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Scienze Filosofiche: 100 voci di filosofia AFASIA
Il termine ha due significati, uno neurologico, a cui si riferisce
l'etimologia latina, e l'altro filosofico. In neurologia l'A è il
disturbo cerebrale consistente nell'incapacità parziale o totale di
produrre suoni linguistici dotati di senso. L'A. motoria è quella
consistente nell’incapacità di
comprendere i suoni sia propri che quelli degli altri (A. sensoriale o
di Wernicke), implicando così una difficoltà più o meno completa di
comunicazione, spesso scatenata da qualche grado di dislessìa
(incapacità di leggere) e di agrafia (incapacità di scrivere). In
qnesto senso l'A. è stata studiata anche dalla linguistica. In senso
filosofico invece, l’A. è l'atteggiamento, assunto dagli Scettici, di
astensione dal giudizio nelle questioni che, non implicando la
sensibilità, non la modificano spingendo necessariamente all'assenso o
al dissenso. Si riferisce dunque in particolare a una sospensione del
giudizio di fronte alla natura delle cose e della realtà ritenute
inconoscibili. ALCHIMIA
(arabo al-kimiya) Antichissima disciplina esoterica teorico-pratica che
afferma, e perciò studia, la corrispondenza e l'influsso tra elementi
visibili e invisibili del cosmo e del rapporto tra cosmo/natura e uomo.
In particolare essa mira, con procedure operative che nel Medioevo
arabo-cristiano hanno costituito gli albori della chimica e della fisica
sperimentali, alla trasmutazione della natura vile in essenza nobile sia
dei metalli (passaggio dal piombo all'oro) sia dell'uomo che opera tale
trasmutazione, l'alchimista, come realizzazione della loro più segreta
essenza, o natura per eccellenza, libera da corruttibilità e temporalità.
Sin dal III-IV secolo d. C. sono documentati sia in Oriente (India e
Cina) sia in Occidente (Grecia classica riferentesi a culti sacerdotali
dell'antico Egitto) studi e pratiche alchemiche con origini genetiche
probabilmente autonome ma affini. Ma è possibile che tali scritti si
riferiscano alle fasi tarde di una lunga tradizione orale che conserverà
il suo carattere esoterico di scienza sacra per pochi iniziati che la
vogliono rivelata agli uomini da un dio, o comunque con origini
extraumane. In Occidente l'A., è detta "arte ermetica", dalla
figura, mitica del primo maestro, Ermete Trismegisto, fusione del dio
egizio Thot e del greco Ermes, ed è considerata di natura ambigua e
pericolosa, come potenziale operativo e dottrinario in grado di volgere,
come ogni conoscenza di origine divina e carattere sacro, sia verso il
bene che verso il male. Secondo l'esoterismo ebraico-cristiano, le
origini dell'A. sono dovute alla rivelazione di alcuni angeli alle donne
con cui si congiunsero, o di “angeli caduti" che fecero agli
uomini dono del peccato originale (Bartolomeo da Parma, XIII secolo),
cosicché l'A. sarebbe la restituzione all'uomo della condizione
originaria di Adamo, conoscitore e padrone di molti elementi del cosmo.
In questo senso, il significato dell'A. come dottrina di redenzione e
ritorno all'Eden oscilla tra ripristino della condizione aurea
dell'umanità prima del peccato originale e reiterazione di quest'ultimo.
Nell’alto Medioevo., sia nella cultura araba, e poi in quella
cristiana (R. Bacone), l'A., conservando carattere segreto e operativo,
assunse, la veste di una filosofia della natura vera delle cose, come
loro essenza segreta, al fine di mettere in luce la circolazione
universale nella quale anche l'io è immesso, attraverso pratiche
rituali di cui tale dire è il momento centrale. Il Rinascimento, con
Paracelso e G. B. Della Porta, vide il «proliferare dei tentativi di
trasformazione della materia>>,fino a quando, con Keplero e
Gassendi, e la pubblicazione del Crimeo scettico (1660) di R. Bovie, si
ebbe, nonostante gli studi alchemici di I. Newton,
una legge sacra, di origine divina, e la divaricazione tra A. e
chimica, consistente nell'impianto razionale né occulto né rituale di
quest’ultima. AMMIRAZIONE
o MERAVÌGLIA Per l'età classica l’A. è il principio
della filosofia. Per Platone: "Questa emozione, questa A. è
propria del filosofo” (Teet.). Per Aristotele "In virtù dell'A.,
gli uomini cominciarono per la prima volta a filosofare e anche ora
filosofano (...) Colui che dubita e ammira sa di ignorare" (Met.).
Per Cartesio, che come Aristotele vede l’A. come la radice del dubbio
e della ricerca, "Quando ci si presenta qualche oggetto insolito e
che giudichiamo nuovo (...) noi lo ammiriamo e ne restiamo sorpresi; e
poiché ciò accade prima che noi sappiamo se l'oggetto ci sia utile o
meno, l’A. mi appare come la prima di tutte le passioni" (Paxsion
de l'àme). Per Spinoza l’A., che non è un'emozione primaria né
filosofica, al contrario dell’Amor Dei ìntellectualis, ossia la
contemplazione imperturbabile e beata della connessione necessaria di
tutte le cose nella Sostanza divina, è l'immaginazione di qualcosa che
la mente fissa come priva di connessione con le altre. Kant invita
all'A. nei riguardi della finalità della natura, inesplicabile per
l'intelletto, mentre per Kierkegaard è il "sentimento appassionato
del divenire", per cui il filosofo vede il passato come non
necessario. ANTISEMITISMO
(comp. dal lat. anti e dall'ebraico Sem, nome del figlio di Noè
ritenuto il progenitore degli Ebrei). Avversione nei confronti del
popolo ebraico, dovuta a pregiudizi dì carattere religioso, politico,
economico, presenti già in età classica e rinforzati dall'idea ebraica
di essere il popolo eletto dell'unico vero Dio e dalla fede nel suo
trionfo finale ad opera del Messia. Nell'età romana imperiale si ebbero
continui disordini e contese sia in Oriente che a Roma, che orientarono
la politica degli imperatori in senso sfavorevole agli Ebrei, sino alla
guerra di Giudea e alla distruzione di Gerusalemme ad opera di Tito.
Queste contese diedero il via a sanguinose repressioni in tutto
l'Oriente, dopo la caduta dell'lmpero romano con il suo senso giuridico.
L’A. dilagò anche in Occidente, aiutato dall'opera della Chiesa
cristiana: in Francia il Concilio del 541 vietò agli Ebrei di mostrarsi
in pubblico durante le festività cristiane, il Concilio Parisiense
(614) stabili la conversione forzata, il Conciliimi del 633 tolse loro i
figli per educarli cristianamente. L'età dei Comuni li vide esclusi
dalla vita politica e delle corporazioni, ma in continua espansione
economica. Nel XIX secolo, gli influssi dell'Illuminismo fecero
inizialmente cadere le mura dei ghetti ma non impedirono infine una
ripresa dell'A. (Gobineau, Essays, Paris 1855) in teorie razzistiche che
sostenevano la supremazia della razza ariana, come quelle di A. Wahrmund,
F, Delitsch e A. Stelger, che teorizzarono la necessità di un'azione
violenta. In Austria, il partito cristiano-sociale si dichiarò
antisemita, e si ebbe la pubblicazione del Protocollo degli Anziani di
Sion, "documento" apocrifo (che ebbe grande diffusione in
tutta Europa, e che poi fu sconfessato storicamente nel 1921 dal
Quotidiano Times) nel quale si "provava" un piano eversivo
degli Ebrei nei confronti degli Stati e della società. L’A. si
concretò in Europa orientale (Ungheria, Polonia, Russia, Romania) nei
posgrom, di tradizione secolare ma con esiti terribili tra la fine del
XIX secolo e la Seconda Guerra Mondiale. Quando furono appoggiati dalla
Germania. Qui non solo L’A. faceva parte del programma del partito
conservatore, ma sorse addirittura un partito antisemita, che nel 1907
ebbe quindici deputati alla Camera, cosicché gli Ebrei furono esclusi
dall'Accademia, dalle alte cariche, dai quadri militari.
L’A. tedesco aveva anche origini nazionali e ideologiche, dal
momento che ambedue i popoli si consideravano eletti. Dopo la Repubblica
di Weimar, il nazismo riprese ed esasperò I’A. tradizionale, sino
alla tristemente nota "soluzione finale". In Italia
l'influenza tedesca si fece sentire nel ventennio fascista - nonostante
la liberalità ottocentesca, espressa da C. Cattaneo in Interdizioni,
Firenze 1836, e da M. D’Azeglio in “Sull'emancipazione civile degli
Israeliti”, Firenze 1845 - sino alla promulgazione delle leggi
antisemite del 1938. Nel secondo dopoguerra, nonostante la nascita dello
Stato d'Israele (1948), che non ha messo fine alla diaspora ebraica,
nonostante la mobilitazione dell'opinione pubblica mondiale ad opera
anche delle comunicazioni di massa, che hanno attirato l'attenzione
sulla "questione ebraica"e sull'olocausto anche in seguito ai
diversi processi contro le efferatezze naziste, come quello di
Norimberga, e nonostante l'importante apertura della Chiesa cattolica
allo spirito ecumenico, documentata a partire dai Concilio Vaticano II
del 1964, l'A., seppure circoscritto, non è morto. APPARENZA
(gr. Fainomenon; lat.
Apparentia) Nella storia della filosofia occidentale l'A. è stata
intesa, secondo una scala di valore dal minore al maggiore, e secondo
significati che si sono variamente intrecciati nei diversi autori, o 1)
in contrapposizione a realtà, ossia come suo nascondimento, dovuto alla
conoscenza fallace e imperfetta dei sensi (contro quella vera
dell'intelletto), che da luogo alla doxa, o opinione, perché fondata
sul non essere, diversa per qualità e non per grado dalia verità che
si fonda sull'essere: oppure 2) in rapporto alla realtà, come sua
manifestazione o rivelazione o disvelamento, cui bisogna affidarsi perché
l’A. è immagine, simbolo, della realtà, della cui conoscenza
rappresenta, come fenomeno, il primo grado, quello immediato e anteriore
della sensibilità, contrapposto a quello mediato e posteriore
dell'intelletto, da cui differisce solo per grado; oppure ancora 3) come
unica realtà e unico fondamento della conoscenza umana, che ha come
strumento fondante la sensibilità, per cui non vi è gradualità né
contrapposizione tra conoscenza della sensazione e del pensiero o
intelletto, mentre invece viene istituita una differenza tra A.
sensibile, reale, e A. illusoria, come il sogno. Nei pensiero antico, è
Parmenide a percorrere per primo e in modo radicale la prima strada,
distinguendo nettamente tra la "via della verità" e la
"via dell'opinione" e giungendo a negare, coerentemente, il
movimento, che dell'A. è espressione per antonomasia, mentre per
Platone, che pure riconosce la relazione tra A., come realtà incerta e
sfuggente, e opinione, come conoscenza solo verosimile e probabile, il
problema è quello del rapporto tra realtà e A., la cotale diviene
simbolo e manifestazione della vera realtà delle cose, l'idea, come
loro modello. I sofisti invece, e dopo di loro gli scettici, si rifanno
al terzo significato del termine, considerando l'A. il criterio della
verità, perché la conoscenza umana è A. soggettiva. Infine
Aristotele, che rifiuta l'un estremo come l'altro, riprende il complesso
problema del rapporto tra A. e realtà, stabilendo che ogni conoscenza
scientifica e razionale muove sempre dall'A, delle cose come dal suo
primo gradino, per poi risalire alle cause. Nel Medioevo, il pensiero
cristiano in generale, riprendendo Piatone attraverso il neoplatonismo,
radicatizza in senso teologico il significato di A. come rivelazione o
disvelamento di un mondo intellegibile, considerandola manifestazione di
Dio, o teofania, come in Scoto Eriugena. Col pensiero moderno ridiviene
centrale il tema del valore della conoscenza umana, stimolato anche
dagli sviluppi delle scienze (si pensi ad es. al problema dei
"movimenti apparenti" degli astri): soprattutto l'empirismo,
con Hobbes. e il meccanicismo distinguono ormai tra percezioni illusone
e reali, e tra qualità soggettive e quantità oggettive, dando all'A.
il valore di realtà, e chiudendo la conoscenza umana, così
relativizzata, nel suo orizzonte. Lo sforzo di Kant sarà quello di
opporsi allo scetticismo e al relativismo pur limitando la conoscenza a
esperienza di fenomeni, e quindi fondandola sull’A. Ma questa, come
Erscheinung. viene radicalmente distinta dalla parvenza, o Schein. Hegel
intenderà l'Erscheinung non più in senso soggettivistico, come limite
umano della conoscenza, ma oggettivistico, come manifestarsi
dell'essenza nella sua immediatezza, dal momento che non c'è realtà
che non appaia.Tra i contemporanei, è la fenomenologia di Husserl, e
poi Heidegger, a dare risalto, sebbene in senso diverso, a questo
significato di A. come rivelazione di essenze. APPRENDIMENTO
(lat. da ad-prehendere) Nella conoscenza umana,
l’acquisizione esperienziale di cognizioni dì ordine teorico e
pratico che mettono in gioco l'intelligenza e la creatività
(apprendimento cognitivo). Il concetto è antichissimo, e come forma dì
associazione è ripreso da Platone, che lo introduce nella sua teoria
dell'anamnesi per cui tutto il ricercare e l'apprendere non sono altro
che reminiscenza, dal momento che basta aver appreso una nozione che
tutte le altre ad essa collegate scaturiscono per associazione. Nel
XVIII secolo Herbart darà lo stesso significato di associazione, seppur
esautorato del concetto di anamnesi, al concetto di appercezione, per
cui una "massa di rappresentazioni" ne accoglie una nuova ad
esse connessa. Ma è Wundt che, alla fine del XIX secolo e con l'inizio
del XX, segna l'ingresso del concetto in psicologia, e la sua
trasformazione nel senso del meccanicismo psicofisico cui si è
assistito nella psicologia contemporanea, dove il termine è divenuto
centrale, a partire dalle numerose ricerche sperimentali di Pavlov e V.
Bechterev sul condizionamento rispondente (stimolo-risposta) di inìzio
secolo, a finire alle ricadute didattico-operative, con le vere e
proprie rivoluzioni in questo campo come le "macchine per
insegnare" di Skinner, e a quelle neurofisiologiche e biochimiche,
che ne scoprono le modificazioni sul cervello. A cavallo del secolo,
Thorndike, dai suoi studi sperimentali prima sugli animali e poi
sull'uomo, basati sull'associazione, dedusse che l’A. è un processo
di "prova e riprova", per cui il comportamento iniziale è una
reazione casuale, ma essa viene ripetuta se dà buon esito, e così
viene appresa, eliminando le altre, e che è rafforzata se è seguita da
un premio ("legge dell'effetto''). L'approccio meccanicistico della
psicologia comportamentista contemporanea, coadiuvata dalle paraìlelle
ricerche di etologia, ha prodotto una gran quantità di ricerche
sperimentali che misero in luce gli aspetti comuni a tutti gli organismi
viventi dotati di un sistema nervoso, seppure elementare, distinguendo
due estremi dell'A. tra cui si situa tutta una serie di gradi intermedi:
l’A. meccanico e, appunto, l’A. cognitivo, che secondo i
comportamentisti sono le chiavi per spiegare tutto il comportamento
umano e animale, dalle sue espressioni più "semplici", come
le emozioni, sino a quelle più complesse, come i comportamenti
linguistici e simbolici. Il capostipite della Gestaltspsychologie,
Wertheimer, applicò all’A., i principi olistici della sua
scuola nel classico Productive Thinking del 1945), opponendosi
all'associazionismo e al meccanicismo. ASSOCIAZIONE
Il termine è ripreso con altri presupposti da Jung, per far affiorare, in
un quadro solo apparentemente irrazionale e illogico, gli elementi
psichici profondi del paziente, aggirando e portando alla luce le sue
difese conscie e inconscie, per poi analizzarle. Il termine, considerato
di importanza essenziale, è la "regola fondamentale"
dell'approccio freudiano, a cui il paziente deve attenersi durante le
sedute, e consiste nel far fluire, senza alcun controllo o censura da
parte del soggetto, le immagini mentali e i significati loro associati
in modo libero e spontaneo. In queste A., si può partire da un elemento
anch'esso libero, da cui poi far iniziare la catena di A., oppure da un
elemento stabilito, che in questo caso può essere, per i freudiani
un’immagine onirica, per altri, come ad es. gli junghiani, una parola induttrice. ASSOLUTISMO:
il termine, che significa libero da ogni rapporto indipendente, indica
in senso stretto ogni teoria o filosofia politica, o pratica, che vi si
ispiri, e fu introdotto da Papa Gregorio VII e poi da Bonifacio VIII,
per cui il Papa, come rappresentante di Dio sulla Terra, ha sovranità
assoluta su tutti gli uomini, compresi re e imperatori, e da cui si
originò nel Medioevo la lotta per le investiture. Vi è, oltre all’A.
papale, l’A. monarchico del XVII secolo, teorizzato da Hobbes e
ripreso praticamente nel XVIII secolo; e anche l'A. democratico,
introdotto da J. J. Rousseau nel “Contratto sociale” e ripreso da
Marx e dai teorici dei marxismo come "dittatura dei
proletariato". ATEISMO
Posizione che rifiuta la presenza di Dio o di altre entità come
"realtà trascendente, e soprattutto la sua causalità in ordine
all'universo”, che può anche riconoscere solo tale presenza. Nel
pensiero teorico antico (i sofisti e Protagora), l'esistenza degli déi
è emarginata, e Epicuro invita a vivere come se essi non ci fossero.
Platone per primo, nella storia delia filosofia, liberò il problema
dalla sua confutazione distinguendo tre forme di posizioni nei confronti
del trascendente: 1) negazione della divinità; 2) credenza nella sua
indifferenza (Epicuro); 3) credenza nella possibilità di influire su di
essa con offerte. La prima forma si accompagna con il materialismo, e
consiste nell'idea che la materia, causa del mondo,
sìa il suo fondamento (ad es. acqua, aria, terra o fuoco come
principi e origine delle cose secondo gli ilozoisti). Per la seconda
forma di A., Platone argomenta che attribuire alla divinità
l'indifferenza equivale a considerarla inferiore al più indolente
mortale. La terza forma, la più negativa, abbassa le divinità al
livello delle bestie, che si comprano con un dono, e, per evitare tale
mercificazione, Platone vorrebbe offerte solo pubbliche e rituali
Dunque, l’unica forma di A. filosofico consentito da Platone è la
prima. Mentre nel
Medioevo, fondamentalmente cristiano, l'A. non è documentato, nel
Rinascimento se ne trovano tracce, ma è soprattutto con il darwinismo
che esso ricompare, come materialismo che nega a Dio la causalità (La
Mettrie, Helvètius, d'Holbac), cui si oppone Berkeley affermando l'immaterialismo,
ossia l'irrealtà della materia, poiché altrimenti Dio sarebbe inutile
ed essa sarebbe la causa di tutto. Nel XIX secolo anche i materialisti
Buchner e Heckel negano Dio come causa, mentre la sinistra hegeliana (Feuerbach,
Marx e i seguaci del positivismo di Comte) negano la presenza di Dio.
Altre forme di A. filosofico sono a) lo scetticismo, b) panteismo, c)
pessimismo., d) agnosticismo. a) Lo scetticismo, derivato dal pensiero
dell'antico Caneade di Cirene, poi del moderno Hume, si incentra sulla
debolezza delle prove dell’esistenza di Dio per togliere valore
filosofico all'argomento, e dunque alla disputa tra A. e non A. b) Il panteismo, più che professarsi ateo, è accusato di A.
perché, identificando Dio col mondo (ad es. il Deus sive Natura di
Spinoza), rischia di finire nel materialismo, o comunque di identificare
o far coincidere creatore e creatura. c) Alcune forme di pessimismo sono
A. professato, come quella di Schopenhauer, che attribuisce il male e
l'infelicità del mondo all'assenza di Dio, sia come persona, sia
impersonale. Nell’età contemporanea, Sartre afferma l’A., a partire
non tanto dal materialismo quanto dall'ambiguità radicale dell’uomo,
che nella sua libertà si progetta come Dio, e la cui esistenza è
destinata, in quanto gettata nel mondo, allo scacco d) Diffusissimo nel
mondo contemporaneo, dove l’A. perde il suo connotato negativo di
derivazione dalla presunta norma teista, è l'agnosticismo, ossia la
posizione di chi si astiene dal pronunciarsi, perché non sa,
considerata dal neopositivismo e, dal marxismo condizione essenziale ner
un nuovo umanesimo storico, che sottragga l'uomo all'alienazione AUTORITÀ
(lat. autorictas) Oualsiasi potere di controllo di opinioni o
comportamenti, anche non politico, di un individuo, gruppo,
organizzazione o istituzione su un altro, che poggi su una o più qualità
riconosciute, cui gli individui si assoggettano consensualmente o meno.
Il problema filosofico dell'A. è nella sua giustificazione, cioè nel
criterio che ne decide la validità, determinata dal suo fondamento,
individuato, nel corso della storia, in 1) la natura; 2) la divinità;
3) il consenso, 1) Platone divide l'umanità in due classi diverse per
natura, dei migliori, tendenti per natura alla verità, destinati a
governare, i filosofi (Hegel), e della maggioranza degli uomini,
incapaci di divenire filosofi, perciò destinati a essere governati (Rep.
VI. 484-486). Per Aristotele "La natura stessa ha offerto un
criterio discriminativo". 2) La dottrina che fa risalire l’A.
alla divinità, esposta da S. Paolo, è rimasta fondamentale per la
Chiesa cristiana come base del suo potere temporale e della sacralità
della corona sino ai moderni stati nazionali occidentali, laici:
"Non c'è potestà se non da Dio; e quelle che sono, sono ordinate
da Dio. Perciò chi resiste alla potestà resiste all'ordinazione di
Dio; e quelli che resistono acquistano la loro dannazione." (Ep.
Ad Rom. XIII).
Tale concetto - per Hegel lo Stato è "la realizzazione della
libertà" o "l'ingresso di Dio nel mondo" - offre il
destro per giustificare ogni A. de facto, confondendo idealità e realtà
storica, e forza. 3) Della teoria del consenso, nata con lo Stoicismo,
è Cicerone il primo grande espositore: essendo tutti gli uomini per
natura uguali e liberi nella ragione, la vera legge, principio dell'A.
è la volontà comune. Nel Medioevo, Marsilio da Padova già anticipa
l'idea di un'assemblea generale a maggioranza come "prima e
effettiva causa efficiente della legge" (Defensor pacis, I, 12, 3)
e Nicola da Cusa di un'"armonia e consenso dei sudditi" sia
nella legge che nel suo rappresentante (De Concordantia catholica, II,
14). Nell'età moderna, Machiavelli (Il Principe) e Hobbes (Il Leviatano)
vedono l’A. come insieme delle prerogative socio-giuridiche che
consentono l'esercizio del potere. All'assolutismo hobbesiano di
un'autorità statale incondizionata come controllo istituzionale sui
naturali conflitti sociali, Locke contrappone (in: Due Trattati sul
governo) per primo la visione costituzionale e liberale dell’A., che
influenzerà l'illuminismo e il liberalismo fino a Costant, basata
sull'idea giusnaturalistica che libertà e uguaglianza formali sono
diritti originati e naturali dell'uomo, a fondamento dell'A., e la
condizionano. Rousseau oppone (Contratto sociale) all'assolutismo il
contrattualismo: l’A., non più sovraordinata ai cittadini, è
espressione della "volontà generale". Nel XIX secolo Hegel e
Comte vedono nell'A. la guida del progresso umano, ma in Marx l’A. è
il dominio sulla classe operaia, solo formalmente e giuridicamente
libera, determinato dal sistema capitalistico. Durkheim sottolineerà
(Divisione del lavoro sociale) la necessità, in una società a
"solidarietà organica", portato della divisione del lavoro,
di un'A. sempre meno centralizzata e affidata a regole di funzionamento
complessivo. Per Weber (Economia e società) l'aumento della razionalità
sociale, disciplinata amministrativamente, postula quello dell'A., di
cui distingue tre tipi puri: a) legale, legittimata da un sistema di
leggi formali stabilite; b) tradizionale, dalla tradizione; e c)
carismatica, da qualità straordinarie e intrinseche del capo, che
rendono il suo operato simile a una missione.
CALVINISMO
Fondamento della costituzione ecclesiastica del C. è l'autorità dei
pastori e dei dodici anziani (presbiteri) che costituivano il concistoro
(vigilante sulla vita religiosa, civile e morale dei fedeli), dei
diaconi per l'assistenza a poveri e malati e dei dottori per
l'insegnamento. La liturgia, di austera semplicità, non prevedeva il
suono dell'organo ma solo il canto grave e solenne dei salmi, e
rifiutava le cerimonie fastose, i paramenti sacerdotali, gli ornamenti
pittorici e le sculture. Tale severità si esprimeva anche nella vita
civile, data la dimensione politica della fede, con la proibizione e la
punizione anche corporale di ballo, gioco, banchetti, feste, teatro,
lusso in genere (anche nell'abbigliamento) e dell'assenza alle riunioni
del culto, colpita anche con la scomunica. Per dissidenti ed eretici era
previsto anche il rogo. Tipica del C., l'etica del lavoro inteso come
vocazione religiosa, che Weber riconobbe poi come forte impulso allo
sviluppo del capitalismo per il grande dinamismo che comportava nella
vita polìtico-sociale ed economica, intesa come campo della
santificazione del cristiano. L'autorità statale è vista come mezzo
per la diffusione del Vangelo, e non più riconosciuta e anche
combattuta con le armi in caso di opposizione ad esso (guerre di
religione di olandesi, inglesi, scozzesi contro i loro re). Sul piano
dottrinario, Calvino accolse e ripensò i grandi terni della teologia
luterana: la Scrittura come unica norma in materia dì fede e morale,
dal cui punto di vista il C. giudica anche le altre Chiese cristiane,
compresa quella di Roma, la radicale corruzione dell'uomo privo del
libero arbitrio, la salvezza per grazia mediante la fede, che si unisce
nel C. con il riconoscimento della sovranità assoluta di Dìo. dando
vita alla dottrina della predestinazione, tipica del C., secondo cui gli
uomini non sono creati eguali, e salvezza e dannazione sono un dono
insondabile della libera volontà di Dio. Sulla dottrina della
predestinazione in rapporto alla libertà dell'uomo si aprirono vivaci
controversie teologiche, tra cui prevalse quella che la riteneva
precedente alla creazione e al peccato originale. In Questo senso, la
chiesa è per Calvino "la società dei fedeli che Dio ha
predestinato alla vita eterna", racchiudendo sia i fedeli attuali,
sia tutti gli eletti sin dall'origine del mondo, e la comunità dei
santi, ossia dei predestinati, si riconosce per alcuni segni: fede,
desiderio di partecipare alia santa cena, che, come per Lutero, non è
sacrificio di propiziazione della chiesa a Dio, ma dono di Dio al suo
popolo, e rettitudine della vita, dal momento che la dottrina della
elezione impegna ii credente ad agire assolvendo i comandamenti di Dio
come segno visìbile della predestinazione alla salvezza. CANONE
(f.sr. kanàn) 11 termine ha due significati, uno religioso. l'altro
filosofico. Nel ristretto senso religioso, il C è il complesso
ufficiale dei libri sacri, in quanto ìscirati e dunque normativi. La
fissazione del C, determina perciò automaticamente .ali apocrifi, libri
a cui tale ispirazione non viene riconosciuta il cattolicesimo, per ù
quale la Sacra Scrittura è come si sa l'Antico e il Nuovo Testamento
(Bibbia), lo definì nel Concilio di Trento nel 1546. comprendendo nel
Pentateuco anche il Deuteronomio, escluso dai riformatori. Per il
giudaismo, il C, fu fissato dal sinodo rabbinico di Jaune (11 secolo d,
C.) Il termine è usato anche per il Tipitaka. i libri sacri del
buddismo In senso filosofico. il termine, introdotto dallo scultore
Policleto, vuoi dire criterio o resola di scelta per un oualsiasi campo
teoretico o pratico Epicuro disse canonica la scienza de! criterio, il
quale è per lui. in carneo teoretico, la sensazione, in campo pratico,
il BÌacere. Nel XVIII secolo, ripreso dai matematici, il termine
esprime in Leibniz "le formule .generali che danno ciò che si
domanda" (Math, Schriflcn, Vili, 217). mentre poi in Stuart Mili
designa le regole esprimenti i quattro metodi della ricerca
sperimentale, concordanza, differenza, dei residui e delle variazioni
concomitanti {Logic. II. 8) Ma è Kant a farne largo impiego, intendendo
per C. il retto uso di una facoltà umana in generale, per cui ove tale
retto uso non è possibile «on c'è C,, come per es. nella dialettica
trascendentale, o uso speculativo della raeione. dove è possibile solo
un C, pratico, ma non teoretico. Cosi la logica è il C. per
l'intelletto e la ragione rispetto alla forma, cioè senza riguardo per
il contenuto, da cui prescinde, e l'analitica trascendentale è il
C.dell'intelletto puro (Crii, R, Pura, Dottr. del metodo, II). Vi è per
lui anche un C. del giudizio morale, secondo la formula "Si deve
poter volere che la massima della nostra azione diventi lesse
universale" f(>?*m#e.e«»e zur Mcth. dar Sitten, IO, Nella
filosofia moderaa e contemporanea, al suo posto è adottato in genere
"criterio", ma C designa ancora in Devvev i principi logici di
identità, di contraddizione e del terzo escluso (Logic, XVIID, CATARSI
La liberazione da ciò che è estraneo all'essenza. Termine di origine
medica, che significa "purga". Per Platone, nel quale la C. ha
un significato metafisico e morale come in primis liberazione dai
piaceri (Fed.) e in secundis liberazione dell'anima dal corpo come
separarsi dell'anima dal corpo già nella vita prima di quella
separazione totale che è la morte (Ibid., 67 e), e che ricorda
l'esistenza di libri di Museo e Orfeo secondo i quali "gli adepti
celebrano sacrifici persuadendo non solo privati ma anche città che ci
sono assoluzioni e purificazioni dagli atti ingiusti per via di
sacrifici e di giochi piacevoli, sia per i vivi che per i morti",
la C. è "quella discriminazione che conserva il meglio e rigetta
il peggio" (Sof.). Empedocle chiamò Purificazioni uno dei suoi
poemi ispirato appunto all'orfismo. Plotino insisterà sul platonico
separarsi dell'anima dal corpo mediante la virtù che rende impassibili
facendo sì che l'anima si raccolga in se stessa (Enn.). Aristotele
diede al termine C. il significato medico negli scritti di storia
naturale, e per primo lo considerò un fenomeno estetico, quella specie
di liberazione attraverso la poesia, il dramma, la musica, e a proposito
di quest'ultima osserva che alcuni, fortemente scossi da emozioni come
pietà, paura, entusiasmo, se odono canti sacri che impressionano
l'anima "si trovano nelle condizioni di chi è stato risanato o
purificato". Goethe, la cui interpretazione della C. estetica è
prevalente sulle altre, che danno tutte in epoca moderna al termine C.
funzione liberatrice nell'arte, la considera l'equilibrio delle emozioni
che l'arte tragica, dopo aver eccitate queste ultime, dà, permettendo
serenità e pacificazione. Freud, che ha chiamato C. il processo di
sublimazione della libido, cui sono dovuti tutti i progressi della vita
sociale e civile in tutti i campi, ha sostituito il metodo catartico,
utilizzato agli inizi della psicoanalisi (1880-85) come metodo
psicoterapeutico (in particolare per l'isteria) per cui il paziente che
rievoca e rivive attraverso il ricordo e la parola eventi traumatici
abreagisce ad essi liberando gli affetti e separandoli dalla patologia,
con il metodo delle associazioni libere (vedi). CHIAREZZA
Insieme a "distinzione", i due gradi dell'evidenza soggettiva
secondo Cartesio. Il termine è ripreso da Locke, ma è con Leibniz che
si precisa come "chiara" la nozione che consente di discernere
la cosa rappresentata, in opposizione alla "oscura" che non lo
consente. La distinzione è viceversa la composizione delle
rappresentazioni. Soltanto quest'ultima può far si che una somma di
rappresentazioni diventi una conoscenza nella quale venga pensato
l'ordine della molteplicità. La filosofia contemporanea è tornata
all'antico concetto soggettivìstico di evidenza, anche se Husserl
chiama C. la coscienza a cui l’oggetto è dato "puramente in se
stesso, esattamente qual è in se stesso". CLASSICISMO
(dal tot. cf<w.wcw-v=dassico!l Per classico si intende, nella tarda
latinità, ciò che è eccellente nella sua classe o appartiene a una
classe eccellente, specie militare, ma la parola nel corso dei secoli ha
assunto tre connotazioni diverse: di opera o individuo appartenente a
una cultura superiore; in arte, di cosa o individuo facente parte
dell'antichità classica, intesa come perfezione perduta o da far
rivivere; come stile artistico, ciò che è dotato di proporzione,
ecmilibrio formale, armonia, perfezione, come nell'età classica. In
tutti e tre i sensi la parola è assunta dal Romanticismo, ove il C. è
assurto, come atteggiamento culturale, a stile e modo di vita, inteso
come attribuzione all'antichità classica, in specie .ereca, valore di
modello esemplare di arte e pensiero. Ma il C. ebbe i suoi momenti
culminanti anche nell'Italia dell'Umanesimo e del Rinascimento, ove
fiorirono un'attenta filologia e una trattatistica normativa sull'età
classica in vista non solo di una sua riscoperta ma anche di una sua
rinascita fissata in risidi canoni, e nella Francia del Seicento, ove i
valori estetici dell'età classica, ripresi dal razionalismo
cinquecentesco di ispirazione aristotelica, sono considerati unici e
immutabili, come espressione del vero e del bello, e acquistano un
carattere fortemente normativo, contro ogni consapevolezza storica,
influenzando tutto il secolo successivo, come sistema di valori e
espressione artistica e culturale della monarchia assoluta in tutta
Europa. fl Romanticismo tedesco, e fiiosofico e storiografico e
pedagogico, con la sua consapevolezza storica dell'individualità e
irripetibilità delle diverse epoche storielle, riterrà
irrimediabilmente perduto Quell'ideale di perfezione raggiunto dai
greci, considerando la storia posteriore come decadenza e corruzione,
come per W. von Humboldt. F, Schiller. e soprattutto per J, J,
Winckelmann. la cui Storia dell'arte dell'antichità (1764) è il testo
fondamentale del C, Anche He.ee! riconosce valore esemplare, ma ormai
definitivamente perduto nella storia dello Spirito, all'antichità
classica areca, come compiuta unificazione del contenuto ideale e della
forma sensibile. La perfezione è raggiunta nel momento in cui la forma
sensibile è trasfigurata dall'artista, sottratta alla finitudine e resa
perfettamente conforme all'infinità del Concetto, ossia dello Spirito
autocosciente, di modo che la bellezza non è più corporea e
esteriorizzata, ma puramente spirituale, in Quanto bellezza
dell'interiorità, della soggettività infinita in se stessa (Vorlesumvn
uber die Aesthelik. ediz. Glockner, II. P, 109 saa.ì. Una prima
reazione all'impostazione del C. si ebbe con ?.. Nietzsche. che in
Nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872). proponendo una
nuova visione della classicità, e correlativamente un nuovo concetto di
decadenza, distinse tra originario spirito dionisiaco della prima .grecita,
impulso irrazionale che esprime nella musica la caoticità
itteseimentabile della vita, e spirito apollineo, proprio della reazione
difensiva alla decadenza della tarda classicità, che si esprime nella
scultura, ambedue composti nella grande tragedia .greca di Eschilo e
Sofocle. che. come forma suprema dell'arte, è la sintesi di breve
durata dei due impulsi uccisa dal razionalismo ottimistico di Euripide, CLASSICO/ISMO
Per classico si intende, nella tarda latinità, ciò che è eccellente
nella sua classe o appartiene a una classe eccellente, specie militare,
ma la parola nel corso dei secoli ha assunto tre connotazioni diverse:
a) di opera o individuo appartenente a una cultura superiore; b) in
arte, di cosa o individuo facente parte dell'antichità classica, intesa
come perfezione perduta o da far rivivere; c) come stile artistico, ciò
che è dotato di proporzione, equilibrio formale, armonia, perfezione,
come nell'età classica. In tutti e tre i sensi la parola è assunta dal
Romanticismo, ove il C. è assunto, come atteggiamento culturale, a
stile e modo di vita, inteso come attribuzione all'antichità classica,
in specie greca, valore di modello esemplare di arte e pensiero. Ma il
C. ebbe i suoi momenti culminanti anche nell'Italia dell'Umanesimo e del
Rinascimento, ove fiorirono un'attenta filologia e una trattatistica
normativa sull'età classica in vista non solo di una sua riscoperta ma
anche di una sua rinascita fissata in rigidi canoni, e nella Francia del
Seicento, ove i valori estetici dell'età classica, ripresi dal
razionalismo cinquecentesco di ispirazione aristotelica, sono
considerati unici e immutabili, come espressione del vero e del bello, e
acquistano un carattere fortemente normativo, contro la di loro
consapevolezza storica, influenzando tutto il secolo successivo, come
sistema di valori e espressione artistica e culturale della monarchia
assoluta in tutta Europa. Il Romanticismo tedesco, e filosofico e
storiografico e pedagogico, con la sua consapevolezza storica
dell'individualità e irripetibilità delle diverse epoche storiche,
riterrà irrimediabilmente perduto quell'ideale di perfezione raggiunto
dai greci considerando la storia posteriore come decadenza e corruzione,
come per W. von Humboldt, F. Schiller, e soprattutto per
Winckelmann, la cui Storia dell'arte dell'antichità è il testo
fondamentale del C. Anche Hegel riconosce valore esemplare, ma ormai
definitivamente perduto nella storia dello Spirito, all'antichità
classica greca, come compiuta unificazione del contenuto ideale e della
forma sensibile. La perfezione è raggiunta nel momento in cui la forma
sensibile è trasfigurata dall'artista, sottratta alia finitudine e resa
perfettamente conforme all'infinità del Concetto, ossia dello Spirito
autocosciente, di modo che la bellezza non è più corporea e
esteriorizzata, ma puramente spirituale, in quanto bellezza
dell'interiorità, della soggettività infinita in se stessa. Una prima
reazione all'impostazione del C. si ebbe con F. Nietzsche, che in
Nascita della tragedia, proponendo una nuova visione della classicità,
e correlativamente un nuovo concetto di decadenza, distinse tra
originario spirito dionisiaco della prima grecità, impulso irrazionale
che esprime nella musica la caoticità irreggimentabile della vita, e
spirito apollineo, proprio della reazione difensiva alla decadenza della
tarda classicità, che si esprime nella scultura, ambedue composti nella
grande tragedia greca di Eschilo e Sofocle, che, come forma suprema
dell'arte, è la sintesi di breve durata dei due impulsi distrutta dal
razionalismo ottimistico di Euripide. CONATUS
(lat. impulso, sforzo) Nel Rinascimento, è l'istinto stoico come
tendenza all'autoconservazione. Ma il termine si riferisce alla
filosofia di Spinoza, che vi diede il significato classico per cui
"lo sforzo di conservarsi è la stessa essenza della cosa" ,
che si chiama volontà quando si riferisce alla sola mente; quando si
riferisce insieme alla mente e al corpo si chiama appetito, il quale
perciò è l'essenza stessa: Analogo
il senso in Vico, per il quale "La natura cominciò ad
esistere per un atto di C.: in altri termini, il C. è la natura (come
anche le Scuole dicono) in fieri, in procinto di giungere
all'esistenza" Diverso invece il C. in Hobbes, per il quale il C.
è il movimento istantaneo, "il movimento in uno spazio e tempo
minore di ogni spazio e tempo dato"; Leibniz, che inizialmente
diede il significato per cui il C. sta al movimento come il punto sta
allo spazio, cioè come l’unità all'infinito è l'inizio o la fine
del movimento" (Hypothesìs Physica Nova, 1671, Op., ed. Gerhardt),
in seguito intende per C. la forza attiva, ossia l'energia cui egli
ridusse la materia. "La forza attiva, che si suole anche dire
senz'altro forza, non è da concepirsi come la semplice potenza volgare
della scuola, cioè come una ricettività di azione, ma implica un C.,
cioè «una tendenza all'azione, cosicché, se non c'è impedimento, ne
deriva l'azione" (Mathematische Scriften. Ed. Gerhardt). Wolff
attribuì al termine questo significato. COSMOGONIA
La C., in senso ellenico è l'atto grazie al quale l'universo fu
ordinato, e, a differenza della maggioranza delle sacre dottrine
religiose, distingue tra l’istante dell’origine prima della materia
e quello del suo ordinamento. I sistemi teologici ad alto livello
intellettuale, che si ricollegano alle nozioni cosmogoniche primordiali,
considerano lo spazio oscuro e infinito esistente nel cosmo come eterna
potenzialità creativa e detrazione volontaria e libera della divinità.
Oggi si intende comunemente con C. la varietà delle dottrine, a
carattere mitologico-religioso, sull’origine del cosmo, che
differiscono dalle cosmologìe per la mancanza di carattere filosofico
(ma dai maggiori pensatori dell'antichità, come Anassagora, Platone,
Aristotele, Cicerone,, Lucrezio, e, nell’età moderna, come Bacone,
Cartesio, Leibniz, Kant, furono elaborate teorie cosmogoniche) e
scientifico-naturale in senso moderno (ma in astronomia si intende per
C. l'insieme delle teorie e delle ipotesi avanzate per comprendere
l'origine dell’universo fisico, ed è da ricordare i'immagine
schematica proposta da Weizsacker). Ma Kant intende per cosmologìa
razionale l'insieme dei problemi sull'origine e l'essenza del mondo,
considerato come realtà noumenica e non come fenomeno. Diffuse in
diverse aree culturali le C. si incentrano tutte su divinità o
demiurghi, semidei, aiutanti o uomini, increati o autocreati, che creano
l'universo dal nulla o da realtà preesistenti. In questo senso, la
creazione nella Genesi biblica può essere vista come una C. Esiodo,
nella Teogonia, vede alle origini la coppia cielo-maschio, Urano, e
terra-femmina, Gea. "Nella tradizione omerica, all'origine
dell'universo vi è Oceano, non si sa se dio o elemento indifferenziato.
Diffusissima, dalla Polinesia alla Grecia classica, la C. che individua
nell'uovo la forma, originaria, come nell'orfìsmo. COSMOPOLITISMO almeno il saaato. come cittadino del mondo, al di là delle
divisioni politiche e culturali, e che perciò tende a una loro 2.£-353»arsa.
NeWarsticistà classica, i C-ànici e gS Stoici lesero a sseste ideale:
oltre 3 Biogene il Cinico, che rispose a eia-ali chiedeva la sua
provenienza di essere "cosmopolita". Zenone:
"Consideriamo tutti gli uomini connazionali e jBBcmatiini; sia una
la vita e ii Biondo come \m sits.setetto «nito, aSSevato cosi ana tesse
comune" fPkrt., Ite J/CT, VJA, 1, 6, 329). Nell'età moderna, il
C., non diverso dall'universalismo religioso, fu propugnato, oltre che
da Leibntz e Mì'ffiximinismo. éa Kant. che So considera un principio
resoiativo del progresso della società wmana verso l'integrazione
universale, e perciò come "il destino del genere umano,
giustificato da una tendenza naturale in tal senso" (Antr., II e).
Matti, ne5S'.4??wro Testamento, l'Eterno dice: "Vi sarà una sola
lesse per tutta l'assemblea, per voi e per lo straniero che soggiorna
tra voi; sarà una legge perpetua, di generazione in generazione; come
siete voi, cosi sarà lo straniero davanti riS'Eterno. Ci sarà una
stessa lesse e «rio stesso diritto per voi e per lo straniero che
soggiorna da voi." {Bibbia. Antico Testamento, Numeri, XV;4l-49>. CRISTOLOGÌA
(da Cristo: appellativo di sovrani eletti da Dio) Nella teologia
cristiana, la razionalizzazione o riflessione sistematica sulla vita e
sulla persona storica neotestamentaria di Gesù, appellato Cristo. Nella
Scrittura sono presenti sia affermazioni ontologiche (natura o essenza)
relative all'essere Gesù, sulla sua incarnazione come parola di Dio
(Verbo) e sapienza, sia affermazioni sul suo ruolo nella storia (Messìa,
Redentore, Salvatore) come mediazione tra Dio e l'uomo, quest'ultima
funzione di origine più antica e influenzata dalla cultura greca. Il
dibattito teologico trova un argine nelle norme conciliari; il Concilio
di Nicea (325 d. C.) afferma, contro l'arianesimo, la consustanzialità
del Padre e del Figlio, il Concilio di Efeso (431) afferma, contro il
nestorianesimo, che Gesù è Dio, identificando e non facendo coincidere
divinità e umanità di Cristo, mentre ii Concilio di Calcedonia
respingerà questo radicale monofisismo delle due nature,
contrapponendogli, a causa dell'incarnazione, l'essere Cristo una ipòstasi
(lat. substantia), ossia persona, in quanto dotata di consistenza al di
là del fluire fenomenico - in due nature. Ma il monofisismo rimarrà
presente in Oriente sino al III Concilio di Costantinopoli (680). Nella
teologia cattolica, la Scolastica tuttora si interroga sulla persona e
la coscienza di Cristo. La riforma, in tutte le sue varie linee,
concentrò la sua attenzione più che sul Deus in sé sul Deus pro nobis,
proponendo una C. della kenosìs, ossia dello svuotamento come rinuncia
volontaria di Dio alla trascendenza nell'incarnazione. Nel XX secolo, la
teologia liberale e ii modernismo propongono una lettura di Cristo come
profeta escatologico, mentre la teologia dialettica, o della crisi,
soprattutto di Barth. vi oppone la riaffermazione critica di Cristo come
Verbo che parla agli uomini, e la teologia russo-ortodossa integra la C.
nella sofiologia. che vede la Chiesa come progressiva rivelazione e
incarnazione storica dell”'unità prodotta dal divino organismo di
Cristo". Tutte oueste varie posizioni, attentamente vagliate dalla
teologia cattolica, costituiscono per la sua scolastica motivo di
ripensamento per la realizzazione della Chiesa universale, secondo il
dettato veterotestamentario {Bibbia, Antico Testamento, Num,, XV;41-49) CRITICA/CRITICISMO:
(gr. krino=distinguo, giudico; lat. critica ratio=le norme della
critica) Col termine Criticismo si intende indicare la filosofia di Kant
così come essa si è venuta definendo in quanto critica della ragione
(pura e pratica, in altri termini teoretica e morale) e del giudizio,
ossia in quanto ricerca e definizione delle possibilità e dei limiti
della ragione (umana).Kant intendeva dare una fondazione alla ragione
che distinguesse la filosofia, nell'impostazione nuova che di lì in poi
essa avrà, sia dalla psicologia come scienza de facto che si occupa
dell'origine e dello sviluppo della conoscenza e in genere dell'attività
umana, e che perciò è diversa dalla filosofia come scienza de jure,
ossia concernente la validità e le condizioni di quella stessa
conoscenza e attività umana, sia soprattutto dalla metafisica così
come si presentava ai suoi occhi sino ai suoi tempi. E intendeva pure
gettare le basi per uno sviluppo della filosofia posteriore che, tenendo
conto di possibilità e limiti della ragione nella sua trascendentalità,
fosse anche propedeutico - e qui è l'ideale illuministico di Kant vivo
ancor oggi - ad un reale progresso della scienza come campo di indagine
e di applicazione dell'esperienza possibile. Il termine Critica fu
quindi introdotto da Kant, ma costituiva già prima un ideale ispiratore
dell'Illuminismo ed ebbe un suo antecedente nel "Saggio
sull'intelletto umano" di Locke, teso, come si dice nell'Epistola
al lettore che fa da premessa, a "esaminare le capacità proprie
dell'uomo e vedere quali oggetti il suo intelletto sia o non sia capace
di considerare", anche se, come si vede, qui si parla di intelletto
e non di ragione. Questo approccio critico fu poi giudicato
negativamente da Hegel neH"'Enciclopedia", che lo interpretò
in modo riduttivo come impossibile disamina della ragione su se stessa
prima di qualunque conoscenza, invece che come indagine basata
sull'operare effettivo della ragione, cosa che tra l'altro ne segna
semmai il limite storico, determinato in particolare in campo estetico
dall'apparire delle geometrie non euclidee di fine Ottocento, che
riducevano di fatto l'esaustività della trattazione kantiana dello
spazio e del tempo. Il termine Criticismo è stato infatti ripreso in
Europa in ambito inizialmente e principalmente tedesco tra la fine del
XIX e l'inizio del XX secolo con il prefisso neo, per indicare un doppio
filone di ricerca, scisso nelle due scuole di Marburgo e del Baden e
detto anche neokantismo, che partisse da quel "ritorno a Kant"
che intendeva però tenere conto appunto del cammino della scienza dopo
di lui verificatosi. L'obiettivo comune era duplice. Per un verso, in
polemica con il coevo positivismo, ma anche con l'empirismo e lo
psicologismo, evidenziare la struttura trascendentale della coscienza e
la validità normativa dei suoi contenuti ideali, in evidente
riferimento anche a Piatone e in polemica con la distinzione kantiana
tra sensibilità e intelletto e con la kantiana necessità, nella
conoscenza, del dato sensibile. Per l'altro, estendere l'approccio
critico a tutti i campi della cultura, il cui studio è stato diviso
significativamente dalla scuola del Baden, che privilegiò in
particolare la storia anche in rapporto alla filosofia della storia e
del diritto di Hegel, tra le "scienze della natura" e le
"scienze della cultura", o "scienze nomotetiche" e
"scienze ideografiche", le prime alla ricerca delle leggi
generali, le seconde di quelle individuali
DEISMO
(dal lat. Deus, ingl. Deism, franc. Déism, ted. Deismus) La dottrina di una religione
naturale o razionale, fondata non su una rivelazione storica, ma sulla
manifestazione naturale che la divinità fa di sé alla ragione
dell'uomo, dottrina che rifiuta delle religioni storico-confessionali ciò
che non si accorda con la ragione: il D. si fonda sull'opposizione tra
religione naturale o razionale (universale) e religioni positive o
storielle, e crede che Dio crei e governi il mondo sia fisico che
morale, e nella remunerazione del bene e del male in una vita futura.
Nel XVI sec. la parola D. era contrapposta all'ateismo designando chi
crede nell'esistenza di Dio. Le origini del movimento deista risalgono
all'Inghilterra dei secc. XVII-XVIII, e precisamente alle dispute dei
platonici di Cambridge (Herbert di Cherbury, De Veritate, 1624, ma
soprattutto John Roland, il Cristianesimo non misterioso, 1696), al
saggio di J. Locke Ragionevolezza del cristianesimo (1695), in cui il
filosofo è per un ritorno alla dottrina dei Vangeli rispetto alla
dottrina dei concili, come quello di Nicea, che costituiranno la
dottrina ufficiale della Chiesa, e afferma che la vera religione non
deve contenere nulla di irrazionale, a P. Bayle che fa una critica delle
fonti vetero- e neotestamentarie priva di pregiudizi (Dizionario
storico-critico, 1695-97) e ad A. Collins che nel 700 ritorna sui sacri
testi con un'analisi filologica rigorosa comparando Antico e Nuovo
Testamento (Saggio sull'uso della ragione, 1707, Discorso sul libero
pensiero, 1713, Discorso sui fondamenti e le ragioni della religione
cristiana, 1724), teso a dimostrare che una corretta lettura è ardua,
dal momento che la Scrittura, priva di vocali e segni d'interpunzione,
si presta a interpretazioni differenti. Il D. si diffuse prima in
Francia e poi in Germania. Pascal considera il D. un modo di credere in
Dio inaccettabile per il cristiano, Voltaire parla di
"teismo", considerando Dio indifferente alle sorti degli
uomini (Lettere inglesi, 1734, Trattato sulla tolleranza, 1763,
Dizionario fìlosofìco, 1764), Rousseau è vicino agli inglesi perché
riconosce in Dio il garante dell'ordine morale del mondo, ma è Kant a
stabilire la distinzione tra D. e teismo (Critica della Ragion Pura
(Dialettica), ma anche La Religione nei limiti della semplice ragione,
1793) mentre in Fichte il D. è ancora presente (Saggio di una critica
di ogni rivelazione, 1792). In Francia il movimento deista fu radicale,
con scritti prima anonimi e clandestini (Esame della religione, 1745,
Esame del Nuovo Testamento, 1769) di grandissima diffusione e che
anticipavano l'Illuminismo: condanna di tutte le religioni positive,
rifiuto della rivelazione e dei miracoli, denuncia dell'impostura, ossia
dell'uso della superstizione a fini politici. In Germania vi fu un D. più
moderato, teso a storicizzare la religione: Ch. Wolff scrisse la
Teologia naturale, 1736-37, M. Mendelssohn Ore mattutine o lezioni
sull'esistenza di Dio, 1785, mentre Lessing vide le religioni positive
come fasi di sviluppo e di educazione dell'umanità, dalla sua età
infantile alla maturità di una religione puramente razionale (Il
cristianesimo della ragione, 1753, Sulla genesi della religione
rivelata, 1753-55, Sulla prova dello spirito e della forza, L'educazione
del genere umano, 1777'-80, Diàloghi per massoni, 1778-80). DEMONE
(gr. daimon) Socrate riconosceva nella voce che lo richiamava al suo
compito e a ciò che dovesse o non dovesse fare "un alcunché di
divino", ossia il carattere trascendente o divino del richiamo. DIO
In tutte le culture passate e presenti conosciute si sono trovate tracce
della presenza dell'idea di D. come fede in entità superiori dotate di
potenza sovrumana, che l’induismo politeista si configura come
coscienza dell'unità della divinità sotto i vari nomi (prova storica).
Nella filosofia occidentale. D. ha significato: 1) Causa (principio che
rende possibile l'essere, quindi in rapporto al mondo) 2) Bene (creatore
dell'ordine morale e razionale) 1) D. è Causa del mondo (creatore
dell'ordine razionale): Anassagora per primo afferma il Nous come causa
libera, che crea però non dal nulla. Così l'Artefice di Piatone,
dotato di bontà e finalizzato al bene ma limitato da mondo delle idee e
materia, garante dell'ordine morale umano e in ultimo definito Primo
Motore, Da qui parte Aristotele. considerandolo Immobile, atto puro
privo di materia, sostanza come forma infinita, origine eterna e
separata delle serie causali non più limitata da modelli. Voltaire e
l'Illuminismo si rifanno all'idea del D. artefice, ma non dell'ordine
morale: bene e male hanno funzione sociale. Nel 900 Peirce distingue tra
D, come "parte di un sistema" e la "statica intemporalità
del perfetto assoluto"; b) necessario (natura del mondo in rapporto
sostanziale e necessario con esso): il panteismo non distingue causalità
divina - libera - e naturale, e pur non esaurendo D. nei mondo, vede il
rapporto come emanazione, rivelazione, realizzazione di D: in Plotino il
mondo deriva da D. per una gradualità distinta ma non separata, D. è
l'Uno rispetto ai molti, superiore alla sostanza, alla verità,
all'essere; a D. si accede per estasi mistica. In Scoto Eriugena il
mondo è teofania (rivelazione circolare da D. al Verbo al mondo). Per
Cusano D. è in tutto e tutto è in D.. punto in cui il molteplice si
unifica e si diversifica, per Schelling "D. è Universo considerato
dal lato dell'identità ed è il tutto perché è tutto il reale",
ma è anche realizzazione di D. (concetto del razionalismo
geometrizzante di Spinoza, per cui non esiste contingenza. Per i
romantici, D, si rivela e nel contempo si realizza, in Hegel come
autocoscienza) creante il mondo', nella polemica tra cristiani e
gnostici, D. è creatore unico (contro il politeismo) e libero (Genesi),
per Agostino è l'Essere eterno che ha creato anche il tempo, per
Abelardo D. crea necessariamente e a fin di bene. Anselmo riassumeva nel
Monologion il lavoro di secoli. Nella Scolastica arabo-cristiana si ha
distinzione tra essere necessario e possibile, ripresa da Tommaso, in
cui D. è identità Becessaria di essenza e esistenza. Cartesio prende
la necessità come base della prova ontologica (e anche molto
spiritualismo da Lotze in poi), per Kierkegaard tra D. e il mondo c'è
un salto incomprensibile. dal momento che per D. tutto è possibile e
dove c'è fede c'è salvezza 2) D. come l'ordine morale creatore del
mondo dei valori poggia sul concetto di Provvidenza, ordine razionale di
eventi e azioni: per gli Stoici D. è ragione, provvidenza, destino.
Piotino vede accidentale il male (Leibniz). in Spinoza necessità e
libertà coincidono, come poi nei romantici (per Hegel Provvidenza e
storia universale si identificano), nella teologia cristiana la
provvidenza immanente impegna all'azione. Ma si deve distinguere D. come
causa libera dell'ordine morale dall'ordine morale stesso per salvare la
responsabilità e la storicità dell'uomo DIVENIRE
(lat. Fieri) Una delle forme del mutamento, quella assoluta o
sostanziale, che va dal nulla all'essere o dall'essere al nulla e che
implica il mutamento della sostanza inteso come cammino verso la
pienezza della sua propria forma. Il problema dell'opposizione tra
essere e divenire è proprio della filosofia greca antica: per gli
stoici e Eraclito, il D. è il fluire perenne del tutto, in opposizione
all'immobilità parmenidea dell'essere. Platone afferma che il
non-essere assoluto, a differenza di quello relativo, non può divenire.
Per Aristotele il D. si dice in più sensi: accanto a ciò che diviene
assolutamente c'è ciò che diviene questa o quella cosa. Il D. assoluto
è proprio solo delle sostanze. I principi del D. sono gli opposti tra i
quali il D. intercorre e la privazione di uno di essi in favore
dell'altro, giacché niente diviene dal nulla, ma solo dal non-essere
accidentale e relativo, e per cui tale passaggio ha bisogno di un
sostrato che sostenga la trasformazione. II passaggio di un ente dalla
potenza all'atto richiede un essere già in atto che dia origine all'attualizzazione
dell'ente e al suo D.: l'atto primo o primo motore immobile. Per Hegel
il D. è l'espressione del risultato di essere e niente come unità di
essi: “è l’irrequietezza in sé". Se esso è l'unità
dell'essere e del nulla, "La veduta filosofica per cui vale il
principio che l'essere è soltanto essere e il nulla soltanto nulla,
merita il nome di sistema dell'identità. Questa identità astratta è
l'essenza del panteismo" (Wissenschaft der Logik, libro I, sez, I,
cap. I), laddove nulla hegeliano e privazione aristotelica sono simili
nel senso che entrano a costituire il D. sul quale le discussioni anche
fra i non hegeliani sono numerose. Nella filosofia moderna e
contemporanea, che tende a sottacere il problema, si è però diffusa
tra l'Illuminismo (che ne vede il livello storico-sociale), lo
storicismo idealistico, il positivismo, e il vitalismo dei XX secolo, la
visione che la realtà sia evoluzione, processo, sviluppo, come nella
teoria dell'evoluzione creatrice di Bergson. DIVERSITA'-DlVERSO
{lai diversità^ -tati& drverws, da Jj-\i??tt'rtf=a!lontanare-iJa|-voisere=de>we,
opposto di wnwr$M5=volto tutto intero nella stessa direzione) Termine
generico che indica cani alterazione, e/odifferenza e/o dissomiglianza
rssnetto a xm elemento di confronto considerato come norma, o comunque
criterio del giudizio Vi nuò nero essere una semnlice distinzione
numerica, e non pii! Qualitativa o Quantitativa, tra due elementi per il
resto usuali,. relativa ad, es alla posizione nello spazio e/o nel temno
In Questo senso la D. è k pura e semplice negazione dell'identità,
come quando WolfFdice che "sono diverse le cose che non possono
essere sostituite l'una all'altra rimanendo saldi i predicati che si
attribuiscono ad una dì e-sse assolutamente o a una data
condizione" CO»?. S 18>) DOVERE
Per gli Stoici l'azione umana o animale o vegetale conforme all’ordine
razionale del tutto, cioè guidata dalla norma del vivere secondo
natura, e la cui scelta può essere razionalmente giustificata, « ciò
che la ragione consiglia, non è D., ciò che la ragione né consiglia né
vieta, in vista della conformità all'ordine razionale -- il destino, !a
provvidenza. Allo stesso D. retto, proprio del sapiente, e perfetto e
assoluto, si affiancano i D. intermedi, comuni, realizzati con indole
buona e istruita. L'etica aristotelica fonda il D. sul desiderio
naturale alla felicità, e perciò può dirsi eudemonistica. II medioevo
cristiano riprende l'eudemon aristotelico in chiave filosofica, per cui
di questo mondo è la virtù e non la felicità, il cui risarcimento
come beatitudine è nell'ultramondano. Con Kant e la sua etica della
normatività, che dallo stoico conformarsi all'ordine razionale del
tutto diventa conformità alla tesi della ragione, il D. ridiviene
centrale come azione razionale la cui intenzione è dettata unicamente
dal rispetto della e in vista della legge, secondo la formula "Fai
che la massima della tua azione POSSA diventare legge universale-"
questa è la sola autentica azione morale, inerente dunque nel
suo valore sia al Soggetto sia dallo scopo, è D. l'azione
"oggettivamente pratica", in cui coincidono la massima che
determina la volontà e la legge, sicché moralità e D. coincidono.
Fichte trasformò questa dottrina kantiana del D. in una vera e propria
metafisica: "L'unica e salda base di tutta la mia conoscenza è il
mio dovere. E' questo l'intellegibile. Nell'età contemporanea, l'etica
continua a riferirsi a un ordine naturale necessario. In quelle teorie
che vedono la norma finalizzata alla felicità o alla perfezione, il D.
vi è scomparso, sostituito, come in Bentham, dall'interesse. Per
l'etica assoluta di Bergson invece occorre un'etica in cui il D., o
obbligazione morale diviene, in una società chiusa, un'abitudine
sociale, e «nella società aperta che corrisponde a tutta l'umanità,
lo sforzo creativo della vita verso una società perfezionata.
ECLETTISMO
(dal gr. eKXeKiiKoa=che sceglie, da eKÀ,sy£iv=scegliere, selezionare)
1) In senso classico, il termine si riferisce all'indirizzo preso, in età
ellenistico-romana, dalla scuola stoica a partire da Boeto di Sindone
(m. 119 a. C.), dall'Accademia platonica con Filone di Larissa (I sec.
a. C.) e dalla scuola aristotelica con Andronico di Rodi (I sec. a. C.),
ma riguarda pure epicureismo e scetticismo (accomunati dall'idea che il
fine dell'uomo sia la felicità come assenza di turbamento), e consiste
nello sforzo di combinare in un insieme coerente dottrine ricavate da
sistemi e scuole diversi (soprattutto platonica e aristotelica),
superandone le contraddizioni, interpretate come differenze
terminologiche. Nell'Accademia, Filone, per evitarne le conseguenze
scettiche in campo etico, oppose alla teoria della sospensione
dell'assenso, prevalsa con Cameade, quella che, pur negando all'uomo la
possibilità di raggiungere la verità incondizionata, pure gli
attribuisce un sapere dotato di un grado ragionevole di certezza.
Panezio di Rodi e Posidonio di Apamea, ammorbidendo la rigidità dello
stoicismo, videro nella ricerca del "conveniente" il principio
che orienta la vita morale. Il più illustre seguace delFE., Cicerone,
le cui idee egli voleva non imporre dogmaticamente ma diffondere tramite
la retorica e la persuasione, si fece interprete di molti dei tratti
comuni a tutti gli indirizzi eclettici: in campo etico e gnoseologico,
il comensus gentis come criterio di verità, ossia la necessità del
giudizio unanime del popolo sulle questioni riguardanti la cosa
pubblica; in cosmologia, l'unità vivente del tutto, ordinato dalla
razionalità divina intesa come provvidenza che tutto volge verso il
bene (evidente in questa teologia naturale il rifiuto di meccanicismo e
irrazionalismo); in antropologia, l'ideale del saggio che, rivolto alla
cura privata della propria anima, vive ispirandosi ai valori del decoro
e del contegno. Questa sintesi eclettica di scienza e retorica informò
di sé sia in Grecia che a Roma numerose scuole volte alla formazione di
magistrati, avvocati, funzionali governativi e imperiali. 2) II termine
è stato ripreso in età romantica dallo spiritualista V. Cousin a
indicare il proprio metodo, volto a portare alla luce, per poi
integrarle, sia le verità implicite proprie della coscienza {Du vrai,
du beau et du bien, 1853, Pref), sia le verità espresse nei diversi
sistemi filosofici, la cui varietà può ridursi a quattro posizioni
fondamentali in successione costante: sensismo, idealismo, scetticismo,
misticismo (Storia generale della filosofia, Lezione I). ELEMENTO
Il termine ha un significato filosofico e uno chimico. Il primo,
più antico, è usato da Platone e definito da Aristotele come "il
componenente primo di una cosa qualsiasi in quanto sia di una specie
irrducibile a una specie diversa", per cui in senso proprio indica
le parti principali, o dimostrazioni prime, di una dottrina che possono
essere utilizzate anche in altre dimostrazioni, come nel teorema di
Euclide. Metaforicamente perciò l’E. è l'entità più universale,
semplice e indivisibile, che può ricorrere in un numero indefinito di
casi. A questo significato gli Stoici diedero il nome di principi,
ingenerati e incorruttibili, distinti dagli E., che possono «ssere
distrutti dalle conflagrazioni periodiche del mondo, Wittgenstein diede
una definizione logica di E. come proposizione elementare, risultato
della scomposizione analitica di proposizioni complesse, che asserisce
l'esistenza di un fatto atomico e consta di nomi in unione immediata. In
ambito chimico, fu Robert Boyle, uno dei fondatori della chimica
moderna, a definire l’E. nel Chymista Scepticus (1661) come corpo
indecomposto da mezzi chimici a disposizione, di modo da storicizzare,
limitandolo alle attuali conoscenze, il contenuto del concetto di E.,
come primum indivisibile, e da relativizzarlo, sottolineando che ciò
che è E., in un campo e con determinati strumenti può «non esserlo in
un altro>>. ELLENISMO-^
ALÈSSANDRJSMO j,sr. heflenismos da /?e//e>»M.<r-pertinente
o riconducile ss Greci) Per E. si intende il periodo seguito alla morte
dì Alessandro Magno nel 323 a. C , che unificò i! mondo antico sia
orientale che occidentale sotto l'impronta delia cultura .sreca e della
sua lingua, iacendone capitale Aìessandria d'Egitto, .grande centro
intetìettuaie ricco di un Museo, che ospitava scienziati e dotti di
tutti i paesi, e della famosa Biblioteca alessandrina, il cui «rimo
corpo fejono k opere di Anstotele, ma che poi custodi circa
setteeentomila volumi. L'È. è caratterizzato m campo caharaie dalla
scissione tra scienza e filosofia: le due scuole tilosoiìche
dell'Epicureismo e dello Stoicismo, e i due indirizzi dello Scetticismo
e dell'Eclettismo, ss nvoìsono non piò al compito classico fa una
ricerca libera del rapporto tra «orno e cosmo, bensì a quello dì
garantire all'uomo, nell'isolamento da tutto, la pace e la serenità,
mentre in campo scientifico si ha ima sistemazione dei metodi e dei
risultati, con .grandi fedire di matematici fÈwdide, Archimedei,
astronomi (Tolomeo). geografi (Eratosteneì, medici (Gaietto 5- ENERGHEIA
Per Aristotele, l’E. è il principio determinante e
attuante contrapposto alla materia o principio determinabile e
potenziale, che concorre a determinare l'entelechia, ossia la forma
finale come compiuta realizzazione éeila potenza. Ad es., l'anima è
l'entelechia di un corpo organico, e l'E. è la forza attuante
dell'anima. In questo senso, per Leibniz l'E. è l'essenza della monade,
centro dinamico e causa interiore dei suoi mutamenti. Analogo
significato metafisico ha in filosofia il concetto di forza (f.);
Leibniz afferma che le unità ultime (atomi) non possono essere
materiali ma spirituali, riabilitando le forme sostanziali, la cui
natura è f,. concetto analogo a quello di coscienza. Questa teoria
influenzerà tutto l'indirizzo filosofico del XIX secolo, da Mayne De
Biran in poi. Schopenhauer opera il passaggio dalla psicologia alla
metafisica, riconoscendo che l’essenza del mondo è in sé f., unica.
Quella stessa potenza attiva che l'uomo percepisce immediatamente in sé,
e che chiama per sé volontà, e dando così avvio alle filosofie
spiritualistiche, come quella di Bergson dello slancio vitale; in senso
fisico, poi si intende per energia (f.) qualunque capacità o forza di
produrre un effetto o un lavoro (attività), Leibniz nella Demonstratio
erroris memorabili Cartesìi (1686) distingue tra e. potenziale (f. di
posizione) e e. cinetica (f. di movimento) e tra forza viva e forza
morta, mentre Joule nel 1842-43 scopre il principio della conservazione
dell'e., o primo principio della termodinamica, che stabiliva
l'equivalenza tra meccanica e calore, dimostrando che quest'ultimo è
una forma di e. che va al di là del dominio meccanico, mentre a
Helmoltz (Sulla conservazione della forza, 1842) si deve, oltre al
prevalere del termine e. su quello di forza, il concetto che è e. ogni
entità passibile di essere convertita in un'altra forma, dal momento
che l’e. è indistruttibile come qualsiasi altra sostanza (non può
essere né creata né distrutta) ed è quindi la seconda sostanza della
fisica dopo la materia. Con la teoria della relatività e la meccanica
quantica si è avuta la riduzione della materia a densità di campo, e
il superamento del dualismo tradizionale della fisica classica che
voleva la materia come sostanza. ERESIA
(lat. haeresis=dottrina, dogma, scuola, sistema, setta, eresia) II
termine indica, nell'ultimo giudaismo, e un semplice movimento di
dissenso interno alla tradizione, e contenuti dottrinali che, dando
forma a una corrente che le si oppone, vanno insieme a questa
osteggiati; nel Nuovo Testamento, sia una setta che una tendenza alla
divisione opera della carne; secondo i Padri Apostolici, i più
rigorosi, la negazione formale, intesa come scelta, di una verità
rivelata o comunque necessaria secondo l'istituzione ecclesiastica. Il
contenuto del concetto, e la sua applicazione, è infatti definibile
solo in rapporto a un diverso contenuto assunto come norma che formi
l'ortodossia rispetto all'eterodossia (cosicché, ad es., i primi
cristiani furono giudicati eretici, e la Chiesa cattolica romana lo è
tuttora per un protestante). Ciò significa, sul piano della metodologia
storiografica, che l'È. è funzione del dogma, e che perciò una storia
dell'E., allo sviluppo del quale è strettamente interrelata, risulta
sempre prospettica, e problematica in quanto legata al processo non
lineare di formulazione del dogma stesso: nella storia del
cattolicesimo, E. furono giudicati - oltre a gnosticismo, arianesimo,
monoteletismo e predestinazionismo -sabellianismo, subordinazionismo e
modalismo (teologie di tipo trinitario); nestorianesimo e monofisismo
(di tipo cristologico); pelagianesimo (antropologico);
veterocattolicesimo (ecclesiologico). La persecuzione dell'E., la quale
è stata dai ceti oppressi spesso piegata, dall'originario contenuto
religioso, a fini sociopolitici contro il sistema dominante e le sue
istituzioni, si riscontra, oltre che in ambito cristiano (ove elementi
essenziali per la definizione dell'eretico erano anche atteggiamenti
soggettivi quali pertinacia e ostinazione), anche presso altre grandi
tradizioni religiose: nel buddismo, che però non possiede un termine
perfettamente equivalente, nel confucianesimo, ove è la posizione
eterodossa, viziosa e cattiva, ma che, con la sua tolleranza, ha
perseguito l'È. solo quando la deviazione dottrinaria ha costituito un
pericolo sul piano politico-statuale; nell'islamismo, ove vivaci e
numerose sono sempre state discussioni e lotte tra fazioni in merito
alla fedeltà al Corano e alla Sunna. L'È. e la sua vicenda risultano
perciò il luogo in cui si rende visibile l'intreccio tra istanze ideali
e loro traduzione ideologica sul piano dottrinario non solo
religioso ma anche politico-sociale, e livello storico dell'affermazione
dell'E. come movimento di riscatto delle coscienze anche contro la
precarietà dell'esistenza, e della lotta di potere, spesso cruenta e
perdente, contro quell'istituzione sia religiosa sia politica che si
avoca il diritto di stabilire il confine tra lecito e illecito. ESEGESI
Lettura e interpretazione del significato della Bibbia anche con
l’aiuto di testi classici anche giuridici, letterari, ecc. L’E.
della Bibbia, come rivelazione divina in parola umana, è intesa come
testo, e dunque sia sottoposta all'analisi delle scienze
storico-critiche (critica testuale, letteraria, storica), sia come
testimonianza di questa stessa rivelazioni divina, e dunque implicante
una verità assoluta, nell’interpretazione dei significato sempre
riattuantesi e sempre attuale della Parola. Nel corso della storia si
sono fronteggiate diverse E. - esegesi letterale, esegesi spirituale –
per trovare un punto di incontro nella Bibbia stessa come due tesi
diverse ma ad essa intrinsecamente legate per il loro significato
criticamente ricostruito, che fa emergere la sua attualità dì appello
alla fede. E questo punto d’incontro è ottenuto, sul piano
scientifico, dall’interpretazione del testo non sottacendo l'apporto
del soggetto. La letteratura biblica antica, in assenza del metodo
storico-critico, è piuttosto difficile da interpretare, nonostante la
letteratura ebraica abbia codificato la E. della Bibbia in regole. La
pratica esegetica si divise in due grandi scuole: una più aderente al
senso storico-letterale, e la alessandrina, più legata a influssi
platonici. La patristica è relativa a tutto il Medioevo specie
monastico: è la dottrina dei quattro sensi: il significato
storico-letterale allude a un significato spirituale che si distingue
in: senso allegorico, in riferimento a Cristo, senso antropologico o
morale, senso anagogico o mistico, con valenza escatologica. A partire
dalla scissione avutasi con la Riforma, l'E. ebbe sviluppi diversi. Dopo
il Concilio di Trento e fino al secolo XX, l’E. cattolica è
dottrinaria e apologetica, anche se, nonostante la condanna dei
modernismo, che con Loisy interpretava storicamente i Vangeli, decisiva
appare l'enciclica del 1943 Divino Afflanti Spiritu di Pio XII, che apre
alla possibilità di un'E. biblica coadiuvata da strumenti scientifici
quali i "generi letterari". a cui segue nel 1964 la lettera
della Commissione biblica che apre alla "storia delle forme" e
alla "storia della redazione", e nel 1966 la costituzione Dei
Verbum del Concilio Vaticano II, tutti riconoscimenti della validità
del metodo-storico critico nell'E. biblica. La storia delle forme, ad
es. di Bultmann isola singole unità letterarie supponendo che esse
abbiano avuto vita autonoma, prima orale, poi scritta, con funzione
predicativa e liturgica per la comunità protocristiana, rintracciandone
le trasformazioni sino alla stesura finale nei Vangeli. ESEMPLARISMO
(dal lat. exemplar o exemplum^opia, immagine, modello) Dottrina di
origine platonica, ripresa poi dal neoplatonismo, da Agostino e dalla
Scolastica, che vede gli enti quali copie o immagini di archetipi
situati in un mondo intellegibile o nella mente di Dio. ESSENZA
fcr. ti e.tfm, Sat. essentia) i precedenti delia teoria deffE. si
trovano in Piatone, che nei Menane fa chiedere a Socrate che cosa è ìa
virtù, intesa nella sua E. necessaria, ossia in ciò che essa è in
ogni circostanza. Ma per ia prima volta è Aristoteie a distinguere l'È.
in: 1 ') ciò che risponde alia domanda "che cosa è?", come
carattere necessario che definisce ìa cosa rispetto a un carattere o
qualità secondario, e in 2) ciò che è ìa sostanza, e che è il solo
vero contenuto della scienza, anche se teoria deii'E. e teoria della
sostanza possono essere considerate propedeutiche l'una all'altra e
identificate nella storia successiva dei termine. 1) Nel suo significato
generale. VE. può essere accettata anche da coloro che non condividono
ia teoria della sostanza Gii Stoici usarono al posto di E.
"risposta" fapodosis). come enunciato linguistico in grado di
orientare di fronte alle cose.Neiì'età moderna e contemporanea le due
teorie sono state tenute distinte, in modo da consentire una cena
aerarchia tra le determinazioni di una cosa che eliminasse il problema
di quale fosse queììa necessaria. Per l'impossibilità infatti di
definire l'inerenza di un carattere, tutto ì'IUuminismo con Hobbes
paria di E. nominale, cioè "il carattere fì'accidens) per il
quale diamo aii'oasetto il suo nome" (De corp., 8, § 23). Per
Locke Ì'E. reale è la sostanza aristotelica come forma che dovrebbe
dar ragione di tutte le qualità di un ente e mostrarne ìa connessione
necessaria, ma è inaccessibile all'uomo {Sassio, III. 4. 9). La
dottrina dell'E. nominale è la base della logica moderna e
contemporanea: Ouine distingue tra la teoria aristotelica delì'E. come
sostanza e la teoria del significato: "Le cose hanno E. per
Aristoteie. ma solo le forme linguistiche hanno significati. li
significato è quello che PE diventa quando è divorziata dall'oggetto
di riferimento e sposata con la parola" (From a Logicai Paini of
View. Il, 1") Per Santavana. che fa un uso metafisico deii'E.,
contrapponendola all'esistenza fidentificata con la materia), ia
considera l'oggetto dell'attività conoscitiva, inserita con le altre in
un regno infinito le cui E., oggetto puro d'intuizione senza alcun
legame tra loro né alcuna forma d'essere, possono essere percepite,
immaginate, sperimentate, pensate, dal momento che il loro essere è il
loro apparire, senza tempo e senza spazio, né sostanza né parti
nascoste (Tfie Realm of Esserne. 1927). 2) La teoria deii'E. come
sostanza è quella delFE. necessaria, o vera. Piotino, identificando E.
e sostanza, le pone nel mondo inteUegibiie. ossia nei Nous divino. Ma è
con Tommaso nel XHI secolo che si ha un riordinamento dei molteplici
significati con cui la filosofia scolastica aveva tradotto la teoria
aristotelica dell'E., e un'identificazione di E. e sostanza come ciò
che è comune a tutte le nature di enti diversi, per cui ad es. l'umanità
è l'È. dell'uomo, detta anche quiddità o forma o natura, o il
ctuodguiderai esse, "ciò per cui qualcosa è ciò che è" (Melaf.,
VII). La quiddità attiene alla definizione. VE. fa riferimento invece
all'essere, queste definizioni tomistiche sono rimaste fondamentali per
ogni teoria della sostanza nei secoli. Husserl per ultimo le ha riprese,
per cui l'È è ciò che si trova nell'essere proprio di un individuo
come suo quid. E o.eni quid può essere messo in idea, per cui la
visione empirica e individuale può essere trasformata in visione
dell'E. o ideazione, essenziale, cosicché l'oggetto intuito consisterà
nella corrispondente E, pura o eidos, colta con un atto di intuizione
diverso dal percepire sensibile (Ideen, L § 3, §23). ETNOLOGÌA
fsr ^fc?rt.v=popoìq e Iti?!)?;j Termine introdotto da A -C de Chgvannes
nel 1787 che sta a indicare Io studio dei popoli "primitivi",
e latamente quelli a cultura orale, nelle forme dei loro modi di vita
sociali e culturali, a partire dall'osservazione diretta (o metodo
dell'osservazione partecipante) o da documenti ancora esistenti
Inizialmente l'È era una scienza fisica che studiava la classificazione
delle razze, cosi come l'etnografia era lo strumento di tale
classificazione basato sulle differenze linguistiche tra i..gruppi
studiati, di cui. l'È si serviva in modo comparativo Col XX secolo si
è giunti a intenderla come l'insieme delle discipline che studiano i
caratteri individuali di un gruppo culturale, considerato in ogni modo
ormai considerato non. più semplice rna complesso, e con particolare
attenzione alla orospettiva etnocentrica da cui lo si guarda, Ma il
termine E cambia significato a seconda dei vari indirizzi, basati su
teorie e metodi diversi; in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti,
in Italia Claude Levi-Strauss, uno dei fondatori dell'antropologia
culturale contemporanea, in un'opera ancora fondamentale, rende conto di
questa disparità disciplinare e considera l'È il passo successivo alla
descrizione etnografica in grado di operare la sintesi antropologica (Le
scienze sociali tìell'imesnanienlo superiore, ed UNESCO, 1954, noi
Anthrapologie siritcturale, 1958) Osai E , antropologia e storia si
comnen.etrano Bardandosi l'un l'altra; in Francia si parla di E sociale
o antronologia sociale, in Inghilterra di antronologia sociale, negli
Stati Uniti si intende per antropoloaja l'insieme di antropologia
fisica, archeologia, sociologia e antronologia culturale, in Italia,
dispersi in diverse facoltà universitarie, vi. sono insegnamenti di
antropologia, antropologia fisica, antropologia culturale, storia delle
tradizioni popolari. E,, e altri. ETOLOGIA
!'sr. ••«fe)'—comwnnamemr' e fes?*?) Tennis? comato da W Wsndt
indicante ia disciplina filosofie.» non normativa di studio
storico-descrittivo dei costumi e dei comportamenti morali in
determinati contesti sociali. Osai, z .partire da K, Lorenz e N,
Tmbersen, disciplina naturalistica descrittiva, comparativa e
evoluzionistica, derivata dalla zoologia e strettamente collegata ad
altre discipline biologiche (fisiologia e ecologia) oltre alla
psicologia animale, avente soggetto i comportamenti animali nel loro
habitat naturale piuttosto che in laboratorio, studiati allo scopo di
metterne in evidenza le cause generali e remote oltre che quelle
immediate, in modo da stilare classificazioni di comportamenti tipici éi
ogni specie, e non Quelli comuni, secondo la lesse di economia di Lloyd
Morsan (L'intelligenza animale. 1894) che afferma che l'interpretazione
di un'azione come derivante da un processo psichico superiore è
possibile solo quando non si può interpretarla come derivante da un
processo psichico inferiore, e secondo l'assunto che i comportamenti
osservabili derivino più da variabili oggettive, sia interne (ormonali)
sia esterne (ambientali) all'organismo, che da processi psichici. l'È,
si rifa alla teoria dell'istinto di C Darwin fOrigine delle specie.
1859) fondata sulla tesi evoluzionistica della continuità psichica tra
animale e uomo. T, C. Schneirla. ponendosi tra innatismo e ambientalismo
e riconoscendo la complessità dei comportamento animale e
l'interdipendenza di fattori innati e ambientali {Principi di psìcoìosta
animate. 1935 i. apre la strada all'È, di Lorenz, che nello stesso '35
pubblica il manifesto della nuova E. (Il compagno nell'ambiente desìi
ncveifi) e nei '38 ìa "teoria ossettivistica". che vede
l'azione istintiva determinata da un fattore interno, l'energia
specifica, e da uno ambientale, il segnale scatenante, dimodoché
esistono schemi innati di messa in azione, trasmessi ereditariamente,
come seouenze comportamentali specifiche invariabili da individuo a
individuo, altrimenti non si spiegherebbero ad es. reazioni di paura e
foga di animali in cattività di fronte a pericoli mai visti prima, e
gutndì non potuti apprendere. Ma l'innatismo ha esposto l'È. a più di
una critica, per la forte valenza ideologica delle sue teorie
sull'aggressività, passibili di usi militaristici e bellici, e. anche
in seguito alla scoperta dei condizionamenti prenatali, si è
determinata dash" anni Sessanta, con sii stessi Lorenz e Tinbersen
e \a scuola anglosassone di W. H. Thorpe e R. A. Hin.de. una nuova
impostazione più attenta ai fattori ambientali e a determinanti
storico-culturali non irreversibili, dal momento che Vasgressività
umana, né necessaria né inevitabile, non trova riscontro Guanto a
sraturtà e intensità in alcuna altra specie. L'È. ha «omunciue messo
in luce le lèggi che regolano molte società animali, individuando
comportamenti species-specifieì mirati afia sopravvivenza, distinguendo
tra lotta intersoecie per fini di nutrizione e lotta intraspecie per la
difesa del territorio e la competizione sessuale, ma
soprattuttoindrvkteando il discasso fenomeno dtìifmprinlins, o
impronta, o anche apprendimento precoce ir> iase sensibile, secóndo
cai i nidiace!, ma anche alcuni mammiferi, seguirebbero come anda il
primo oggetto animato o inanimato loro presentatosi entro le 11-18 ore
dalla nascita. Ma è stato dimostrato che l'imprinting non è
irreversibile, e H, Moltz lo considera solo una risposta per la
riduzione dell'ansia (L'imprintifis: fondamenti empirici e sisnitìcdlfteorico,
in "Psvchological Bulletin", 1960)
FACOLTÀ
ter M"o:nìo sxScx? - o .uooxov -, lat facultas) { poteri o parti
in cui si PUÒ classificare e dividere l'anima a partire dalle diverse
operazioni che essa compie e che possono combinarsi o contrastarsi.
Piatone distinse tre "specie"- iì «etere razionale, che
domina gli impulsi, i bisogni, i desideri corporei, il potere
concupiscibile o irrazionale, che presiede a quegli impulsi, e il potere
irascibile, che, in aiuto di Quello razionale, lotta per il giusto (Rep
,, IV, 439-40) Aristotele, la cai partizioone rimase punto di
riferimento fino alla Scolastica, distinse l'anima vegetativa, propria
di tutti eli organismi, l'anima sensitiva, che con sensibilità e
movimento è propria di tutti gli animali, e l'anima intellettiva (dianoetica),
che può sostituire le altre due, è propria dell'uomo e a sua volta si
divide in appetitiva o pratica (volontà) e intellettiva o contemplativa
(intelletto) (De An.. II, 2, 413 a 30; IH, X, 433 a 14; Et. Nic. VI,
1, 1139 a; Poi, 1133 a). Nella Scolastica questa partizione s'intreccia
con quella proposta da Agostino sul modello della Trinità: memoria
(Essere), intelligenza (Verità) e volontà (Amore), Da Cartesio in poi
si riprese la sola partizione aristotelica dell'anima intellettiva (dianoetica)
tra intelletto e volontà (o appetizione o desiderio), che fondava l'uso
teoretico e l'uso pratico della ragione, dal momento che funzione
vegetativa e sensitiva non appartengono all'anima in quanto meccanismi
corporei Per Cartesio l'intelletto concepisce le idee, che sta poi alla
volontà, libera e dunque più estesa dell'intelletto, affermare o
negare, dando origine all'errore (Méd., IV; Princ. Phiì., I, 34).
Questa teoria rimase sino a Kant. tranne che per Spinoza, per il quale
intelletto e volontà sono la medesima cosa e non esistono F, separate (Eth.f
IL 48,49 corolL), e per Leibniz. che vede nella monade percezione e
appetizione (Monad „ § 14-15), Kant, in un'innovazione che rimarrà
classica, accoglie le analisi dell'empirismo inglese e interpone tra
intelletto CF. di conoscere) e volontà CF. di desiderare) la F, del
sentimento, o "sentimento di piacere e dispiacere" (Crii del
Giud. Introd,, IX), Non si deve pensare che queste ripartizioni
sottendessero una separazione ossettiva di F indipendenti, ma che siano
solo un'astrazione a posteriori che sottintende l'unità dell'attività
dell'anima, come sia sii antichi sia Cartesio e Leibniz riconoscevano, A
partire da Queste ripartizioni dello spirito, il neocriticismo della
Scuola di Marburgo (Cohen, Natorp) individua tre sole scienze
filosofiche; la logica, l'estetica, l'etica. FALLIBILISMO
Termine coniato da Peirce per indicare l’atteggiamento proprio dello
scienziato e della scienza, in contrasto con altre forme di saoere. che
in ogni punto della ricerca è attento a valutare la possibilità di
errore e a mettere in atto tutti gli strumenti e i metodi di indagine e
di controllo per evitarlo o per scoprirlo. K. R. Popper ha fatto del
falsificazionismo, in contrasto con il verificazionismo proprio del
circolo di Vienna, il nodo centrale della propria lunga attività di
riflessione, considerando genuinamente scientifiche solo quelle teorie o
ipotesi che sono suscettibili di essere sottoposte al vaglio
dell'esperienza, e dunque, in quanto passibili di essere smentite,
falsificabili. Infatti la verificazione che è presupposta dalle leggi
universali non può mai aver luogo, poiché si basa sempre su un numero
finito e limitato di casi, che lascia aperto il campo alla possibilità
éella smentita. Perciò, dal momento che un sistema empìrico deve
poter essere sempre confutato dall'esperienza, Popper, che è il maggior
esponente del F. o falsificazionismo, ha una concezione puramente
deduttivistica del metodo e della razionalità scientifica, che sì rifa
alla critica di Hume all'inferenza induttiva e al principio di causalità.
(Conjectures, 1965; Obieciive
Knowledge, 1972). FATALISMO
(ciò che è stato detto, o predetto, da un dio) Oltre che una dottrina
filosofìca. l'atteggiamento di chi si abbandona agli eventi senza
cercare di modificarli o reagire. Il Fato indica la necessità
imperscrutabile e inalterabile degli eventi, solo apparentemente casuali
e senza ordine. Ed è diverso sia dal destino, che si riferisce
essenzialmente all'uomo ed è modificabile, sìa dal determinismo, in
cui la connessione necessaria delle cause è immanente e passibile di
venire decifrata, oltre che materiale. Il F. di origine religiosa è
assunto come dottrina dagli stoici, che escludono la libertà umana come
assoluta autodeterminazione e affermano che il fato governa sia la
natura che l'uomo, la cui unica libertà è la conoscenza razionale del
destino e il conformarsi ad esso (Cicerone, De fato. 17). Avversato dal
cristianesimo - che gli oppose la Provvidenza come concetto che
implicava anche l'intervento umano per la propria individuale salvezza
accanto alla necessità del piano divino - per la sua negazione
dell'agire morale e responsabile dell'uomo, il F. fu distinto da Leibniz
in: stoico, cristiano (che implica la doppia causalità divina e umana,
che parzialmente modifica gli eventi con la volontà morale) (Teodicea,
I. § 55) e maomettano, o "destino alla turca", secondo cui
"gli effetti accadrebbero anche se se ne evitasse la causa, essendo
dotati di necessità assoluta" (Op. ed. Erdmann, p. 660, 764).
Quest'ultima dottrina fu attribuita da Wolff a Spinoza. contro cui
scrisse De differentia nexus rerum
sapientis et fatalis necessitati (1723). Kant, animato dalla fede in
un regno sovrasensibile non sottoposto alla necessità, formalizzò
definitivamente l'alternativa tra determinismo e libertà, tra la
natura, regno della necessità e del determinismo, e l'agire morale
dell'uomo, posto su di un piano più elevato, come volontà libera e
responsabile. Questa dottrina sarà negata da quella nietzscheiana del
fato, che non solo esclude l'esistenza dell’ultramondano, ma invita a
"Non voler nulla di diverso da quello che è. Non solo sopportare
ciò che è necessario, ma amarlo". FEDE
(gr. pistis. lat. fides) Credo religioso in una divinità rivelatasi o
meno nelia storia (e nelle sue leggi), e/o fiducia in una realtà
soprannaturale divina che si rivela, come forma di conoscenza
condivisibile e comunicabile ma non riproducibile né controllabile,
basata su un particolare tipo di ragione con cui la F. non è in
contrasto ma elemento essenziale, quella ragione teologica che fonda la
possibilità di una teologia come ricerca e non solo come glossa. Nel I
senso, la F. appartiene anche al politeismo (ne parla già Sesto
Empirico), mentre nella Bibbia è accoglimento della rivelazione di Dio
come evento che si iscrive nella storia, sia nell'A. T. attraverso la
rivelazione di Dio stesso e il dono delle sue leggi, sia nel N. T.
attraverso la venuta di Cristo, per la cui F. il cristiano è chiamato a
un impegno totale in tutti i momenti della vita, visibile nella sua
partecipazione alla Chiesa come forma comunitaria fondata sulla F., sua
norma e valore. Per ebraismo e cristianesimo F. è accettazione di Dio
quale assoluta grazia, dono di Dio ma anche decisione costante dell'uomo
che informa tutta l'esistenza come progetto dotato di senso, e in quanto
decisione è atto libero la cui autenticità comporta razionalità
coerente con la spiritualità, come sottolinea tutto il pensiero
cristiano. Di qui la possibilità di una riflessione sulla F., e quindi di una teologia. Paolo dice: "F. è sostanza
delle cose sperate e argomento delle non parventi" (Hebr., 11,1).
laddove Tommaso, cui si attenne tutta la Scolastica, chiarisce: "In
quanto si parla di argomento, si distingue la F. dall'opinione, dal
sospetto e dal dubbio […]. In quanto si parla di cose non parventi, si
distingue la F. dalla scienza e dall'intelletto, nei quali qualcosa
diventa apparente. E in quanto si dice sostanza delle cose sperate si
distingue la virtù dalla F. nel comune significato (=dalla credenza) la
quale non è diretta alla beatitudine sperata". Nel XIV sec. il
misticismo tedesco vide la F. come via di accesso originale, diretta e
immediata alle realtà supreme e a Dio: in Meister Eckhart la F. è la
nascita di Dio nell'uomo. Nel medesimo senso di mezzo privilegiato che
scavalca i limiti dell'intelletto la vide la "filosofia della F.,"
nel XVII sec. e nel Romanticismo: in Fichte "la F.. dando realtà
alle cose, impedisce ad esse di essere vane illusioni: è la sanzione
della scienza". A fine Scolastica, Duns Scoto per I parlò del
carattere pratico della F., e della teologia, come direzione della
condotta; nell'età moderna fu Spinoza. poi Kant. che distinsero tra F.
prammatica, che dirige l'abilità verso fini arbitrari e accidentali. F
dottrinale, più impegnativa ma senza certezza, F. storica, nelle leggi
statutarie sull'onorare e obbedire a Dio. e F. morale o "F.
religiosa pura", dalla certezza incomunicabile perché soggettiva,
legata al sentimento morale e a fini assolutamente necessari: la F.
diviene ìmpegno, condotta di vita capace di trasformarla e non priva di
rischi. Per Kierkegaard col cristianesimo la F. diviene superiore alla
scienza poiché si rapporta al paradosso e all'inverosimile, è "la
coscienza dell'eternità, la certezza più appassionata che spinge
l'uomo a sacrificare tutto, anche la vita" (Diario, X, A 635): F.
è passo esistenziale, decisione, rischio, angoscia che si rende certa
di sé e di un nascosto rapporto con Dio, contraddizione paradossale tra
atto e dono di ., K. Barth riprende questo concetto, F. è inserzione
dell'Eternità nel tempo, della Trascendenza nell'esistenza (Comm, Epist.
Rom.) R. Bultmann parla di demitizzazione. FELICITA',
termine che nella sua accezione filosofica classica traduce il gr.
cudaimonfa. Concetto centrale nell'etica antica la quale, nelle diverse
versioni, è comunque concepita come una realizzazione per gli individui
della 'l'elicila, laddove una parte rilevante dell'etica moderna,
invece, soprattutto in seguito alla teoria/azione di I. Kanl,
sottovaluta la felicità, a cui attribuisce un aspetto peculiarmente
egoistico, e celebra al contrario il dovere come no/ione centrale della
vita morale. La felicità è invece ripresa nell'etica moderna
soprattutto a opera dell'utilitarismo che la pone a fondamento della sua
teoria normativa della giusta condotta. Diversamente dall'utilitarismo
(e in questo senso dall'intera etica moderna), l'elica classica
considera la felicità non come la condizione altrui di cui si deve
tenere conto per agire moralmente, bensì come lo stato del carattere
che si deve raggiungere personaIrnenle e che è proprio delle persone
viiluo.se. Aiìslotcle la concepisce come1 l'attività della parte
razionate-dell'anima secondo "virtù, vale a dire secondo il suo
funzionamento proprio (eccellente). Essa si dispiega nella capacità di
scegliere il giusto mezzo* per ottenere lo scopo, ed e accompagnata dal
piacere poiché è essa stessa piacevole. La nozione aristotelica
ammette un'ambivalenza di interprelazione sia in senso
intellettualistico sia in senso passionale, che viene risolta più
univocamente dalle due importanti scuole ci lenisti che. C ìli epicurei
identificano la felicità con il piacere Concepito come la soppressione
della sofferenza, e quindi come uno stato permanente che rivela il
particolare piacere della vita stessa; mentre gli stoici sviluppano una
concezione della felicità come capacità di rendere se stessi
invulnerabili al male che il mondo riesce a recare agli esseri umani,
che si ottiene seguendo i comandi della ragione che richiedono di volere
egualmente tutto ciò che il destino vuole.
GENIO
TUTELARE:
Secondo Vairone "!a divinità che è preposta a ognuna deìie cose
generate e che ha la capacita di generarle"; in Agostino (De O.
Dei, VII, 13) forza d'ingegno, talento, contrapposto retoricamente a
studium). 1) talento originale e innato, soprattutto artistico, che può
esser educato ma non insegnato o trasmesso e che produce esemplari degni
d'essere imitati. 2) Persona portatrice di tale capacità. Nel
Rinascimento si riprende iì platonico "furore" poetico e nel
'600 le scoperte scientifiche videro da allora un proliferare di teorie
e discussioni. Pascal afferma che i grandi G. non hanno bisogno deìie
grandezze carnali ma cercano altrove le loro vittorie. Dal ‘700, a
partire dall'Inghilterra (Congetture sulla composizione origìnale,
1759; Saggio sui genio di A. Gerard, 1758; saggio sui genio originale di
W. Duff, 1767. tutti basati sui contrasto originaìità/imitazione). il
concetto di G.. passando nella Germania filosofica e letteraria di G.
Marnanti. F. Schilìer. F. von Schiegel. che parìa di imperativo
categorico della genialità, Berne), si restringe aìì'arte; Kant,
Schelling e Hegel elaborano dottrine estetiche dei G. che. riprendendo
la tradizione, la innovano. Per Kant esso, che non contempla le scoperte
scientifiche iì cui metodo può essere esplicitato e riprodotto, e che
da vita ali’”arte bella” come prodotto in apparenza spontaneo e
naturale del soggetto e non sottoposto a regole intenzionali (diverso
dall’”arte meccanica”, appresa e codificata), è il talento
magistrale dì scoprire, che dà la regola affine ma sfugge a ogni
regola codificata, diviene criterio di giudizio, origine di una scuola
ed esempio per il G. latente, e trova la sua radice nei ìat. genius
come spìrito dell'uomo che dalla nascita lo dirige e protegge dandogli
le idee originali. La facoltà del G., che libera l’intelletto dei
suoi lacci meramente conoscitivi liberando lo spirito (Geìst), di cui
è sinonimo, è l'immaginazione produttiva, o creatrice, perché crea
connessioni inedite, una nuova natura, a partire dai gusto, la capacità
di giudizio estetico responsabile delia forma artistica (Cr. del Giud.,
3 46). Per Hegel invece il G.. come capacità e energia di produrre
autentiche opere d'arte che fanno del G. un "individuo della storia
cosmica*, è insieme conquista faticosa delia tecnica e ricchezza dì
esperienze intellettuali dominate emotivamente, come nel Goethe maturo
(ma il Goethe giovane fu detto geniale), che è diverso dal talento come
naturale abilità tecnica in uno specifico settore. Nell’800 la
discussione prosegue, alimentando il culto romantico dei G.; per
Schopenhauer il G., come l’arte, è contemplazione delie idee
platoniche come prima oggettivazione della volontà di vivere, libera
dalla razionalità e vicina alia follìa, poiché richiede una totale
abnegazione dell’individualità verso l’oggettività dello spirito,
contro cui la soggettiva volontà sì oppone. Infine, si ha un rapporto
tra G. e filosofia, per cui è filosofo chi ha *un oscuro sentimento del
vero*, iì G., che F. Schlegel chiama *il mediatore tra l'infinito e il
finito" come "colui che percepisce in sé il divino e
annullandosi si dedica ad annunciare a tutti gli uomini questo divino, a
parteciparlo e a rappresentarlo nei costumi e nelle azioni, nelle parole
e nelle opere (Ideen, § 44). In Schelling l'intuizione estetica è
unione dì filosofia e scienza, per cui il G. è l’Assoluto che si
rivela nell’uomo come suo strumento. In Kierkegaard il G. scuote
l’ordine e scopre il destino come anticipazione della provvidenza. GIANSENISMO (dal nome del vescovo olandese Cornelio Giansenio, 1585-1638, che espose questa dottrina nell'opera Augustinus, 1640) Questa teologia ascetica e rigorista, diffusa nei Paesi Bassi, in Francia e in Italia sino alla fine del 700, si originò come tentativo di riforma della Chiesa cattolica che, volta al proselitismo, aveva fatto sua in campo morale, contribuendo alla generale rilassatezza dei costumi, la tesi molinista (dal gesuita spagnolo Molina, 1535-1600) secondo cui alla salvezza, possibile per tutti, conducono anche solo la conversione e la buona volontà. A questa morale accomodante dei Gesuiti, che fondevano teologia scolastica e umanesimo moderno, il G. - il cui sostrato teorico è dovuto al baianismo (da Michele Baio, 1513-1589, operante negli ambienti universitari di Lovanio) - opponeva un ritorno alla lettera del Vangelo e al pensiero di Agostino sui temi della predestinazione, della salvezza e della grazia in rapporto al libero arbitrio, in una rigida interpretazione che ne portasse in luce l'autenticità. Dopo il peccato originale, col quale Adamo ha liberamente rivolto verso le creature quell'amore da riservare solo al creatore, che lo assisteva con una grazia "sufficiente", tutti gli uomini, privati di tale grazia, nascono con la stessa incapacità al bene e tendenza necessaria al peccato, e solo gli eletti, destinati da Dio alla vita eterna non per meriti ma per grazia "efficace", e da lui illuminati infallibilmente, possono volgersi al bene come amore di Dio stesso. Ma non è solo lo scontro coi Gesuiti, che portò alla condanna per eresia da parte di Innocenzo X (bolla del 31 maggio 1653) delle 5 proposizioni in cui la Facoltà di Teologia di Parigi aveva condensato il pensiero di Giansenio, a caratterizzare il G.: l'altra sua preoccupazione era la distinzione dal protestantesimo, incentrata sul problema della giustificazione per fede e per opere, possibili per il G. solo in virtù della fede stessa; su quello della dannazione, per i protestanti atto volontario di Dio, per il G. dovuta alla mancanza della grazia, la cui causa resta per la ragione umana un mistero che mostra tutta la sua limitatezza, come afferma Cartesio nella tesi dell'inaccessibilità di Dio da parte di un intelletto finito; e su quello del rapporto tra volontà e grazia, che per il G. si fondono nella scelta del bene rendendo la volontà partecipe del divino, mentre per i protestanti, che videro in ciò la negazione del libero arbitrio, essa è strumento passivo. Il maggior teologo del G. fu Antonio Arnauld, che difese con i ed. solitari di Port-Royal, sede dell'abbazia che l'abate di Saint-Cyran rese centro del G., le tesi del G. all'epoca del processo per eresia. Il suo più celebre difensore fu Blaise Pascal nelle Lettere provinciali (1656).
IDEALE
Per I. si intende la perfezione compiuta ma non reale di qualcuno
o di qualcosa. Il concetto fu ripreso da Kant (Cr. R. Pura, Dialettica),
che, a partire dalia sua distinzione tra essere e dover essere, distinse
l'idea in tutta la sua purezza, come ad es. la sapienza, dall'i., che la
incarna e che pienamente corrisponde solo nel pensiero a quell'idea,
come ad es. per lo stoico il sapiente. In questa prospettiva, la
funzione dell'I, è quella di fornire alla ragione il modello perfetto,
di cui l'idea è la regola, per valutare e misurare per mezzo dì esso
la realtà, e per cercare di migliorarla adeguandosi sempre più ad
essa. Hegel, che negò la separazione tra essere e dover essere,
restrinse il concetto di I. all'estetica: l'arte è "l'intuizione
concreta e la rappresentazione dello Spirito assoluto in sé come
dell’I“ (Enc.), per cui nel mondo estetico l’idea o Ragione
autocosciente non si realizza nella sua forma propria, ma, nella forma
sensibile, traspare come I. che è al di là di questa forma. Invece
nella religione e nella filosofia, forme spirituali in cui l’idea sì
realizza, l’I. non ha più ragion d'essere, perché si ha la compiuta
coincidenza di reale e I., di essere e dover essere nella realtà, e non
vi è una forma al di là della sostanza. La contemporanea filosofia dei
valori di Wìndelband e Rickert. cui può ricollegarsi l’etica di
Troeltsch, pur riprendendo la distinzione kantiana tra piano dell'essere
e piano del dovere, rifiuta l'inattingibilità all'infinito del dover
essere, e considera il valore come dover essere sempre presente, seppur
realizzato in forma imperfetta e seppur distìnto in sé come idea,
nella realtà. ILLUMINISMO
In senso stretto, l’I. è la Philosophie des lumiéres: nasce in
Inghilterra nel XVII sec., estendendosi nel XVII sec. in Francia, sua
patria d'elezione, quindi in Germania (Aufklarung) e in Italia. L'I. è
critica e guida della ragione in tutti i campi attraverso conoscenza e
scienza per liberare da ignoranza superstizione e oscurantismo che
dominano le coscienze e che sono voluti da chi detiene il potere. Ma vi
è un I. del mondo greco e romano: i sofisti, antitradizionalisti,
negano valori e leggi assoluti, criticando come Senofane
l'antropomorfismo religioso; scettici, stoici e soprattutto Epicuro
vogliono liberare dalla paura degli dèi e della morte. In Inghilterra
Locke e Newton basano la ragione sull'esperienza, mentre in Francia è
il razionalismo metafisico di Cartesio, e poi di Spinoza e Leibniz, ad
affermarsi, dopo una vera e propria guerra per la diffusione della
cultura a tutti i livelli sociali (di cui è modello l’Encyclopédie,
diretta da d'Alembert e Diderot) contro il dogmatismo conservatore
europeo (di marca feudale nei costumi e nelle istituzioni), in favore
della libertà di pensiero e del diritto-dovere di ogni uomo di usare la
propria intelligenza indipendentemente da qualsivoglia autorità,
soprattutto riguardo all’ipse dixit. Questo aveva dominato sia la
filosofia scolastica medievale (che procedeva con i Commentari, ossia
con il commento puntiglioso dei testi della tradizione) sia la politica
culturale della Chiesa cattolica: Voltaire, deista, fece una critica
delle confessioni religiose, in particolare ebraica e cristiana,
evidenziando l'inattendibilità filologica e storica delle
interpretazioni canoniche dei testi sacri e l'immoralità del ricatto
dell'inferno per costringere a un'obbedienza avvilente, mentre in
Rousseau i princìpi democratici e pedagogici dell'I. trovano la più
limpida espressione. In Germania si ha l'interrelazione tra illuministi
(Aufklarer), difensori della luce della ragione umana, e illuminati,
privilegiati depositari della luce della ragione divina, ambedue uniti
nel concetto di Bildung (formazione) di cui parlano Lessing e Herder, e
che viene applicato all'ermeneutica biblica e alla storia universale.
L’I. tedesco è a forte vocazione metafisico-speculativa: Ch. Wolff ne
è il caposcuola. Tra il 1780 e il 1790 si svolge un ampio dibattito di
cui è risultato ciò che dice Kant in risposta al quesito del 1784
della "Berlinische Monatsschrift": "L’I. è l'uscita
degli uomini dallo stato di minorità a loro stessi dovuto. Minorità è
l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un
altro. A loro stessi è dovuta questa minorità, se la causa di essa non
è un difetto dell'intelletto ma la mancanza della decisione e del
coraggio di servirsene come guida. 'Sapere aude! Abbi il coraggio di
servirti del tuo intelletto!' è il motto dell’"Was ist
Aufklarung?”, in Op., ed. Cassirer). IMMAGINE
(lat. imago) Per Aristotele le I. sono come le cose sensìbili, ma non
hanno materia (De an.), per cui l'I. è da un lato prodotto
dell'immaginazione, dall'altro la sensazione o percezione stessa di chi
la riceve. Gli Stoici distinguevano tra prodotto e sensazione, chiamando
fantasma, o immaginazione, l’I. che il pensiero si forma, e fantasìa,
o I., l'impronta della cosa sull'anima, che vi produce un mutamento, per
cui l'I. in senso proprio è "ciò che viene impresso, formato e
contraddistinto dall'oggetto esistente in conformità della sua
esistenza e che perciò è tale che non sarebbe se l'oggetto stesso non
esistesse" (Diog. L., VII, 50). Per gli Epicurei le I. sono tutte
vere in quanto prodotte dalle cose, dal momento che ciò che non c'è
non può produrre nulla (Diog. L.. X 32). Queste teorie furono riprese
nel Medioevo in direzione teologica a proposito del rapporto tra la
natura divina e la natura umana: Tommaso (S. Th.. I. o. 95), e anche
riprese nella filosofia moderna da Bacone e da Hobbes. che afferma che
l'I. "è l'atto di sentire e non differisce dalla sensazione se non
come il farsi differisce dal fatto" (De con.. 25. § 3). Cartesio e
Wolff sostituirono il termine rispettivamente con idea e
rappresentazione, influenzando in parte la filosofia contemporanea, dove
però si assiste a una ripresa di interesse verso il tema. Bergson
afferma: "Fingiamo per un istante di non saper niente delle teorie
della materia e delle teorie dello spirito e niente sulle discussioni
intorno alla realtà o alla idealità del mondo esterno. Eccomi dunque
in presenza di I. nel senso più vago in cui si possa prendere questa
parola, I. percepite quando io apro i miei sensi, non percepite quando
li chiudo" (Matiére et mémoire. cap. I). INDIVIDUAZIONE
(lat. Individuatio, onis) Il problema dell'i,, molto dibattuto nella
storia della filosofia, nasce dal presupposto della priorità ontologica
della sostanza comune come problema della costituzione dell'individualità
a partire da essa. Avicenna, ritrovandolo in Aristotele, lo formulò per
primo, trasmettendolo alla Scolastica cristiana. Il principio è la
necessità della sostanza; "Tutto ciò che è, ha una sostanza per
la quale è ciò che è e per la quale è la necessità e l'essere di ciò
che è" (Logica. I ed. Venezia, 1508), per cui ogni ente non è in
sé né universale né singolare, ma individuale, il questo, che
Aristotele fa dipendere dalla materia; "Tutte le cose che sono
numericamente molte hanno materia: il concetto di tali cose, per es.
dell'uomo, è uno e identico per tutte, mentre Socrate (che ha materia)
è unico" (Met. XII, 8, 1074 a 33). Tommaso individuò l'I. non
nella materia comune, giacché tutti gli uomini sono incarnati e per
questo non si diversificano, ma nella materia segnata, che fa sì che un
uomo sia diverso dall'altro perché situato in un determinato punto
dello spazio e del tempo, soluzione che fu ripresa in età moderna da
Schopenhauer, che vide la sostanza unica nella volontà, ma l'I. nello
spazio e nel tempo, per cui "ciò che è tutt’uno nell'essenza e
nel concetto apparisce invece diverso, come pluralità giustapposta e
succedentesi" (Die Web. 1. § 23). Al tomismo si oppose nella
Scolastica l'agostinismo. che individuò il principio d'I. non nella
materia ma nella forma, per cui per Bonaventura è la forma che come
essenza, restringendo la materia, definisce il questo come hoc aliquid
in cui l’hoc è la materia, l'aliquid la forma. Duns Scoto, che vede
l'individualità nell'hecceitas. rifiuta sia materia che forma come
principio d'I., la prima perché, indistinta, non può essere principio
di distinzione, la seconda perchéi, come sostanza o natura comune, è
antecedente e indifferente sia all'universalità che all'individualità,
per cui l'individualità è plurima realtà dell'ente", che contrae
la natura comune, determinandola; essa è l'esse bone rem. o "entità
positiva", determinazione ultima e compiuta della materia, della
forma, e detta loro composizione, per cui l'individuo non è semplice ma
complesso nella ricchezza delle sue determinazioni. Il nominalismo
empiristico dell'ultima Scolastica nega la priorità della sostanza
comune, realtà universale: Ockam afferma che niente è universale, se
non per convenzione arbitraria (come la voce "uomo", che è
singolare, diviene universale), per cui "E’ da ritenersi
indubitabilmente che qualsiasi cosa esistente di per sé è una cosa
singolare ed una di numero (...) la singolarità è una proprietà che
appartiene immediatamente a ogni cosa, perché ogni cosa è di per sé o
identica o diversa dall’altra" . Leibniz si rifa a Ockham e a
Duns Scoto quando afferma che "ogni individuo è individuato dalla
sua totale entità", e Wolff che "ll principio d'I. è la
determinazione completa di tutte le cose che sono inerenti a un ente in
atto" (Ontol., § 229). La contemporanea filosofia dei valori fa
dell'irripetibilità dell'individuo come Individuum metafìsico una
principio inalienabile. INERZIA
(lat. Inertia, come stato di Quiete) Concetto fondamentale della
meccanica moderna nato con la filosofia. Ma dal momento che per
Aristotele "tutto ciò che si muove è mosso necessariamente da
qualche cosa", ogni ente in movimento è mosso necessariamente da
altro anche per persistere nei suo movimento (Fis., VII. 1.241b 24).
E’ così con la Scolastica del XIV secolo che si ha la nascita del
concetto di I. con la critica alla teoria aristotelica cui si oppone la
teoria della freccia di Ockham: secondo Ockham, che si attiene alla
fisica, la freccia o qualunque altro proiettile conserva il suo moto
nella traiettoria anche dopo che questo è stato trasmesso dall'arco,
mentre secondo il suo discepolo Bendano, che applica questa teoria al
movimento dei cicli, scostandosi nella metafisica, questi hanno un
impeto, loro trasmesso dalla potenza divina, che non viene né diminuito
né annullato da forze opposte. All'Università di Parigi, sempre nel
XIV secolo Alberto di Sassonia, insieme a tutta la corrente ockhamista lì
fiorita, difende questa tesi. Leonardo e Galilei, e da allora tutta la
scienza moderna, riprendono la tradizione scolastica, il secondo
invitando a un esperimento mentale consistente nell'immaginare il
movimento di una palla perfetta su di un piano perfettamente liscio né
acclive né declive come movimento perpetuo, ma in realtà non
formulando in termini razionali ed espliciti il principio: il primo a
farlo fu Cartesio, che disse "prima legge della natura" il
principio secondo cui "Ciascuna cosa particolare continua a essere
nel medesimo stato fintanto che può e non lo cambia se non per il suo
incontro con altre cose". Newton,
qualche decennio dopo, trasferì questa legge nella dinamica come suo
primo principio nei “Principi matematici della filosofia naturale”,
rendendolo definitivamente un'acquisizione della scienza moderna, ove è
ancor oggi presente, e utile per il calcolo della forza o dell'energia. IPERURANIO
(comp. gr. i)7isp-oupavoa=al di là, al di sopra, oltre il cielo) Nel
mito di Piatone esposto nel Fedro (247 e sgg.), la regione non spaziale
(per gli antichi greci il cielo racchiude tutto lo spazio, per cui oltre
il cielo non vi è spazio) e perciò, seppure dotata di realtà
ontologica, espressa in termini puramente metaforici, in cui sono
situate le idee come modelli di tutte le cose, invisibili all'uomo perché
non sensibili ma intellegibili. Nella Repubblica Piatone ironizza su
coloro che stanno col naso in su cercando di scorgere tali enti
intellegibili: «Per mio conto, non posso riconoscere ad altra scienza
il potere di far sì che l'anima guardi in su se non a quella che si
occupa dell'essere e dell'invisibile; ma se qualcuno cerca di apprendere
qualcosa di sensibile, guardando in su a bocca aperta o a bocca chiusa,
io dico che costui non apprenderà niente perché non c'è scienza delle
cose sensibili e che la sua anima non guarda in alto ma in basso, anche
se egli studi restando sul dorso a terra o in mare» (Rep. VII, 529
b-c). IPOSTASI
(lat. substantia) Per Plotino le tre sostanze principali del mondo
intellegibile: l'Uno, l'Intelletto che procede dall'Uno, e l'Anima, che
procede dall'Intelletto, da lui paragonate rispettivamente alla luce, al
sole e alla luna. Il concetto di I. svolse un ruolo determinante nelle
discussioni trinitarie dei primi secoli dell'era cristiana, per la
formulazione della dottrina, stabilita dai padri cappadoci nel IV sec.:
1'ousia, o sostanza, venne a designare l'essenza divina comune alle tre
Persone, mentre Padre, Figlio e Spirito Santo furono definiti nella loro
individualità I., più che Persone, poiché quest'ultimo termine
significa propriamente maschera. Nella filosofia scolastica, Tommaso
indicò con I. ogni sostanza individuale, in contrapposizione alla
sostanza in generale: "Secondo alcuni la sostanza, nella
definizione della persona, sta per la sostanza prima, che è l'I.;
tuttavia non è superfluo aggiungere individuale, giacché con il nome
di I. o di sostanza prima si esclude il rapporto tra l'universale e la
parte. Non diciamo infatti che sia I. il concetto di uomo o la
mano" (S. Th.). Nella filosofia moderna e contemporanea, i derivati
del termine I. (ipostatizzare, ipostatizzazione) stanno a significare,
in senso negativo, ogni concetto astratto cui si dà indebitamente
portata ontologica di ente o sostanza, trasformando un principio
relativo in assoluto. IRONIA
(lat. ironìa) L'atteggiamento che da un'importanza assai minore del
giusto a sé e alla propria situazione o a cose o persone che hanno
stretta relazione con essi. Due sono le forme fondamentali di I: 1)
socratica; 2) romantica. 1) Socrate si atteggiava di fronte alla verità
a diminuire se stesso nei confronti degli avversari con cui discutere
dichiarando: "Io ritengo che l'indagine è al di là delle nostre
possibilità e che voi che siete bravi dovete aver pietà di noi
piuttosto che arrabbiarvi con noi" (Rep.), per cui la verità è
nel giusto mezzo: chi esagera la verità è il millantatore e chi invece
la diminuisce è l'ironico. Per Aristotele l’I. è simulazione (Et.
Nic.), per S. Tommaso una forma (lecita) di menzogna (S. Th.). 2) L’I.
romantica poggia sul presupposto dell'attività creatrice dell'Io
assoluto. Il filosofo e il poeta (che spesso per i Romantici
coincidono), identificandosi con l'Io assoluto, considerano ogni realtà
come un'ombra o un gioco dell'Io, sottovalutando così l'importanza
della realtà. Per Schlegel l’I. è la libertà assoluta di fronte a
qualsiasi realtà: "Trasferirsi arbitrariamente ora in questa ora
in quella sfera come in un altro mondo, non solo con l'intelletto e con
l'immaginazione ma con tutta l'anima; rinunciare liberamente ora a
questa ora a quella parte del proprio essere, e limitarsi completamente
a un'altra; cercare e trovare il proprio uno e tutto ora in questo ora
in quell'individuo e dimenticare venatamente tutti gli altri: questo può
solo uno spirito che contiene in sé come una pluralità di spiriti e
tutto quanto un sistema di persone, e nel cui intimo l'universo che,
come si dice, è in germe in ogni mondo, s'è dispiegato ed è pervenuto
alla sua maturità" (Frag., 1798, § 121). Solger, che sistematizza
questi concetti, considera ironica la soggettività che comprende se
stessa come cosa suprema che quindi abbassa a puro nulla tutte le altre,
anche ciò che c'è di più alto. Hegel, pur definendo platonico, e
quindi per lui negativo, qualche particolare della dottrina di Solger,
la faceva sua: "Non la cosa è superiore, ma sono io superiore e
sono il padrone, che al di sopra della legge e della cosa, scherza con
esse come con il suo piacere e in questa coscienza ironica, nella quale
lascio perire il Sommo, godo soltanto di me" (Fil. del dir., §
140). L'I. così intesa, come coscienza della Soggettività assoluta e
dell'assoluto arbitrio di tale soggettività, è per Hegel un risultato
della filosofia di Fichte interpretata da Schlegel: "Qui il
soggetto (...) sa distruggere sempre di nuovo tutte le determinazioni
che esso stesso si dà del giusto e del bene. Esso può dare a intendere
a sé ogni cosa ma non mostra altro che vanità, ipocrisia,
sfrenatezza." (Geschichte
der Phil.). Per
Kierkegaard l’I. è l’infinitizzazione dell'interiorità
dell'io" (Diario), coscienza esaltata.
LOGOS
(gr. Logos, lat. Verbum) La ragione intesa come: 1) sostanza o causa del
mondo. 2) ipostasi o persona divina. E' Eraclito che per la prima volta
parla del L. come sostanza o causa del mondo: "Gli uomini sono
ottusi nei confronti dell'essere del L.. sia prima che dopo averne
sentito parlare; e sembrano inesperti, sebbene tutto avvenga secondo il
L.", che è la legge del mondo, dal momento che "Tutte le
leggi umane si alimentano di una sola legge divina: perché questa
domina tutto ciò che vuole e basta a tutto e prevale su tutto".
Gli Stoici considerano la ragione come Dio, il principio attivo del
mondo, che anima, ordina e guida la materia, principio passivo, in
eterno, come artefice di ogni cosa: essa è il destino. Per Plotino, la
cui concezione fa da modello a tutte le forme di panteismo, "il L.
che agisce nella materia è un principio attivo naturale; non è
pensiero né visione ma potenza capace di modificare la materia, potenza
che non conosce ma agisce come il sigillo che imprime la sua forma o
come l'oggetto che riproduce il suo riflesso nell'acqua, come il cerchio
viene dal centro, così la potenza vegetativa o generatrice riceve
d'altronde la sua potenza produttiva cioè dalla parte principale
dell'anima, la quale gliela comunica modificando l'anima generatrice che
risiede nel tutto", per cui "Dall'intelligenza emana il L. e
ne emana sempre, fin tanto che l'Intelletto è presente in tutti gli
esseri". Il primo a formulare la dottrina del L. come ipostasi o
persona divina è Filone di Alessandria, che considera il L. un ente
intermedio tra Dio e il mondo che. come ombra o immagine derivata e
modello delle cose, fa da tramite alla creazione divina, cosi come Dio
è il modello del L.. che è sua immagine e ombra. A queste
determinazioni il cristianesimo aggiunge che il L. è il Cristo, che si
è fatto carne per noi. come afferma Giovanni nei prologo del suo
Vangelo. I Padri della Chiesa affermano sia la perfetta parità del
Logos-Figlio col Dio-Padre, sia la partecipazione dell'umanità al L.
come ragione, come Giustino o come Ireneo, che considera uguali in
essenza e dignità Dio, il L. e lo Spirito Santo. Essi danno la base ai
dogmi fondamentali della Trinità e dell'Incarnazione, affermati dal
Concilio di Nicea (325) nonostante le oscillazioni tra l'interpretazione
che considera Dio e il L. perfettamente dati e quella, propria da ora in
poi delle eresie, che vi pone una differenza gerarchica. E' Origene, col
suo primo grande sistema di filosofia cristiana, a dare la seconda
interpretazione, bocciata dalla Chiesa: egli pone una differenza tra
Iddio, il Padre, e Dio, il Figlio, a lui coeterno ma non nello stesso
senso, dal momento che Dio da la vita ed è la vita e Dio la riceve, per
cui Il L. è l’essere degli esseri, la sostanza delle sostanze, l'idea
delle idee, mentre Iddio è superiore a tutte queste cose, ne è al di là.
La dottrina del L. è una dottrina teologica. Il secondo Fichte,
ricorrendo al ricordato prologo di Giovanni per mostrare l'accordo del
suo idealismo col cristianesimo, vede nel L. l'Esistenza o la
Rivelazione di Dio, al di là della quale è l'essere di Dio stesso, suo
fondamento: il Sapere, l’Immagine (Introduzione alla vita beata, in
Werte, V, p 4751
MAIEUTICA
Socrate, nel Teeteto di Platone, paragona la sua dialettica
all'arte maieutica, che avrebbe ereditato dalla madre e che, come quella
della levatrice, sterile ma capace di portare alla luce i neonati,
sarebbe sterile di sapienza, ma capace di portare alla luce le
conoscenze che si formano nella mente di ognuno, se interrogato bene nel
dialogo (come nel caso dello schiavo del Menone che mostra di sapere il
cosiddetto teorema di Pitagora): "Io ho questo in comune con le
levatrici: sono sterile di sapienza; e ciò che molti da anni mi
rimproverano, che interrogo gli altri ma non rispondo mai da me perché
non ho alcun pensiero saggio da esporre, è rimprovero giusto" MALE: lat. Malum. Due le interpretazioni fondamentali del M. nella storia della filosofia: 1 metafisica: il M. è: a) non-essere o nulla, e il Bene l'unico essere, la realtà: vi è dualità nell'essere e lotta tra Bene e M. Tesi soggettivistica: il M. è oggetto di una appetizione negativa o di un giudizio negativo. Per gli Stoici l’unico essere è il Bene, il M. è necessario all'ordine dell'universo, condiziona il bene, ogni cosa esistente è buona, e il M non esiste. Plotino formula per tutti i neoplatonici la tesi che il M. è la materia, non essere: "Il M. non consiste in una deficienza parziale ma in una deficienza totale, come nella materia, allora c'è il vero M., che non ha alcuna parte di bene" (Teoria tradizionale della filosofia cristiana, è diffusa in Occidente da Agostino: "Nessuna natura è M e questo nome non indica altro che la privazione del bene" (De Civ. Dei) Per Boezio: "II M. è niente, perché non lo può fare Colui che può ogni cosa". Tutta la Scolastica, cristiana e giudaica, vi si attiene. Nel '600 lo scetticismo attaccò i! cristianesimo col concetto manicheo che il M. è compatibile con l'onnipotenza divina e la perfezione dell'universo, suscitando polemiche cui Leibniz rispose: "I Platonici. S. Agostino e gli Scolastici hanno avuto ragione di dire che Dio è !a causa materiale del M., che consiste nella sua parte positiva, e non nella forma di esso, che consiste nella privazione". La tesi della nullità del M. è costante in coloro che identificano l'essere col bene, la ragione e il dover essere: il M., come volontà cattiva, è "la nullità assoluta" di questa volontà. Per Gentile: "Non errore e verità, ma errore nella verità, come suo contenuto che si risolve nella forma: né M. e bene: ma M. onde il bene si nutre nel suo assoluto formalismo". «La tesi della lotta tra due princìpi (divinità e antidivinità che la limita, ma non elimina i! monoteismo) risale alla religione persiana di Zarathustra. agli Gnostici e ai manichei, per cui il M. è reale, ma la filosofia ha modificato la separazione dei due princìpi includendoli entrambi in Dio: per la teosofia, è lotta amorosa. Schelling afferma che in Dio c'è l'essere e un substrato o natura come desiderio di uscire dall'ombra e raggiungere la luce divina, per cui è nell'uomo che nasce !a separazione e la lotta tra bene e M. 2) Alla tesi soggettivistica che il M. è l'oggetto negativo del desiderio o del giudizio di valutazione ha dato forma Kant: "I soli oggetti di una ragion pratica sono il bene e il M. Col primo s'intende un oggetto necessario della facoltà di desiderare, col secondo (...) di abborrire. ma entrambi secondo il solo principio della ragione" (C. R. Pr . cap. 2). diversi da piacevole e doloroso, propri della "facoltà di desiderare inferiore", ma esiste il M. radicale. MANICHEISMO
(siriaco Mani havya=Mani il vivente) Religione fondata da Mani (216-277
d. C. Principe persiano - che si proclamò Paracleto, ossia colui che
porta il cristianesimo alla perfezione e per una rivelazione si convertì
a una rigida regola di vita, con attività missionaria in Oriente fino
in Egitto contro buddhismo e mazdeismo - con elementi gnostici,
cristiani e orientali fondati sulla religione di Zarathustra. il cui
dualismo è tra principio del Bene e del Male (o della luce e delle
tenebre), che nell'uomo significa tra due anime, una corporea, l'altra
luminosa, raggiungibile con l'ascesi dei tre sigilli, data
dall'astensione da: cibo animale e discorsi impuri, proprietà e lavoro,
matrimonio, concubinaggio e qualsiasi attività sessuale. In un momento
anteriore i due princìni esistono separati, nell'intermedio le Tenebre
hanno invaso la Luce, nel terzo si ha il definitivo trionfo della Luce e
la liberazione dell'anima-luce dal mondo fisico creato dalle Tenebre.
Scopo dell'uomo è liberare l'io divino dall'io demoniaco, raggiungibile
da pochi, da cui una rigida gerarchia tra eletti, organizzati in cinque
gradi (il massimo è quello del supremo pontefice-maestro), e semplici
fedeli. Il M., perseguitato in Persia, e contro cui Agostino scrisse
numerose opere, fu presente in Occidente sino al VII secolo e si diffuse
in Asia e Africa. Gli scritti di Mani, in iranico, furono tradotti in
diverse lingue, tra cui il "dialetto manicheo", varietà dell'aramaico
orientale. Dopo la conquista araba, gli Omayyadi (secoli VII-VIII) lo
videro con favore, favore che diminuì con gli Abbasidi. La diaspora del
M. iniziò nel secolo X. mentre in Estremo Oriente se ne ebbe la
presenza sino al secolo XII. In Bulgaria, nella Francia meridionale e in
Italia ci fu una profonda vicinanza con, rispettivamente, i bogomili e i
catari tra XII e XIII secolo. METODO
Insieme di regole implicite o esplicite, ossia come procedimento
d'indagine razionale, riproducibile e autocorreggibile. per lo
svolgimento di un'attività in modo ottimale, sia essa una prassi
collettiva complessa (ad es. il M. democratico) sia essa una ricerca o
una tecnica scientifica teorica o sperimentale, che, come sottolinea più
volte Cartesio, tutte hanno un M. (ad es.: il M. hegeliano, il M.
dialettico, il M. sillogistico. il M. geometrico, il M. sperimentale).
Il problema del M. è da sempre connesso con quello della certezza della
conoscenza: Socrate afferma che la ricerca, come ogni altra arte, deve
conformarsi a regole, dal momento che la sua validità e quella dei suoi
risultati sono legate al modo in cui è conseguita e raggiunta. Sia il
M. maieutico di Socrate che il M. dialettico di Platone sono vólti a
evitare l'errore, e specie il pregiudizio (Platone da prescrizioni
negative o "igieniche"), per cui hanno anche istruzioni
positive, o regole euristiche. Negative sono le regole di Bacone contro
gli ìdola e la prima e quarta regola di Cartesio. Positive sono poi le
tavole di presenza e assenza sempre in Bacone e la seconda e quarta
regola di Cartesio. A modello è stata presa la geometria esposta negli
Elementi di Euclide (M. geometrico) e, dal XVI secolo, la fisica
classica di Galilei e Newton, in particolare meccanica, come M.
sperimentale fatto di ipotesi e loro verifica con l'esperienza, mentre
il M. ipotetico-deduttivo vuole sommare gli aspetti positivi di ambedue.
In età contemporanea, sia il M. geometrico che quello sperimentale
hanno acceso dibattiti: Hilbert, con la sua scuola, voleva rendere
rigoroso il primo con la costruzione di due discipline
logico-matematiche: l'assiomatica e la teoria della dimostrazione.
Popper (Conoscenza oggettiva, 1972) sostituì per il secondo al concetto
di verificazione quello di falsificazione, secondo cui una teoria è
sempre falsificabile fino a prova contraria, per cui i neopositivisti
invitano la scienza sperimentale a produrre quante più conferme
empiriche possibili delle ipotesi. Lakatos, allievo di Popper (Critica e
crescita della conoscenza. 1970), afferma che le falsificazioni
producono in genere riformulazioni più precise delle ipotesi, complesse
e non riducibili a semplici regole o dotate di regole complesse. Kuhn,
che parla di rivoluzioni scientifiche, mostra che il presentarsi di una
teoria nuova all'interno di una scienza determina o l'assorbimento di
essa nella tradizione del vecchio paradigma o il distacco dal vecchio e
l'apparire di un nuovo paradigma, e Feyerabend, sulla scia di Lakatos,
nega ogni valore al M., che sarebbe il modo con cui la vecchia scienza
ostacola la nuova coi suoi pregiudizi. MISTICA
(lai mìslicus. a um~ appartenente al culto segreto) Ogni dottrina della
teologia che affermi la possibilità di una comunicazione diretta tra
l'uomo e Dio o in genere l'esperienza del trascendente. In Occidente,
nel V secolo Dionigi l'Areopagita. ispirandosi al neoplatonismo di
Proclo e prima di lui di Piotino, con tracce di credenze orientali (induismo,
tantrismo e buddhismo sono altrettanti tentativi di M.), insiste, usando
per la prima volta la parola M., sia sull'impossibilità di una
comunicazione coi mezzi ordinari del sapere umano, che definiscono Dio
negativamente (teologia negativa), sia sul rapporto originario e intimo
in virtù del quale l'uomo mio ritornare a Dio con un atto supremo,
l'estasi o deificazione dell'uomo, intesa come liberazione dal male e
salvezza. Alcune correnti della M. medievale distinguono fede e ragione,
cioè M. e speculazione, come nel XTT sec. Bernardo di Chiaravalle.
mentre altri, come i Vittorini (Ugo. Riccardo) danno vita alla M.
speculativa, sintesi tra teologia e mistica, in tre gradi progressivi,
divenuti classici: verso la natura. le facoltà intcriori, la
contemplazione dell'Assoluto, poi immessi da S. Ronaventura nt\VJlinerarium
mentiti in Deian. Per Bonaventura il pensiero vede le cose nel loro
ordine oggettivo (T grado) e nell'apprensione che ne ha l'anima (TT
grado), medita sull'immagine di Dio nei poteri naturali dell'anima,
memoria, intelletto e volontà (TTT grado) e nei poteri che l'anima
conquista in virtù delle tre virtù teologali, fede, speranza e carità
(TV grado), contempla rivolgendosi a Dio nel suo essere (V grado) e
nella sua massima potenza, il bene (VT grado), per cui la ricerca
dell'ascesa M. ha tradizionalmente tre gradi progressivi, divisi a loro
volta in due. che giunti all'ascesi sono sette: pensiero o cnpilatio (le
immagini dell'esterno come orma di Dio), la meditazione intcriore o
meditatio che guarda all'immagine di Dio. e la contemplazione o
contemplatici che si rivolge a Dio stesso. MOLTEPLICITÀ
(lat. multitudo) I "molti" in contrapposto
all'"uno", che già suscitavano discussioni nel IV sec. a. C.,
come testimonia Platone, per il quale il vero concetto di M. non è
quello della dispersione senza limite, ma quello del numero, che è al
tempo stesso uno e molti in quanto ordine di una determinata M. Per Kant
la M. è la "materia" della conoscenza nel suo stato
disordinato e grezzo, ossia prima che essa riceva ordine e unità dalle
forme a priori della sensibilità e dell'intelletto (Cr. R. Pura, § 1). MORALITA', termine
impiegato spesso come sinonimo di etica, ma ad esso talvolta
contrapposlo in accezioni fìlosofiche particolari. Nell'uso
contemporaneo, moralità può indicare i] fenomeno concreto della
morale, sìa come insieme di istituzioni descrittivamente detcrminate
(sul piano storico, sociologico e antropologico), sia come esperienza
morale ordinaria, di cui l'etica costituisce lo studio sul piano
fiJosofico e riflessivo. Nell'accezione peculiare di G. W. F. Hegel, la
moralità (Moralitat) o un momento della forma di vita etica
caratteri//;:) i a dalla pura possibilità e obbigazione intcriore
dell'individuo e viene contrapposta all'eticità* (Sittlichkeìt) in
quanto realizzazione concreta di costumi morali nella famiglia, nella
società e nello slato. Un altro uso, che si deve al filosofo morale
inglese tì. Williams, distingue tra moralità, in quanto sistema etico
peculiarmente moderno e caratterizzato dal concetto kantiano di
obbigazione, ed etica concepita come un modello generale di condotta più
ampio e comprensivo del modello kantiano, tipico ad es. della
riflessione morale antica.
NOUMENO
Ciò che è oggetto di un pensiero possibile. In Platone, che afferma:
"Se intellezione e opinione vera sono due cose diverse, allora ci
saranno senza dubbio enti che, quantunque non siano sensibili per noi,
sono soltanto pensati" (Tìm.), La M. indica la specie
intellegibile o l'idea, ciò che non cade nel dominio dell'apparenza
"visibile e tangibile", ma che si coglie solo con il
ragionamento (Repub., Tim.). Ma la distinzione fenomeno-N. è di Sesto
Empirico: "Lo scetticismo è la capacità di contrapporre fenomeni
e noumeni in qualsiasi modo", ove i fenomeni sono i dati di senso e
i noumeni i contenuti di pensiero. Per gli Stoici "La comprensione
si produce o con la sensazione e allora è comprensione di cose bianche
o nere o ruvide o lisce o col ragionamento e allora è comprensione di
nessi dimostrativi come quando si dimostra che gli dèi esistono e che
esercitano la provvidenza. Delle cose pensate invece alcune sono pensate
secondo l'occasione, altre secondo la somiglianzà, altre secondo la
composizione e altre secondo contrarietà" (Diog. L.). E' Kant però,
nella Dissertazione De mundis sehsibilis et intellegibilis forma et
principii (1770), a riportare in auge tale distinzione: "L'oggetto
della sensibilità è il sensibile; ciò che non contiene nulla che non
possa essere conosciuto dall'intelligenza è l'intellegibile. Il primo
dalle scuole degli antichi era detto fenomeno, il secondo N.” . Per
Kant vi è un significato positivo e uno negativo di N.: il primo è
l'oggetto di un'intuizione puramente intellettuale, il secondo la pura
negazione di ogni determinazione sensibile (Critica della Ragion Pura,
App. all'Analitica trascendentale), per cui il concetto di N. è
"problematico" e designa un "limite": non contiene
contraddizione ma non può trovar corrispondenza in alcuna verità
conosciuta: è in sede pratica che il concetto di N. trova legittima
applicazione, in quanto concetto che designa la volontà libera (causa
noumenon). Il termine N. è usato anche da Schopenhauer per indicare la
"volontà" cieca, universale e assoluta, essenza reale del
mondo illusorio delle rappresentazioni fenomeniche.
OLIGARCHIA/FORME
DI GOVERNO La
distinzione delle tre forme di governo (di uno solo, di pochi, di tutti)
è riportata da Erodoto sulla base di antiche nozioni di saggezza
popolare. Platone nella Repubblica poneva al di sopra di questa
classificazione lo Stato idealmente perfetto, l'aristocrazia o governo
dei filosofi, la cui prima degenerazione è la timocrazia, o governo
dell'onore, che si ha quando i governanti si appropriano di terre e
case, mentre la seconda è l'O., governo fondato sul censo (Rep.). Nel
Politico Piatone, più sistematicamente, si rifece alla distinzione di
Erodoto tra governo di uno solo, di pochi, e di molti, forme di governo
che, a seconda che siano rette da leggi o prive di leggi, danno luogo
rispettivamente al governo regio o alla tirannide, all'aristocrazia o
all'oligarchia, alla democrazia retta da leggi o a quella che ne è
priva, la demagogia (Pol.). Aristotele, che riprese questa
classificazione, distinse due forme fondamentali: "la democrazia
quando i liberi governano e l'oligarchia quando governano i ricchi e in
genere quando i liberi sono molti e i ricchi pochi". Nel Medioevo e
nel Rinascimento divenne tradizionale la classificazione triadica. Bodin
distinse tra Stato e governo, l'uno che possiede la sovranità, l'altro
che la esercita attraverso il suo apparato (Six livres de la République).
L'esperienza storica del mondo moderno e contemporaneo ha mostrato come
la libertà e il benessere dei cittadini non dipenda dalla forma di
governo ma dalla parte che i governi fanno ai cittadini nella formazione
della volontà statale e dalla prontezza con cui sono in grado di
modificare e rettificare i loro indirizzi politici e le loro tecniche
amministrative. Nella moderna teoria politica generale è rimasta la
distinzione di Erodoto, ma non più come problema effettivo della teoria
e della pratica politica.
PAGANESIMO
Nell'antichità classica latina, il termine pagano era
contrapposto a militare col significato di borghese. Secondo alcuni
storici perciò, pagano era chiamato chi, considerati i cristiani
soldati dell'esercito spirituale di Cristo, non riconosceva tale
militanza. Secondo altri, pagano, o anche abitante dei villaggi, andò a
indicare, dopo la diffusione del cristianesimo al tempo dell'editto di
Costantino (313) prima nei centri abitati dotati di più intensa vita
culturale e circolazione delle idee poi nelle campagne tradizionalmente
arretrate, coloro che resistevano al nuovo verbo predicato dagli
Apostoli e dai loro successori rimanendo fedeli alla religione
tradizionale. P. è perciò negativamente (poiché non ha carattere
positivo che lo determini come religione precisa) l'insieme delle
religioni diverse da quella cristiana e precedenti la sua nascita,
tranne l'ebraismo di cui il cristianesimo è la continuazione, ma in
seguito designò anche la religione musulmana e i suoi fedeli, detti però
comunemente infedeli per l'egemonia politico-culturale della fede
cristiana nella prospettiva dell'Occidente. Talora si è parlato da
parte cattolica di nuovo P. per bollare la società laica come dimentica
dei valori cristiani e dedita a valori materiali quali edonismo
utilitarismo e consumismo, tacendone i valori spirituali di tolleranza e
responsabilità, progresso e pluralismo, allargamento del diritto e
delle libertà. PARUSIA
(in gr. = presenza, arrivo) II termine ha due significati: 1)
filosofico: Platone indica con P. uno dei due modi in cui le idee si
rapportano alle cose sensibili, l'altro è la partecipazione (Fedone);
2) religioso: nella teologia neotestamentaria, l'atteso ritorno di
Cristo e del suo regno sulla terra alla fine della storia. Sul
fondamento del testo dell'Apocalisse alcune comunità cristiane delle
origini lo ritenevano imminente, ancorché impossibile da datare e
circostanziare perché soggetto all'imperscrutabile disegno di Dio, ma
le aspettative deluse lo hanno detemporalizzato e fatto coincidere in
seguito col giudizio universale. Circoli minoritari fedeli all'esegesi
letterale del testo identificano la P. col millennio, periodo
metastorico in cui Satana sarà incatenato per l'avvento del Regno
(millenarismo) e in cui si realizzeranno i nuovi cieli e la nuova terra,
la materia sarà incorruttibile e ogni anima si ricongiungerà al corpo. PERSONALISMO
(lat. persona=condizione, grado, autorità, funzione d'un individuo)
Movimento filosofico sia laico che cristiano che considera la persona
come principio ontologico fondamentale dotato di dignità e valore, in
quattro diverse direzioni: 1) teologica: per i romantici Schleiermacher
e Goethe, e per Feuerbach, in polemica col panteismo assolutistico
dell'idealismo tedesco, Dio è persona distinta dal mondo e sua causa
creatrice; 2) metafisica: nella discussione contro J. Royce
dell'idealismo assoluto “The Conception of God” (1897), G. H.
Howison per primo chiama P. la teoria che il mondo sia costituito da un
insieme di spiriti finiti autonomi ma retti da un ordine ideale di cui
Dio è il centro trascendente. Renouvier (“Le personnalisme”, 1903),
in polemica anche col positivismo naturalistico francese, sgancia dal
cattolicesimo gli elementi teologici del P. inserendoli in un orizzonte
laico, influenzando W. James. Negli USA infatti, oltre Royce,
l'idealista W. E. Hocking e la Riv. The Personalist (Los Angeles, 1919),
che però ruppe coll'idealismo, difesero, come spiritualismo
monadologico di tipo leibiniziano-lotziano, il P. pluralistico di
Howison intendendolo come lotta contro il male. Nell'esistenzialismo
religioso di Marcel e N. Berdjaev il P. riprende la polemica di
Kierkegaard contro Hegel sul concetto di individuo, influenzando 3)
etico-politica: il P. sociale della Riv. Esprit (1932) e di Mounier (Le
personnalisme, 1950) - che diede vita al movimento cattolico del P.
metafisico -, preceduto da E. Duhring (Geschichte der NationalOkonomie,
1899) insiste, rifacendosi a Marx, sulla solidarietà comunitaria contro
la visione della persona sia come individuo (idealismo) che come numero
(collettivismo). 4) ontologica: Pareyson fa coincidere nella persona
auto e eterorelazione, considerandola originariamente aperta contro
l'intimismo spiritualistico. PIACERE
(lat. Voluptas) P. e dolore sono gli estremi fondamentali di qualsiasi
forma di emozione o sentimento, temporanei rispetto alla costanza della
felicità. Nel divario tra individualismo crescente e tradizionali
valori religiosi del mondo greco, Socrate identificò il P. con l'arete'
(virtus latina). Per i cirenaici P. e dolore sono due movimenti, uno
calmo l'altro aspro, di cui il saggio accoglie il primo senza farsene
possedere, che sarebbe passione (che genera dolore); ma Egesia disse che
vero piacere è assenza di sensazioni e vero bene è la morte.
L'ascetismo di Piatone esalta l'anima in opposizione al corpo (Gorgia,
Fedone), ma egli riconosce che il P. è connesso positivamente
all'attività delle tre anime (concupiscibile, irascibile, razionale)
sicché conviene mediare tra intelligenza e soddisfazione corporea: è
la ragione che deve governare il P., che solo se spirituale è puro:
durevole e non frammisto a dolore (Repubblica, Leggi); forse mediando,
nella polemica sorta nell'Accademia (cui partecipò il giovane
Aristotele), egli disse il P. armonia naturale (Filebo). Per Aristotele
il P., né movimento né dato naturale, è l'esperienza soggettiva della
perfezione oggettiva che accompagna e conclude lo sviluppo di un'attività
come potenzialità espressa, "l'atto di un abito che è conforme a
natura" (Et. Nic., VII, 12, 1153 a 14), ove "abito"
significa disposizione costante sia sensibile che non sensibile: ogni
attività genera un piacere naturale, sicché bisogna tendere a quelle
teoretico-contemplative, che danno P. buoni, diversi da quelli della
vita vegetativo-sensibile e connessi con la massima felicità. Epicuro dà
la prima definizione del P. in rapporto al bisogno, come movimento
istantaneo in cui il bisogno viene soddisfatto e la mancanza colmata
(Epistola a Meneceo, 128); ma continuò a considerare felicità
autentica la condizione stabile di assenza di bisogni e desideri
dell'anima e del corpo. La tendenza platonico-ascetica della filosofia
cristiana a condannare il P. sensibile fu contrastata sia dalle sette
ereticali medievali sia dalla Scolastica a indirizzo aristotelico.
Nell'Umanesimo, Valla (De voluptate, 1432) esaltò il P. quale movente
delle azioni, sintetizzando etica cristiana originaria e etica epicurea.
Nel Rinascimento questa prevalse: nel naturalismo di Telesio, ove il P.
è funzione di conservazione dell'organismo (De rer. nat., IX, 2), e in
Montaigne, Gassendi, Hobbes. Per Cartesio la gioia, tra le sei
fondamentali, è "l'emozione piacevole dell'anima nella quale
consiste il godimento del bene" (Passions de l'àme, § 91). Per
Spinoza è "la passione per la quale la mente sale a una perfezione
maggiore" (Et., Ili, 11). Per Nietzsche è "sensazione di un
accrescimento di potenza" (Wille zur Macht, § 660). Per
Schopenhauer è cessazione del dolore e conosciuto solo dopo questo (Die
Welt, I, § 58). Per Freud uno dei due princìpi della psiche, l'altro
quello di realtà. PIETISMO
(lat. pius=pio, che compie il proprio dovere, pietas=sentimento
religioso del dovere verso Dio, devozione, pietà) Corrente religiosa
protestante fondata nel XVII sec. in Germania, e diffusasi nel XVIII
nell'Europa settentrionale, dall'alsaziano Ph. J. Spener (1635-1705) in
reazione all'ortodossia, giudicata irrigidita e sclerotica nella pratica
(sia dei singoli sia del culto) come nella interpretazione teologica,
per un ritorno alla purezza delle tesi originarie della Riforma luterana
e a un cristianesimo attivo, religione del cuore (rigorosa, permeata
appunto di pietas e interessata più alla santificazione che alla
giustificazione, più alla vita interiore che alle opere) da
contrapporre alla religione della mente. Spener, di formazione
spirituale complessa, venne pastore a Francoforte sul Meno, ove istituì
i collegio pietatis, riunioni di cristiani finalizzate allo studio e
alla riflessione sul Nuovo Testamento per la crescita spirituale della
coscienza e lo scambio di esperienze intcriori, anche soprannaturali,
che seguiva l'esame di coscienza e la mutua esortazione. Del 1675 sono i
Pia Desiderio, ovvero Viva aspirazione a un miglioramento a Dio gradito
della vera chiesa evangelica (cui seguirono opere contro il gioco, il
teatro, la danza), in cui Spener denuncia i mali della Chiesa luterana
(mondanità e ingiusta distribuzione della ricchezza, spirito polemico e
rigidità intellettuale, fede falsata e oppressione del credente) e vi
contrappone a rimedio sei pii desideri: ampia diffusione dello studio
dei sacri testi, sacerdozio universale aperto ai laici, conoscenza della
dottrina coniugata alla pratica della virtù, rinuncia alla polemica,
interesse dei giovani teologi alla salvezza oltre che allo studio,
predicazione sulla figura dell'uomo nuovo. L'influenza di Spener,
chiamato predicatore alla corte di Dresda e parroco a Berlino, si estese
alla nuova università di Halle (1694), che divenne centro del P.
tedesco soprattutto dopo che il pedagogista A. H. Francke (1663-1727),
di lui seguace, formò un'intera generazione di teologi (che poi
fondarono numerose comunità pietiste, durate sino a metà '800, specie
in Slesia) anche con un severo cammino spirituale che dal
pentimento-conversione iniziale, passando per l'intervento miracoloso
della grazia, si conclude con la rinascita. Francke istituì a Halle e a
Glauche scuole, orfanotrofi, laboratori artigianali, case di riposo,
centri di diffusione della Bibbia e missioni per l'evangelizzazione.
L'influenza del P. è enorme nella cultura tedesca: nella musica (Schultz,
Haendel, Bach), nella letteratura (Schiller, Goethe, Novalis), nella
filosofia (Rousseau, Kierkegaaard), e a sua volta vi si ritrovano
influenze molteplici: la mistica tedesca (Taulero), luterana (J. Bohme),
cristiana orientale (esicasmo) e ebraica (sabbatianismo, chassidismo),
la spiritualità cattolica (A. Gagliardi, Breve compendio di perfezione
cristiana)., l'esoterismo (Rosacroce). POPULISMO
(lat. populus=popolo) Variegato e diffuso movimento politico-culturale
russo (idee, correnti, società segrete) della prima metà del XIX sec.
durato sino al XX con attività di predicazione, educazione,
affiliazione, complotto, insurrezionale e rivoluzionaria (soprattutto
tra il 1848 e il 1881) contro lo zarismo per l'istituzione delle libertà
costituzionali (già nel dicembre 1825 P. Pestel, alla testa di
ufficiali e reparti dell'esercito, chiese la Costituzione profittando
della confusione seguita alla morte di Alessandro I e all'abdicazione
dell'erede Costantino a favore del fratello Nicola, ma fallì
determinando l'impiccagione dei decabristi). Il P. era diviso in due
correnti: slavofili, contrari alla civiltà occidentale, corrotta e
decrepita, individualista e atea, urbanizzata e industrializzata, cui
essi contrapponevano i valori del giovane popolo russo: umiltà e
pazienza, ortodossia religiosa e senso della fratellanza, e
collettivismo agricolo come via russa al socialismo; e
occidentalizzanti, che condividevano coi primi i temi politici del
socialismo russo, ma contro il loro conservatorismo erano aperti alle
idee occidentali, assorbite durante l'esilio (A. I. Herzen dalla Riv.
"Kolokol", "La campana", lanciò la parola d'ordine
"narod", "Verso il popolo") o, dai giovani, negli
anni di studio all'estero. Il problema della terra provocò la scissione
in diverse correnti, che nel 1879 diede vita al gruppo Narodnaja Volja
(Libertà del popolo), votato alle libertà costituzionali e
responsabile il I marzo 1881 dell'uccisione di Alessandro II: fu
l'inizio della fine del P., che da allora dovè fare i conti non solo
con la polizia, ma anche con la diffusione delle idee della
socialdemocrazia marxista, erede delle idee occidentalizzanti, e del
capitalismo. Il dibattito è contro lo slavofilo N. K. Michajlovskij,
che all'interpretazione oggettiva della storia e della sociologia, alla
classe protagonista della storia e alle leggi del capitalismo estese
alla Russia che implicano la nascita della classe operaia come testa del
movimento rivoluzionario oppone il soggettivismo populista, il mito
dell'eroe e la svalutazione della folla. Il leninismo assorbirà
comunque i temi della via peculiare russa al socialismo, del
volontarismo, dell'alleanza coi contadini. Il clima populista influenzò
la letteratura russa, dal momento che il P. è un fenomeno nato
nell'ambiente aristocratico dell'intellighenzia russa, per cui la
narrativa "sociale" è incentrata, sullo sfondo della povertà
socioculturale della massa contadina, sulla figura dell'eroe
aristocratico, colto ma isolato perché "uomo inutile, di
troppo": temi populisti sono presenti in Anime morte (1842) di
Gogol', Povera gente di Dostoevskij (pubblicato su "Raccolta
pietroburghese" nel 1846), in L. N. Tolstoj e nel primo Checov,
mentre la rottura con la tradizione aristocratica è in Padri e figli
(1862) di Turgenev, Che fare? (1863) di Cernisevskij, Legami non
spezzati e La potenza della terra (1882) di Uspenskij. POSTULATO
Nel procedimento matematico, in cui è nata, come in quello
filosofìco, in cui è stata introdotta da Aristotele, o in quello
scientifico in genere, proposizione passibile di dimostrazione ma
assunta come vera senza dimostrazione come proposizione iniziale di una
dimostrazione che deriva da essa. Tutti i procedimenti scientifici
assumono come P. da cui partire per l'argomentazione, esplicitamente o
implicitamente, proposizioni che in altri precedenti procedimenti
scientifici costituivano i risultati ultimi di una teoria o di una
dimostrazione. Aristotele distingue il P. dall'assioma, di per sé
evidente e necessario anche se non dimostrabile (Euclide inserì negli
Elementi tale distinzione, venuta meno nella logica e nella matematica
moderne). Inoltre esso, non creduto vero da chi segue la dimostrazione,
differisce dall'ipotesi, anch'essa dimostrabile ma creduta vera (An.
Post., 10, 76 b 24 sgg.). Per Kant P. del pensiero empirico sono i
principi a priori che corrispondono alle categorie della modalità, per
cui le intuizioni pure e le categorie, che si accordano con le
condizioni formali dell'esperienza, sono possibili; le sensazioni, che
si accordano con le condizioni materiali, sono reali; mentre è o esiste
necessariamente ciò la cui connessione con la realtà è determinato
secondo le condizioni universali dell'esperienza (Cr. R. Pura, Analitica
dei Principi, cap. II, 4). P. della ragion pratica sono invece le
condizioni che rendono possibile la moralità: libertà, immortalità,
Dio (Cr. R. Pratica, Dialettica, sez. II). PROGRESSO
(lat. progressus, da progredi=andare avanti, avanzare) Idea che dà
luogo a concezioni, sia laiche sia religiose, per cui la storia
universale procede secondo un razionale avanzamento unidirezionale che
tende verso un miglioramento usque ad finem in ogni campo naturale e
culturale, ma soprattutto nella storia umana, sia spirituale che
materiale, e nella scienza: in questo senso l'idea si affermò nelle
filosofie della storia del XVIII e XIX sec. soprattutto in Francia, con
Illuminismo e Positivismo, e in Germania, con la filosofia classica
tedesca, ma è già presente nella religione cristiana. Dopo i cenni
degli Stoici, medievali (Bernardo di Chartres: metafora dei
contemporanei come nani sulle spalle dei giganti), rinascimentali
(Bruno, Cena de le ceneri), moderni (Bacone, Cartesio, Pascal, Leibniz),
l'idea di P. fu concettualizzata a partire dalla querelle des anciens et
des modernes: per Fontenelle gli antichi non sono superiori ai moderni,
che si avvalgono delle loro scoperte costruendo quelle future in un P.
infinito (Digressione sugli antichi e i moderni, 1688); per l'Abbé de
Saint-Pierre il P. è non solo conoscitivo ma sociale (Osservazioni sul
continuo progresso della ragione universale, 1737). Con Illuminismo e
Positivismo francesi l'idea laica di P. si diffuse enormemente (Encyclopèdie,
Discorso preliminare: concorso delle arti e delle scienze al
miglioramento dell'umanità): per Voltaire la liberazione da
superstizione e pregiudizio è condizione del perfezionamento, per
Condorcet le società "inferiori" o diverse dall' europea
(mito del buon selvaggio), verso cui vi è interesse, rappresentano
tappe evolutive precedenti del P. sociale, che subisce un'accelerazione
per la diffusione e discussione delle idee e delle conoscenze (Abbozzo
di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, 1792), per i
fisiocratici vi è P. nel succedersi delle forme di organizzazione
socio-economica (caccia-pesca, pastorizia, agricoltura), Turgot
(Discorsi, 1756) teorizza le due leggi dell'accelerazione del P. che
segue ogni avanzamento dell'umanità e degli stadi evolutivi dello
spirito umano (soprannaturale, filosofico, scientifico). Comte delinea
la legge dei tre stadi. E' da ricordare la complessità delle filosofie
della storia dell'Illuminismo e idealismo tedeschi: Lessing (Educazione
del genere umano, 1780), Herder (Idee per una filosofìa della storia
dell'umanità, 1784), ma soprattutto Kant (Idea di una storia universale
dal punto di vista cosmopolitico, 1784), Fichte (Tratti fondamentali
dell'epoca presente, 1806) e Hegel (Lezioni sulla filosofìa della
storia, 1837), la cui visione è profondamente religiosa. Contro l'idea
di P., cui il darwinismo diede basi scientifiche che Spencer applicò
alla storia umana, tra gli altri, Spengler (Il declino dell'Occidente,
1918-22) distingue tra cultura e civiltà, che può avanzare senza che i
valori culturali e spirituali progrediscano con essa. PROTESTANTESIMO
(dalla "protesta" di prìncipi e città alla dieta di Spira,
1529, contro Carlo V per la condanna di Luterò) Patrimonio di dottrine,
istituzioni, correnti e confessioni sviluppatesi dalla Riforma
accomunate dalla critica radicale alla Chiesa di Roma per un ripristino
del vero cristianesimo secondo la lettera della Bibbia, unica norma di
fede, e la grazia di Dio, che sola salva l'uomo: sola fides, sola gratia,
solus Christus, sola Scriptum, contro i binomi del cattolicesimo: fede e
opere, grazia e responsabilità, Cristo e Chiesa, Scrittura e
tradizione. Il P. originario, è diviso in. luteranesimo, zwinglismo,
calvinismo, anglicanesimo (fissarono il credo nelle: Confessio augustana,
1530, i luterani; Confessio gallicana, 1559, i calvinisti francesi;
Confessio scotica, 1560, quelli scozzesi; Confessio belgica, 1561,
quelli dei Paesi Bassi; Trentanove articoli, 1563, gli anglicani), ma
dalle dispute teologiche nacquero correnti radicali (anabattisti,
spiritualisti, antitrinitari), e scissioni in seno alle stesse
confessioni: luterana sul pensiero originario di Luterò circa le opere
e la grazia (maioristi, sinergisti, antinomisti, gnesioluterani);
calvinista sulla predestinazione in rapporto alla libertà (arminiani di
J. Arminius e gomaristi di F. Comar). Il P. liberale del XX sec. (von
Harnack), influenzato dall'interpretazione idealistica del cristianesimo
e dalla critica razionalistica della Scrittura, radicalizzò il
principio del libero esame approdando alla contestazione del
cristianesimo come dottrina rivelata, Chiesa e culto (Strauss, Baur,
Bauer), diffondendosi in Germania, Olanda, Svezia, Inghilterra, USA,
Francia, Svizzera, Italia (G. Luzzi). Contro di esso il XX sec. ha
prodotto la rinascita luterana (Holl, Althaus, Gogarten) e la teologia
dialettica o della crisi (Barth). Movimenti di risveglio del P. sono il
pietismo (v.) tedesco e il metodismo inglese. Nel XIX e XX sec., al
predominio calvinista e luterano in Europa si è contrapposto in USA, e
nel XVII sec. in Inghilterra, il fiorire di sette o chiese libere (mennoniti,
battisti, quaccheri, mormoni, pentecostali, avventisti, fratelli) che al
rifiuto dell'organizzazione e del culto dell'ortodossia, e del mondo
come opera di Satana, hanno affiancato il battesimo da adulti e lo
sviluppo dell'interiorità, e, per la dottrina, il millenarismo, il
predestinazionismo, il sincretismo con l'esoterismo orientale, che
un'intensa attività missionaria dal XIX sec. ha fatto giungere in
Europa. Federazioni di tali chiese, che contrastano la frammentazione,
sono: l'Alleanza riformata mondiale (1875) dei calvinisti, la Conferenza
metodista mondiale (1881), l'Alleanza battista mondiale (1905), la
Federazione luterana mondiale (1923); ma fu la Conferenza missionaria
mondiale (1910) e i due organismi "Vita e azione" (1925) e
"Fede e costituzione" (1927) a preparare il Consiglio mondiale
delle Chiese (1948) con 250 aderenti (tranne Roma), tra cui gli
ortodossi d'Oriente.
RAZZA
(secondo G. Contini, fr. antico /zaraz=allevamento di cavalli) Insieme
biologico di individui compresi in una stessa specie di cui condividono
i caratteri fondamentali ma che sono dotati di particolari
caratteristiche, che da somatiche ed ereditarie si fanno essere
corrispondenti a psicologiche, che definiscono appunto la R. (concetto,
distinto da quello di popolo o nazione, di origine relativamente
moderna). La purezza della R. non esiste in nessun individuo, per cui
oggi si preferisce il concetto di gruppo etnico o popolazione. Cenni di
una distinzione, puramente descrittiva, degli individui in base al
colore della pelle, dei capelli e dell'iride si ritrovano già nelle
arti figurative degli antichi Egizi (rossi Egizi, neri Etiopi, biondi
Libi, gialli e barbuti Asiatici) e, per i caratteri culturali, presso i
Greci (Erodoto, Aristotele, Tucidide) e i Latini (Cesare, Tacito, Plinio
il Vecchio, Lucrezio), ai quali tutti mancò però il concetto di R. Il
Medioevo dimenticò la descrizione realistica a favore di quella
romanzata del meraviglioso, ma l'era delle grandi scoperte geografiche e
scientifiche, preceduta e seguita dai viaggi dei missionari, segnò il
ritorno e l'affinamento della conoscenza antropologica, che da curiosità
si fece scienza, sostenuta dalla nascita dell'anatomia, che consentiva
una comparazione oltre che culturale fisica. Il XVIII sec. vide l'opera
scientifica di Buffon (1707-88), che precorse l'evoluzionismo sostenendo
la possibilità della modificazione delle specie ad opera dell'ambiente
naturale (Histoire naturelle, 44 voli.), Linneo (1707-78), primo a
classificare l'umanità in quattro R. distinte morfologicamente e
caratterialmente (Homo americanus, europaeus, asiaticus, asser), e
Blumembach (1752-1840), la cui classificazione sistematica in cinque R.,
ancor oggi valida, considerava anche le differenze anatomiche. Un secolo
dopo le scoperte fossili allargarono lo studio alla preistoria, e, tra
gli altri, il darwinista Huxley (1825-95) divideva la specie Homo
sapiens in: Australoidi, Negroidi, Mongoloidi, Xantocroidi, giudicando
le altre R. ibride e secondarie, mentre la scuola francese di cui Cuvier
(1769-1832) fu precursore la divideva semplicemente in Bianchi, Gialli,
Neri, con scarso interesse per la morfologia. Ma il vero progresso si
deve all'italiano Renato Biasutti (1878-1965), che tra il 1906 e il 1912
fece un'indagine sistematica, e sincronica e diacronica, che teneva
conto sia della morfologia che dell'habitat, e al tedesco Egon von
Eickstedt, che nel 1933 pubblicò, aggiornandolo nel 1937, il più
completo e documentato trattato sulle R. umane, poi applicato
originalmente da Biasutti. RAZZISMO
(secondo G. Contini, fr. antico /wraz=allevamento di cavalli) Dottrina
etnocentrica pseudoscientifica, dimostrata errata per l'inesistenza di
razze pure primarie e per la selettività ambientale di caratteri
ritenuti superiori come il biondismo, che sulla base biologica
dell'esistenza di razze diverse della specie umana fa corrispondere a
queste differenze fisiche una diversità di destino storico che elegge
alcune razze a dominatrici, altre a dominande: gli Indiani e i Persiani
chiamavano se stessi Arii, ossia uomini. Scienziati di fama mondiale
riuniti dall'UNESCO hanno nel 1950 formulato una "Dichiarazione
sulla razza e le differenze razziali" che afferma scientificamente
errata la credenza in differenze innate di ordine morale, affettivo o
intellettuale tra le razze, che giustifichino la loro difesa anche
soltanto attraverso la proibizione più o meno esplicita degli incroci.
L'idea di superiorità razziale, presente nella storia delle dottrine
politiche e sociologiche sin dalle origini, nel XIX sec. ha preso corpo
in diffuse dottrine - anticipate da Boulainvilliers che nell'intento di
dare base biologica al potere politico sostenne la discendenza della
nobiltà francese dai Franchi conquistatori, al contrario delle altre
classi, discendenti dei vinti Gallo-Romani (Essai sur la noblesse de
France, 1732, post.) -, che hanno influenzato non solo ideologicamente
la politica degli Stati europei e extraeuropei sino a sfociare nelle
politiche razziali del XX sec. Il conte de Gobineau dà
un'interpretazione razziale della storia: lo sviluppo delle società è
legato alla purezza del sangue delle nazioni, la cui decadenza è
conseguenza dell'impurità dovuta agli incroci, e perciò immortalità
della nazione e purezza della razza sono connesse; in origine c'erano
tre razze pure, bianca gialla e nera, e solo la prima, ariana, è
creatrice, come "dimostrano" le civiltà indù, egiziana,
assira, greca, romana, germanica che da essa derivano (Essai sur l’inegalité
des races humaines, 1853-55, 4 voll.). In Germania l'inglese di nascita
H. Stewart Chamberlain afferma la quadruplice radice della civiltà
occidentale, frutto della razza ariana (la civiltà greca, creatrice di
poesia arte e filosofia, la romana, di diritto politica e famiglia, la
giudaica, di giudaismo e cristianesimo, e la teutone, generatrice della
civiltà coeva), non considerando negativamente gli incroci perché
egli, partendo dalla darwiniana selezione del più adatto (cui si
rifanno molti autori francesi e tedeschi, sostenuti da ricerche di
antropologia fisica e sociologia: v. Vacher de Lapouge, Le selezioni
sociali, 1896, L'Ariano, suo ruolo sociale, 1899, Razza e ambiente
sociale, 1909), giustifica e la distinzione tra razze superiori e
inferiori e la distruzione di queste. Del '900 è la scuola biometrica (Galton
e Person); Spengler si ispira a Gobineau per la cultura faustiana o
germanica che il popolo tedesco esprime dal 1000 d. C. (// declino
dell'Occidente, 1918-20). RELIGIONE
(lat. religio=raccolta selezionata di atti e formule rituali, timore
degli dèi; da relegare=legare, per Lattanzio e Agostino; da relegere=rileggere,
per Cicerone: "Quelli che compivano con accortezza tutti gli atti
del culto divino e per così dire li rileggevano attentamente furono
detti religiosi da relegere", De nat. deor., II, 28, 72) Fede in un
Dio (ma esistono R. atee: il buddismo) estrinsecata in forme pubbliche e
collettive cultuali, istituzionali, dottrinali (il cui fulcro,
generalmente ritenuto rivelato e racchiuso in libri sacri, costituisce
il canone) al fine esplicito di garantire salvezza e moralità
dell'uomo. Se si eccettuano tali forme e fini, la determinazione del
rapporto tra uomo e divinità è anche della filosofia, che però evita
mitologia, rappresentazione e sentimento con la sola teoresi, e
distingue tra R. naturale (interiore, individuale, privata) e R.
positiva (esteriorizzata e storica). Le R. si distinguono per A) origine
(divina, politica, umana) e B) funzione (liberazione dal mondo, verità,
moralità). A) L'origine divina o soprannaturale, tipica del
Romanticismo, ha pretesa di assolutezza e infinità: per Hegel "Nel
concetto della vera R., cioè di quella il cui contenuto è lo Spirito
assoluto, è riposto essenzialmente che essa sia rivelata, cioè
rivelata da Dio" (Enc., § 564); per Schleiermacher
"L'universo è un'attività ininterrotta e ci si rivela in ogni
momento. Ogni forma che esso produce (...) è un'azione che esso
esercita su di noi; e così accettare ogni cosa particolare come una
parte del Tutto, ogni cosa finita come espressione dell'Infinito, in ciò
consiste la R." (Red. u. R., 1799, II); per Bergson "Se le
somiglianze esteriori tra i mistici cristiani possono dipendere da una
comunanza di tradizioni e di insegnamenti, il loro accordo profondo è
segno di un'identità di intuizione che si può spiegare più
semplicemente con l'esistenza reale dell'essere con cui si credono in
comunicazione" (Deux sources, 1932, cap. III). L'origine politica
di strategia per il controllo dell'ordine e della moralità in accordo o
sostituzione della legge ne annulla il valore intrinseco (Critia, Sesto
Empirico, illuminismo, marxismo). L'origine umana e pratica di controllo
personale e collettivo dell'esistenza nella sua incertezza fu detta da
Hobbes, poi da Hume, Feuerbach e ancora Bergson, che distingue tra R.
statica (mirante al controllo) e R. dinamica (misticismo). B) La
liberazione dal mondo (nirvana buddista, deificazione mistica)
considera questo come male nella sua totalità o in alcuni
aspetti. La garanzia della verità (come quella della moralità) è
pretesa di tutte le R.: per Hegel "La filosofia ha i suoi oggetti
in comune con la R. perché oggetto di entrambe è la verità, e nel
senso altissimo della parola, in quanto cioè Dio, e Dio solo, è la
verità" (Enc., § 1). Per Gentile la R. trova la sua verità solo
nella filosofia che risolve Dio nell'atto del pensiero. Per Croce è
forma provvisoria e imperfetta della filosofia. REMINISCENZA;
(gr, anamnèsi, da anaminésko=ricordo, lat. reminiscentia, da reminisci)
La dottrina della R. esposta da Piatone prima nel dialogo "Menone"
e poi nel "Fedone", e che riprende il mito della tradizione
religiosa orfico-pitasorica della perpetua trasmigrazione delle anime (metempsicòsi,
già presente presso gli Egizi), ha lo scopo di affermare l'immortalità
dell'anima e la possibilità della conoscenza filosofica e scientifica,
ed è strettamente connessa alla teoria platonica del mondo delle idee,
come correzione e integrazione del principio euristico (dal ar. heuriskQ=trovo)
per cui è mutile indagare ciò che si sa e impossibile ciò che non si
sa. La tesi della conoscenza come R.. esposta in forma di digressione
nella parte centrale, e sostanziale, del "Metione" (caop,
XIII-XXI), dimostra che la conoscenza del Vero è possibile perché
l'anima, preesistente al corpo, ha già visto e conosciuto, prima della
vita presente, le idee delle cose in sé (nell'lperuranio), dimenticate
ad ogni nascita, e quindi, per conoscere, non deve far altro che
ricordare quelle forme intellegibili viste originariamente, ritrovando
in sé dunque quella verità di cui è già da sempre in possesso. La
teoria della R., prima dimostrata razionalmente, viene poi nei "Menone"
stesso supportata dal famoso episodio dello schiavo che, sebbene
ignorante di geometria, riesce a giungere da se stesso, aiutato dalle
domande di Socrate, alla dimostrazione del teorema, poi detto pitagorico
dalla Scolastica, secondo il quale il Quadrato costruito «sull'ipotcnusa
è uguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti, che, essendo nel
caso specifico uguali, danno forma ad un quadrato dell'ipotcnusa doppio
di quello proposto Nella prima parte del "Fedone" (il dialogo
platonico per primo strappato all'oblio dal Medioevo cristiano), dove
l'argomento della R è preparato e si connette a quello esposto subito
prima dei contrari, si dimostra che, poiché non esistono in natura cose
perfettamente uguali, la conoscenza proviene non dai sensi, mutevoli e
fallaci, ma dalla R., che noi possediamo in modo inconscio, di un mondo
soprasensibile di pure essenze eterne e immutabili. Esigenza ontologica
ed esigenza etica si fondono nella teoria della R , dal momento che
l'anima, mediante le successive vite che attraversa e nel corso di
ciascuna, ha il compito di elevarsi in progressivi eradi di
illuminazione e perfezione che le dischiudano una visione consapevole
del mondo delle essenze via via più completa, che interrompa l'eterno
circolo generativo vita-morte-vita, in cui la duplice eternità di
passato e futuro si incontra regressivamente e progressivamente
nell'attimo della vita presente, per giungere alla beatitudine nel
divino mondo invisibile. RETORICA
(lat. ars rethorica) Arte dell'eloquenza come disciplina del parlare in
pubblico e dello scrivere (la più antica tra quelle del linguaggio),
insegnata dall'età classica (in Italia fino al 1859 in corsi superiori
tra quelli di grammatica e quelli di filosofia). Nata nel V sec. a. C.
in Sicilia nei processi sul diritto di proprietà, si diffonde ad Atene
(Empedocle, poi i sofisti). Tecnica della persuasione a carattere
pragmatico divisa in tre parti: 1) inventio o ricerca degli argomenti,
che l'oratore sceglie in base al tema (quaestio) tra i topoi del
discorso, spesso formulati in forma di domanda (quis? quid? ubi? quibus
auxiliis? cur? quomodo? Quando) e in seguito riempiti di contenuti
(luoghi comuni); 2) dispositio in cui si dispongono gli argomenti in
ordine: exordium, con cui l'oratore cerca di conciliarsi l'uditorio (captatio
benevolentiae) e mostra il piano dell'argomentazione (partitio),
narratio, che racconta i fatti, confermano, in cui l'oratore espone i
suoi argomenti e confuta quelli dell'avversario, e epilogus, in cui
riassume i passaggi del discorso tentando di commuovere il pubblico; 3)
elocutio, in cui l'oratore informa i vari elementi del discorso in
figure o ornamenti (colores rhetoricì), molto importanti nella R.
posteriore. I discorsi sono divisi in generi: deliberativo, sull'utile e
il dannoso; giudiziario, sul giusto e l'ingiusto, mirante a influenzare
il giudice nel processo; dimostrativo o epidittico (introdotto da
Gorgia), sul bello e il brutto. Platone rifiuta la R. come arte del
verosimile che illude e adula (logografia), contrapponendovi la R.
filosofica o dialettica (psicagogia), che ha per oggetto il vero in un
autentico dialogo con l'altro; al contrario Aristotele, che la avvicina
alla dialettica, scienza del verosimile contrapposta alla logica,
scienza del necessario, e nella cui R. del ragionamento centrale è l'entimema,
sillogismo approssimativo fondato sull'endoxa, l'opinione comune.
Cicerone introduce a Roma la R. aristotelica (De inventione oratoria, De
oratore, ecc.), Quintiliano scrive il trattato di R. più completo
dell'antichità, in 12 libri, sfumando la distinzione aristotelica tra
R. (arte del discorso in pubblico) e poetica (comprendente i vari generi
della letteratura, tra cui la tragedia) e deviando da lì in poi in
senso estetico e letterario la natura pragmatica della R., che diviene
arte dello stile. Nel Medioevo il trivium relega la R. tra grammatica e
dialectica, il '500 (P. Ramo) connette l’inventio e la dispositio alla
dialettica, lasciando alla R. le figure, il '600 (Cartesio) esalta la
ragione e l'evidenza screditando la verosimiglianza della R., su cui i
trattati fra Rinascimento e Romanticismo abbondano (Du Marsais, 1730, e
Fontanier, 1823), distinguendo tra tropi (figure sul significato delle
parole) e figure (forma o referente degli enunciati). Oggi teoria del
testo e stilistica sono eredi della R. (Ch. Perelman). RIFORMA
(dal lat. reformare) Movimento religioso cristiano occidentale del XVI
sec. all'origine del protestantesimo, rivolto a un ritomo alla purezza
delle origini e che scardinò il predominio, durato 15 secc., della
Chiesa di Roma e l'unità della cristianità d'Occidente. L'inizio si fa
risalire alla pubblicazione delle 95 tesi di Luterò sulle porte della
Cattedrale di Wittenberg il 31 ottobre 1517, ma esse, che esprimevano
esigenze presenti in Europa già da un secolo e mezzo (Umanesimo),
seguivano una profonda crisi intcriore durata dal 1512, quando Luterò
divenne professore di Sacra Scrittura, al 1517, quando ai temi
dell'inadeguatezza dell'uomo di fronte all'onnipotenza e
imperscrutabilità del giudizio divino ai fini della salvezza e della
redenzione dal peccato si unì la critica serrata all'istituzione e
all'ingente mercato delle indulgenze creato dall'idea della salvezza per
merito e non per predestinazione. Le 95 tesi si incentravano sulla
teologia della croce come unica via della salvezza: la fede nel
sacrificio di Cristo e il ritorno alla lettera della Bibbia come unici
criteri del credente, che può modificare il suo stato di colpa solo per
opera divina (giustificazione per fede), e della Chiesa nella sua
organizzazione, vista come deformazione del Vangelo, minavano il
sacerdozio, la gerarchia, il primato del Papa, indicato come
l'Anticristo nella nuova Babilonia, Roma. Il clima in cui esse si
inserivano ne fece una scintilla: diffusi fermenti religiosi anche
interni alla Chiesa, rivolta contro la sua pressione fiscale sulla nuova
imprenditoria borghese europea che vedeva ingenti capitali trasformati
in opere e trasferiti a Roma, ambiguità del clero tedesco tra ossequio
all'opinione pubblica e alle teorie conciliariste, voce autorevole
dell'intellettualità (Erasmo) spinsero Leone X a condannare 41
proposizioni degli scritti di Luterò con la bolla Exsurge Domine (15
giugno 1520), che fece scoppiare il movimento (tra il 1523 e il 1530 si
costituirono le Chiese luterane di Germania, Danimarca, Svezia,
Norvegia, Finlandia), nel frattempo disciplinato in ordinamenti
dottrinari da Luterò, e portò alla "protesta" alla Dieta di
Spira (1529) e alla Confessione augustana (1530), elaborata da Melantone,
discepolo di Luterò, e pronunciata alla Dieta di Augusta di fronte a
Carlo V Se il luteranesimo si diffuse nel centro-nord Europa, movimenti
sorsero in Svizzera e in Francia: Calvino eresse Ginevra a citta-chiesa
e rilanciò la R. in un momento di stasi sul tema di Dio più che sulla
salvezza, per lui strettamente collegata al mondo laico; Zwingli,
predicatore umanista più filosofo che teologo, affermò che male e
peccato hanno origine in Dio con la creazione - da cui una rigida
predestinazione (ma, contro Luterò, egli contestò la presenza reale di
Cristo nell'eucarestia). In Italia, ove si diffuse il nicodemismo, la
corte di Ferrara fu centro del calvinismo e Venezia (sede di una comunità
tedesca) del luteranesimo. RIGORISMO
(dal lat. rigor=rigore) Correnti religiose del XVIII sec. (tra cui
Giansenisti e Padri dell'Oratorio) opposero R. a lassismo, intendendo
con ciò contrastare costumi morali rilassati. Kant, che intese per
rigoristi, secondo l'uso comune, coloro che non ammettono "alcuna
neutralità morale né negli atti, né nei caratteri umani", al
contrario dei latitudinari (Religion, I, Osservazione), fece suo il
principio rigoristico, per cui la dottrina morale kantiana è detta
anche R. morale.
SCRITTURA
(lat. scriptum, der. da scriptus, part. pass. di scribere=scrivere)
Sistema convenzionale condiviso e potenzialmente infinito (neologismi)
di significanti visivi o grafemi (unità minime indivisibili della S.)
il cui uso, finalizzato a rappresentare conservare e trasmettere
informazioni di carattere concreto o astratto nella comunicazione
intersoggettiva (può considerarsi sistema di S. la stenografia, il
linguaggio dei computer, il Braille, l'alfabeto Morse), implica, in
particolare nel caso delle lingue, l'assunzione della visione del mondo
sottesa non solo alla scelta del sistema stesso (lingua madre in
rapporto a seconda lingua), ma anche a quella di determinati
significanti piuttosto che altri (campo semantico, stile), ed è quindi
sempre culturale. De Saussure divide la S. in due tipi: fonetico (S.
sillabiche e alfabetiche) e ideografico, che de Courtenay considera
direttamente associato a concetti extralinguistici. Il problema dello
studio delle S. (alfabetiche o non, storiche e artificiali), la cui
disciplina è la grafematica o grammatologia (Gelb prima di Derrida), e
il cui scopo è la classificazione delle lingue e delle relative S.
(condivisa quella che distingue, in base ai tipi di grafemi e loro
combinazioni, tra S. pittografiche, logografiche, logosillabiche,
sillabiche e alfabetiche), è evitare il glottocentrismo: l'assunzione
che tutte le S. siano sistemi di rappresentazione del solo piano
dell'espressione (lingue), il che esclude gli altri sistemi di notazione
visiva e convenzionale. La S. risale all'età diluviale, in cui l'uomo
disegnava sulla roccia gli animali attribuendogli carattere divino
(pittografia), ma l'importanza e il valore della S. come veicolo dello
spirito della cosa rappresentata si trova anche presso gli scribi egizi,
e poi, scevra dall'immagine ma comunque sempre con un potere arcano e
infondente un sacro rispetto, presso tutti i popoli (la magia come la
religione attribuisce alla parola scritta valore divino e taumaturgico;
i Greci chiamarono "scrittura divina” la S. ideografica egizia,
che veniva attribuita al dio Thot, inventore del linguaggio e della
magia, e il cui nome popolare era "signore delle parole
divine"; in Mesopotamia il chiodo, emblema degli dèi della parola
divina e dell'intelligenza Nisaba e Nisrock, fece da base agli
ideogrammi della S. cuneiforme sia assiro-babilonese che ugaritica; nel
diritto tutt'oggi il documento scritto ha valore di prova). Tutte le S.
hanno origine dalle S. ideografiche, proprie delle civiltà del Medio e
Estremo Oriente, come dimostrano ancora alcuni segni del nostro
alfabeto, come la emme, che simboleggiava il mare con le sue onde, e che
si trova anche presso Egizi, Fenici (che ridussero le migliaia di
ideogrammi in pochi significanti visivi dalle combinazioni infinite) e
Greci (che con l'invenzione delle vocali portarono a compimento il
processo di fonetizzazione della S. sillabica iniziato dai Sumeri). SIONISMO
(Sion, dall'ebraico Siyyon, nome della collina di Gerusalemme su cui
erano fortezza, reggia e parte più antica della città, e per estens.
dell'intera città) Sullo sfondo del più generale risveglio delle
nazionalità nell'Ottocento europeo, movimento
politico-religioso-culturale ebraico mirante alla riappropriazione della
terra d'Israele come sede nazionale simbolo concreto dell'identità del
popolo ebraico che in quanto patria comune mettesse fine alla sua
millenaria diaspora e aspirazione al ritorno nella propria terra
(obiettivo raggiunto il 15 maggio 1948 con la proclamazione dello Stato
d'Israele, il cui progetto concreto risale al I Congresso sionistico,
Basilea 1897, ove erano correnti socialiste, religiose, spirituali, e
che pose il problema del rapporto tra la carica utopica e la sua
realizzazione concreta). Al S. si oppose l'ebraismo, sia perché ormai
assimilato ad altre nazionalità, sia perché ortodosso e dunque
tradizionalmente favorevole alla diaspora come elemento essenziale
dell'identità ebraica (Joseph Roth, L'ebreo errante). SOFISTICA (dal gr. oo<|>iCTT£cr=sofista,
der. di ao<|>iConai=operare, agire, parlare abilmente, ideare,
immaginare, escogitare, ingannare, fare ragionamenti caviliosi,
lat.sophistica) A rigore il termine Sofista ha due significati: positivo
di sapiente o maestro di sapienza, che si rifa all'etimo originario di
"parlare abilmente", e negativo, di ideatore di ragionamenti e
argomenti ad hoc, per ciò stesso falsi. Storicamente la S. è
l'indirizzo filosofico di coloro che nella Grecia del V sec. si
definirono Sofisti, offrendosi nell'agorà come educatori e maestri di
retorica dietro compenso e inserendosi così nell'antica tradizione
pedagogica di poeti, musici, profeti e ginnasti, sebbene con finalità
non più miranti a formare alla virtù eroica i rampolli della stirpe
nobiliare, bensì a educare il nuovo cittadino della polis, in quanto
membro attivo della democrazia, alla aretè intesa non tanto come
osservanza della legge quanto come affermazione personale nella vita
politico-sociale, da conseguire secondo Ippia tramite il sapere
enciclopedico, secondo Gorgia attraverso discipline formali quali la
retorica e la dialettica (secondo Prodico la grammatica), atte a
evidenziare di un problema gli aspetti più conformi allo scopo che ci
si prefigge, secondo Protagora con lo sviluppo di tutte le energie
spirituali. Questi Sofisti ebbero in comune con Socrate non solo una
nuova attenzione all'uomo e un nuovo concetto di cultura e di sapere,
che come paideìa è formazione dell'individuo, la cui superiorità è
spirituale e non di nascita, ma anche la credenza nella relatività dei
valori di verità e bene, trasformati in opinione e utilità, l'eristica
come capacità di sostenere contemporaneamente tesi opposte, e la
considerazione che la natura, diversa dalla legge, si basa sul diritto
del più forte. I più famosi, attivi prima di Piatone e durante la sua
fanciullezza, furono Protagora, Gorgia, Prodico, Ippia. Ma già allora
si condannava della S. l'indagine razionale in campo fisico e morale
come fonte di scetticismo religioso, e l'attività mercenaria. Piatone
nei dialoghi maturi ha toni aspri verso la seconda generazione di
Sofisti (Callide, Antifonte, Trasimaco, Crizia), formata da quei
discepoli di Socrate che diffondono una scienza priva di verità
riducendo la ricerca filosofica a disputa verbale finalizzata alla
ricerca del consenso sociale e politico, e anche per Aristotele la S. è
«la sapienza apparente ma non reale» (El. Sof., 1,165a 21), SOGGETTO: (gr.
hypokeimenon, lat. subiectum= il sostrato che permane nel variare delle
determinazioni) Già a partire da Aristotele il S., nel senso appunto di
ciò che soggiace, è riferito all'individuo come ciò che permane, la
sostanza, nel variare dei suoi accidenti o attributi. A questo
significato ontologico di S. si affianca quello logico-linguistico, che
nel giudizio riferisce al S. uno o più predicati, laddove il S. è ciò
che, non potendo mai essere predicato, è riferimento di ogni
predicazione possibile. Ma è dalla filosofia cristiana in poi, e per
tutta la Scolastica, che il concetto di S., che riprende e allarga a
tutti gli uomini quello greco e poi romano di saggio, identificandolo
con quello di persona portatrice di valori, e in rapporto a Dio, diviene
oggetto privilegiato di riflessione e patrimonio culturale di tutto
l'Occidente. La filosofia moderna si riconnette viceversa al significato
sostanziale di S. in rapporto all'oggetto, proprio già della
Scolastica, operando una rivoluzione che, nella centralità della
gnoseologia, permarrà nel pensiero occidentale, detto di lì in poi
anche "filosofia della coscienza". La res cogitans cartesiana,
la sostanza pensante contrapposta alla res extensa, la materia, si
riferisce appunto al S. come agente e rappresentante, iniziando quel
processo di radicale trasformazione della filosofia tendente a porre al
centro della riflessione l'uomo come attività senziente e pensante,
come io. Il culmine di tale processo si avrà prima con l'Io penso
kantiano, o coscienza trascendentale, distinta da quella empirica o
psicologica, poi con l'Idealismo da Fichte a Hegel, che considera la
realtà "oggettiva" una creazione del S., sia esso
trascendentale o assoluto. Dopo quest'apoteosi del S. identificato con
la coscienza, l'età contemporanea opererà un radicale
ridimensionamento del concetto, che, inteso dalla critica marxiana come
una sovrastruttura, e dall'analisi freudiana allargato all'inconscio,
verrà da E. Cassirer visto nella sua progressiva trasformazione da
sostanza in funzione, ossia come punto di incrocio e di riferimento di
innumerevoli fili (storici, sociali, psicologici, ecc.) che
intrecciandosi ne formano la coscienza. Ma nonostante ciò, il concetto
di S., anche ridotto a punto di incrocio di infinite linee, rimane dal
punto di vista filosofieo oggetto di ricerca privilegiato, proprio in
virtù della sua irresolubile ulteriorità rispetto ad esse, che fonda
la possibilità non solo di un'etica della responsabilità, ma anche
della libertà e della creatività. SPECIE
(lat. species=forma esteriore, da specere=gaaTàare, it. are. spezie) In
senso ontologico, la S. è l'EiSoo di Piatone come forma della cosa,
dotata di realtà autonoma e trascendente, su cui ogni esemplare si
modella. Al senso ontologico Aristotele, per il quale forma e materia
sono nella cosa separabili solo per astrazione, ne aggiunse così uno
logico: la S., in quanto prodotto dell'astrazione di fronte alla
concretezza del singolo individuo, è entità puramente logica (ad es.,
l'animalità o S. animale, cui tutti gli individui, in quanto ammali,
appartengono), detta anche predicabile in quanto come concetto generale
si dice di un gruppo di individui aventi determinati caratteri in comune
che li pongono sotto quel concetto (che più tardi si chiamerà
universale dando vita alla famosa questione), distinguendoli come
differenza specifica da altri enti che non li posseggono. L'insieme di
più S. a loro volta collegate da caratteri comuni è il genere, che
come la S. è concetto relativo nel senso che ciò che una volta è S.
un'altra può essere genere (ad es. "animale" è S. rispetto a
"essere vivente" ma è genere rispetto a
"vertebrato"). La S. più semplice, che non ammette alcuna
sottoclassificazione, è la S. infima, che comprende sotto di sé enti
distinguibili solo numericamente: è la più rigorosa, teorizzata da
Porfirio, che definiva la S., in particolare, come «ciò che è
predicabile di molti enti, numericamente distinti in linea di essenza»
e, in generale, come «ciò che è ordinabile sotto il genere e di cui
il genere si predica in ciò che è essenza».
In senso gnoseologie© infine, l'antichità diceva species o
apparenze quelle immagini (che per Democrito e la sua scuola erano
formate da atomi di materia) che si distaccavano dalle cose e colpivano
gli organi di senso del soggetto, ricettivo rispetto ad esse,
provocandone la conoscenza (sensibile). E' questa la posizione del
realismo ingenuo, che presuppone un dualismo metafisico tra soggetto e
oggetto della conoscenza, per cui nel soggetto la sensibilità è una
facoltà passiva e ricettiva rispetto alla quale l'oggetto, esterno ad
esso, è attivo (ma per Aristotele e la Scolastica anche il soggetto, in
quanto reagisce allo stimolo proveniente dall'oggetto, è attivo). A
questa posizione si oppongono sia la visione idealistica per cui il
soggetto, ed egli solo, è sempre attività, anche quando conosce
sensibilmente, dal momento che di esterno al soggetto non vi è nulla,
sia quella realistica secondo cui vi è nella conoscenza un rapporto di
concrescenza tra soggetto e oggetto, che supera il dualismo che li fa
esterni l'uno all'altro ponendo il problema della possibilità del loro
rapporto (in questo senso la S. costituisce come immagine o si8o?iov la
mediazione tra oggetto e soggetto), e li rende entrambi attivi. SUFFRAGIO
(probabilm. composto lat. sub=sotto efragor=ùagOK, in origine usato
come "acclamazione") Manifestazione della volontà di un
individuo in sede politica come diritto di voto, acquisito per età,
censo o titoli culturali a seconda delle norme legislative che lo
regolano. Nell'antica Roma il diritto di votare nei comizi prendendo
parte attiva nella respublica (ius suffraga) era in origine riservato ai
cittadini optimo iure (i plebei vi ebbero accesso progressivamente con
l'istituzione di comizi centuriati e tributi) e dato a voce sino al 139
a.C., quando fu espresso con la scritta UR (ufi rogas=sì) oppure A
(antiquo=no) o ancora C (condemno). Agli stranieri la civitas cum S. fu
concessa dal 381 a.C., quella sine S. dal 338, e ambedue divennero dal
IV sec. a.C. strumento governativo atto a favorire una città a scapito
dell'altra, con lo scopo di prevenirne o smembrarne la coalizione contro
Roma, mentre dopo l'88 a.C. la ed. guerra sociale diede ai sodi Italici
il diritto di voto, esteso in età augustea agli abitanti dell'Italia
settentrionale, e con il 212 d. C. prima da Caracalla e poi da Antonino
(constitutio Antoniniana) ai liberi abitanti dell'Impero iscritti in una
comunità. Con la caduta di questo, il S. venne meno sino all'affermarsi
degli Stati moderni: in Francia la Rivoluzione teorizzò il S. come
diritto di tutti i cittadini, previsto dalla Costituzione del 1793 (mai
applicata), mentre in realtà esso fu ristretto per censo e per il
sistema indiretto di votazione, e elaborato per la prima volta in vista
dell'elezione degli Stati Generali nel 1789, rimanendo per censo nell'età
della Restaurazione e con la Costituzione del 1830 (quando, pur
allargato, diede vita di fatto a un'oligarchia), per essere istituito
come S. universale maschile nel 1848; in Inghilterra è del 1832 la
prima riforma elettorale, del 1867 l'abbassamento del censo che estese
il numero degli aventi diritto, e del 1884-85 il S. pressoché
universale (come in Francia, alle donne fu riconosciuto dopo la I guerra
mondiale); in Italia la prima legge elettorale, con S. ristrettissimo
per censo e titoli di studio, è quella piemontese del 1848, sottoposta
a riforma nel 1882 durante il Regno d'Italia con l'estensione ai
cittadini maschi maggiorenni alfabeti in possesso di licenza elementare
o con tributo annuo di £. 19,80, mentre nel 1912 si ebbe l'allargamento
a tutti i cittadini maschi, sia maggiori di 30 anni senza limitazione,
sia minori con alcuni limiti di censo, cultura o servizio militare, e
nel 1918 la maggiore età fu portata a 21 anni, e il diritto di voto
(che le donne hanno ottenuto solo nel 1948) esteso a tutti i cittadini
maschi maggiorenni e ai minorenni combattenti. Oggi non hanno diritto di
voto interdetti e inabili mentali, imprenditori falliti e condannati per
reati gravi da meno di 5 anni, oltre ai condannati all'interdizione
perpetua dai pubblici uffici, e per il voto al Senato l'età minima è
di 25 anni. SUFISMO (ar. sw//=veste
di pelo di cammello dei primi asceti arabi, lat. moderno Sufismus,
coniato nel 1821 dal teologo protestante tedesco F. A. Tholuck,
1799-1877) La più importante corrente della mistica islamica (che in
tutto l'Oriente si presenta ricca e contraddittoria), nata tra il VII e
il X sec. sulla base di elementi ascetici del Corano quali il senso
escatologico della storia che riscatta la precarietà dell'esistenza e
la preghiera ripetuta come strumento di rapporto diretto con Dio,
chiamato Dhikr nella litania, e a cui abbandonarsi totalmente. La vita
monastica informata al S. si incentra sul rifiuto del mondo, il
magistero spirituale, il pentimento e l'esame di coscienza, l'abbandono
totale a Dio che, anche attraverso la musica e la danza, conduce
all'estasi come unione con Dio, avvalorata talvolta da dichiarazioni
estreme, come quelle di al-Bistami ("Lode a me") e di Hallag
("Io sono Dio"), da intendere comunque non panteisticamente,
bensì nel senso appunto della raggiunta (dal mistico) unità di Dio. Il
grande sistematore del misticismo islamico fu al Ghazali, che inserì le
esigenze di ricerca spirituale all'interno del tradizionale legalismo
religioso. Il dibattito sulle influenze religiose esterne all'islamismo
sul S. riconosce l'influsso del monachesimo cristiano siriaco, e in
genere del cristianesimo, che secondo Abbagnano diede vita al
neoplatonismo di Algazali (XI sec.). Oggi il S. è presente in alcune
aree, ma l'individuazione di esso come interlocutore privilegiato, perché
considerato di maggior rilievo, del dialogo interreligioso da parte di
taluni ambienti cristiani appare errata, vista restrema rigidità
teologico-politica dell'islamismo e il deciso rifiuto del S. da parte
sciita e di alcune sette islamiche minori. SURA
(ar. sura, pi. strwar) II Corano, libro sacro dell'islamismo che
Maometto, il Profeta, affermò essergli stato rivelato in arabo
direttamente da Allah o tramite l'arcangelo Gabriele in parte alla Mecca
e in parte a Medina, è diviso in 114 sure, corrispondenti ai nostri
capitoli. La S., formata da versetti o ayat, ha ampiezza variabile a
seconda dell'importanza dell'argomento trattato (la più lunga è di 287
versetti, la più breve di 3), ed è preceduta da un titolo che rimanda
al tema, seguito dall'indicazione del luogo in cui è stata rivelata (la
Mecca o Medina). Come per la Bibbia, anche per il Corano ci sono state
innumerevoli stesure e redazioni (i manoscritti più antichi risalgono
all'VIII sec. d. C.), spesso discordanti tra loro: la più famosa è
quella di Zayd ibn Thabit, che la presentò al califfo Abu Bakr (m. 634
d. C., corrispondente al XIII dell'egira) e fu incaricato dal califfo 'Othaman
(m. 644 d. C., XXIII dell'egira) di farne la redazione definitiva, da
allora in poi canone dell'islamismo non più modificato.
TEISMO
(gr. teos=dio) Ogni dottrina che affermi l'esistenza di un Dio
personale, trascendente e creatore provvidente: in generale in
opposizione a ateismo, in senso stretto a deismo e panteismo, come R.
Cudworth per primo scrisse nella prefazione a “Il vero sistema
intellettuale dell'universo” (1678). Presente nella Patristica, nella
Scolastica, nell'età moderna (Malebranche, Berkley, Leibniz),
nell'illuminismo (Voltaire lo identifica col deismo nel “Dictionnaire
philosophique”, è Kant a fissarne la distinzione dal deismo:
"Chi ammette soltanto una teologia trascendentale è detto deista;
chi ammette anche una teologia naturale, teista. Il primo ammette che
noi possiamo conoscere con la semplice ragione un Essere originario di
cui abbiamo un concetto solo trascendentale, come di un Essere che ha
ogni realtà ma che non si può determinare di più. Il secondo afferma
che la ragione è in grado di poter determinare di più l'oggetto
secondo l'analogia con la natura cioè di poterlo determinare come un
Essere che per intelletto e libertà contenga in sé il principio
originario di tutte le altre cose. Quello rappresenta questo essere solo
come una causa del mondo (rimanendo indeciso se si tratti di una causa
che agisca per la necessità della sua natura o per la libertà); questo
lo rappresenta come un creatore del mondo (Cr. R. Pura, Dial. Trasc., II,
cap. III, sez. 7). Per cui il deista può essere anche panteista e
credere in un rapporto necessario tra Dio e il mondo; il teista afferma
di Dio, Dio vivente (Cr. del Giud., § 72) e Persona, attributi
testimoniati dalla rivelazione e non dalla ragione. Una corrente del T.
è il T. speculativo (detto anche tardo idealismo, perché ispirato
all'ultimo Schelling, che combatte l'immanentismo di Hegel) del XIX sec.
(I. H. Fichte, C. H. Weisse, H. Ulrici), che fa capo alla Riv.
Zeitschrift fur Philosophie und spekulative Theologie (1837-48), poi
Zeitschrift fur Philosophie und philosophische Kritik (1818-19), in
reazione al panteismo logico hegeliano.il T. assolutistico (J. Royce,
“ Il concetto di Dio”, 1902) cerca una conciliazione tra l'idealismo
hegeliano e il concetto di Dio Persona trascendente, concetto essenziale
nel T. o personalismo contemporaneo.Teistica si è definita una corrente
dell'esistenzialismo: L. Stefanini, “Esistenzialismo ateo ed
esistenzialismo teistico”, 1952 (anche L. Sestov, N. Berdjaev, G.
Marcel), così come, sempre in Italia, Carlini, Guzzo, Sciacca. Nel T. anglosassone troviamo W. E. Hocking (“Meaning
of God in human experience”, 1912), A. Seth Pringle-Pattison (“The
idea of God in the light of recent philosophy”, 1917), Clement C. J.
Webb (“God and Personality”, 1920). TEOCRAZIA
(gr. Teos=dio, KpaTos=signoria, impero, potere, comando) Regime politico
il cui governo è esercitato dalla casta sacerdotale: T. furono lo Stato
ebraico dell'Antico Testamento, lo Stato maomettano, la città-chiesa di
Ginevra in età calvinista. TEOGONiA
(gr. teos=dio yovia=origine, generazione, genealogia) Mito religioso
riguardante la creazione o formazione del mondo da parte di una divinità
(Genesi, 1, 2), e talvolta la genealogia di quest'ultima. Secondo
diverse religioni, a una fase originaria in cui un essere supremo
celeste crea il mondo, succede una fase in cui quest'essere si separa
gradatamele dagli uomini e dal mondo, sostituito da una gerarchla di
divinità (figli, inviati, emissari inferiori) più vicine all'uomo e
che specializzano le funzioni divine di forza e potenza. Ciò rende
problematico il significato della creazione poiché si apre il grande
tema etico della lotta tra il Bene e il Male per cui il mondo diviene il
prodotto di questa sotto-divinità, tema che contrappone le T. positive,
che nella creazione vedono il chiaro e razionale ordinarsi
dell'indistinto caos originario, alle T. anticosmogoniche, che nella
creazione vedono la rottura di un'unità originaria divina: Vedanta e
Upanishad indiani, orfismo dell'uovo primordiale, mazdeismo, buddhismo.
T. sono presenti già in età paleolitica e neolitica. TEURGIA
(gr. xeoupyia=opera divina, miracolo, rito mistico, mistero) Arte magica
mediante la quale si ritiene di esercitare un potere sulla divinità,
perché si presentifichi temporaneamente in un oggetto (in genere una
statua, la cui fabbricazione consiste in un rituale complesso che
sottende una teoria mitologica). Nata col neoplatonismo come espressione
della religiosità del sistema, la T. era fondata sulla conoscenza
(gnosi) della vera essenza della divinità, espressa nel suo puro nome:
ammessa da Porfirio, fu Giuliano il Caldeo (II. sec. d. C.), presunto
autore degli Oracoli Caldaici, il primo a definirsi teurgo, mentre
Giamblico, che la valorizzò come Proclo (Della tecnica ieratica),
considerò la T. al di sopra dell'unione spirituale con Dio o estasi, e
vide i suoi riti dotati di valore autonomo al di là di chi li pratica
(De Myst. Aegyp., II, 11). Sempre osteggiata dal cristianesimo (Agostino
criticò lungamente la T. come attività rivolta indifferentemente ai
demoni come agli angeli: Civ. Dei, X, 10 sgg.), la T. è ripresa nel
Rinascimento con lo sviluppo delle scienze occulte, mentre poi Kant la
considerò illusione fantastica di altri esseri soprasensibili e del
potere di influire su di essi, ritenendola, come la teosofia,
impossibile a causa dei limiti della ragione. TIRANNIDE
Forma di governo in cui l'arbitrio di uno o più individui è
messo al posto del diritto. Concetto elaborato dai Greci insieme a
quello di libera costituzione: Euripide dice in versi: "Non c'è
peggior nemico che un tiranno in una città, sotto il quale scompaiono
tutte le leggi comuni e uno solo comanda, tenendo in sua mano la
legge" (SuppL, II, 429-32). Per Platone la T. è lo sbocco
dell'eccessiva libertà in cui talvolta cadono le democrazie: "II
popolo fuggendo il fumo, come si suol dire, della servitù sotto un
governo di uomini liberi si trova, con la T., caduto nel fuoco della
servitù sotto il dispotismo di servi e in cambio di quell'eccessiva e
inopportuna libertà, è costretto a vestire la tunica dello schiavo e a
soggiacere alla più triste e amara delle servitù, quella d'essere
servo dei servi" (Rep., VIII, 569 b-c). Aristotele afferma che la
T. raccoglie in sé i mali della democrazia e dell'oligarchia: di quest'ultima
ha i fini (la ricchezza come unica condizione in cui si può mantenere
la guardia e la vita di lusso, la sfiducia del popolo cui toglie le
armi, e il danno a chi è allontanato dalla città e disperso nelle
campagne), della prima ha la lotta, e la rovina provocata occultamente o
manifestamente e seguita dall'esilio, contro i maggiorenti. Nel
Medioevo, mentre Tommaso ritiene che "dalla monarchia se si
trasforma in T. segue minor male che da un governo di più ottimati
quando si corrompe" (De regimine principum, I, 5), e condanna il
tirannicidio affidando alla pazienza dei sudditi la sopportazione della
T., Giovanni di Salisbury afferma esplicitamente la liceità del
tirannicidio in quanto il tiranno è un ribelle contro la legge, cui
sono vincolati tutti, i re come i cittadini (Policraticus, IV, 7). Nei
secc. XVI e XVII, a partire dai quali il concetto di T. è divenuto
simbolo e pietra di paragone di tutto ciò che il liberalismo condanna,
costituendo uno dei temi della retorica rivoluzionaria, monarcomachi e
giusnaturalisti ripresero quell'idea: per Bodin "La più notevole
differenza tra il re e il tiranno è che il re si conforma alle leggi di
natura, il tiranno le calpesta; l'uno coltiva la pietà, la giustizia e
la fede, l'altro non ha Dio né fede né legge" (De la République,
1576, II, 4,246), per Locke "Dove la legge finisce, comincia la T.,
quando la legge sia trasgredita a danno di altri, e chiunque
nell'autorità ecceda il potere conferitogli dalla legge e fa uso della
forza per compiere nei riguardi dei sudditi ciò che la legge non
permette, cessa, in ciò, di essere magistrato e, in quanto delibera
senza autorità, ci si può opporre a lui come ci si oppone a un altro
qualsiasi che con la forza viola il diritto altrui" (Two Treatises
of Government, II, § 202). Secondo Hobbes invece "coloro che sono
contrari a una monarchia la chiamano tirannia" (Leviath., II, 19,
2). Oggi il termine T. è sostituito da assolutismo o totalitarisrno,
come regime in cui l'arbitrio individuale è messo al posto della legge
e come servitù imposta da servi. TOLLERANZA
(lat. tolerantia=T., pazienza) Compito di qualunque autorità gruppo o
individuo è il rispetto del principio di T. come norma della libertà
di pensiero e azione (di individui o gruppi) ispirata al principio di
responsabilità razionale e che non lede la libertà altrui. In senso
originario (dello scontro religioso, divenuto in seguito politico),
suppone un sistema di credenze assunto come norma, e giudizi negativi
verso il tollerato, e indica la mancata repressione di ciò che si
ritiene falso o dannoso: nella Grecia antica varie personalità tra cui
Socrate furono perseguitate come atee, nella Roma imperiale per la
coincidenza di divino e umano nell'imperatore: Paolo, contro le
persecuzioni dei primi cristiani, accennò alla possibilità della lealtà
politica dei sudditi scissa dalla credenza religiosa (Atti, 24:11-16),
ma il cristianesimo divenuto religione di stato dimenticò la lezione,
perseguitando i dissenzienti. Con l'Umanesimo (Erasmo, Lefévre d'Etaples)
si ha la rivendicazione del principio di T. religiosa con l'argomento
etico: la persecuzione è violenza opposta alla carità cristiana, la T.
è legata al dovere della fraternità (ripreso da Locke, prima Lett.
sulla T., 1689); e con quello cd. latitudinaristico (dal movimento
inglese '600esco): le divergenze religiose riguardano non il nucleo
razionale della religione, condivisibile sul fondamento della ragione e
che conduce all'esperienza religiosa individuale fuori dalle Chiese, ma
i punti oscuri e controversi delle dottrine. Ockham, anticipando Kant e
l'Illuminismo, afferma, con i diritti e la libertà che a tutti
provengono da Dio e che il cristianesimo si è avocato dai tempi dei
profeti (De Imperat. et Pontif. potestate, IV, ed. Scholz, II, p. 458),
la possibilità di salvarsi anche senza la fede di una Chiesa: "Non
è impossibile che Dio ordini che colui che vive secondo i dettami della
retta ragione e non creda se non a ciò che la sua ragione naturale
concluda che sia da credersi, sia degno di vita eterna. E se Dio così
dispone, potrebbe anche salvarsi chi altra guida non ebbe nella vita che
la retta ragione" (In Sent.). La Riforma, col proliferare delle
sette, rese esplicito e politico (per la diversità delle genti sotto
un'unica autorità sovrana) il principio di T.: i sociniani italiani in
suo nome rifiutarono la Trinità riprendendo come poi i deisti
(Voltaire, Tratt. sulla T., 1763) l'argomento latitudinaristico. Quello
politico per cui la T. è un bene e la persecuzione dei dissenzienti è
dannosa per lo Stato poiché ve li coalizza contro fu sostenuto da Locke
(Sag. sulla T., 1667) come separazione tra Stato, "società di
uomini stabilita unicamente per conservare e promuovere i beni
civili" (vita, libertà, proprietà), e Chiesa, "libera società
di uomini, congiuntisi spontaneamente per servire Dio in pubblico a quel
modo che giudicano a Lui più accetto" (Lett. sulla T.), e nell'800
dal liberalismo: J.S.Mill (Sulla libertà, 1859) parla della pressione
sociale dell'"opinione pubblica".
VALORE
In filosofia il V. ha significato in campo morale (assiologìa
come logica dei V. e studio razionale del problema dei V., consistente
nel problema della coincidenza tra V. assoluto e V. storico e nelle
diverse posizioni assunte rispetto a questi V. e al loro rapporto) e
pratico (determinazione dell'oggetto privilegiato di scelta). Per
Protagora (relativismo etico) ogni uomo è misura di ciò che per lui ha
V. Piatone, con la sua unità ideale tra Bene, Vero, Bello, costituisce
il fondamento di ogni dottrina ontologico-metafisica dei V. (la
Scolastica specificò quei tre V. come trascendentali o modi
fondamentali della creazione divina: esse, verum, bonum, Tommaso, De
verit.). Gli Stoici intesero i V. gerarchicamente come "ogni
contributo a una vita conforme a ragione" (Diog. L., VII, 105)
"degno di scelta (selectione dignum)" (Cicerone, De fin): la
virtù. Con Kant (distinzione tra essere e dover essere come sfera
autonoma di norme e fini dotati di validità, realtà, universalità,
oggettività e autonomia) si ha la prima trattazione indipendente del V.
come oggetto metaempirico distinto dalla realtà meramente esistente: la
via alla filosofia dei V. è aperta (con la rinascita del kantismo di
metà '800, Lotze imposta il problema dell'essere valido come guida e
struttura della realtà, Microcosmo, 1856-64). Ma per Kant V. è solo il
Bene, non anche il Vero e il Bello: l'estensione è dei kantiani e dei
neokantiani: Windelband, che contro il soggettivismo psicologistico (Beneke,
Meinong, Ehrenfels) afferma lo status metafisico e oggettivo del V. come
dover essere (sollen) reale indipendentemente dalla sua realizzazione
storica, riconosce anche un V. di verità e un V. di bellezza (Prael.,
1884); Rickert, continuatore della scuola del Baden anche lui
rifacentesi al kantiano a priori, intende il V. come realtà
trascendente (indipendente e indifferente) dotata di senso, che come
regno del significato è il tramite tra il regno dei V. e il mondo della
realtà che li realizza nella storia (Syst. Philos., 1921), per cui il
V. è l'essere perfetto: ha unità, universalità, eternità, contro la
molteplicità, particolarità e mutevolezza della storia di cui
costituisce la norma di giudizio e di guida. Dopo lo storicismo di
Dilthey (v. anche Troeltsch, Meinecke), Weber, contro la trascendenza
metafisica neocriticista, parlò di trascendenza normativa e di
conflitto dei V., che elimina la validità incondizionata di ciascuno e
rende la scelta problematica e situazionale. Di altro tipo l'analisi di
Nietzsche che, contro il nichilismo occidentale, vuole un rovesciamento
di tutti i V., V. vitali frutto di scelte dettate dalla volontà di
potenza (Genealog. der Mor., 1887); e della fenomenologia di Scheler: il
V., oggetto vero di origine divina disposto gerarchicamente e
inaccessibile all'intelletto, è intuito intenzionalmente, mediante una
scelta, col sentimento (Der Formai, in der Eth., 1916). VOCAZIONE
Disposizione d'animo che porta a una scelta esistenziale precisa
e improcrastinabile in qualunque ambito di attività, professionale e
non, e che orienta tutta la vita coinvolgendo in quella direzione scelte
che ne sono apparentemente lontane alla ricerca di un senso complessivo
e di un'omogeneità e coerenza esistenziali che producono uno stile o
modo di vita precisi anche se non necessariamente riconoscibili e
etichettabili. In questo senso, la V. è in stretto rapporto con la
gerarchia di valori che un individuo fa propria o produce,
consapevolmente o meno, ed è diversa dall'attitudine come inclinazione
o disposizione naturale a una determinata attività che non
necessariamente trova realizzazione, ma che può anzi essere tralasciata
nel corso della vita a livello solo potenziale a vantaggio di altre da
sviluppare e coltivare. Nonostante ciò, seguire una V. implica scelte
continue spesso dolorose e talvolta conflittuali anche perché
contemplano la chiarezza razionale del fine ideale, e la chiarificazione
puntuale dei fini e dei mezzi intermedi e pratici, che attraverso la V.
si vuole conseguire, anche se spesso la portata di una V. sfugge nelle
sue conseguenze ai fini consapevolmente perseguiti. Nel cristianesimo,
la V. è la chiamata di Dio alla vita religiosa. Per Paolo,
"Chiunque sia chiamato a una V., rimanga in essa" (Ad C or.,
I, VII, 20). Oggi la V. è studiata in pedagogia, per la sua importanza
nella formazione di un individuo inserito armonicamente nella società e
per il valore di vero e proprio progresso rispetto alle sue discrasie in
campo sia teorico che pratico che spesso hanno le V. a partire
dall'ambito in cui si esercitano. In tal senso, figure emblematiche
dotate di V., in cui questa per la sua potenza sconfina nella genialità,
possono essere considerate sia Mozart che Einstein che Gandhi.
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