. Cfr. ibidem,
p. 126. [168] Ibidem,
p. 99. Da qui in poi Sabarini si addentra nella metafisica
carabellesiana analizzando "La dialettica",
"L'alternativa della qualità", "L'Io infinito e
plurimo", ecc., ossia la metafisica carabellesiana così come
presentata nelle dispense universitarie degli ultimi anni 1943- 48.
In realtà questa è operazione che Sabarini ha condotto esplicitamente
in tutto il suo saggio. [169] Georg
Wilhelm Friederich Hegel, Fenomenologia dello spirito,
traduz. di E. De Negri, La Nuova Italia , Firenze, I ediz. 1960,
7° rist. anast. 1993, 2 voll., II vol., cap. VIII, Il sapere assoluto, pp.
287-309, qui in partc. da p. 287 a p. 291, citaz. p. 291. [170] Ibidem,
p. 293. [171] P.
Carabellese, L'idealismo italiano cit., p. 25, ed anche passim,
pp. 22-29. [172] Ibidem,
p. 27. [173] Idem, Originalità
e attualità di Rosmini cit., p. 253. [174] Idem, La
coscienza morale, Tip. Moderna, La Spezia , 1915, cap. I,
pp. 3-5 (da questo saggio fino a La storia cit. del
1925 Carabellese li ritiene i suoi primi saggi di ontologismo critico,
distinguendo quindi un periodo precritico da uno critico). [175] Un
malinteso storicismo, come qui stiamo cercando di dimostrare, se è vero
che Carabellese lo vede, nel paragrafo 20 Concretismo e non
storicismo del Saggio IX E’ possibile filosofare? (discorso
inedito del 1941) di Che cos'è la filosofia?, II ed. con
postille e altri saggi, Signorelli, Roma, 1942, pp. 290-97, come la
"riduzione di ogni esigenza della coscienza al puro divenire",
"riduzione dell'essere all'apparire", "inconfessato
fenomenismo" che riduce tutta la coscienza a coscienza empirica e
perciò la temporalizza, mentre "la grande novità" del
concretismo consiste nella "dimostrazione che non v'ha coscienza,
dove non vi siano e pensanti singolari e Assoluto universale, che li
sostanzia tutti". Lo storicismo, secondo Carabellese (p. 338 sgg.),
risolve la spiritualità nella cultura, e in tal modo confonde
l'essere realistico con l'essere tout court, mentre l'essere
è sì spiritualità immanente alla cultura, ma la spiritualità non si
esaurisce nella cultura (che è transeunte e specifica), da cui
deriverebbe che il pensante è sintesi e osmosi della cultura da cui
proviene. Il valore dell'uomo quindi, lungi dall’esaurirsi nel valore
culturale, consiste nel valore etico, inteso da Carabellese come ricerca
e attuazione del bello, del bene e del vero: questo valore etico della
dignità dell'uomo è eterno, nel senso che nella sua relatività va
oltre la vita e attua l'essere in sé, la spiritualità, eterna e
universale poiché fonda il rapporto dell'ente con l'essere. Questo
essere è l'essere spirituale, che è l'unico essere che ci rende
possibile il non negare la coscienza: né l'essere materiale né
l'essere realistico l'ammettono infatti senza contraddizione: "Non
è dunque possibile che sia ammesso altro essere oltre lo spirituale
[...] ‘l'essere indispensabile’ [...] è l'essere spirituale, che
puramente e semplicemente è l'essere.", afferma Carabellese a p.
340 sg. [176] Riguardo
ai motivi di questa polemica con lo storicismo, Semerari mette in
evidenza come è la stessa concezione dell'Essere-Coscienza a
costituirne i presupposti, dal momento che l'Essere-Coscienza si pone
come apriori trascendentale del Divenire, sua fondazione e validità.
Cfr. G. Semerari, La sabbia e la roccia cit., Nota
introduttiva cit., p. VI. [177] Ripetiamo
P. Carabellese, Critica del Concreto, Libreria Pagnini,
Pistoia, 1921. [178] Idem, Che
cos'è la filosofia?, in "Rivista di Filosofia", a. XIII,
n. 3, Bologna, 1921, poi rist. in Id., Che cos'è la filosofia?,
II ed. cit., Saggio III, pp. 51-88, e Saggio IV, pp. 89-130. [179] Idem, L'essenza
della filosofia, discorso pronunciato alla XXIII Riunione della
Società Italiana per il Progresso delle Scienze tenutasi a Napoli
dall'11 al 17 ottobre 1934, estratto da Atti della Società
Italiana per il Progresso delle Scienze, vol. IV, Tip. Fusi, Pavia,
1935, poi rist. in Id., Che cos'è la filosofia? cit.,
Saggio VIII, pp. 193-204. [180] Cfr. Idem, La
realtà dei fatti storici, in “Il Conciliatore”, a. II, n. 3-4,
Torino, 1915. [181] Idem, Problemi
filosofici della storia, in N. Abbagnano, C. Antoni, A. Banfi, F.
Battaglia, G. Bruguier Pacini, G. Calogero, P. Carabellese, M. Govi, N.
Petruzzellis, A. Carlini, W. Cesarini Sforza, G. Gentile, U. Spirito, L.
Stefanini, Il problema della storia, a cura del Reale
Istituto di Studi Filosofici. Sezione di Pisa, n. 13, Bocca, Milano,
1944, pp. 119-147. [182] P.
Carabellese, La storia, in A. Aliotta, P. Carabellese, A.
Carlini, E. Castelli, F. De Sarlo, G. Gentile, G. Lombardo Radice, P.
Martinetti, R. Mondolfo, A. Pastore, G. Vidari, Scritti
filosofici pubblicati per le onoranze nazionali a Bernardino Varisco nel
suo LXXV anno di età, Vallecchi, Firenze, 1925, pp. 21-60, poi
rist. come opuscolo Id., La storia, Vallecchi, Firenze,
1926. [183] A
questo proposito Raniero Sabarini afferma che la costante preoccupazione
di Carabellese fu di "[...] salvare l'essere che apre il processo,
e salvare al tempo stesso il processo dalla sua apparente vanificazione.
Questo è il tema intimo del suo magistrale Disegno storico
della filosofia come oggettiva riflessione pura, che purtroppo la
morte ha interrotto ad Agostino [...]". Cfr. R. Sabarini, Dalla
critica alla metafisica: P. Carabellese, in Id., Criticismo
e metafisica cit., p. 91. [184] Eppure
ci sembra di aver mostrato che Carabellese crede fermamente nel concetto
di progresso e di evoluzione della storia: è proprio questo, da
intendere criticamente e da Carabellese criticamente inteso, ciò che
guida le sue riletture storico-teoretiche, oltre che molte delle sue
teorie speculative. Si potrebbe parlare in questo caso di ottimismo
della ragione, anch’esso riecheggiante Hegel. [185] Cfr.
P. Carabellese, La storia cit., p. 48. [186] Cfr.
Idem, Problemi filosofici della storia cit., pp.
134-139. [187] Ibidem, p. 125. [188] Ibidem, p. 132. [189] Cfr.
Idem, La storia, p. 32. [190] Ibidem,
pp. 32-33, 39-41, citaz. p. 40. [191] Rimandiamo
perciò alla nota sul continuo, che ora risulterà più chiara, anche se
abbiamo voluto porla in apertura del nostro lavoro poiché il continuo
è concetto a un tempo euristico e reale che lo ha attraversato tutto a
partire da Carabellese. Ma vogliamo aggiungere che il continuo in
Carabellese, come Dio, non si riferisce allo stato in luogo latino,
ossia al concetto di spazio (o anche spazio-tempo) e a un soggetto-Dio
in esso contenuto (ricordiamo la battaglia carabellesiana sul Dio
Soggetto) – come secondo l’espressione comune “io sto-vivo a
Napoli” -, ma esula dalla cosmologia, o almeno da una
cosmologia così intesa, e riguarda una concezione impersonale di Dio
inteso come Assoluto. Allora ripetiamo l’espressione ebraica del
Midrash Rabbà (Genesi, 69; Esodo, 45) secondo cui “Dio è il luogo
del mondo e non il mondo il luogo di Dio”: tale espressione, che
indica le ascendenze ebraiche della speculazione carabellesiana, è da
intendere in senso ancora più radicale di quello cosmologico, anche
ideale, poiché a nostro parere, e qui torna il concetto di continuo,
nell’inesauribile trascendenza del Principio pur nell’immanenza
relativa (dal punto di vista dei termini assoluta, per cui Dio è tutto
e tutto è Dio – ancora una volta concezione ebraica) al Concreto, vi
è intrinseca la concezione dell’inclusione dell’immanenza nella
inesauribilità della trascendenza (l’unica che consente la
disposizione gerarchica unidirezionale e non biunivoca secondo cui il
Principio è superiore ai termini). Ed è proprio questa disposizione
gerarchica, o differenza di livello pur nella relazione diretta, che
consente la continuità. Infatti il Principio è continuo nei termini.
Ma non solo, poiché a nostro parere la definizione concettuale di
Principio è tolta da Carabellese in quella di Assoluto, ad essa
superiore. Qui, pur nella continuità, e nella conservazione del
rapporto immanenza-trascendenza così come l’abbiamo esplicato, il
concetto di Principio, seppur impersonale e non triadico, risulta
inadeguato. Siamo veramente all’Assoluto impersonale, e il problema
che si pone semmai adesso, successivamente, è quello del passaggio
dall’Assoluto al Principio, in termini critici di modi e di perché.
La connessione col problema leibniziano, ma ancor prima aristotelico,
del passaggio da potenza ad atto, che Carabellese sembra ignorare o
togliere nel concetto di manifestazione, è evidente. Sul piano
cosmologico vorremmo aggiungere che è a nostro parere riduttiva una
Concezione dello spazio ancora come relazione o rapporto tra enti –
Concezione di matrice fenomenistica kantiana -, poiché in tal caso si dà
un valore gerarchicamente superiore all’ente (sia esso materiale, o
reale come l’energia, o anche solo Ideale come la forma) rispetto allo
spazio stesso – e per spazio è possibile anche qui intendere ancora
una volta lo spaziotempo. Bisogna cioè tornare a una concezione
aristotelica e assoluta dello spazio – da distinguere dallo spazio
assoluto -, che è, anche se vuoto, entità fisica, per poi poterla
togliere, ossia superare, come uno dei livelli dell’Essere. [192] Fulvio
Tessitore, Storicismo e "historismus" negli anni della
formazione di E. de Martino, relazione negli Atti del
Convegno di studio Ernesto de Martino nella cultura europea,
organizzato dal 29 novembre al 2 dicembre 1995 dalle Università “ La
Sapienza ” di Roma e “Federico II” di Napoli, in coll. con
l'Istituto Universitario Orientale e l'Istituto Italiano di Studi
Filosofici di Napoli. [193] Ci
sarebbe qui da approfondire, oltre che la sua Dialettica delle
Forme, anche il suo richiamo a Vico, sia riguardo alla concezione
della storia come ritorno ciclico sia riguardo al suo "vitalismo
esoterico". [194] Sul
piano del soggetto, Carabellese, che raramente vi fa riferimento
riguardo al rapporto tra essere e tempo, istituisce nella sua Critica
del concreto cit., alle pp. 26-28 e 31, un particolare rapporto
tra essere e tempo quando mette in relazione le tre forme del tempo
(passato, presente e futuro) da un lato con le tre facoltà del soggetto
(intelletto, sentimento e volontà) che qualificano la coscienza
umana, e dall'altro con le tre forme che qualificano l'oggetto come
valore (vero, bello, bene): "Nella certezza di essere già stati, i
soggetti sono stati detti intelletto, l'oggetto è stato detto vero,
l'atto concreto conoscenza; perciò la conoscenza è coscienza
dell'essere che fu, è coscienza del passato. Nella certezza invece di
essere ora, i soggetti sono stati detti senso, l'oggetto bello e l'atto
concreto sentire; questo perciò è coscienza dell'essere che è, è
coscienza del presente. In ultimo, nella certezza di dover essere, i
soggetti sono stati detti volontà, l'oggetto buono e l'atto concreto
azione. Questa perciò è coscienza dell'essere che sarà, coscienza del
futuro. Noi conosciamo ciò che fu, sentiamo ciò che è, vogliamo ciò
che sarà." Ibidem, pp. 26-27. [195] La
concezione carabellesiana della storia è analizzata da Tina Manferdini, Coscienza
e storia nel pensiero di Pantaleo Carabellese, in AA.VV., Giornate
di studi carabellesiani, Atti del Convegno tenutosi presso
l'Istituto di Filosofia dell'Università di Bologna, 7-9 ottobre 1960,
Silva, Milano-Genova, 1964, pp. 247 sgg., che prende in considerazione
il saggio carabellesiano Problemi filosofici della storia cit.,
in AA. VV., Il problema della storia cit. Anche qui
Carabellese intende per storia quella particolare forma spirituale in
cui l'essere, appartenendo al passato, si afferma come "essere
necessario di fatti", irrevocabile e distinto dal "futuro
essere doveroso dei diritti" e dal "presente essere libero
degli arbitrii". In quanto tale, la storia è oggetto di una delle
tre forme dell'attività di coscienza, l'intendere, e si distingue in
modo specifico dalla filosofia perché, mentre questa è riflessione
sulle condizioni di possibilità del concreto, quella è attuazione
del concreto stesso. Manferdini considera però con sospetto
l'affermazione carabellesiana della metafisicità della storia in
quanto più che storia meramente umana, in quanto storia spirituale che
oltrepassa la storia umana, perché a suo parere rischia di perdere
anch'essa il soggetto che fa la storia. [196] P.
Carabellese, La storia cit., in AA.VV., Scritti
filosofici pubblicati per le onoranze nazionali a Bernardino Varisco nel
suo LXXV anno di età cit., pp. 39-40. [197] R.
Sabarini, Dalla critica alla metafisica: P. Carabellese cit.,
in Id., Criticismo e metafisica cit., p. 91. In questa
concezione della filosofia e della storia della filosofia in Carabellese
Raniero Sabarini si incontra con la medesima concezione della
filosofia e della storia della filosofia in Hegel espressa da Giuseppe
Cantillo a proposito di Hegel, in numerosi luoghi delle sue opere. [198] P.
Carabellese, Critica del Concreto cit., n. 1 di p. 27
sg. [200] Carabellese
considerava anch’egli la filosofia anche come storia della filosofia,
e nel contempo in modo estremamente attuale la vedeva come
coscienza avanzante, coscienza anticipatrice del tempo nel suo sforzo
inconcluso. Ciò lo pone, secondo Semerari, di fatto contro lo
storicismo di Croce e Gentile, ma allo stesso tempo in consonanza con la
concezione della storia critica di Nietzsche. Cfr. G. Semerari, La
sabbia e la roccia cit., p. 7 sg. [201] P.
Carabellese, Il concetto della filosofia da Kant ai nostri
giorni cit. p. 144. [202] Idem,
Critica del concreto cit., III ed. riv. e ampliata 1948, pp.
6-7. [203] Ibidem,
p. 19. [204] Idem, Il
problema teologico come filosofia cit., p. 11. Più in
generale, per l’argomentazione qui svolta, vedi Ibidem, pp.
1-15. [205] Ci
sembra superfluo sottolineare che qui Carabellese per scienza intenda
l’ambito della scienza particolare fisico-matematica, come si è più
volte ripetuto, e che in genere per conoscenza egli intenda la
conoscenza di esperienza di primo livello, ossia quella delle scienze
particolari sia fisico-matematiche che storico-sociali, e non l’ambito
dell’esperienza metafisica, che egli chiama sapere,
implicito nel sapere comune, e reso esplicito nella filosofia. [206] Ibidem,
p. 116. [207] Idem, Il
concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni cit., pp. 11-29. 208 Ibidem,
p. 29 [209] Ibidem,
pp. 21-22, p. 29, pp. 33 sgg., e, per tutta
l’argomentazione, anche pp. 37-41, e anche Idem, Il problema
teologico come filosofia cit., pp. 1-15. [210] Kant
non ha lasciato soltanto irrisolta la fondazione della metafisica –
che dunque assume il ruolo di scienza delle scienze, scienza prima -, ma
pure quella delle scienze sperimentali storico-culturali con la
fondazione dei loro giudizi sintetici a priori. Ci si rifà qui
all’importante distinzione operata da Heinrich Rickert tra scienze
della natura e scienze della cultura che ha attraversato il dibattito
filosofico mitteleuropeo a cavallo tra ‘800 e ‘900, e che pure oggi
è da inverare in una nuova sintesi che superi tale dualismo delle
scienze particolari. Cfr. H. Rickert, Il fondamento delle scienze
della cultura, a cura e con Introduzione di Mario Signore, Collana
“Pleiadi”, Longo Editore, Ravenna, 1979, ma anche Wilhelm Dilthey, Critica
della ragione storica, con Introduzione e Traduzione di Pietro
Rossi, I. ed. nella Biblioteca di cultura filosofica, Einaudi,
Torino, 1954, II ed. nella stessa collana, Einaudi Torino,
1969, I ed. Reprints,, Einaudi, Torino, 1982. [211] P.
Carabellese, Il concetto della filosofia da Kant ai nostri
giorni cit., p. 37 e p. 41. [212] Tale
dialettica intensiva è quella che connota il processo spirituale, che
per Carabellese non è soltanto dall’indistinto al distinto o
dall’indeterminato al determinato, come in Hegel, ma è anche “il
rituffarsi del determinato nell’indeterminato, del distinto
nell’indistinto, del singolare nell’unico, dell’esplicito
nell’implicito”, poiché altrimenti tale processo spirituale sarebbe
un infinito pluralizzarsi che si allontana sempre di più dall’unicità
che è il suo Principio. Pertanto la categoria di intensione, o
intensività, è quella che connota il flusso dei distinti, quando
questi si ritrovano sullo stesso livello dell’Essere: Vedi Idem,
Il rinnovamento della filosofia italiana, in Idem, Da
Cartesio a Rosmini cit., citaz. nel testo a p. 288, mentre qui in
nota si fa riferimento alla n. 1 di pp. 274-75. [213] Idem,
Il problema della filosofia da Kant a Fichte cit., pp. 11-18 e
p. 144. [214] Sul
piano del quid facti dell’esperienza, ossia della
risposta al quesito di Hume sull’esperienza nella sua fatticità che
deve essere lontana dalla soluzione scettica dell’”abitudine
soggettiva”, Carabellese, pur ritenendo Rosmini un
caposaldo, però va oltre, e vuol fondare sul piano metafisico
l’esperienza concreta. [215] Idem, Il
concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni cit., p.
144. 216
Vedi in questo scritto le pp. relative ai maestri di Carabellese. [217] Idem,
Il problema teologico come filosofia cit., pp.
15-17. [218] Ibidem,
pp. 15-19, citaz. liberamente tratta. Ma la posizione e critica e
avvalorativa di Kant Carabellese la esplicita anche in molti altri
luoghi delle sue opere non necessariamente “kantiane”, come ne L’idealismo
italiano. Saggio storico-critico cit., pp. 244-45, pagine molto
importanti perché lì si mette a fuoco il rapporto tra sintesi a priori
metafisica e conoscibilità della cosa in sé. [219] Idem, La
coscienza morale cit.,passim [220] Provvisoriamente
perché, come si è già suggerito più volte, a nostro parere il nucleo
delle sue opere inconcluso dalla morte consiste nel possibile progetto,
che potrebbe costituire lo spunto per una continuazione degli studi sul
suo pensiero, fuori dalla manifestazione dell’Essere di cui fa parte
anche la metafisica dell’io, della sola metafisica
dell’Essere, per una diretta corrispondenza dell’io col Trascendente
o Assoluto, solo iniziata in P. Carabellese, La realtà e
l’Attività spirituale umana. Prime linee di una logica dell’essere, rist.
in II ed. a cura e con Introduzione di Edoardo
Mirri, L’attività spirituale umana, 1991,ma
dove è scomparsa parte del titolo, e precisamente La realtà.
In altre parole, l’Essere del circolo Dio-io, come si è detto così
definito per prima da Furia Valori, è a un tempo dentro e
fuori dal circolo stesso come terzo. Ma Valori si riferisce al piano
della manifestazione e non a quello secondo noi fondamentale
dell’essere reale. [221] P.
Carabellese, L’essere e la sua manifestazione cit. [222] Idem, L’Essere.
Parte II: io cit. [223] Ma
anche tutta la sua teoria della coscienza comune, più volte affermata e
apparentemente lontana dai suoi scopi metafisici, rientra in questo
quadro di impostazione kantiano-hegeliana. [224] Idem,
Il problema teologico come filosofia cit., p. 19. [225] Ibidem, pp. 1-15, e p.
116. [226] Per conoscenza
Carabellese intende in genere la conoscenza di esperienza di primo
livello, ossia quella delle scienze particolari sia fisico-matematiche
che storico-culturali, e non l'ambito dell'esperienza metafisica, che
egli chiama sapere, implicito nel sapere comune, e reso esplicito nella
filosofia. [227] Ibidem, p.
116. [228] Il
continuo rifiuto carabellesiano di antropomorfizzare Dio - che
soprattutto mediante l’attributo di esistenza lo renderebbe ente
finito tra enti finiti, esistenza di Dio da Carabellese perciò
singolarmente negata, che si comprende solo mediante il suo concetto di
esistenza di matrice kantiana, e che lo allontana dalle
religioni positive occidentali e in particolare dal cattolicesimo e
dalla coeva filosofia neoscolastica (con cui infatti nel 1936 entra con
Armando Carlini, e poi con Padre Lombardi, nella dura,
violenta, e per Carabellese amara polemica sul suo presunto ateismo),
questo rifiuto di un Dio antropomomorfo è in qualche modo disatteso
anche proprio ne l’Essere e la sua manifestazione,
dove la Coscienza qualitativa come rapporto Soggetto-Oggetto o
circolo Dio-Io rende questo livello di Dio Persona, come è stato detto
da Furia Valori. La Coscienza qualitativa che, sono parole di
Carabellese, fa intendere il senso profondo della Trinità, è
personificata nella figura di Gesù, dove l’Io è Io penso,
per esprimersi in termini prettamente trascendentali, per non parlare
della possibile traduzione in termini neohegeliani, e precisamente
gentiliani, nonostante le mai dismesse critiche di Carabellese al
neohegelismo italiano di Gentile, soprattutto riguardo all’Atto e
proprio all’Io), e ciò è evidente nel continuo traslitterare non di
piano, che è lo stesso e il medesimo, ma di, potremmo dire, ontopoiesi
dell’Essere tra Soggetto e Oggetto, che fa di Dio come Coscienza
qualitativa nella sua prima emanazione intensiva-espansiva anche la
triade Vero Bene Bello di ascendenza greca, ossia Valore assoluto. [229] Con
l’Essere, evidentemente, non si tratta più di manifestazione, ma di
vero e proprio realismo strictu sensu, ossia di Ragione e
ragione: Carabellese parlerà di Unico, il quale, in quanto
apriori-aposteriori (realtà Uno-Tutto) dell’essere degli enti – sì
qui anche i viventi e i pensanti – è una particolare configurazione
di Dio. In altre parole, gli scritti sulla manifestazione, da
intendere non fenomenisticamente ma in senso reale, a nostro parere,
come già detto, sono incompleti e ne prevedevano altri non sulla
manifestazione ma sull’Essere e sul rapporto reale Essere-Io-Dio,
oltre che sul rapporto Essere-io, che pure appare per tempo nelle
dispense ora edite, ma non è esplicito, essendo l’Essere il terzo che
fonda e nello stesso tempo è fuori dal circolo Dio-Io, o
Oggetto-Soggetto, da Carabellese chiamato nella fase metafisica
Coscienza qualitativa. Carabellese interrompe di forza la sua
speculazione filosofica senza aver steso nella sua completezza il
sistema non soltanto, potremmo dire, verso il basso, ossia,
come è stato detto dall’allievo e testimone Giuseppe
Pinto, nella sua manifestazione nella natura: egli
intende il problema teologico in termini trinitari cristiani, ossia nel
triangolo Essere: Dio Io, e con questa non esplicitazione ma
pure presenza fondante dell’Essere, ma, ci appare, nella sua ovvia
continuazione, anche verso l’alto, ossia appunto
affrontando l’Essere e il suo rapporto con l’io, di cui infatti
riesce a stendere nel 1948, anno della morte, non solo L’Essere.
io, ma anche L’attività spirituale umana. cit., in cui, pur
presentando il rapporto tra Essere e io, lo affronta solo appunto dalla
parte dell’io, e non anche, pur sottendendola, dalla triade Essere:
Dio-Io che ci è sembrato di poter suggerire. [230] P.
Carabellese, Che cos'è la filosofia?, II ed. cit., pp.
200-01. [231] Il
problema del rapporto soggetto-oggetto, centrale nella filosofia
kantiana, rimane centrale anche in pieno periodo dell’ontologismo
critico e poi nel periodo metafisico, che a nostro parere è segnato ben
prima dalla ricerca della metafisica critica: vi è la trasposizione di
piano dalla gnoseologia alla filosofia trascendentale all’ontologia
alla metafisica. L’Oggetto da condizione di possibilità della
conoscenza degli oggetti in generale diviene condizione di possibilità
dell’essere degli enti in senso specificatamente ontologico, e poi in
senso teologico-metafisico, per cui, in una specifica fase del pensiero
carabellesiano, è uno dei nomi, o livelli, di Dio. Infatti
l’obiettivo implicito di Carabellese è quello di dare nuova forma al
concetto di Dio (problema di contenuto o oggetto della filosofia come
filosofia prima, in questo senso problema “esterno” della
filosofia), e, dando centralità al problema teologico come problema
“unico” della filosofia, di definire con tale centralità unica la
filosofia come scienza (problema “interno” della filosofia come
problema di metodo e di statuto della filosofia), in una
filosofia intesa anche aristotelicamente come filosofia prima e come
sistema nella direzione della scienza teologica, come ha scritto E.
Mirri. Ma è necessario distinguere, dopo Hegel, non soltanto la
manifestazione dal fenomenismo, ma anche la manifestazione dal realismo
– manifestazione in cui è tolta neo platonicamente la distinzione tra
essere e apparire e si comincia a delineare il vero realismo
carabellesiano. [232] Al
rapporto soggetto-oggetto Giovanni Cera dedica Sul rapporto
oggetto-soggetto nell'ontologismo di Carabellese, in AA.VV., Pantaleo
Carabellese, il <<tarlo del filosofare>> cit., pp.
143-172, che considera sia gli aspetti gnoseologici che quelli
metafisici che Carabellese fa confluire nel rapporto stesso. Cera
infatti comprende bene come tale rapporto sia centrale nel pensiero di
Carabellese, che afferma "l'inerenza organica dell'oggetto al
soggetto", per cui l'oggetto è il convenire dei diversi soggetti
tra loro, tale che il rapporto gnoseologico non è con l'oggetto, ma tra
soggetto e soggetto. "Questa definizione dell'oggetto è, però,
di natura epistemologica; e per Carabellese, se tale concetto
di oggetto c'è, è perché ce n'è un altro che lo fonda: l'oggettività
è non solo consentire (relazione di consenso) ma realtà
vera e propria, ciò che consente il consentire [...].", p. 145.
Così la scienza è, kantianamente, fondata perché “[…] è la
trascrizione logico-linguistica del mio e dell’altrui essere
(oggettivo). L’essere (unico) il suo fondamento. L’essere sa se
stesso. L'ontologia fonda o, addirittura, annulla la
gnoseologia.", p. 148. Riguardo al soggetto, per Cera (pp. 155-56)
il vero soggetto in Carabellese, che è per lui sia conoscente sia
volente che senziente, è l'essere, per cui "[...] hanno torto sia
gli intellettualisti perché riducono l'essere a pensiero, dimenticando
che esso è anche sentimento e volontà, sia i sensisti o i
volontaristi, per l'analoga ragione di esaltare dell'essere una parte a
scapito delle altre, sia, infine, coloro che assumono l'essere nella
totalità delle sue forme, ma separano queste con confini netti,
arrivando a gerarchizzarle tra loro.", p. 157. Ma Cera centra
l’obiettivo quando nella critica al concetto di oggetto in Carabellese
afferma che egli ha una visione ingenua dell'oggetto come ciò che
accomuna: per accomunare, deve essere il "minimum ontologico"
che unisce, laddove l'unità dei soggetti è per
Cera un'esigenza e non un fatto. Vedi Ibidem, pp. 169-72. [233] P.
Carabellese, Che cos’è la filosofia? cit., p.
21. [234] Ibidem, p. 28 [235] Ibidem, pp. 23 e 28. [236] Idem, Critica
del Concreto cit., p. 52. Per tutta l'argomentazione rimandiamo
alle pp. 51-62 di quest'opera. A p. 59 Carabellese afferma: “Laddove
la conoscenza quale è voluta dall’intimo e vivo pensiero Kantiano,
non si intende più, perde ogni suo valore, quando non si ritenga
l’intelletto oggettivo insieme con le sue categorie; non si intende più
se non si cessa dal dire le categorie produzione di me intelligente.
Perciò il nostro Rosmini è stato ben kantiano proprio quando ha messo
come oggettivo l’intelletto. “ Ma a Rosmini è dedicato anche un
breve paragrafo de L’essere e la sua manifestazione cit.,
Parte prima, p.130, oltre che il volume Da Cartesio a Rosmini cit. [237] Idem, Critica
del concreto, p. 53. [238] Ibidem,
pp. 62-65 e p. 82. [239] Ibidem,
p. 55, ma vedi anche pp. 57-61. [240] Ibidem, pp. 69-71. [241] Ibidem, p. 82. [242] Questo
tema è ripreso anche ne Idem, L'idealismo italiano cit., App.
V: L'esigenza dell'oggettività, pp. 266-70, laddove Carabellese
afferma che l’oggetto è positiva presenza alla coscienza, ossia
interiorità costitutiva della coscienza che solo così è concreta.
Anche qui ripete che non è né il realistico fuori né l’idealistico
prodotto della coscienza, ma il positivo essere in sé. [243] Idem, Che
cos'è la filosofia? cit., p. 149. [244] Idem,
Critica del Concreto cit., le citaz. successive sono alle pp.
114-116. [245] Idem,
Il problema teologico come filosofia cit., pp. 110 sg. Per
tutta questa argomentazione sull'esperienza vedi però alle pp. 93 sgg.,
in partc. pp. 105 sgg. dell'opera. [246] Ibidem, p. 113. [247] Ibidem, p. 119. [248] Ibidem,
pp. 123-24, Idem, L’idealismo italiano cit.,
pp. 244-45. Per una trattazione completa della cosa in sé, bisogna
aspettare la metà degli Anni Quaranta con la dispensa dattilografata
del periodo metafisico (A.A. 1945-46) Idem, L’Essere e la sua
manifestazione cit., Sez. IV del Cap. IV: La cosa, pp. 351-458. [249] Ma
ci permettiamo di dire che, se si guarda all’intenzione scritta di
Carabellese di un nuovo Rinascimento della filosofia, se si considera
che la Coscienza qualitativa fa parte della manifestazione
dell’Essere, e se si guarda all’itinerario carabellesiano che
rinviene come suoi maestri Kant e Rosmini, il vero Essere carabellesiano
non è questa Coscienza Qualitativa, o almeno non è quello
postcarabellesiano. Il vero Essere che noi oggi vediamo come punto zero
della coppia oppositiva e gerarchica Essere-Non Essere, o meglio Non
Essere-Essere, coppia che è comunque una determinazione, è la
Ragione (con cui infatti Carabellese conclude L’Essere e
la sua manifestazione prima dell’estetica, e di Dio come
Bellezza), e precisamente la Ragione Assoluta. Noi ipotizziamo
una Ragione Assoluta rinvenibile nell’asse Kant-Hegel-Carabellese. Un
Essere che, letto biblicamente, si ponga al di là
dell’Essere che dice “Fiat lux”, e quindi dell’Essere
della materia e delle sue categorie, e anche al di là dell’Essere che
governi giudichi e dia la Legge , la Sua legge ad
Essa inferiore, e anche al di là del Nulla inteso come presenza
positiva d’essere: almeno i primi due modi dell’Essere sono un
Soggetto, un Io, una Persona, concezione che va contro le indicazioni
carabellesiane sia riguardo alla soggettività sia riguardo
all’antropocentrismo sia riguardo al materialismo. Sappiamo che la
Coscienza qualitativa nel suo complesso è interpretabile in tale
senso biblico di Persona, e infatti in tal senso la interpretiamo e la
analizziamo, ma ci permettiamo pure di cogliere le note di dissenso e le
intuizioni, e le anticipazioni, di Carabellese sparse in vari luoghi
delle sue opere rispetto agli aspetti citati e anche ad altri. In questo
senso noi interpretiamo i suoi continui ricorsi a Vico, la
“gloria dell’Italia”, e alla filosofia italiana come portatrice di
germi fecondi da sviluppare, e da sviluppare per un rinnovamento di
tutta la filosofia che torni sulla sua strada maestra. Non possiamo non
dire che questi ricorsi non possono essere casuali né dettati da motivi
men che teoretici, dal momento che sono continui. [250] A
noi sembra che Carabellese, in questa interpretazione dell’Essere a un
determinato Suo livello, quello di Principio che è in rapporto diretto
con l’io, conoscesse, e abbia utilizzato, il simbolo cristiano
esoterico del Chi-Rho greco (IV sec. d. C., H-P – Vedi immagine in
copertina dell’opera di Carlo Maria Martini, Vivere i Valori
del Vangelo, Einaudi, Torino, 1996, VI ristampa 1999, simbolo anche
in mostra a Napoli nel 2000 in un bellissimo e densissimo
repertorio studiato e organizzato da Boris Ulianich su “ La Croce ”
e il suo simbolismo, (B. Ulianich, La Croce. Dalle origini
agli inizi del secolo XVI, Electa Napoli, Napoli, 2000). In questa
nostra ipotesi di una conoscenza e di un utilizzo carabellesiani dei
simboli cristiani delle origini, il Rho, o “uncino”, indica il
rapporto tra Principio e Termini, o meglio tra Principio e ciascun
termine, ossia l’io puro e semplice – che rimanda al
rapporto diretto col Dio di Agostino -, mentre l’alfa e l’omega
poste sul piano orizzontale stanno a rappresentare la diade o coppia
circolare in riferimento alla diade infinita contenuta nel Politico
platonico cui fa riferimento il compianto Imre Toth -; e ancora la
Chi indica la 22esima lettera dell’alfabeto greco, e, avendo
valore di misura, come misura (cifra) è uguale a 60, mentre la Rho ,
che è la 17esima lettera dell’alfabeto greco, come misura è uguale a 10.
In questo senso, il simbolo nel suo complesso, che raffigura la
ruota sul piano bidimensionale, rappresenta il tempo infinito
(e ciclico alla maniera vichiana, con un punto iniziale e finale del
ciclo rappresentato dalla Rho, e un inizio e una fine dei cicli stessi
rappresentati dall’alfa e dall’omega posti sul massimo diametro
orizzontale, mentre il rapporto tra Dio come Principio e l’io è
rappresentato dalla Rho posta sul massimo diametro verticale), tempo
infinito dato dagli otto raggi. L’incrocio tra Chi e Rho, che il
simbolo rappresenta, nel punto centrale – oltre a tagliare in croce il
cerchio secondo i due massimi diametri orizzontale e verticale -, indica
la chiave di volta del tempo tra essere e non essere, che potrebbe
essere analizzata matematicamente. E sempre a proposito di simboli
esoterici che Carabellese utilizzava per esporre graficamente le sue
teorie metafisiche, molto esemplificativo e chiaro, e perciò
importante, è il grafico sulla Coscienza qualitativa posto alla fine
del primo volume su P. Carabellese, L’Essere e la sua
manifestazione cit., La dialettica delle forme,
cit. Esso rappresenta non Dio, ma la coppia coscienziale
qualitativa Dio Io, e infatti solo in questo senso di coppia Dio Io, e
non del solo Dio come una lettura superficiale potrebbe far pensare, è
spiegabile. Come si evince da quest’opera di Carabellese, il continuo
traslitterare carabellesiano da qualità di Dio (come tempo, valore
assoluto, ecc.) e categorie usate dall’Io che rimandano a Kant (come
sostanza, ecc.), fa sì che queste vengano però poste sempre sul piano
metafisico – nella radicalizzazione dell’Io kantiano -, e
in questo senso vanno lette. Il simbolo esoterico che ci sembra di poter
individuare nel grafico è in realtà uno strumento
scientifico: se invece di leggere il grafico sul piano
bidimensionale lo si pone come volume nello spazio, e si
fanno sfalsare i vari cerchi tridimensionalmente, ci si troverà di
fronte alla sfera armillare, ossia alla rappresentazione volumetrica
dello spazio tolemaico, in cui com’è noto la Terra è posta
al centro del sistema solare, per cui la Terra , nel caso di
Carabellese, è identificata con la Coscienza Qualitativa posta
al centro del suo grafico. Così i vari circoli concentrici che ruotano
intorno al centro del cerchio, e che sono, secondo le nette indicazioni
di Carabellese, penetrativi, ossia tali che ciascun elemento delle
diverse triadi che compongono i cinque cerchi intorno alla Coscienza
Qualitativa – ma c’è da sottolineare che nella sfera armillare,
oltre alla Terra centrale, gli altri cerchi concentrici sono otto (nove
col Sole). – trapassa negli altri due in un moto perpetuo e ciclico,
per cui essi sono da porre nello spazio, come fasce o linee o
circonferenze incrociantisi le une con le altre. Essendo la sfera
armillare un antico strumento astronomico i cui anelli rappresentano i principali
circoli della sfera celeste la cui rotazione solo in alcuni
di essi è oraria, Carabellese a nostro parere utilizza per la
rappresentazione del rapporto Dio Io ancora una concezione tolemaica, e
parmenidea, dello spazio e del rapporto del centro con esso. Per
confrontarsi con i grafici del Carabellese metafisico, rimandiamo alle
Tavole edite da Furia Valori (a cura di), in Carabellese, L’essere
e la sua manifestazione cit., pp. 305-309 e p. 459. [251] Ibidem,
p. 114. [252] Cfr.
E. Mirri, Introduzione cit. a P. Carabellese, Il
problema teologico come filosofia cit., pp. V-XX, in partc.
VIII-IX. [253] Cfr.
Leo Lugarini, L'idea trascendentale kantiana nel pensiero di P.
Carabellese, in AA.VV., Giornate di studi carabellesiani
cit, pp. 279 sgg., citaz. p. 287. [254] Giuseppe
Semerari, L’antidogmatismo della Critica del Concreto, in
AA.VV. Giornate di studi carabellesiani cit, p. 113. [255] Ibidem,
p. 117. [256] P.
Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit., p.
16 sg. Qui Carabellese evoca echi troeltschiani, quando Troeltsch, ne Lo
storicismo e i suoi problemi, parla di Allbewusstsein come
coscienza universale che comprende in sé l’Io mentre l’Io comprende
in sé la coscienza universale. Cfr. Ernst Troeltsch, Lo
storicismo e i suoi problemi, a cura di G. Cantillo e F. Tessitore,
3 voll., Guida, Napoli, I vol. 1985, II vol. 1989, III vol. 1993, vol.
I, p. 234. [257] Giuseppe
Semerari, L’antidogmatismo della Critica del concreto cit,
p. 128 [258] Ibidem,
p.133 e p.143. [259] P.
Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit.,
p. 15. [260] Ibidem, pp. 123-24. [261] Ibidem, p. 16. [262] Vedi
Heinrich Rickert, Il fondamento delle scienze della cultura cit.,
cap. 5 Concetto e realtà, in partc. p. 83. [263] P.
Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit.,
p. 67. [264] Ibidem, p. 80. [265] Ibidem, p. 83. [266] Ibidem,
pp. 78-90. [267] Ne Il
mio ontologismo, da un discorso del 3 giugno 1936 alla Biblioteca
Filosofica della Società per gli Studi Filosofici di Palermo fondata da
Giovanni Gentile e Giuseppe Amato Pojero e diretta dallo stesso Gentile
dal 1910, poi stamp. in "Giornale critico della filosofia
italiana", a. XVII, Seconda Serie, vol. IV, fasc. VI, dic. 1936,
pp. 309-26, poi ristamp. col titolo L'ontologismo critico in Id.,
L'idealismo italiano cit., cap. X, pp. 169-95, Carabellese
afferma, a p. 309, che il filosofare è "sforzo di disvelare
l'Assoluto", "sforzo della trascendenza nella e della umana
coscienza, sforzo da rinnovare sempre attraverso la critica, perché sono
consapevole che la mia come ogni altra dottrina va criticamente
ripensata, perché sia ulteriormente sviluppata nella sua verità". [268] P.
Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit.,
p. 91-92. [269] Ibidem,
pp. 123-24. Ma d'altronde, a p. 128, Carabellese afferma che "[...]
nulla [...] si oppone o è assolutamente di là dal concreto, che è
spiritualità [...]." [270] Ibidem,
p. 139. [271] Idem, La
filosofia di Kant. I L'idea teologica cit., par. 65, in partc.
pp. 384-91. [272] Edoardo
Mirri, nell'Introduzione cit. a P. Carabellese, L'attività
spirituale umana. Prime linee di una logica dell’essere, a cura di
Edoardo Mirri, Università degli Studi di Perugia, Facoltà di
Magistero, Istituto di Filosofia, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli, 1991, a p. 14 afferma che: "La trattazione
dunque dell'<<attività spirituale umana>> - che nel disegno
incompiuto del Carabellese doveva comprendere la <<logica del
sentire>>, quella <<dell'intendere>> e quella
<<del volere>> [...].", (le ultime due invece non
compaiono nell'opera), liddove c'è da aggiungere che già ne L'Essere
e la sua manifestazione. Parte I. L'Essere nella dialettica delle Forme cit.,
sentire, volere e intendere sono comprese come forme della
manifestazione dell'Essere: nello schema grafico apposto nelle
dispense, sentire, intendere e volere sono compresi nel cerchio avente
come centro la Coscienza qualitativa, come I livello
concentrico denominato delle Facoltà diverse, afferenti alla Parte
I: Dialettica delle Forme, cap. I: La Qualità come
diversità. [273] Walter
Jaeschke, Subjekt und Subjektivitat in Hegelscher
Religionsphilosophie, Relazione di apertura alla seconda giornata
del Convegno Figure e momenti della filosofia classica tedesca.
Fede e Sapere. La genesi del pensiero del giovane Hegel, tenutosi
nell'Aula "Raffaello Franchini" del Dipartimento di Filosofia
"Antonio Aliotta" dell'Università degli Studi di Napoli
"Federico II" e presso l'Istituto Italiano degli Studi
Filosofici di Napoli dal 9 all'11 dicembre 1996. [274] Cfr.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito
cit., vol. 1, Prefazione, pp. 1-61, citaz. pp. 14-15. [275] Ibidem,
p. 19. [276] L’imprecisione
maggiore a cui facciamo riferimento è la mancata comprensione del
livello metafisico dell’Io come Io puro di cui si sta discutendo, Io
puro che richiede come esigenza della ragione un sesto corso oltre gli
anni 1943-48, evidentemente non tenuto, su Dio. Un’altra imprecisione,
che deriva dalla prima, è a nostro parere l’attribuzione al corso
dell’Io del solo livello quantitativo, imprecisione che è facile
criticare con uno studio dell’opera. Ripetiamo la citazione per una
maggiore comprensione dell’argomentazione svolta nel testo: “[…]
cinque corsi, dal 1943 al 1948, i primi tre corsi (col titolo Dialettica
delle Forme) trattavano dell’essere qualitativo […] col quarto (che
tratta dell’io, cioè dell’essere quantitativo) dovevano costituire,
secondo un suo piano, la I parte (<< La Metafisica >>)
d’un’opera complessiva sistematica, avente per oggetto il
<<Concreto>>, mentre il quinto corso che iniziava la
trattazione della <<Logica dell’essere>> intesa come
attività spirituale umana, doveva trovar posto nella II parte. La
III doveva [oltre il 1948] essere costituita dalla
<<Fisica>> , cioè dal problema della natura e
dell’esperienza […]”, dove da notare inoltre che non vi è
congruenza nel sistema tra la I parte, la Metafisica , la
II , che dovrebbe essere costituita dalla Logica, e la
III , la Fisica , mai attuata da Carabellese, perché
posteriore al 1948. Vedi Giuseppe Pinto, Pantaleo Carabellese cit.,
p. 13. [277] Walter Jaeschke, Subjekt
und Subjektivitat in Hegelscher Religionsphilosophie cit. [278] Ibidem. [279] Ibidem [280] Edoardo
Mirri parla della logica dell’intendere del sentire e del volere in
Carabellese nell’Introduzione a P. Carabellese, L’attività
spirituale umana . Prime linee di una logica dell’essere cit., p. 14,
dove c’è da aggiungere che le tre logiche sono già citate da
Carabellese stesso nello schema grafico apposto alla fine dell’opera
P. Carabellese, L’Essere e la sua manifestazione, Parte I. L’Essere
nella dialettica delle Forme, cit., nel centro dello schema detto La
Coscienza qualitativa, come I livello concentrico detto delle
Facoltà diverse, nella Parte I: Dialettica delle Forme, cap. I: La
Qualità come diversità. [281] Walter
Jaeschke, Soggettop e Soggettività cit. [282] M.
Heidegger, Kant e il problema della metafisica cit. [283] Fabio
Ciaramelli, Intuizione intellettuale e nostalgia dell’unità
originaria: una nota su alcune pagine kantiane di Hegel e Heidegger, dal
Convegno Figure e momenti della filosofia classica tedesca. Fede
e Sapere. La genesi del pensiero del giovane Hegel, pubblicato negli
Atti Fede e Sapere. La genesi del pensiero del giovane Hegel, a
cura di R. Bonito Oliva e G. Cantillo, Guerini e Associati, Milano,
1998, pp. 330-352. [284] Ibidem, p.
330, p. 333, p. 336, p. 347. [285] G.
Semerari, La sabbia e la roccia cit., vedi anche Idem,
Pantaleo Carabellese, Il “Tarlo del filosofare” cit. [286] P.
Carabellese, Il concetto della filosofia da Kant ai nostri
giorni. I Kant cit., pp. 53-77. [287] Qui
si rimanda a I. Kant, I progressi della metafisica, a cura,
con Introduzione, traduzione e note di Paolo Manganaro,
Pubblicazione dell'Istituto di Studi Filosofici, Bibliopolis, Napoli,
1977, p. 67. [288] Per
una storia della vicenda del concorso, della sua nascita, dei suoi
vincitori, e dell'interesse kantiano per il tema, vedi Paolo Manganaro, Introduzione cit.
a I. Kant, I progressi della metafisica cit., pp. 11- 62,
in partc. da p. 19 sgg. [289] P.
Carabellese, Il concetto della filosofia da Kant ai nostri
giorni cit., pp. 53-77, citaz. p. 75. [290] Cfr. Idem,
Il concetto della filosofia da Kant a Fichte I Kant cit., p. 63
e p. 77. [291] I.
Kant, I progressi della metafisica cit., p. 67. [292] Ibidem,
p. 106. [293] P.
Carabellese, L’attività spirituale umana. Prime linee di una logica
dell’essere cit., p. 110. [294] I.
Kant, I progressi della metafisica cit., pp. 108-116. [295] Ibidem, pp. 108-110. [296] Ibidem, p. 110. [297] Ivi. [298] Ibidem,
p. 111. [299] Ibidem, pp. 111-112. [300] Ibidem, pp. 117-18. [301] Ibidem, p. 123. [302] Ibidem, p. 124. [303] I.
Kant, I progressi della metafisica cit., Supplementi,
I: L'inizio di questo scritto in base al terzo manoscritto, Sezione
prima: Del problema generale della ragione che si sottopone da sé ad
una critica, p. 136. [304] Idem, I
progressi della metafisica cit., Supplementi, II:
Secondo stadio della metafisica. Il suo arrestarsi nello scetticismo
della ragion pura, pp. 142-43. [305] Idem, I
progressi della metafisica cit., Supplementi, III: Note
a margine, pp. 147-48. [306] I.
Kant, I progressi della metafisica cit., Fogli
sparsi riguardanti i Progressi della metafisica, Tema del concorso,
p. 153. [307] Idem,
I progressi della metafisica cit., Fogli sparsi cit., Sull'incapacità
degli uomini a comunicare pienamente tra loro, p. 158. Nella
citazione riportata, la parola "differente" è stata
interpretata come un errore di stampa: letteralmente nel testo è
"indifferente". [308] Idem,
I progressi della metafisica cit., p. 85. [309] Ivi. [310] Chaim
Perelman definisce l'analogia una forma del ragionamento creativo avente
un ruolo euristico nel suggerire l'idea dell'inconoscibile o
dell'inaccessibile all'esperienza e alla verifica attraverso un modello
conosciuto che guida l'immaginazione, per cui l'analogia si fonda sulle
qualità astrattive dell'uomo ed è elemento essenziale di ogni
conoscenza. Cfr. Analogia e Metafora, voce in Enciclopedia
Einaudi, Einaudi, Torino, 1989, vol. 1, pp. 523-34. Vedi anche su
quest'argomento l'importante studio di Enzo Melandri, La
linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull'analogia, Il
Mulino, Bologna, 1968, in partc., nella Parte Terza
Ermeneutica: l'interpretazione analogica, il cap. XVI: Le
analogie dell'esperienza, pp. 775-823, e il cap. XX: La soggettività
dell'analogia, pp. 1005- 1055. L 'analogia è l'uguaglianza
tra due rapporti qualitativi per cui, dati tre termini, il quarto non è
dato ma ha un rapporto con essi tale che serve da regola per ricercarlo
nell'esperienza, e così estendere la conoscenza. [311] Nella
tradizione neoplatonica e agostiniana, il simbolo assume una
connotazione metafisica come mezzo per penetrare, attraverso il suo
essere "mistica compenetrazione tra mondo visibile e divino
invisibile", l'infinita ricchezza del divino nella sua unità. Il concetto
di intellectus fidei, cui stiamo facendo riferimento in
Carabellese, è dunque di derivazione agostiniana e si connette
all'illuminazione come dono divino. Ma in Carabellese è per noi
rintracciabile anche il concetto anselmiano di una razionalità che si
connette alla fede, prettamente filosofico. Il simbolo è pertanto da
considerare, come nella fenomenologia e nell’ermeneutica, dotato di un
"più di senso" irriducibile alla razionalità delle regole
formali e astratte della logica, Vedi E. Cassirer, Philosophie
der symbolische Formen, Oxford, B. Cassirer, 1923, tr. It. di Eraldo
Arnaud, Filosofia delle forme simboliche, 3 voll., La
Nuova Italia , Scandicci (Firenze), 1961, II ed. anast. da una
ed. del 1966 nella collana “Pensatori del nostro tempo”, 1988,
in partc. vol. 2, cap. 2, pp. 121-213. [312] In
merito al rapporto tra la Scolastica e Heidegger riguardo al
problema del fondamento, vedi AA.VV., Il problema del fondamento,
Atti del IV Convegno Nazionale dei docenti italiani di filosofia nelle
Facoltà, Seminari e Studentati religiosi d'Italia tenutosi ad Assisi
dal 27 al 29 dicembre 1972 e promosso dall'Associazione Docenti
Italiani di Filosofia, numero monografico di "Sapienza. Rivista
internazionale di Filosofia e Teologia", a. XXVI, nn. 3-4,
lugl.-dic. 1973, in partc. di Johannes B. Lotz, Die
Frage nach dem Fundament bei Heidegger und in der Scholastik, tr. it. Il
problema del fondamento in Heidegger e nella Scolastica, pp.
281-331, e di Padre Cornelio Fabro, Il ritorno al fondamento.
Contributo per un confronto fra l'ontologia di Heidegger e la metafisica
di S. Tommaso d'Aquino, pp. 265-78. [313] Per
approfondire in ambito medievistico il concetto di analogia, vedi di
Etienne Gilson, oltre al celebre L'etre et l'essence,
Paris, 1948, e a Le philosophe et la théologie, Paris,
1960, anche Elements of Christian Philosophy, Doubleday
& C. Inc. Garden City, New York, 1960, tr. it. di Gianfranco Caletti Elementi
di filosofia cristiana, Morcelliana, Brescia, 1964, dove, oltre
ad analizzare il concetto di analogia come partecipazione all'essere e
base della conoscenza di Dio da parte dell'uomo, Gilson approfondisce il
concetto di Atto di essere considerando Dio supremamente Atto in quanto
Essere (per cui essere è atto), il concetto di conoscenza in rapporto
anche a Dio e ai due ordini di conoscenza nell'uomo, il concetto di
creazione anche in rapporto alla Trinità, all'eternità del mondo e
all'influenza della Rivelazione sulla dottrina filosofica, il rapporto
tra fede e ragione in filosofia e nella Sacra dottrina, e infine la
teologia sacra come fides quaerens intellectum che
traspone nel linguaggio della ragione verità che la eccedono. Vedi
anche in partc. Parte Seconda: Dio, capp. III: L'esistenza
di Dio e V: L'essenza di Dio, e Parte
Terza: L'Essere, capp. VI: Dio e i trascendentali e
VII: Dio e la creazione. Su Dio e la creazione vedi anche
Guido De Ruggiero, Storia della filosofia, Laterza, Bari,
1920, Parte Seconda: La filosofia del Cristianesimo, vol.
III: La maturità della Scolastica, cap. XVII: La
filosofia Albertino-Tomista, par. 3: Dio e la creazione,
pp. 130-36, come anche Ibidem, cap. XVI: Le nuove
scuole filosofiche del sec. XIII, par. 4: Tra Agostino e
Aristotele, pp. 86-106, e ancora Ibidem, cap. XVIII: Le
lotte scolastiche, par. 2: Tomismo e Agostinismo, pp.
166-75. [314] Riguardo
non soltanto al problema dell’analogia come partecipazione in San
Tommaso, vedi Padre Cornelio Fabro, La nozione metafisica di
partecipazione secondo San Tommaso d’Aquino, Collana “Studi
Superiori”, Società Editrice Internazionale,
Torino-Milano-Genova-Parma-Roma-Catania, II ed. riv. e aument. 1950, che
in partc., oltrre a concetti come analogia, aristotelismo in rapporto al
Cristianesimo e al Tomismo, Atto e Bene in Sant’Agostino e San
Tommaso, concreto, essenza ed essere, Platonismo in Aristotele, nella
Patristica e in San Tommaso, neoplatonismo e Cristianesimo, sviluppa in
particolar modo il concetto metafisico di partecipazione a partire da
Platone fino alla piena Scolastica di San Tommaso, con un’analisi delle
diverse forme di partecipazione (predicamentale, trascendentale,
intellegibile, formale e virtuale, soprannaturale, del rapporto
materia-forma e potenza-atto, ecc.). Vedi anche, riguardo al rapporto
metafisico tra Atto ed Essere, il pensiero di Federico Michele Sciacca,
Atto ed Essere, Fratelli Bocca Editori, Roma, 1956. [315] Ambedue
le citaz. sono in I. Kant, I progressi della metafisica cit.,
p. 89; ma vedi pure p. 67. [316] Ibidem, p. 97. [317] Ibidem, p. 102. [318] Ibidem,
p. 103, ma vedi pure p. 102. [319] Ibidem,
p. 105. [320] Ambedue
le Citaz.sono in Ibidem, pp. 106-07 [321] Infatti
afferma: "[...] non possiamo conoscere proprio alcunché
della natura degli oggetti soprasensibili, della
natura di Dio, della nostra propria facoltà della libertà,
e della natura della nostra anima [...] [ossia] il loro principio,
l'oggetto in sé.” Ibidem, p. 107, ma vedi anche p. 108. [322] Ibidem,
p. 107. [323] Citiamo:
“In questo caso non dovremmo ricercare la cosa sensibile per ciò che
essa è in sé, ma soltanto per come dobbiamo pensarla, e dovremmo
accettare la sua natura, affinché essa si conformi per noi
all’oggetto pratico-dogmatico del puro principio morale, cioè allo
scopo finale che è il Sommo Bene. […] cose che costituiamo noi stessi
[…] solo per il necessario intento pratico, cose che forse non
esistono neppure al di fuori della nostra idea […] una totale rinuncia
al sapere teoretico (suspensio judici) e il solo nostro interesse, o
quasi, è di come definire nel primo [il conoscere pratico-dogmatico]
questa modalità del nostro assenso […]”, Ibidem, p. 108. [324] P.
Carabellese, La filosofia dell'esistenza in Kant cit.,
pp. 221-227, citaz. p. 221-22. [325] Dell’importanza
nel sistema carabellesiano della concrescenza materia/forma come portato
del primo maestro di Carabellese Filippo Masci, neokantiano, parla, come
abbiamo visto, Giuseppe Semerari, La sabbia e la roccia cit.
La concrescenza materia/forma sarebbe allora il primo stimolo che
permette a Carabellese il dualismo e la separazione dualistica
materia/forma in una visione concretistica dell’essere che si incentra
nel concetto di Coscienza omnipervasiva. [326] P.
Carabellese, La filosofia dell'esistenza in Kant cit.,
pp. 235-46. [327] A
questo proposito Paolo Manganaro rileva come questa esigenza di un
"ampliamento della nozione di esperienza" fosse già presente
in Kant: "Negli anni '93-94 Kant ha ormai chiaramente presente che
lo sviluppo del discorso critico può andare avanti solo attraverso una
diversificazione degli elementi costitutivi della filosofia
trascendentale, spostando di segno contenuti e forme dell'a priori: è
la via dell'Opus postumuum." Cfr. P. Manganaro, Introduzione cit.
a I. Kant, I progressi della metafisica cit., p. 48. [328] Ibidem,
pp. 427-29. [329] P.
Carabellese, La filosofia dell'esistenza in Kant cit.,
pp. 235-46. [330] Ibidem, p. 256. [331] Ibidem, p. 175, p. 214 e
pp. 220-21. [332] Ibidem, p. 270. [333] Ibidem, p. 272. [334] Ibidem, pp. 348-49. [335] Ibidem, pp. 302 sgg. [336] Ibidem,
pp. 427-29. [337] Idem, L'idealismo
italiano cit., p. 58. [338] Ibidem, p. 92. [339] Ibidem, p. 93. [340] Ibidem, p. 181. [341] Ibidem, pp. 201-02. [342] Idem, Che
cos'è la filosofia? cit., p. 216. [343] Ibidem, p. 217. [344] Ibidem, p. 218. [345] Ibidem,
p. 222. [346] Ibidem,
nota di p. 222. [347] Ibidem,
p. 223. [348] Nell'App.
V L'esigenza dell'oggettività al suo L'idealismo
italiano cit., p. 270, Carabellese ribadisce il concetto della
cosa in sé come essere quando afferma che, tolto il residuo realistico,
"[...] nello stesso Kant, l'oggettività rimane costituita da
quell'ineliminabile ed assoluta universalità della coscienza, che è in
Kant, l'idea pura della ragione come noumeno; noumeno, non dobbiamo
dimenticare, che è anche la cosa in sé: cosa in sé che, per essere
noumeno, è l'essere in sé [...] Essenziale al pensiero di Kant non
è l'inconoscibilità dell'essere in sé, ma proprio l'essere in sé,
che egli, con la riduzione di esso a noumeno, scopre proprio nella
coscienza [...]." [349] Anche
Hegel secondo Carabellese è un empirista, "l'ultimo grande
empirista", perché, elusa la cosa in sé, "[...] si è
trovato quindi nel puro e semplice essere empirico (divenire) con la sua
antinomicità, che egli ha sostituito alla cosa in sé scoperta da Kant.
[...] bisogna sviluppare quella scoperta in modo da eliminarne la
difficoltà: questo il compito che noi abbiamo dato al nostro sforzo
filosofico." Cfr. Ibidem, n. 1 di pp. 271-72. [350] Idem, Il
problema della filosofia da Kant a Fichte cit., p. 68. [351] Idem, Il
problema della filosofia da Kant a Fichte cit., p. 21. [352] Ibidem, p. 22. [353] Ibidem, p. 132. [354] Ibidem, p. 27. [355] Ibidem, p. 40. [356] Ibidem, p. 57. [357] Ivi. [358] Ivi. [359] Ibidem,
pp. 57-65 e pp. 88-90. [360] Idem, Il
problema della filosofia da Kant a Fichte cit., p. 92. [361] Ibidem, p. 100. [362] Ibidem, p. 107. [363] Ibidem,
pp. 97-98. E' in Che
cos'è la filosofia?, oltre che nella Critica del Concreto, che
Carabellese esplicita cosa intende per trascendentale: il puro
atteggiamento filosofico, ossia lo sforzo perenne di
cercar-di-sapere-sapendo-di-non-sapere, dunque sforzo e mistero. Questa
trascendentalità come "incontrovertibile coscienza pura
dell'Oggetto assoluto e dei soggetti che Lo sanno" appartiene alla
filosofia come alla religione, che hanno in comune, ciascuna a suo
modo, questa ricerca. Così Carabellese risolve il millenario dibattito
sul primato della filosofia sulla religione e viceversa: "[...] il
primato assoluto e unico (esser Principio) è soltanto dell'Unico, di
Dio; e questo primato filosofia e religione non se lo contendono, ma
soltanto gareggiano nel professarlo, ciascuna a modo suo, il
quale richiede e non esclude il modo dell'altra." E acutamente
osserva che la filosofia non è mai stata ancilla theologiae, poiché ha
sempre fornito a quella i suoi "teologismi", riempendo la fede
di contenuto. Cfr. P. Carabellese, Che cos'è la
filosofia? cit., pp. 352- 54. In Critica del Concreto cit.,
invece, n. 1 di p. 211 e anche pp. 210 sgg., Carabellese afferma:
"Intendiamo per trascendentale uno dei distinti della coscienza
(soggetti e oggetto) in quanto riflesso, e quindi in quanto isolato
dall'altro col quale soltanto esso è concreto. Mutatis
mutandis, questo, io credo, intendeva anche Kant per trascendentalità,
e perciò diceva critica la filosofia trascendentale: la critica isolava
dall'essere, dal quale era invece inseparabile, la conoscenza." La
concretezza dunque si dissolve e diviene trascendentalità quando si
distinguono in essa i soggetti e l'Oggetto: è questo ciò che fanno su
versanti diversi ma complementari, religione e filosofia, che sono perciò
per Carabellese le due attività a priori della coscienza, e perciò
attività trascendentali, che attraverso la fede e la ragione e
rispettivamente "tentano l'Essere nelle sue profondità". La
religione parte dalla singolarità soggettiva del me e in essa trova
l'Oggetto Unico, Dio, la filosofia viceversa prende le mosse dall'altro
distinto della concretezza, l'Unico Assoluto, per giungere invece allo
sforzo infinito del soggetto che riflette sul tutto. [364] Ibidem,
p. 113. [365] Vedi Ibidem,
pp. 137-39 e pp. 209-23. [366] Ibidem, p. 256. [367] Ibidem, p. 270. Ma
vedi anche Ibidem, p. 175, p. 214 e pp. 220-21. [368] Ibidem, p. 272. [369] Ibidem, pp. 348-49. [370] Ibidem, pp. 302 sgg., pp.
427-29. [371] Idem, Che
cos'è la filosofia? cit., p. 304. [372] Idem, La
filosofia dell'esistenza di Kant cit., p. 135. [373] Cfr. Ibidem,
p. 155 e p. 173. [374] Ibidem,
pp. 490-91. [375] Idem, Che
cos'è la filosofia? cit., p. 9. [376] Ivi. [377] Ibidem,
pp. 14-15. [378] Ibidem,
pp. 19-20. [379] Ibidem,
pp. 22-23. [380] Idem, L'Essere
e il problema religioso cit., p. 137. [381] Ibidem, p. 138. [382] Ibidem, p. 148. [383] Ibidem,
p. 149. [384] Ripetiamo,
Pantaleo Carabellese, La teoria della percezione intellettiva in
Antonio Rosmini, con Prefazione di Bernardino Varisco, Edizioni
Dante Alighieri, Bari, 1907. [385] Cfr.
A. Devizzi, La critica di P. Matteo Liberatore all'ontologismo,
in AA.VV., Atti del XIV Congresso Nazionale di Filosofia cit, pp.
331-34. [386] Vedi
Bruno Morabito, Metafisica e teologia in Pantaleo Carabellese, Falzea
Editore, Reggio Calabria, 2001.
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