STEFANIA SAPORA

                 COGITO ergo SUM.....ergo DIGITO

 

Dalla dissertazione di dottorato IX ciclo 1993-96


       

 

 Il problema di Dio


L'intento di questa ricerca e' quello di mostrare come il problema teologico, il problema di Dio, sia centrale in tutto il pensiero di Carabellese, e che solo successivamente si articola in un sistema metafisico definito seppure passibile, come dice Carabellese stesso, di ulteriori sviluppi. Il problema di Dio perciò è ad esso propedeutico, e la sua centralità nell'itinerario carabellesiano è visibile a partire da almeno tre motivi che tra poco andremo ad esporre.

Ma prima e' necessario ricordarsi che, come sottolinea Edoardo Mirri [1], l'esplicitazione che la filosofia e' ricerca di Dio Carabellese la fara' nel suo Il problema teologico come filosofia,  cioe' nel 1931, che perciò noi abbiamo considerato l'inizio del suo periodo metafisico, perché esso è il luogo in cui Carabellese esplicita il suo progetto di una metafisica critica: secondo Carabellese, il Principio di cui si occupa la filosofia in quanto metafisica e' Dio, percio' filosofia e teologia si incontrano.

1. Il rapporto tra filosofia e teologia

Già fin dal titolo, e più volte ne Il problema teologico come filosofia, Carabellese parla di teologia. Ma forse indagare sul concetto carabellesiano di teologia serve a spiegare come si arrivò a tacciare Carabellese di ateismo e perché la sua concezione, che è sicuramente religiosa non può nel contempo dirsi  cattolica ma cristiana, inserendosi nella linea di una concezione religiosa senza religione confessionale, almeno dal punto di vista teoretico se non anche esistenziale.

Anche se Carabellese non lo dice mai esplicitamente, né tratta del tema, è possibile nonostante tutto giungere alla conclusione che certamente la teologia non è per Carabellese quella che si sofferma su questioni esegetiche rispetto alle Sacre Scritture, così come la religione non è quella che si incentra su riti e pratiche religiose esteriori condivise dotate di valore storico-simbolico. La teologia è invece quella che si occupa del problema di Dio, problema perché non è accertamento delle condizioni storico-esistenziali della sua rivelazione sulla terra, né interpretazione ermeneutica del racconto delle Sacre Scritture. In questo senso, Carabellese appare ancora più rivoluzionario (e perciò incompreso e "inattuale" alla maniera nietzscheiana, come dice Mirri nell'Introduzione all'opera citata) anche della nuova teologia di derivazione protestante  - penso a Bultmann, ma potrei pensare anche alla teologia liberale di Jaspers. La teologia di Carabellese sembra insomma porsi come problema "puro" di Dio, in questo senso problema filosofico, eminentemente metafisico, perciò problema teologico come filosofia: ciò che interessa Carabellese è il problema di Dio  epurato potremmo dire dall'approccio realistico esistenziale della religione positiva, ma  epurato anche dall'esser considerato un problema squisitamente religioso, di stretta pertinenza teologica, intendendo qui per teologia (Carabellese non a caso usa l'espressione apparentemente impropria di religione) appunto specificatamente il campo della teologia religiosa. Si è già detto che Carabellese si pone nel solco della tradizione filosofica  che, come teologia laica, si è interessata al problema di Dio, e lo si potrebbe definire, parafrasando una espressione della Nobile Ventura resa celebre da  Semerari, "teologo laico", appunto per sottolineare la sua estraneità all'orizzonte della teologia strictu sensu religiosa, ma nel contempo la sua appartenenza all'orizzonte della meditazione sul senso dell'essere in chiave religiosa, ed è quindi in questo senso la sua appartenenza all'orizzonte di una teologia laica.

Ma è forse questa parola, "laico", che, se non presa nel senso letterale di non appartenente ad alcun ordine religioso, come nella già ricordata famosa definizione di "metafisico laico" getta un'ombra di negatività in chi, come Carabellese, crede. In questo senso, la definizione di una teologia laica può sembrare un ossimoro, e sicuramente è espressione di una contraddizione, di un conflitto tra un forte interesse al problema di Dio e un approccio fuori dagli schemi della teologia classica, e tra un profondo sentimento religioso e la ricerca di una sua nuova espressione linguistico-concettuale, esterna alla tradizione religiosa solo perché lontana dal considerare il problema di Dio di stretta pertinenza religioso-teologica  nel senso specifico che sopra si è chiarito. Detto questo, si deve specificare quella definizione di metafisico laico in direzione più nettamente teologica anche se Carabellese riconosce l'esistenza di altre branche della filosofia potremmo dire con lui più "umanistiche". E potremmo ulteriormente specificare, teologia pura, eminentemente teoretica, ossia non interessata se non al problema di Dio e, quindi, dell'essere.

Solo una  lettura critica dei testi sacri mirante a coglierne, al di là della lettera storico-esegetica, il senso metafisico  non dalla prospettiva dell'uomo, ma, come dice Carabellese, da quella di un mettersi direttamente "di slancio nell'Infinito", solo questo tipo di lettura sarebbe possibile per Carabellese, perché da lui lontano il Dio delle Sacre Scritture come Dio esistente e realistico, Dio persona, Dio tu antropomorfo.

Le sacre scritture di Carabellese, quelle in cui egli cerca Dio, sono allora, oltre che quelle della sua formazione teologica, anche quelle filosofiche: Platone, S. Agostino, Spinoza, Rosmini, e soprattutto, come si è visto, Kant, ove egli trova materiale per una concezione che può definirsi metafisica critica, ma ancor più teologia laica, perché mette a fuoco il problema dell'essere e dei giudizi sintetici a priori metafisici a partire dal problema di Dio.

In questo senso Carabellese invera e supera l'importante distinzione operata da Kant nella VII Sezione del capitolo III del Libro II della Dialettica trascendentale della Critica della Ragion Pura [2], distinzione tra teologia razionale, fondata sulla pura ragione, e teologia rivelata, fondata appunto sulla Rivelazione, ove la teologia razionale è a sua volta distinta in teologia naturale, che si basa su concetti ricavati dalla natura (della nostra anima) e teologia trascendentale, basata su concetti trascendentali ossia che si riferiscono o ad un'esperienza in generale (cosmoteologia) o fanno astrazione da qualunque esperienza (ontoteologia). Kant pone quest'importante distinzione a conclusione di un intero capitolo in cui ha argomentato sull'impossibilità di concludere sia a favore che contro l'esistenza di Dio, che per lui rimane dal punto di vista teoretico, come ben si sa, un ideale regolativo della ragion pura dotato di valore pratico, dimostrando la fallacia sia della prova fisico-teologica (e dunque della cosmoteologia) sia della prova ontologica (e dunque dell'ontoteologia), e quindi in definitiva concludendo per la vacuità della teologia razionale così come data ai suoi tempi: "Ora io affermo che tutti i tentativi di un uso meramente speculativo della ragione rispetto alla teologia sono affatto infecondi e per la loro intima natura nulli e vani; ma che i principi del suo uso naturale non conducono per nulla a una teologia, e che pertanto, se non si mettono a fondamento o non si prendono a guida leggi morali, non è possibile che ci sia mai una teologia della ragione. Tutti, infatti, i principi sintetici della ragion pura sono di uso immanente; ma alla conoscenza di un Essere supremo si richiede un uso trascendente di essi, al quale il nostro intelletto non è punto attrezzato." [3] Da questo importante passo si deduce la critica di Kant a ogni teologia razionale come teologia della ragion pura scissa dalla ragion pratica, ma soprattutto si deduce che l'uso trascendente e non immanente dei principi sintetici della ragion pura è possibile non all'intelletto ma alla ragione: sono i giudizi sintetici a priori metafisici.

E' dunque possibile dopo Kant una teologia pura solo se alla ragion pura si connetta la ragion pratica: è ciò che Carabellese, interprete e studioso di Kant, propone. Se si resta all'interno dello schema kantiano riguardo alle teologie razionali del suo tempo, è impossibile inserirvelo, perché esso risulta, riguardo al modo in cui Carabellese intende la teologia razionale, insufficiente a darne ragione. Carabellese è sicuramente lontano, abbiamo visto, dall'approccio della teologia confessionale, ma, sebbene nei suoi scritti non si trovi mai il riferimento, anche critico, ai temi che oggi si dicono dell'ermeneutica teologica, mentre vi è sempre il riferimento critico alle religioni positive e confessionali e al Dio personale, non per questo è deducibile un implicito rifiuto del Dio rivelato della Rivelazione storica propria delle religioni positive, se per Rivelazione si intende la Rivelazione di Cristo. Così Carabellese rientrerebbe a pieno titolo nell'altro grande ramo della teologia così come da Kant sistematizzato, la teologia razionale, e, all'interno di questa, nella teologia trascendentale, che si fonda su concetti trascendentali, e ancor più specificatamente nell'ontoteologia, che fa astrazione, dice Kant come abbiamo visto, da qualunque esperienza. Ma il concetto di esperienza di secondo tipo che si è introdotto come esperienza guidata dall'intellectus fidei porta Carabellese, sulla scia del kantismo, ad una teologia razionale non scissa dalla ragion pratica, la vera teologia razionale da Kant auspicata, quella che comporta il concorso di ragione e fede, ossia quella che intende per ragione una ragione fideistica.

Da questo punto di vista, Carabellese rientrerebbe a pieno titolo  nel neokantismo di cui parla Semerari, appunto perché da Kant riprende la questione, oltre che dei giudizi sintetici a priori metafisici e quindi della metafisica critica, della teologia razionale come teologia pura che connette, nella speculazione, ragione e fede, speculazione che si fonda sul sapere a priori di cui parla Carabellese e che conduce all'esperienza di secondo grado guidata dapl'intellectus fidei, esperienza che è costituita dalla connessione di ragion pura e ragion pratica, e che nella sua specificità si costituisce come intuizione intellettuale. Carabellese in altre parole si riconnette a Kant per inverarlo nei compiti aperti da lui lasciati - la metafisica critica con i suoi giudizi sintetici a priori metafisici e la teologia pura come connessione di ragion pura e ragion pratica -, conducendo questo inveramento, pur nel silenzio che fa calare su alcuni passaggi essenziali per comprendere il suo pensiero e per ricostruirne sia gli snodi sia l'insieme nell'interrelazione tra il detto e il presupposto, tra l'esplicito e l'implicito, conducendo questo inveramento di Kant, si diceva, nell'attingere a quelle fonti che, prima di lui dopo di lui e coeve a lui stesso, potevano costituire lungo il percorso della sua formazione quelle tessere tali da contribuire a rendere esplicito, se non agli altri almeno a lui stesso, il mosaico del suo pensiero, il suo progetto interiore, e  a perfezionarlo.

Così come rientrerebbe nel neokantismo secondo il  modo che si è cercato di mostrare, così altrettanto Carabellese, proprio a partire da quelle fonti che nel suo studio storico-teoretico come formazione esplicitante il suo progetto di pensiero, rientrerebbe   a pieno titolo in una lunga tradizione filosofica che dopo, oltre e nonostante la scissione del legame tra filosofia e teologia posteriore al Medioevo scolastico, ha continuato a porsi il problema di Dio sia nell'ottica patristica dell'interiorità agostiniana di Dio non al solo soggetto, sia nell'ottica scolastica della dimostrazione razionale tomistica di Dio, ma ha epurato, con un approccio critico che gli veniva dal progressivo affinarsi della storia della filosofia, oltre che da Kant che quell'approccio critico rese esplicito, sia quella dimostrazione dagli aspetti più marcatamente empiristici, sia quel problema dagli aspetti più evidentemente confessionali, continuando ad alimentare quella che abbiamo definito teologia laica in contrapposizione alla teologia religiosa propria delle confessioni. Questa teologia laica è puramente razionale secondo la lettera kantiana, perché, seppur fuori dell'appartenenza alla teologia confessionale, richiede l'apporto, oltre che della ragione, anche della fede, come suo presupposto altrettanto fondamentale e fondante. Non è un non senso, una contraddizione, una teologia puramente razionale, poiché essa, che fa appello come l'altra alla fede nella Rivelazione storico-religiosa intesa come Rivelazione di Dio in Cristo, rivela la sua natura profondamente fideistica come teologia che abbiamo detto laica ma potremmo chiamare filosofica, e nel contempo approfondisce dal punto di vista critico quelle verità della fede che si chiamano dogmi, e dal punto di vista filosofico quei misteri della fede che costituiscono il presupposto della religione positiva. In ciò consiste quell'incontro tra religione e  filosofia che abbiamo visto Carabellese considerare possibile e anzi necessario al di là della critica modernistica e idealistica agli aspetti dogmatici e temporali delle religioni positive.

Si potrebbe a questo punto rispondere che certamente è possibile una teologia che si interessi del problema di Dio da un punto di vista strettamente razionale nel senso di privo di fede e quindi opposto a quello mirante, secondo l'intenzione kantiana, a escludere una trattazione del problema di Dio fuori dall'ambito della fede rivelata, una teologia cioè che dimostri criticamente l'impossibilità di tale trattazione: una teologia critica in primo luogo verso se stessa. Ma allora è necessario introdurre nella ripartizione dei vari tipi di teologia anche una teologia priva di fede, tendente sul piano antropologico  a escludere il campo tutto umano dei prodotti  storico-antropologici della fede religiosa, e sul piano teoretico a dimostrare non l'inesistenza di Dio, ma la sua assenza: una teologia atea o agnostica, per quanto ciò possa apparire un ossimoro.

Tornando a Carabellese, se da un lato la fede non è soltanto la fede confessionale, dall'altro è rintracciabile in lui una teologia speculativa laica che comprende la fede, dunque né atea né agnostica, che configura un nuovo rapporto tra ragione e fede e a cui risulta stretta la definizione kantiana di teologia razionale dei suoi tempi, e che invece  si pone nel solco di quella teologia razionale da Kant auspicata. Una teologia, nel caso di Carabellese, sulla scia kantiana critica verso qualunque dumostrazione dell'esistenza di Dio, ma non critica verso una concezione della filosofia intesa  come scienza rigorosa, perché anzi il suo campo vuole includere il non dimostrabile nel dimostrabile nella direzione della fondazione dei giudizi sintetici a priori metafisici.

In questo senso, dopo Kant ma oltre Kant, è possibile per Carabellese una metafisica critica, così come è possibile una teologia critica, cui egli con la sua filosofia crede di contribuire ad aprire la strada, proseguendo nello stesso tenpo il cammino prima di lui percorso da quanti con lui sono in consonanza: Aristotele [4] in primo luogo, che denomina la sua filosofia prima, la metafisica, anche teologia, e che consente a Carabellese di coniugare con essa tutta la tradizione occidentale che ha collegato la teologia con la Rivelazione, ma nello stesso tempo di considerarla come riflessione pura  sul problema di Dio, esulando cioè da un approccio soggettivistico e, come anche dice, umanistico al problema di Dio, così come egli lo vede concretarsi dell'idealismo soggettivo non solo tedesco.

Nella direzione di una teologia laica sembra infatti muoversi consapevolmente Carabellese quando, in una nota al Problema teologico come filosofia, riferendosi al problema di Dio come al problema più profondo che fonda la filosofia, afferma: "Con esso forse la filosofia diventa ... teologizzante; ma dimostra anche così che  può, e deve, esser tale, pur senza essere una fideistica chiosa né della Bibbia né di alcun'altra rivelazione scritta [...]"[5]. E' in quel sostantivo, "chiosa", la chiave per comprendere l'approccio carabellesiano al problema di Dio e della Rivelazione: non una "filosofia istituzionale", come dice Semerari, la cui funzione sia la chiosa, ossia la ripetizione sotto altri termini del detto utile alla Chiesa cattolica, ma una teologia come ricerca.

Dopo essersi rammaricato del fatto che il problema di Dio è oggi in campo filosofico considerato improponibile o inesistente, nello stesso luogo Carabellese si chiede: "Sarà così teologizzante la nostra filosofia, perché pone esplicito il problema di Dio [...]? Sia pure teologizzante: anzi la filosofia non è, e non può essere fondamentalmente che teologismo. [...] La filosofia, se qualcosa è nell'essenza sua, è proprio Dio nella sua problematicità."[6], perciò problema teologico come filosofia. Ma appunto problema perché deve innanzitutto liberare il campo da quelle che Carabellese considera false impostazioni, come vedremo, del concetto di Dio, prima fra tutte l'impostazione chd identifica teologia e religione, secondo la quale parlare  di Dio oggi significa parlare del Dio della religione.

2. Il rapporto tra religione e filosofia e quello tra ragione e fede

KS nei primi scritti Carabellese giovane ancora istituisce un rapporto dialettico tra religione e filosofia è perché egli è consapevole della distinzione tra teologia e religione e, almeno nelle prime opere, l'identificazione tra teologia e filosofia non è ancora marcatamente in luce, ché ancora per teologia egli intende la teologia confessionale. Filosofia e religione si fronteggiano irrisolte nella loro antiteticità, ciascuna avocante a sé un diritto di preminenza sull'uomo, ciascuna "esigenza di trascendente" a suo modo e con  i propri strumenti. In questa antiteticità tra due opposte concezioni della vita, tra due Weltanschauungen complementari di cui l'evidente spirito critico di Carabellese non poteva non vedere aspetti positivi e negativi, emerge il misticismo carabellesiano e si comprende perché Semerari abbia parlato di "tarlo del filosofare", di ricerca infaticabile e tentativo sempre rinnovato di cogliere, attraverso appunto la metafisica, un punto di vista superiore.

Ma nonostante l'iniziale rapporto dialettico tra religione e filosofia, in seguito il loro rapporto si chiarisce, chiarendo la teologia come ricerca e come sistema: "La fede essenziale alla religione non è la credenza dogmatica in un insieme di proposizioni fisse e determinate. [...] i dogmi riempiono la rivelazione, non la costituiscono: il dogma viene dalla filosofia alla religione e non viceversa. Come la filosofia prende dalla religione l'intima certezza dell'Assoluto nel suo mistero e di quella certezza veste, facendone un sistema, i valori raggiunti nello sforzo di oggettiva meditazione; così la religione prende dalla filosofia questi valori da essa raggiunti nel suo sforzo e di essi riempie, facendone una dottrina dogmatica, la misteriosa fede vissuta nell'abisso della coscienza singolare. La filosofia, nello sforzo di svelare Dio, scopre il soggetto e formula il sistema, la religione nella certezza del soggetto scopre Dio e formula il dogma."[7]

Così anche il rapporto tra ragione e fede non è visto in termini di contrapposizione, ma anzi di richiamo reciproco e, sebbene distinte, ragione e fede risultano ambedue necessarie: "Ragione e fede sempre han detto e dicono cose diverse, [ma] solo quando prese astrattamente. In concreto dicono la stessa cosa [...] non vuol dire che [...] dettino, ciascuna [...], leggi concrete alla umana attività. Questa deve rimanere autonoma. [...] Ogni forma concreta [...] ha in sé le sue leggi e il suo arbitrio, leggi che legano e dissolvono l'arbitrio in tutte le altre forme."[8]. E ancora: "[...] che il vero filosofare sia l'adorare (è la rosminiana idea della sapienza), o che viceversa il vero adorare sia il filosofare (è, p. es., la tesi sostenuta oggi in Italia, pur con un filosofare diverso, dal Martinetti da una parte e dal Gentile dall'altra) sono false entrambe, e dipendono dal non aver viste e valutate le condizioni intrinseche della coscienza [...]. La soluzione del problema sta nell'organizzare insieme fede e ragione, in quanto organizzate insieme sono soggettività e oggettività."[9]. Ragione e fede sono dunque per Carabellese sul piano trascendentale della Coscienza l'una trascendentalità oggettiva, ossia Dio, l'altra trascendentalità soggettiva, ossia Io come soggettiva fede e certezza di Dio, e sono ambedue necessarie al pensare, che altrimenti scomparirebbe: sul piano della pluralità dei soggetti, il credente puro e il filosofo puro non si combattono né gareggiano, ma si purificano a vicenda purificando la coscienza. Carabellese afferma che vi è "[...] una forma di coscienza, in cui questo implicito [Dio] si fa riconoscere [...] ed è la fede religiosa nella sua purezza di esistenza spirituale. Tale fede non nega la ragione e quindi non è l'irrazionale: e così la ragione non nega la fede e quindi non è non credere."[10].

Pur connettendo ragione e fede, Carabellese distingue bene tra filosofia  e religione intesa come religione positiva, e ne fa una critica serrata. Infatti, non soltanto di fronte a una religione che "[...] da una parte si chiude in pratiche di culto, dall'altra vuol porsi come dominatrice [...], la vita giustamente crede di fare a meno di un senso religioso [sottol. mia]."[11], ma anche la polemica con la religione positiva si incentra sul concetto di un Dio da adorare oggetto di una speciale esperienza che si sottrae al carattere specifico dell'esperienza, che è, secondo Carabellese sulla scia di Kant, la sperimentabilità di più soggetti. Ed è proprio la non sperimentabilità della religione che conduce questa ad affermare come suo carattere costitutivo la fede, fede che giunge all'estremo nella formula "credo quia absurdum" quando qualunque tentativo di dimostrazione razionale è fallito. Carabellese vuole in altre parole affermare la possibilità della dimostrazione razionale di Dio a partire dalla dichiarazione che abbiamo ricordato che tra i suoi maestri vi è San Tommaso: è qui, se si ricordano le parole di Bontadini, la distanza vera tra Carabellese e la neoscolastica: nell'estendere la possibilità di tale dimostrazione all'Assoluto come esperienza condivisibile di secondo livello.

Il problema di Dio dunque non è per Carabellese esclusivamente religioso - sebbene la religione abbia voluto assumerne l'esclusività - perché "Ammettere ciò è dire o che la religione come tale esaurisca tutta l'attività spirituale, o che vi sia un'attività spirituale dalla quale possa essere assente Dio."[12], due conclusioni impossibili per Carabellese, il quale come si è visto considera Dio "[...] principio di ogni essere, di ogni attività e più ancora quindi di ogni spiritualità."[13]. Ancor più, il problema di Dio è esclusivamente filosofico, perché per la religione nella sua purezza Dio è certezza da adorare, mentre è la filosofia come teologia che lo problematizza.

 

3. Il problema teologico come problema fondamentale

 

Dopo aver mostrato come è possibile un'identificazione in Carabellese della filosofia con la teologia - intendendo per teologia, ripetiamo, una teologia non confessionale ma laica - è possibile forse intendere  anche le ragioni che fanno si' che il problema teologico sia da considerare centrale in tutto il pensiero del Carabellese.

Un primo motivo, ovvio, e' quello che vuole definire la fisosofia di Carabellese come  onto-teologismo, definizione questa da lui stesso accettata e riconosciuta. Ma se al di là della definizione noi ci soffermiamo sul suo senso, possiamo osservare che scienza dell'essere e scienza di Dio sono in lui strettamente connessi, e ciò  per il terzo motivo per cui si puo' definire il pensiero del Carabellese centrato sul problema di Dio, il motivo che voglio definire "interno", pur senza fare confusione con cio' che egli definiva problema interno della filosofia.

Un secondo motivo, che chiamerei "esterno", e' quello che lega Carabellese ai cattolici neotomisti nella lunga polemica sull'ateismo degli anni 1936-1948, che non si incentrò tanto, come rinviene Mirri, sul concetto di Dio come Oggetto puro della coscienza dei soggetti, che è di ascendenza agostiniana, quanto appunto, in modo più complesso e radicale, sulla dimostrabilità esperienziale dell'Assoluto.

Un terzo motivo e', si diceva, "interno", e questo ha a sua volta due aspetti: l'interesse per i problemi religiosi non manca in Carabellese sin dai suoi primi scritti, che del suo coinvolgimento nei problemi della sua epoca e nella sua ideologia modernista riguardavano il grande problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, scritti dove si stigmatizza l'ingerenza del potere temporale della Chiesa in un organismo laico come lo Stato poteva e doveva essere per il Carabellese giovane, per il quale, egli ribadisce piu' volte nei propri scritti, non soltanto l'apparato sacerdotale ne' poteva ne' doveva interferire nelle questioni statali di stretta pertinenza laica[14], ma anche e vieppiu' l'intellighenzia laica doveva tenersi lontana dalla tentazione di un "servigio" allo Stato che ne avrebbe compromesso l'autonomia di giudizio e la liberta' di azione.

Ma cio' che invece ci consente di asserire un suo ininterrotto interesse per  l'argomento teologico, che travalica gli scritti specifici in materia di religione[15], che attraversa tutto lo sviluppo del suo pensiero come interesse più prettamente e specificatamente filosofico, attraverso la mediazione di Kant, di cui egli e' interprete e traduttore come abbiamo visto  in un'ottica mirante alla soluzione  del problema teologico kantiano: basti per tutti ricordare qui la sua monografia ponderosa su La filosofia di Kant: l'idea teologica. Una formazione kantiana che influenza il suo pensiero teologico, ma come abbiamo visto non al punto da impedirgli una propria autonoma speculazione sul problema di Dio.

Seppure uno dei nodi centrali di tutto il pensiero di Carabellese è il rapporto originario, coessenziale, tra filosofia e teologia, la sua fu una teologia non confessionale, come dimostra la sua tesi dell'inesistenza di Dio, ma soprattutto la sua critica profonda a tutte le religioni positive, colpevoli di antropomorfizzare Dio, rendendolo ente finito tra enti finiti[16].

4. L'inesistenza di Dio in rapporto al concetto di esistenza in Kant.

Secondo il Casabellese maturo del breve scritto Ho io coscienza di Dio? la domanda corretta intorno a Dio non riguarda la sua esistenza ma la coscienza che il soggetto ne ha[17]. Cio' perche', kantianamente, l'esistenza non e' una determinazaone concettuale tra altre, ma un "piu' del concetto" che si constata e che riguarda sempre qualcosa di limitato e condizionato, qualcosa di singolare e relativo che risulta all'esperienza.

E' una posizione questa del 1947-48  che compare pure nella serie di dispense su  Il problema dell'esistenza in Kant[18] degli anni accademici  dal 1940 al 1943 e prima ancora ne Il probloma teologico come filosofia, e che Carabellese mantiene intatta nel tempo, già presente nell'opera del 1927 su La filosofia di Kant. I L'idea teologica: l'esistenza risponde per Carabellese ad un'esigenza della Coscienza. Esistenza è singolarità e dunque relazione di uno con l'altro esistente, quindi pluralità e alterità: esistenza è "[...] assoluta immediatezza indimostrabile, [è] questo 'più' del concetto [...]."[19] che nessun argomentare può dire ma che ogni argomentare presuppone. L'esistere è per Carabellese alterità pura di coscienza, l'esistenza è quella dell'altro soggetto come me, per cui "[...] si dice esistere nell'altro e credenza nell'uno [...] L'esistere è l'aspetto creduto oggettivo di ciò di cui si ritiene di indicare nel credere l'aspetto l'aspetto soltanto soggettivo."[20], in modo tale che "[...] credenza ed esistenza si identificano [...]."[21], per cui la credenza è l'aspetto soggettivo, l'esistenza quello oggettivo, in correlazione tra loro sul piano del soggetto. 

Perciò, "Di Dio, coscienza unica, necessaria, immanente, non si può chiedere se esista. Se poniamo l'esistenza come il singolarizzarsi dell'essere, Dio non ci può risultare esistente. [...] Dire <<Dio esiste>> non è affermare Dio, ma negarlo. Per esistenza infatti intendiamo la singolarità nella concreta realtà delle cose, nell'affermaziene della quale tutte le coscienze convergono."[22]

Kant, afferma Carabellese, si pone per la prima volta la domanda su cosa sia in sé l'esistenza - si sta qui parlando, com'è ovvio, non dell'esistenza dell'uomo, cioè nel senso esistenzialistico del termine, bensì di quello dell'ente in generale, in senso più propriamente filosofico - nell'Unico argomento per la dimostrazione dell'esistenza di Dio del 1763, dove afferma che l'esistenza non è una determinazione dell'essenza, ossia un predicato tra altri puramente possibili: l'esistenza fa sì che si passi dal piano della pura possibilità e pensabilità al piano dell'essere, ossia al piano in cui l'origine della conoscenza che io ho di un ente diviene l'esperienza, appunto l'esperienza dell'essere. L'esistenza è dunque la posizione assoluta della cosa, che si distingue dalla sua mera essenza o possibilità, ossia dalla pensabilità delle sue determinazioni e dalle sue relazioni interne fra i suoi predicati. In questo senso l'esistenza è il più del possibile, è ciò che consente il salto tra la possibilità e la realtà per quanto riguarda la cosa, mentre per quanto riguarda la conoscenza che il soggetto ne ha, è ciò che consente il salto dalla conoscenza come pensabilità alla conoscenza come esperienza, poiché l'esperienza è sempre solo esperienza di cose esistenti. Pur criticando questa posizione kantiana come realistica in quanto pone l'esistenza come il fuori della coscienza, ossia  che non riconosce l'esistenza come specifica esigenza della coscienza[23], Carabellese in fondo ne riconosce implicitamente la verità quando nega a Dio l'esistenza appunto per non ridurlo a cosa tra cose. Per Carabellese l'esistenza è sempre esistenza singolare, individualità irripetibile che risulta dall'incrocio di più linee spazio temporali che la definiscono, e che appunto perché singolare, richiede l'esistenza di altri a lei omogenei.

Ma  forse un chiarimento del perché Carabellese neghi a Dio l'esistenza può venire dal confronto diretto su come il Kant critico affronti nella Dialettica trascendentale la confutazione delle prove dell'esistenza di Dio. Kant afferma [24] infatti che noi possiamo giungere all'ideale trascendentale della ragione di un Essere originario supremo, oggetto della teologia trascendentale, che questo ideale è assolutamente connaturato alla natura umana e che  ad esso la ragione speculativa perviene passando dal concetto di esistenza contingente al concetto di esistenza necessaria mediante il concetto di causa, ossia osservando un procedimento puramente speculativo che perviene però appunto ad un "[...] concetto puro della ragione, cioè una semplice idea [...]"[25] . Ma la necessaria appartenenza dell'esistenza a un concetto è diversa dalla necessità dell'esistenza: io posso rappresentarmi un concetto, in questo caso quello dell'Ente sommo, come necessariamente esistente senza perciò aver dimostrato che esiste necessariamente. L'esistenza non è qualcosa che si aggiunge come una determinazione tra altre ma è il "più del concetto",  qualcosa che esula dal concetto e che si aggiunge sinteticamente, ossia attraverso l'esperienza: Kant afferma testualmente: "Ora se io mi penso un essere come la Realtà suprema (senza difetto) resta sempre la questione, se esso esiste o no. [...] E qui apparisce anche la causa della presente difficoltà. Se si trattasse di un oggetto dei sensi, non potrei scambiare l'esistenza della cosa col semplice concetto della cosa. [...] Sia quale e quanto si voglia il contenuto del nostro concetto di un oggetto, noi, dunque, dobbiamo sempre uscire da esso per conferire a questo oggetto l'esistenza. Negli oggetti dei sensi questo accade [...] ma per gli oggetti del pensiero puro non c'è assolutamente mezzo di conoscere la loro esistenza [...]"[26], perché l'esistenza è conoscibile soltanto nell'ambito dell'esperienza. La dichiarazione di esistenza è per Kant una dichiarazione sintetica, non analitica, quindi appartenente al campo dell'esperienza e non puramente speculativa. Cionondimeno, dice Kant, noi possiamo rappresentarci il concetto di un Essere assolutamente necessario cui quindi è dovuta anche l'esistenza, ma in questo caso l'esistenza, cosa che Kant ha dichiarato impossibile, è considerata un attributo tra altri. La dichiarazione di esistenza trasformerebbe Dio in un oggetto tra altri e non più, come vuole Carabellese, nella condizione di tutti gli oggetti dell'esperienza, condizione di possibilità non soltanto degli oggetti di esperienza ma dell'essere in generale. Dunque Dio, almeno nel senso kantiano del termine, non esiste per Carabellese.

Dire che Dio è esistente significa porlo in reciprocità col soggetto, ridurre Dio ad un tu, ad un soggetto come me, e dunque togliergli l'assolutezza che lo pone come Unico. Negare a Dio l'esistenza significa dunque permetterne l'incondizionatezza[27]. Dio è infatti per Carabellese  Essere in sé immanente al Concreto ma non è il  Concreto stesso: il tema dell'esistenza è il tema della positività dell'essere, che riguarda quindi non più l'Essere in sé, il soprasensibile, ma l'essere nelle sue determinazioni.

5. Dio come Coscienza dei soggetti: Dio come Oggetto puro

Chiarito perché Carabellese giunga  a negare che Dio esiste, cosa che tra le altre gli attira l'accusa di ateismo, potremo ora comprendere come egli affermi viceversa che Dio è Oggetto puro della coscienza dei soggetti.

Dio e' l'Oggetto della nostra coscienza in quanto consapere di tutti gli io individuali, indispensabili tutti a che la coscienza sia,  cosi' come Dio e' a sua volta indispensabile a che io abbia coscienza:   quindi la domanda - correttamente impostata - Ho io coscienza di Dio? non puo' che ricevere risposta positiva perche' Dio e' immanente sebbene implicitamente alla mia coscienza[28], ossia, sul piano trascendentale, della coscienza in generale, nel senso  rigorosamente neokantiano del Bewusstsein uberhaupt, e però trasposto sul piano metafisico della Coscienza come Tutto.  Sul piano soggettivo è da notare che Carabellese pone una netta distinzione tra coscienza ed esperienza empirica, la prima riguardante il sapere metafisico del sapere a priori, la seconda limitata alle cose empiriche: di Dio io ho sempre coscienza implicita, mai esperienza, che' sarebbe ridurlo a cosa tra cose. La coscienza non nasce con l'uomo ma e' a suo fondamento in  quanto coscienza a priori e non empirica: "Di Dio non posso in nessun modo avere esperienza [...]. La coscienza di Dio, dunque, e' apriorita' pura."[29], in questo senso Io penso kantiano. Questa coscienza a priori di Dio che supera e precede qualunque esperienza o conoscenza, Carabellese la chiama "rivelazione coscienziale di Dio", che e' il fondamento a priori di qualunque rivelazione religiosa di Dio, sempre storica e a posteriori: le religioni storiche si fondano tutte su questa rivelazione coscienziale, ossia sull'implicita coscienza che io ho di Dio, sull'esigenza a priori che io ho di Lui che le fonda e non viceversa le segue,  come vorrebbero le religioni stesse[30]. 

E questa rivelazione coscienziale di Dio è coscienza attiva che i molti soggetti hanno dell'unico Oggetto che precede - in senso e temporale e logico - e fonda la loro coscienza empirica: in questo senso nuovo del concepire l'oggetto - senso metafisico e non più gnoseologico - , l'Oggetto è Dio.

Sulla definizione di Dio come Oggetto puro Mirri, nell'Introduzione a Il problema teologico ccme filosofia[31]  mette l'accento su questa "inadeguatezza" del linguaggio usato da Carabellese rispetto all'altezza della sua speculazione, linguaggio, aggiungerei io, spesso ostico e definitorio, raramente discorsivo, e che nel caso di Dio come Oggetto puro contrapposto ai soggetti che lo hanno quale loro oggetto di coscienza immanente, esprime un rapporto molto  profondo che Carabellese istituisce tra Dio e i soggetti che lo pensano. Dio infatti non è soltanto l'oggetto esplicito consaputo dai soggetti e dunque fondante la loro comunita', che e' poi l'ecclesia come comunita' di credenti, ma e' piu' profondamente l'Oggetto immanente e implicito che fonda la comunita' non dei soli credenti, ma dei pensanti in generale, dunque dei soggetti. Infatti, poiche' Carabellese, opponendosi a quello che lui definisce umanesimo antropocentrico, considera essere non la Coscienza appartenente all'uomo, ma l'uomo alla coscienza,  questa comunita' si estende anche oltre i confini della comunita' umana che racchiude i pensanti intesi come uomini, per abbracciare appunto tutto l'essere. In questo senso, che potremmo dire francescano  di intendere l'essere, Dio e' Oggetto puro nel senso che e' la Coscienza omnipervisiva insita in ogni determinazione dell'essere, nel senso che, ci si scusi il bisticcio, fa essere l'essere essere, ossia lo rende positivo e lo sorregge nella durata della sua positivita'. E' in questo senso che è ancora attuale la domanda metafisica fondamencale - perche' c'e' l'essere piuttosto che il nulla - riguardante non solo l'origine dell'essere, ma anche di identità dell'essere con se stesso pur, o anzi proprio, nella continuita' temporale, e anche di conservazione dell'essere all'esistenza.

Il problema di Dio nasce dall'esigenza dell'oggettivita' della coscienza dei soggetti: in quest'affermazione desunta da Carabellese[32], la coscienza di cui si parla qui e' la coscienza intesa trascendentalmente come coscienza in generale in senso neokantiano, o come coscienza individuale, comunque non nel senso metafisico che anche essa ha nella meditazione carabellesiana.  Ma qui gia' subito avviene la trasformazione, la trasposizione di piano in Carabellese: il problema dell'oggetto non e' piu' il problema  dell'oggetto della conoscenza come era nel Kant critico - ne' tantomeno il problema realistico dell'oggetto, naturalmente -, ma, attraverso Kant e attraverso lo spostamento dell'attenzione, che potrebbe ad una prima lettura apparire realistico, dall'oggetto della cosa in se' kantiana, diviene prima il problema ontologico dell'Oggetto della coscienza, poi il problema metafisico dell'Essere in se' e  infine il problema teologico di Dio, il quale perde i suoi connotati realistici di esistenza personalistica di carattere esclusivamente religioso per porsi come problema dell'Essere in se', da un lato oggetto per eccellenza della filosofia, dall'altro Oggetto puro della Coscienza, Oggetto unico fondante la ccscienza soggettiva. Carabellese sottolinea: "[...] ogni fede in Dio, ogni dimostrazione di Dio, ogni pensiero di Dio, direi, richiede Dio principio di quella fede, di questa dimostrazione, di questo pensiero, cioe' richiede Dio come Oggetto puro di coscienza dei soggetti."[33].  Dio e' dunque per Carabellese in questa fase del suo pensiero, ma vedremo che le ulteriori fasi non negano mai una definizione, bensi' la arricchiscono di nuovi significati e nuove definizioni, l'Oggetto puro di coscienza dei soggetti.

Questa maniera di intendere Dio - come Oggetto puro [34] - è infatti uno dei due modi carabellesiani, come abbiamo visto, di concepire il rapporto tra Dio e i soggetti, l'altro essendo quello tra Principio e termini:  il Principio, che per lui è sempre intimo, ossia sempre consaputo da tutti in ogni attività spirituale, ma sempre trascendente e implicito tranne che nella filosofia[35]: "E il Principio, sappiamo, è la condizione condizionante e incondizionata della stessa concretezza di coscienza. Ma nel riflettere filosofico il Principio pare si liberi dalla sua natura di condizione giacché questa richiede [...] l'altra condizione (l'alterità singolare condizionante ma condizionata [...] perché si vuol cogliere l'Unico come tale, questo perde la sua natura di condizione e diviene un in sé che sta anche a sé: non è condizionato da nulla, ma neppure è intrinsecamente e soltanto una condizione di alcun che [...] giacché si è sganciato dal concreto."[36]. Ma questo sganciarsi dal concreto è un errore. Il Principio è per Carabellese l'Oggetto della coscienza dei soggetti, sia essa coscienza filosofica o religiosa o altro, ed è quel trascendente che non è inteso realisticamente come ciò che si trova al di là della coscienza, ad essa estranea, ma come ciò che costituisce  l'Oggettività pura della coscienza, il suo Oggetto puro, perché trascendentale e trascendente si richiamano a vicenda, cosicché quando si parla di una coscienza trascendentale non si può che far riferimento implicitamente ad un trascendente, ad un Principio Assoluto - per Carabellese i due termini si identificano - che la rende tale, perché "[...] togliendo il trascendente togliamo anche il trascendentale [...]"[37]. La coscienza va al di là del suo manifestarsi empirico, ed in questo al di là del fenomenico mostra il suo Oggetto puro, l'Assoluto[38]. E' questo l'ontologismo critico, o idealismo concreto, di Carabellese[39].

Teismo critico Carabellese chiama in Ho io coscienza di Dio? il compito che il filosofo oggi come sempre e' chiamato ad assolvere: disvelare l'Assoluto al di la' di ogni settarismo dottrinale o istituzionale, in assoluta autonomia [40]. E è qui la chiave per comprendere la sua concezione teologica: quella di essere fuori da ogni confessione, pur rimanendo nell'ambito del cristianesimo.

 

6. Dio non è l'alterita'

 

E come Dio non puo' essere confuso come cosa tra cose, cosi' anche Dio non puo' essere il tu che si pone e si oppone  nella comunicazione del credente  all'io - tema questo che anticipa problemi che saranno poi affrontati dalla "nuova teologia" protestante e che e' in singolare consonanza con la filosofia della religione di Karl Jaspers - e non puo' nemmeno essere quell'altro, l'assolutamente altro lontano dai soggetti. Secondo Carabellese, il realismo gnoseologistico ridurrebbe l'alterita' degli altri io a  mera oggettualita' nel considerare il rapporto del soggetto con la realta' come un rapporto soggetto-oggetto. L'altro da me non puo' invece mai essere oggetto di me, ma e' invece quell'alter ego che io riconosco nel riconoscere me come uno di essi, tale che l'Oggetto che io so, io lo so sempre insieme con loro : "[...] il rapporto e' sempre tra soggetti (essenti o parventi) e non tra il soggetto e l'oggetto: dell'oggetto non e' che individuazione in soggetti. Il L. [qui si riferisce alla polemica con Padre Lombardi], come ogni realista, come ogni attualista, prima chiude e restringe la coscienza nell'io singolare (e fa, o dovrebbe fare questo unico, perche' vi ha chiuso in esso la coscienza) e quindi toglie il rapporto, e poi vorrebbe ripescare gli altri [...]"[41]. Infatti la coscienza si riferisce costitutivamente a degli io plurali, che non deve quindi dedurre dopo aver dichiarato l'unicita'  del soggetto e privilegiato il rapporto di questo con l'oggetto: Carabellese insomma ribalta la prospettiva dichiarando costitutivo il rapporto tra soggetti che si ritrovano tali anche proprio nel concordare nell'unicita' dell'Oggetto. Infatti dice: "L'alterita' come tale (cioe' la pluralita') e' anch'essa costitutiva della coscienza: non c'e' la mia coscienza singola senza l'alterita'. Io sono uno degli altri, io sono un altro come ciascuno di tutti [...] tra soggetti e oggetto non c'e' rapporto ne' di posizione ne' di opposizione ne' di altro genere mai: dell'oggetto non c'e' che individuazione nei soggetti [...]. Una falsita' fondamentale che bisogna estirpare [...] e' la riduzione [...] della coscienza [...] a relazione tra soggetto e oggetto. Il rapporto e' nella coscienza, non e' la coscienza."[42]. L'altro, dunque, non e' l'oggetto, come vuole il realismo empirico, che considera l'alterita' come eterogeneita' ed estraneita' alla coscienza, eterogeneita' ed estraneita' che sono per Carabellese inammissibili in quanto fuori della coscienza non vi e' nulla. L'alterita' invece presuppone l'omogeneita': alterita' e' quella dell'io di fronte al tu, e' "[...] moltiplicazione di quella coscienza che il soggetto come io afferma. [...] E' quindi, l'alterita', molteplicita' di soggetti."[43].   Ma questa molteplicita' non e' nel senso della molteplicita' empiricamente esperita, bensi' nel senso di una molteplicita' come condizione trascendentale di quella empirica: la molteplicita' dei soggetti e' per Carabellese  una condizione trascendentale della coscienza, e questa molteplicita' implica l'alterita' come omogeneita' dell'uno con l'altro, che e' altro rispetto all'uno ma e' soprattutto altro dell'uno, e dunque a lui omogeneo. L'altro allora e' "[...] momento essenziale della coscienza [...], e' l'altro io, cioe' l'altro da me, ma come me, cioe', evidentemente, il puro tu [...] l'alterita' [...] e' la stessa egoita', proprio in quanto moltiplicazione di coscienza. [...] Questa alterita' sempre afferma chi dice io, il quale, cio' dicendo, anche trascendentalmente, si distingue, senza per questo separarsi assolutamente, da un chi che riconosce di fronte a se', e non da un che che riconosca assolutamente eterogeneo e fuori di se'. Con questo chi egli afferma una relazione reciproca, con la quale soltanto attua l'egoita'."[44], ossia l'Io penso. Cosi', la soggettivita' e' per Carabellese alterita', e l'alterita' e' soggettivita': l'altro e' l'altro soggetto come me. Cio' implica la relativita' della soggettivita', ma anche la reciproca coimplicanza dei soggetti che si implicano a vicenda, l'un l'altro: "Chi dice io, vuol proprio distinguersi dall'altro io cui dice tu, il che vuol dire proprio riconoscerlo come io, e tutt'altro che un falso io messo da me come tale. [...] Per l'io invece e' proprio necessitante il tu, cioe' l'altro io, col quale egli e' in rapporto di reciprocita'."[45]. Cio' significa che l'"io non puo' essere unico"[46], ossia che la soggettivita' e' sempre pluralita', molteplicita', relazione, relativita', ed e' proprio in quanto molteplicita' che e' condizione della coscienza.  Carabellese distingue tra alterita' e diversita' o estraneita', questa appartenente all'oggetto, quella alla molteplicita' dei soggetti che si riconoscono "altri io" e dunque come me, ossia tu: l'alterita' che ogni io costituisce per ogni altro implica la reciprocita': ogni soggetto e' io per se stesso e tu per ogni altro, io e tu sono termini correlativi che si richiedono a vicenda, e dunque sono per Carabellese cooriginari. La singolarita' soggettiva e' pertanto sempre una singolarita' plurale, che implica tanti io come me. In questa visione carabellesiana della singolarita' cone pluralita' soggettiva, in cui e' insita una forte spinta etica - Carabellese vuol salvare la dignita' della soggettivita' empirica - trapela l'ottirismo della comunicazione spirituale tra gli uomini e la necessita' di negare a Dio l'attributo dell'alterita' che lo condurrebbe alla personalità[47].

Questo chiarisce la negazione a Dio della personalità,  in quanto lo ridurrebbe a persona come me: "Esso sarebbe, si', trascendente relativo di fronte a me, ma anche io sarei trascendente relativo di fronte a Lui. [...] E quando Dio fosse in questo rapporto con gli altri soggetti, in  che cosa mai si differenzierebbe questo rapporto da quello che corre tra i soggetti singolari? [...] Per dare a Dio una personalita' distinta, l'avremo perduto come Dio, invece di guadagnarne la trascendenza."[48]. La trascendenza di Dio come Persona e' per Carabellese una questione di fatto che si ritrova nelle religioni positive, e non una questione di diritto che procede dall'essenza della religione, essenza che importa invece l'immanenza di Dio come Unico nella coscienza dei singoli soggetti e la trascendenza di Dio come Principio.

 

7. Creazione e Rivelazione di Dio secondo Carabellese

 

Se Carabellese rifiuta esplicitamente il concetto della Rivelazione intesa secondo il Vecchio Testamento di una presenza personale di Dio che si manifesta a Mosè, nonché la negazione di una creazione avvenuta una sola volta all'inizio dei tempi, mentre si può affermare che Carabellese segua piuttosto l'ortodossia cristiana del Nuovo Testamento di una manifestazione personale e storica di Dio agli uomini nella figura di Cristo, e che dunque per lui la Rivelazione sia quella di Cristo. E' possibile però affermare che Carabellese  ha una visione duplice del concetto di rivelazione: per un verso essa è la Rivelazione di Cristo, specificatamente teologica in senso dottrinario, per l'altro essa si collega al concetto di creazione ed è specificatamente filosofica: il concetto di una rivelazione naturale di Dio come miracolo continuo che sostiene l'essere. In nessuno dei due casi però si tratta della Rivelazione di Dio del Vecchio Testamento, ossia di una rivelazione personale che vede Dio che si rivela a degli uomini specifici in un momento preciso, e unico, dello spazio e del tempo, così come in nessun caso si tratta, lo ripetiamo, della creazione del Vecchio Testamento come evento irripetibile avvenuto una sola volta. Il concetto di una rivelazione continua di Dio invece - non come manifestazione personale unica ma come manifestazione continua che è un venire all'essere dell'Essere in sé  che è Dio -, concetto che è possibile evincere da alcuni passi della sua opera, Carabellese una sola volta lo palesa in modo esplicito: "[...] questa immanenza di Dio nell'universo, immanenza per la quale il cosiddetto creato diventa una continua creazione, e quindi una manifestazione della sua divinità. Ma appunto perciò essa coscienza filosofica è in conflitto con la stabilitasi coscienza religiosa cattolica [...]. La religione quindi rimprovera alla filosofia il suo immanentismo come una effettiva negazione di Dio, giacché il Dio o è quello che si adora, religiosamente, o non è."[49], laddove è da notare anche la profonda consapevolezza che Carebellese nutre per i motivi scatenanti che conducono alcuni critici cattolici ad opporglisi. Anche l'implicita accettazione carabellesiana di una rivelazione naturale che si compie continuamente come un miracolo continuo  nella eterna esplicazione di Dio come Coscienza concreta non poteva infatti che contribuire ad attirargli l'ostilità di quella parte della cultura cattolica che meno era pronta ad accogliere un moderno concetto di rivelazione. Questo secondo concetto di Rivelazione, di stampo prettamente filosofico, Carabellese lo condivide tra gli altri con Karl Jaspers, che affermava essere la Rivelazione ecclesiastica dogmatica e inaccettabile per un pensiero critico, sebbene, come abbiamo ricordato, non solo Teodorico Moretti-Costanzi[50] e Ornella Nobile Ventura [51] rilevassero che la teologia ortodossa ha sempre attribuito la personalita' a Dio soltanto analogicamente.

Del rischio di panteismo cui è soggetta la concezione carabellesiana di Dio, pur nella sua modernità, ancora una volta Carabellese è consapevole, che secondo lui deriva dal non aver rettamente compreso né il suo concetto di Dio, né il suo concetto di Concreto, e dal rimanere ancorati a una visione dualistica e perciò realistica della realtà: "Contro tale [mia] affermazione della unicità assoluta (cioè non singolare, non numerica) e della immanenza essenziale di Dio nell'universo, sta lo spavento del panteismo che è in essa implicito. Si crede che cadendo nel panteismo, si cada in una dottrina assurda, immorale, irreligiosa. Questo spavento nasce dall'innestare la concezione panteistica su una concezione dualistica della realtà: materia e spirito, natura e sopranatura. Il panteismo di Spinoza, [...] di Fichte [...] dell'Hegel, [...] ha [...] sempre a fondamento l'antitesi eesere-pensiero, cioè conserva ancora le tracce della concezione dualistica della realtà. [...] Quando invece questo dualismo abbiamo superato, entrando appieno nella concreta coscienza, il panteismo [...] soddisfa le esigenze di ogni forma della concretezza. Nella stessa religione non v'ha nulla di costitutivo ed essenziale ad essa che si opponga all'accettazione del panteismo. L'ostacolo viene da stereotipate credenze dottrinarie e dalla morta lettera della legge, che non sono certo la vita della religione. [...] Dio, la spiritualità unica, assoluta, infinita, non è senz'altro lo stesso concreto. L'immanenza non è concretezza. Il non essere, Dio, fuori del concreto non vuol dire che sia il concreto stesso [...]."[52]

 

8. Carabellese di fronte alle prove dell'esistenza di Dio

Il concetto carabellesiano di Dio, afferma Carabellese[53], non e' il concetto tradizionale religioso di Dio, che e' realistico, in quanto attribuisce a Dio un'esistenza personalistica che la religione chiede alla filosofia di sostenere attraverso le prove dell'esistenza di Dio e che la religione crede si sia rivelata storicamente e manifestata direttamente, come il Vecchio Testamento attesta. Ma e' corretto dire, come sembra fare Carabellese, che il problema di Dio e' stato limitato al campo della religione, e che il problema teologico e il problema religioso si identificano? Non e' attraverso tutta la storia della filosofia invece rintracciabile una ricerca di Dio, un problema teologico che non si identifica con la religione ? Questa identificazione e' infatti certamente possibile solo al livello della coscienza comune, mentre invece nel campo specialistico della filosofia si ritrova tutto un filone della ricerca - di cui anche Carabellese fa parte - che sicuramente ha dovuto fare di volta in volta i conti con la riflessione religiosa strictu sensu, ma che appunto percio' non e' ad essa assimilabile perche' anzi le si oppone e le si e' posta di fronte da posizioni anche molto critiche. In quest'ambito puo' senz'altro trovare posto anche la riflessione di Carabellese perche' omogenea ad altre tutte tendenti nella sostanza a stabilire una distinzione tra il Dio della filosofia e il Dio della religione, sebbene non sempre i due concetti di Dio sono nettamente separabili, come mostra appunto la ricerca delle prove dell'esistenza di Dio da parte della filosofia - che si protrae ben oltre la Scolastica almeno sino al Kant della Critica della Ragion pura e poi a Hegel -. Ma la particolarita' della posizione di Carabellese risiede nel fatto che per lui il problema di Dio non e' un problema tra altri della filosofia, bensi' il problema della filosofia, che da un lato fa divenire il Dio della filosofia il problema sommo della filosofia, dall'altro lo considiera sostanza spirituale onnipervasiva della realta'.

Ma Dio e' problema sommo della filosofia la cui soluzione per Carabellese non puo' venire dall'esperienza empirica perche' anzi la filosofia non si fonda ma fonda questo tipo di esperienza, motivo per cui Carabellese respinge le prove  a posteriori e salva la sola prova a priori, pur nella sua critica alle prove razionali dell'esistenza di Dio, perché, afferma, "Bisogna porsi di slancio nell'Infinito[...]."[54], ma non, come vuole il misticismo, nella negazione della mia esistenza per l'affermazione dell'esistenza di Dio, che e' ancora per Carabellese una posizione realistica.

Escluse dunque le prove a posteriori dell'esistenza di Dio perche' non dotate di carattere filosofico in quanto la filosofia kantianamente non puo' fondarsi ma anzi deve fondare l'esperienza, Carabellese conserva valore alla sola prova ontologica in quanto prova a priori, ma ne dà una nuova impostazione e una nuova interpretazione[55].  Il valore della prova ontologica non puo' risiedere infatti nella forma tradizionale di prova dell'esistenza di Dio perche' abbiamo visto che per Carabellese Dio non esiste nel senso convenzionale del termine, essendo anzi l'essere in se' immanente in ogni esistente. Carabellese considera la prova ontologica come prova del valore non soltanto rappresentativo ma appunto metafisico dell'Idea di Dio, e la trasforma da idea di Dio in Idea-Dio. La prova ontologica deve essere non prova dell'esistenza di Dio, ma dell'essere Dio Idea assoluta e come tale Oggetto puro della coscienza soggettiva, "[...] Idea assoluta, che non rappresenta piu' Dio, solo perche' non e' piu' rappresentazione, ma Dio stesso."[56]. Carabellese cosi' oltrepassa consapevolmente il confine tra gnoseologismo e ontologismo, perche' rimanere nella separazione tra essere e pensare e' rendere impossibile o almeno misterioso il rapporto, in quanto "[...] l'idea non sara' mai ne' la cosa ne' della cosa [...]"[57]: è necessario escludere dunque la separazione tra idea e realta', anzi affermare l'immanenza, ed escludere la rappresentazione, ossia il valore non ontologico ma gnoseologico dell'idea.

In tal modo il difetto dell'argomento ontologico non era quello tradizionale del passaggio indebito dall'idea alla realta', ma anzi proprio quello di voler attribuire a Dio la realta' nel senso dell'esistenza, dal momento che invece per Carabellese Dio e' Idea, ma dotata di valore metafisico, e quindi il passaggio dall'idea alla realtà è intrinseco ed essenziale alla prova stessa, e non surrettizio. Il nucleo dell'argomento ontologico consiste per Carabellese nel negare la singolarita' e rappresentativita' di Dio e nell'affermare che il sapere non si limita al rappresentare, ossia che il rappresentare è una forma del sapere, ma appunto una tra le forme del sapere stesso[58].

Per Carabellese - e qui si vede piu' chiaro il suo consapevole passaggio dal piano gnoseologico al piano metafisico - la soluzione del problema dell'oggetto e dell'oggettivita' richiede infatti l'abbandono del piano gnoseologico della conoscenza e il passaggio al piano ontologico della coscienza[59].

Quc si innesta un altro dei numerosi richiami che Carabellese fa alla filosofia di Kant. E' infatti di Kant la riaffermazione di Dio come idea immanente alla coscienza del soggetto, riaffermazione che Carabellese vede già insita nella prova ontologica di S. Anselmo, così come da lui reinterpretata. 

Solo quando si individua nell'oggetto Dio e ci si pone dunque su di un piano metafisico, si puo' comprendere appieno "[...] la duplice presentazione kantiana di Dio come noumeno e quindi idea da una parte,  e cosa in se' inconoscibile dall'altra. [...] L'Idea pur inconoscibile vi e' presente [...] ma non si risolve mai del tutto in un concetto. [...] E percio' il concetto non e' autoconcetto. La confusione dell'idea col concetto e' stata una delle piu' gravi che l'idealiomo post-kantiano abbia fatta [...]"[60].  L'Assoluto non e' per Carabellese l'opposto del relativo, ma il principio immanente in questo, che non e' da questo mai esaurito appunto perche' ne e' principio implicito immanente alla coscienza, immanenza che e' "[...] la coscienza soggettiva di Dio."[61]. Quali sono i passaggi attraverso i quali Carabellese giunge ad affermare che Dio e' Idea in senso ontologico? Dio, in quanto Oggetto puro della coscienza, e' assoluta Idea nel senso di essere "[...] Idea costitutiva di ogni mente, [...] tolta la quale e' tolto il pensare."[62].  Per cui Carabellese riprende Anselmo nel definire chi non crede in Dio insipiens: "Io penso, dunque affermo Dio; se tu neghi Dio, non pensi. Ecco l'argomento ontologico nella sua forma positiva e in quella negativa."[63]. Ma questo affermare Dio non si limita al pensiero, ossia l'idea di Dio non ha carattere rappresentativo ma costitutivo della coscienza del soggetto, perche' anzi Dio e' l'oggettività della coscienza stessa, infatti: "Questa forma dell'argomento presuppone il problema di Dio come il problema stesso dell'oggettivita' della coscienza, come il problema stesso dell'essere in se'. [...] Il problema di Dio, posto nell'argomento ontologico (ineliminabilita' di Dio dal pensiero),  si chiarisce come il problema stesso dell'essere in se' (immanenza dell'Assoluto nel concreto) [...] Essere e Idea che si confermano a vicenda perche' sono unum et idem. L'argomento ontologico e' la scoperta esplicita dell'immanenza di Dio come oggetto della coscienza [...]."[64].

 

9. Dio come Coscienza

 

Cosi' non soltanto io ho coscienza di Dio a priori, ma anche Dio e' Coscienza, Dio e' la Coscienza: questa e' affermazione articolata che Carabellese fa a proposito della polemica con P. Lombardi, che inizialmente non nomina nemmeno, sulla rivista "Civilta' cattolica"[65]. Cio' che Carabellese nega e' non che Dio sia soggetto,  ma che sia uno tra altri soggetti, anche se occorre dire che la cultura cattolica non ha mai affermato che Dio sia uno tra altri soggetti: "Il vero è che è anche inesatto dire che io <<neghi la soggettività di Dio>> o dica <<Dio non è, in modo alcuno, soggetto>>."[66]  Il problema della soggettivita' di Dio e' problema controverso poiche' ammetterne la soggettivita' significa al tempo stesso limitarlo e giustificare, o almeno rendere possibile, il male come presenza, e il dualismo tra Civitas Dei e Civitas Diaboli con tutto cio' che ne consegue. Carabellese, almeno implicitamente cosciente di cio', infatti vuole affermare, nell'essere Dio Tutto-Coscienza, il suo comprendere in senso letterale, appunto come Tutto-Coocienza, sia il Bene che il Male, e dunque il suo esserne consapevole. Cio' siqnifica dire pero' che oltre e piu' in alto del Dio della religione c'e' un altro Dio, il vero Dio, che e' l'Idea implicita in tutte le religioni e in tutte le forme di religiosita'. In questo senso Carabellese e' detto ed e' metafisico laico: laico perche' non crede in una religione particolare, nella religione cattolica, metafisico perche' comunque e sempre crede in Dio: in un Dio superiore che concilia, ma che pure è consapevole come Coscienza sia del Bene che del Male: "Se neghiamo nell'Oggetto la consapevolezza perché Oggetto (e cioè Principio) di coscienza, a maggior ragione dobbiamo negarla nei soggetti perché soggetti (e cioè termini) di coscienza. Non si può dire quindi: Dio non è consapevole [...]".[67] 

E nello stesso luogo piu' avanti dà altri elementi per definire in che modo intende la soggettività di Dio in quanto Principio soggetto-oggettivo: "Questo escludere, che il Principio assoluto dei soggetti che sarebbe così principiato, visto positivamente è riconoscerne l'oggettività. La quale perciò non è negazione della soggettività. [...] chiedere che Dio sia un soggetto, perché sia consapevole, è ignorare senz'altro tutta l'esigenza di concretezza della coscienza. Ed è quindi: o ridurre Dio ad un soggetto tra gli altri e quindi negarlo come Dio [...] o ammettere [...] una duplice coscienza, quella con cui sa Dio, e quella con cui so io. Ora questa duplicità è sempre tolta nello stesso momento in cui la si ammette; giacché l'affermazione della coscienza di Dio è fatta da una coscienza che non è quella di Dio, ma la mia. E quindi, se non voglio entrare nella concretezza di coscienza, che richiede Dio principio intrinseco e percio' oggettivo, di ogni soggetto affermante [...]."[68], l'alternativa e' "[...] negare ogni possibile comunione o relazione della coscienza di Dio con la mia. E percio', fuori della concretezza di coscienza, se si vuol salvare Dio da quella relativita' di coscienza [...] si deve negare in me l'affermazione di Lui [...] anche ogni fede in Dio."[69]

10. Cristianesimo e cattolicesimo: 

      la posizione di Carabellese di fronte all'attualismo gentiliano

 

Ma se si vuole avere un quadro veramente chiaro dell'impostazione che Carabellese dà al problema di Dio e della distanza che egli intende lasciare intercorrere tra lui e il neoidealismo italiano a lui coevo da una parte e la cultura cattolica dall'altra, bisogna soffermarsi su di un piccolo saggio tardo nel quale Carabellese si confronta con Gentile sul piano non più dell'interpretazione di Rosmini che aveva caratterizzato il loro primo scambio teoretico, bensì su quello della differenza tra Cristianesimo e cattolicesimo. Infatti nell'approfondita analisi della Cattolicità dell'attualismo[70],  torna prepotentemente in luce tutto il bagaglio di conoscenze teologiche risalenti agli anni della sua formazione giovanile, filtrato pero' da una strumentazione critica che, segnando il suo consapevole distacco dalla dottrina cattolica, ci consente di aprire squarci illuminanti sulla sua concezione di Dio, in un rapporto dialettico con l'attualismo gentiliano che Carabellese instaura attraversando tutte le principali opere di Gentile, in particolare Teoria generale dello spirito come atto puro del 1916, considerata "l'acme, il resto e' applicazione e conseguenza"[71]. Attualismo nel quale alle convergenze tacitamente evidenziate si alternano i motivi di dissenso, di distacco e di critica pacatamente ma lucidamente tracciati. Soffermarci su questo ricchissimo e importante saggio puo' percio' essere utile sotto diversi aspetti - tutti quelli sopra indicati ma anche altri -, a partire dalla notazione filologico-concettuale che qui Carabellese non parla piu' di Dio in termini di Oggetto puro di coscienza dei soggetti, ma, dal punto di vista psicologico-soggettivo - del livello ontologico parleremo poi - indica il rapporto del soggetto verso Dio come un rapporto di fede - riprendendo quindi argomentazioni gia' svolte seppure in forma lievemente accennata -, in apparente consonanza con la dottrina cattolica, ma in realta' evidenziando soltanto il tratto caratteristico di qualunque forma di religiosita' e che costituisce per lui l'elemento soggettivo apriorico di una visione ben più complessa.

La tesi sostenuta e' che l'attualismo gentiliano non solo sia profondamente cattolico, ma che anzi costituisca "la piu' coerente concezione complessiva della dottrina cattolica", il tentativo piu' fecondo di traduzione dei fondamenti della dottrina cattolica in termini concettuali, ma soprattutto il piu' coerente esempio di laicizzazione della dottrina ecclesiastica, ossia di risoluzione della dottrina della Chiesa in dottrina pura e semplice, al punto che "Nonostante lo storicismo, l'immanentismo, l'umanismo (i tre scandali cattolici dell'attualismo), la dottrina dell'atto puro e' [sottolin. mia] la dottrina del cattolicesimo, quale questa puo' essere pensata oggi [sottolin. mia] dal filosofo [...]."[72]. Dunque secondo Carabellese, si potrebbe dedurre, questa laicizzazione, questa traduzione della dottrina della Chiesa in dottrina pura e semplice - in filosofia - e' operata da Gentile, si badi bene, non per negarla né per svilirla, ma per mostrarne l'imprescindibilità anche fuori dell'universo dei cattolici strictu sensu, ossia coloro che comunque si professano già tali, dunque per darle nuova linfa nell'incontro col mondo laico della politica e della società, incontro che tra l'altro si inserisce, fa notare tra le righe Carabellese, nella scia di quell'ecumenismo e di quell'apostolato che la Chiesa cattolica esorta nei suoi fedeli e di quella mai sopita "traduzione della dottrina in istituzione" e, Carabellese non lo dice ma lo lascia intendere, voglia di potere sulle coscienze.

Carabellese inizia la propria argomentazione con l'analisi della figura del Dio cattolico: creatore e creatore "di me" sono i due fondamenti della dottrina cattolica - tutti gli altri, offerma, il Dio crocifisso, la Madonna, la Rivelazione, la vita futura, ecc., sono secondari per il cattolicesimo, anche se "pilastri in confronto di altre costruzioni" - che rimandano a una visione personalistica di Dio il cui modello è l'io: noi attribuiamo a Dio il carattere di Persona in analogia all'io, che di quel carattere è il presupposto e "l'ultimo insuperabile significato".

Ora, sebbene, come sappiamo, Carabellese si opponga fermamente a questa riduzione di Dio a persona, pure sottolinea, ribadendo che i due "distinti" Dio e io sono necessariamente connessi, che non  si può prescindere dal presupposto Dio senza negare contemporaneamente anche l'io: la critica velatamente esplicita è al naturalismo, che ha ridotto l'io ad un quid naturale-psichico, e all'idealismo soggettivo, oltre che all'attualismo, che secondo Carabellese al posto di Dio ha messo l'Io come presupposto. Vorremmo ricordare qui che Carabellese invece considera l'Io una figura soggettiva che si inserisce ne L'Essere.

Questo rapporto diretto tra Dio e l'io, questa inscindibilità, segna per Carabellese il distacco tra il Cristianesimo, e in particolare il cattolicesimo, e l'ebraismo: mentre ad ambedue, cattolicesimo ed ebraismo, è comune il concetto di Dio creatore del mondo e dell'uomo, e Signore del popolo eletto, al cattolicesimo ciò non è sufficiente, perché vi aggiunge che l'uomo in questione non è l'uomo in generale, o meglio l'uomo naturale-psichico, ma l'io come spiritualità, l'io spirito pensante, il quale, in quanto peccatore, viene redento dalla figura di Gesù.

A questi concetti fondamentali che il Cristianesimo aggiunge all'ebraismo distaccandosene - la affermazione  dello spirito e la redenzione dal peccato da parte di  Cristo - se ne affianca un altro altrettanto importante, e cioè che mentre nell'ebraismo la creazione è un momento posteriore rispetto al Creatore, nel Cristianesimo l'atto della creazione è l'atto stesso del pensare, e quindi è l'atto di una creazione continua che è anche creazione di me, me nel duplice senso di creatura e creatore, spirito e Spirito, io e Dio. Esplicita infatti Carabellese alla fine del saggio: "Questa redenzione dall'originario peccato di me uomo (sostituzione della mia finitezza di uomo creato alla infinitezza di Me creatore) questa redenzione che il logo concreto, che è l'Uomo-Dio, fa eternamente, io uomo, vivente la mia vita che è il mio creare [sottolin. mia], non posso e non devo raggiungere che vivendo, vivendo attivamente."[73]. Qui diviene chiaro in che senso Carabellese parli di rapporto diretto tra Dio e io sia come rapporto tra Principio e termini sia come rapporto tra Oggetto e soggetto, di inscindibilità che si attua nel pensiero: per il Cristianesimo, cui Carabellese aderisce con tutto se stesso, sul piano soggettivo, nel momento stesso in cui si pensa, si attua il pensiero di Dio, e nell'attuarlo, non soltanto io creo me stesso, ma sul piano dell'Essere, si attua l'essere come creazione continua. Ma questa citazione è importante anche perché apre squarci sulla concezione che Carabellese stava preparandosi a stendere e che ha trovato una prima espressione in L'attività spirituale umana. Prime linee di una logica dell'Essere: la logica dell'Essere, incarnata nell'Uomo-Dio, Cristo, che è il logo concreto, è una logica che richiede anche l'attiva creazione della vita come redenzione dal peccato originale che solo attraverso Cristo è possibile.   

La creazione del Cristianesimo è una creazione continua, che riguarda l'Essere ma che riguarda, nell'Essere, anche Me come Io, Dio creatore: "La creazione, fintantoché riguardava soltanto, come nell'ebraismo, il mondo e l'uomo, poteva anche esser concepita come momento posteriore al pensare di Me, Dio creatore (Leibniz), ma quando essa, per l'esigenza che il cattolicesimo eredita da Cristo, riguarda anche me pensante (credente), essa non può non essere l'atto stesso del pensare. Il Cristianesimo quindi, con l'introduzione di me pensante anche come creatura, oltre che come Creatore, richiede necessariamente il riconoscimento dell'atto creativo come l'atto di pensiero, l'atto puro gentiliano. [...] L'atto puro creativo del dogma cattolico richiede che Io, Iddio creatore, crei me, soggetto creato."[74]. L'attualismo gentiliano è per Carabellese "la prima esplicita  [sottolin. mia] messa a punto dell'atto creativo cattolico [sottolin. mia]", liddove è da notare quell'esplicitezza che evidentemente nel cattolicesimo era sino a quel momento implicita. A questo proposito della creazione del me da parte dell'Io, della creatura da parte del Creatore che Gentile traduce dai termini analogici  e mitici del cattolicesimo agli espliciti termini concettuali della filosofia, Carabellese ricorre al termine gentiliano di autoctisi, cioè atto dell'autocoscienza come processo interiore e libero col quale l'io pone se stesso, e sottolinea la differenza con la sintesi ebraica - il riferimento a Hegel e Fichte è esplicito, come pure è riportato a questa differenza e alla sostituzione dell'Idea col Me l'allontanamento di Gentile da Hegel - che non solo implica i termini da sintetizzare antecedentemente alla sintesi stessa, ma non è un atto di creazione, ossia un atto puro che non è e non ha un'essenza: il Dio cattolico è, come l'io, atto puro creativo senza essere e senza essenza, perciò continuo.

La sintesi invece, secondo Carabellese, è un portato dell'ebraismo come creazione del mondo e delle "cose di natura", e non di me essere pensante spirituale, ed è trapassata nel protestantesimo tedesco attraverso Paolo, e cioè attraverso un cristianesimo non puro ma inficiato dall'ebraismo di Paolo, che dalla legge di fede da Gesù predicata e vissuta, volle tornare alla fede di legge, ossia volle sostituire ad un credo basato sulla fiducia e dunque sul rispetto un credo basato su una norma il cui fondamento secondo Carabellese non era etico ma puramente esteriore. Questo protestantesimo tedesco, inpregnato più di ebraismo che di cristianesimo, ha secondo Carabellese prodotto in campo filosofico la sintesi, che pervade il pensiero tedesco da Leibniz a Hegel, come traduzione concettuale della creazione del mondo ebraica e non della creazione di me essere pensante e spirituale  propria del pensiero cattolico e che ha trovato espressione nell'autoctisi gentiliana.

Tutta questa analisi carabellesiana, nella quale ripetiamo riaffiorano i suoi studi teologici ma criticamente utilizzati nella direzione di una riconciliazione attualissima tra ebraismo e cattolicesimo a partire dal Cristianesimo, mira da un lato a salvaguardare ancora una volta la soggettività dall'appiattimento e dalla svalutazione cui secondo lui era sottoposta nell'idealismo tedesco, e a valorizzarla in termini cristiani di spiritualità e coscienza, dall'altro, come Carabellese esplicita, a stabilire l'inscindibilità del rapporto tra gli spiriti infiniti e lo Spirito infinito, spiriti che contro quello che secondo Carabellese è il cattolicesimo di Gentile sono infiniti  dal momento che "[...] la spiritualità (cioè [...] essere di coscienza puro) o è tale e non ha limiti, o è limitata e non è spiritualità [...]"[75]  per cui "Parlare [come fanno Gentile e il cattolicesimo] di spiriti finiti, separandoli, come positive entità sostanziali, dallo spirito infinito è non sapere quello che si dice [...]."[76]. Gli spiriti non possono essere finiti per Carabellese perché non sono creazioni del  Dio creatore, il Dio Creatore di Me creatura, l'Io,  ma pensieri del Dio Idea, ossia pensieri dell'essenza, del Centro, dell'Essere.

Ciò significa che per Carabellese in questa fase del suo pensiero, e in ciò si allinea a Gentile e a quella che Carabellese considera la sua traduzione concettuale della dottrina cattolica, lo Spirito avvolge tutto, è Tutto come eterna autocreazione infinita di cui gli spiriti  sono parti non separate e non separabili in senso sostanziale. Ma Carabellese critica del cattolicesimo l'idea che gli spiriti siano finiti, e afferma invece che sono veramente infiniti, anche se poi ad un altro livello dell'Essere parlerà di Dio come Principio e degli io plurimi come suoi termini. Carabellese non trova pienamente esaustiva questa concezione dell'atto creativo come autocreazione perché deifica il soggetto comportando che Dio sia Soggetto e non Idea, come rivela in questa frase: "Se non si trova soddisfacente questa conciliazione attualistica dell'infinitezza creatrice dello spirito anche se umano con la creaturalità dell'uomo anche se spirito, bisogna cercarne un'altra che soddisfi, o bisogna abbandonare uno di tali contrastanti caratteri. E non potrà certo essere abbandonata la infinitezza."[77].  Dunque un'altra soluzione, non conciliatoria tra infinitezza e creaturalità, una soluzione che, se non vuole  abbandonare  la creaturalità intesa come me creato, deve porla su di un piano diverso dell'Essere. Ma quale soluzione? Qui Carabellese non lo dice, mentre invece chiarisce il concetto della creaturalità nel proseguire analizzando l'altro concetto della soggettività proprio della dottrina cattolica, il primo essendo quello di me spirito pensante creatore oltre che creato: il concetto di me peccatore redento, che l'attualismo gentiliano secondo Carabellese traduce nei termini dell'errore (e della sua correzione) come negazione del divenire di me creatore di me stesso e come vivere meramente creaturale, ossia statico - il che significa, ricordiamo, secondo quella che Carabellese considera la traduzione gentiliana della dottrina cattolica, dotato di essenza sostanziale. Errore allora, cioè peccato mortale, è scindere il me creatura dal me creatore, vivermi staticamente come mero creato dotato di essenza e rinunciare pertanto alla mia creatività e alla mia libertà, optando per una "morte di me pensante" alla quale non è possibile opporre alcun'altra redenzione, soluzione, correzione che dentro di me, "Dio creatore"[78], attraverso la coscienza immanente dell'errore stesso e il superamento di una "radicale infrazione della legge della creazione di me" che è anche contemporaneamente negazione di Dio e dunque peccato contro di Lui: "Il peccato primo, fondamentale, è il limite (io creato) dell'Illimitabile (Io creatore) [...]"[79], ma è un peccato inevitabile come inevitabile è la redenzione, ambedue intrinseci alla creazione, perché questa si basa sulla libertà e di me creatura  (limite) e di me creatore (abbattimento del limite e salita all'Illimitato). Ma se errore e sua correzione sono inevitabili, allora in realtà per Gentile, dice Carabellese, non c'è errore, perché errore "[...] è, virtualmente, ogni pensato in quanto tale."[80], ossia ogni oggettivazione, ogni "stato", anche "la verità, il valore, Dio", perché, non più inseriti nel processo del Dio creatore, divengono mere immagini, identità determinate e perciò statiche nature, non più "attualità" spirituali viventi e pulsanti perché scisse dalla logica dialettica della contraddizione, anche se ricordiamo, Carabellese in tutti gli altri suoi scritti si pronuncia molto criticamente riguardo alla logica del contraddittorio perché la vede scissa dal reale.

Ma, volendo tralasciare questo spostamento di piano, c'è da sottolineare l'assenza nell'analisi carabellesiana se non nell'argomentazione gentiliana che andrebbe verificata, degli altri io creatori, che, come comunità nella comunicazione, possono certo non redimere, perché l'errore e il peccato restano individuali come la scelta e la responsabilità di averli commessi, ma forse, se non illuminare dal di fuori, o suggerire, aiutare agendo.

D'altronde, come sottolinea bene Carabellese, l'attualismo gentiliano è una filosofia attivistica che si oppone ad ogni teoreticismo sia pure filosofico: la storia è sì opera umana, ma come dice Carabellese citando Gentile, "[...] non è nel tempo, ma nel pensiero ... è ideale ed eterna [...]"[81]  e lo "[...] storicismo [...] è coscienza energica dell'immanente carattere dell'unico processo storico, che è l'atto spirituale [...]"[82], il  quale, qui parla Carabellese, "[...] è l'atto creativo che è Dio, atto costitutivo della persona Dio (Io) [...] atto che sono Io Dio in quanto creo me uomo, il puro logo giovanneo nella sua specificazione nettamente cristiana e contraddistinguente il cattolicesimo dall'ebraismo, della creazione di me credente, cioè spirito pensante. [...] Alla morte [...] non crede nessuno dei pensanti, e tanto meno vi credeva Gentile [...] eminentemente cattolico."[83].

Se allora qui per storia non si intende solamente la res gestae, la storia degli uomini, ma la storia dell'Essere, allora la storia, questa storia, è attiva rivelazione continua ed eterna di Dio, atto creativo del quale noi in quanto spiriti pensanti partecipiamo, e dunque questa storia connota il nostro essere oltre la morte. Ma, giustamente si chiede Carabellese, in che senso oltre la morte? Se nel senso dell'"acquietamento" cattolico, ciò è in contraddizione con la concezione altrettanto cattolica dell'atto puro creativo, della creatività come continuo movimento che richiede invece, Carabellese non lo dice ma lo lascia sottintendere, che l'apparente annullamento dello spirito al tempo della storia umana (ossia la morte) sia invece un'immersione dello spirito nell'eternità dell'atto creativo puro, e quindi un'ulteriore creatività dello spirito. Ciò che qui non è chiaro, e Carabellese non lo dice né per sé né riguardo a Gentile, e che abbisogna perciò di un ulteriore approfondimento nel sistema metafisico rispetto alla sua concezione della Coscienza come concreta individuazione dei soggetti già analizzata da me in altro lavoro, è da un lato il punto in cui si situa l'individuazione, l'individualità, ossia il punto in cui  c'è una distinzione tra i diversi spiriti pensanti eterni, in quanto io creatori che in questa creazione sono plurimi dell'Io-Dio, nella conservazione di questa distinzione oltre la morte, ossia nell'immortalità  creativa come individualità plurima dello Spirito eterno che è Dio, e dall'altro lato a quale livello dell'Essere si situa la distinzione tra l'Io-Dio, ossia Io spirito pensante eterno che creo il me in un atto puro, Io creatore di me creatura, e Dio. Consapevole dei limiti cristiani di questi interrogativi,  trovo il conforto di Carabellese, dal momento che, per quanto egli parli di creazione continua e di spiriti pensanti eterni, ciononostante permane nella distinzione tra Dio e Io per un verso, tra Dio e i Termini per l'altro, in ciò segnando il punto di rottura rispetto a Gentile, pur, o anzi proprio nella inscindibilità del rapporto che lega gli elementi di tali distinzioni.

Ciò detto,  è ancora da disegnare in che rapporto si trova la distinzione che sul piano storico fa di me spirito creatore eterno di me stesso creatura, nella sua immortalità, sul piano metafisico fa di Dio Spirito creatore dell'essere: forse è, questa, concezione più ebraica e dunque protestante (e idealistica), che cattolica, perché implica, come fa notare Carabellese, un inizio, una creazione se non in  senso biblico, almeno in senso filosofico, e dunque una concezione di Dio come Creatore che solo a partire dalla concezione carabellesiana di Dio come Principio Assoluto o Idea non contrasterebbe per un verso con l'eternità e l'infinità dell'Essere, per l'altro con l'immortalità del soggetto, che per essere sino in fondo coerente deve necessariamente includere, oltre l'immortalità intesa come sopravvivenza oltre la morte, anche l'immortalità intesa come previvenza prima della vita. Solo in questo senso è possibile infatti parlare per Carabellese di vera immortalità: un'immortalità che non ha limiti né confini né in avanti né indietro nel tempo, perchè in Carabellese il tempo è temporalità come durata eterna. Ma qui Carabellese si ferma, perche conserva fino in fondo a Dio la denominazione di Principio, nello stesso tempo restando ancorato al concetto veterotestamentario di creazione nel tempo, e alla distinzione non solo tra Principio e Termini, ma anche tra Principio ed Essere, che, sebbene demitizzata, richiede e implica comunque un Principio che in quanto eterno come la temporalità, deve essere concepito come il motore immobile aristotelico interpretato come Idea. Si ripresenta cioè qui la possibilità di concepire concettualmente una Coscienza come Tutto all'interno della quale vi è un Centro, un Essere in sé spirituale infinito ed eterno, e perchè spirituale in continuo divenire che sia tutto centro nella sua infinitezza ed eternità.

Tornando al problema dell'immortalità, Carabellese  pensa che vera immortalità c'è laddove si parla oltre che di sopravvivenza anche di previvenza, che potrebbe essere intesa in riferimento  agli spiriti infiniti predicati da alcuni scrittori cristiani delle origini, come San Giustino, che parlava di preesistenza ed esistenze future degli spiriti individuali (e quindi essere intesa anche in riferimento alla metempsicosi presente nella cultura greca classica, in alcune correnti della qabbalah ebraica ripresa dalla filosofia occidentale moderna e rinascimentale e in alcune religioni orientali).

In realtà allora a me sembra che il rapporto di Carabellese col cattolicesimo sia estremamente complesso non soltanto per motivi biografici ma soprattutto per motivi teoretici: come si è cercato via via di evidenziare lungo il corso dell'argomentazione, e come certamente ci sarà modo di scoprire ancora, si può dire che tale rapporto è conflittuale e irrisolto, ossia critico, e se da un lato la matrice teologica, benché criticamente rivista, spinge anche inconsapevolmente verso configurazioni concettuali vicine al cattolicesimo, sì che appaiono, lo si ripete ancora una volta, gratuite e superficiali le accuse di ateismo, dall'altro il disegno etico prima ancora che teoretico di un'interpretazione conoscitiva autonoma, ossia di un percorso di ricerca filosofica personale e non dogmatico, produce teorizzazioni che appaiono, nella loro messa in discussione critica e presa di distanza dal cattolicesimo stesso, andare nella direzione di una conciliazione del cattolicesimo stesso con altre forme di religiosità biblica. In sostanza si può dire che Carabellese, pur non teorizzandolo esplicitamente, volesse in realtà non una negazione del cattolicesimo ma un superamento dei suoi aspetti più deteriori, vuoi politico-sociali vuoi più schiettamente dottrinari e teologici (ed è in questo campo che spende le sue energie filosofiche per mettere in luce, attraverso la propria personale esperienza, quelli che secondo lui restano gli imprescindibili avanzamenti e chiarificazioni, ma anche per lui riappropriazioni, del credo cattolico). Carabellese non  si è posto mai, interiormente prima ancora che pubblicamente attraverso i suoi scritti, fuori del cattolicesimo, e anche se non ha consapevolmente voluto, come afferma di Gentile, tradurre concettualmente in termini filosofici la dottrina cattolica, pure le si è posto di fronte con atteggiamento filosofico critico ma partecipe, indice di un conflitto profondo che non ha trovato soluzione nel senso di una piena accettazione o di un netto rifiuto, bensì in quella di un inserimento del cattolicesimo stesso in una sintesi più elevata, la sua metafisica critica come sistema dell'Essere  che, non confessionale, conferma il detto crociano che non possiamo non dirci cristiani[84] in una problematica che a nostro parere si situa all'interno di  un grande progetto comune alla Hegel[85] che da un lato affonda le radici nella propria storia dall'altro la rigenera trasformandola e superandola in progetto per il futuro, il che significa  che, proprio partendo da un atteggiamento filosofico critico ma partecipe verso la teologia cattolica di cui era intrisa la sua formazione, se da un lato l'approccio critico non gli consentiva una traduzione concettuale  in termini filosofici della dottrina cattolica, dall'altro però questa, che non poteva appunto essere accettata in toto ma nemmeno rinnegata e per storia e per esigenza etica, veniva rielaborata in un tentativo di sistema cristiano, in un pensiero filosofico che trova la sua ragion d'essere non nell'ambiguità di una mediazione forse impossibile tra accettazione e rifiuto, ma nel superamento di ambedue e nell'apertura verso una nuova forma di religione sopraconfessionale che, oltrepassando i confini della religione cattolica, da un lato si ponesse su quella linea sincretistica che ne ha preservato della religione cattolica nei secoli la sopravvivenza, e che oggi si evidenzia quale ecumenismo improrogabile che lo rende attuale, e dall'altro, proponendosi come filosofia, e dunque come religione razionale senza riti né culti visibili nonostante la fede, fosse per un verso aperta, come più volte Carabellese ha sottolineato, alla critica e dunque al rinnovamento, per l'altro, proprio per il suo essere una filosofia religiosa o una religione filosofica, in grado di dare nuova linfa, pur o anzi proprio con le sue contraddizioni, a quei nani sulle spalle dei giganti che noi tutti siamo, risvegliando e costringendo a fare i conti, a confrontarci, con una parte di noi rimossa o sottovalutata, talmente importante da costituire per taluni filosofi il nucleo dell'identità filosofica: Carabellese parla di Oggetto puro, Gentile di Io-Dio. L'ipotesi innerpretativa avanzata, in altre parole, non si presenta come un aut-aut tra cattolicesimo e cristianesimo, ma anzi illumina lati diversi di una personalità, quella di Carabellese, necessariamente sfaccettata e pur sempre umana.

Dopo questa necessaria digressione per comprendere più dal di dentro il filosofo Carabellese nel suo rapporto col cattolicesimo anche alla luce della sua analisi dell'attualismo gentiliano, si può ulteriormente mettere in luce la sua concezione di Dio a partire dalle pagine couclusive del saggio sul quale tanto a lungo si è ritenuto di doverci soffermare, pagine ove è messa tra l'altro chiaramente in evidenza la distanza che separa il credente ingenuo, cui basta la fede e l'"Idea", e colui il quale essendo oltre che credente anche filosofo, "[...] è chiamato proprio a tradurre in concetti questa Idea [...]"[86]. Questa traduzione in concetti dell'Idea Carabellese la progetta nel suo sistema dell'Essere come traduzione in termini concettuali del Cristianesimo in sistema, stabilendone in Cattolicità dell'attualismo i confini: "E' tempo che si sani sia il difetto dell'essere greco che del creare ebraico [...]. Questo risanamento fu già sentito e indicato da Gesù nella intuizione e valorizzazione di noi molti credenti: esigenza nuovissima nella storia della coscienza; esigenza che[...] dalla posteriore filosofia e teologia [...] fu subito perduta per il sopravvento che presero sul cristianesimo la legge ebraica del Creatore unico, da una parte, e la universalità greca, dall'altra, dell'unico logo."[87]

Finalmente, dopo un rapporto fatto di comunanze e divergenze che per la necessità di svolgere l'argomentazione non sono da Carabellese portate mai fino in fondo a termine, ossia un rapporto dialettico mai fatto di prese di posizione precise nelle quali si stabilissero i confini tra attualismo, ontologismo e dottrina cattolica, Carabellese prende le distanze da Gentile e sembra rivendicare non al cattolicesimo (che per lui è sincretismo dell'essere greco classico e del Dio Creatore e Legislatore e Giudice ebraico con le Scritture neotestamentarie), ma al Cristianesimo (e dunque alla figura di Gesù) lo status di vera religione: egli si pone il problema, in Gentile secondo  quanto da lui espresso assente, della distinzione tra io e Dio e rivendica inoltre, a partire da Gesù, l'esigenza delle pluralità della coscienza, ossia della pluralità di esseri spirituali pensanti che solo con l'apparizione di Gesù cessano di essere meri peccatori sottoposti alla Legge - e pertanto al Dio Legislatore e Giudice dell'ebraismo - per divenire persone, soggetti. Così per il primo punto, quello della distinzione tra Dio e io inteso sia come rapporto tra Principio e termini, sia come rapporto tra soggetto e Oggetto, afferma che "[...] se io,  come persona, sono la fede stessa, [...] Dio, che di tal fede è il Principio (è il Dio della fede, mentre io sono la fede di Dio) non può essere persona spirituale senza che  [...] non si perda l'essere spirituale, del quale Dio è il Principio unico, io sono il termine plurimo. Termine, non creatura, io; Principio non creatore, Dio."[88]. In questo importante passo vi è la distinzione, fondamentale per Carabellese, dell'io da Dio, e la sottolineatura ancora una volta che Dio è non creatore ma Principio - sebbene con le specificazioni che altrove nella nostra ricerca abbiamo espresso su questo concetto -, e Principio non creatore perché Carabellese non crede alla creazione né in senso ebraico né spirituale, perché l'essere spirituale è eterno, ma crede alla manifestazione dell'Essere e alla creazione nel senso della rivelazione continua di Dio. Inoltre, pur nella distinzione tra Dio e io, viene ribadito il rapporto inscindibile tra Dio Principio e i suoi termini, che ci consente di collegarci al secondo punto, ossia alla pluralità degli esseri spirituali pensanti che Carabellese chiama persone e il cui riconoscimento, "[...] subito perduto per il sopravvento che presero sul cristianesimo la legge ebraica del Creatore unico, da una parte, e la universalità greca, dall'altra, dell'unico logo."[89], si deve a Gesù, che ha scoperto "l'uomo, l'uomo nella sua radicale pluralità."

Ma il punto da mettere a fuoco, e che anche altra volta si è sfiorato, e che segna forse la maggiore distanza tra Carabellese e non più Gentile ma il cattolicesimo ortodosso, nonostante, ripetiamo, le convergenze riscontrate, e che qui Carabellese rende esplicito più che altrove nell'attacco senza mezzi teamini che sferra alla teologia strictu sensu cattolica, consiste nell'auspicare, ancora con accenti modernistici, che "[...] bisogna che si abbia [...] una riforma o controriforma del cattolisesimo [...]"[90], e che la coscienza comune rompa "[...] la spessa scorza teologica di un concettualismo filosofico senza fede [...]"[91]. Altro punto focale è che qui appare che per Carabellese è l'essere spirituale eterno e infinito nella sua molteplicità ad essere il vero primum, l'Essere, e che solo a questo livello può parlarsi di panteismo, nel quale Dio Principio e gli io plurimi, cioè i Termini, sono i due poli in distinzione-relazione tra loro. Questa distinzione consente che Dio sia trascendente rispetto agli io, ossia ai suoi termini, ma questa trascendenza, che è qui relativa soltanto appunto agli io, sappiamo essere relativa anche all'Io, anch'essa come distinzione-relazione. Carabellese, nell'ultima complessa opera metafisica della sua vita, L'attività spirituale umana. Prime linee di una logica dell'Essere[92], nel riaffermare il Principio unico, Dio, si sofferma sull'attività spirituale umana perché sorregge anch'essa l'Essere nel suo attuarsi in divenire storico: qui allora il famoso antiumanesimo carabellesiano, nell'ultima fase della sua vita, si comprenderebbe appieno. Infatti antiumanesimo non significa esclusione dall'Essere degli uomini, ma considerazione dell'attività spirituale umana come attività di soggetti attivi che, anche sul piano umano, sorreggono l'Essere attraverso il pensiero. Da un lato infatti, c'è la Coscienza-Tutto, essere spirituale eterno e infinito nella sua molteplicità, che parla, francescanamente, e che deve essere soltanto interpretato con uno sforzo ermeneutico, dall'altro l'attività spirituale umana in essa contenuta, che contribuisce a sostenere l'Essere nella sua storicità in divenire con le azioni che compie ma soprattutto con i pensieri che kantianamente (l'intenzionalità dell'azione, il pensiero che vi è nascosto) guidano le azioni, e non solo le guidano ma si trasmettono da persona a persona, da spirito a spirito, e in quanto attività spirituale umana da un lato danno forma alla comunità umana dall'altro la trascendono in un divenire inesauribile, divenire che per un verso è continuo dialogo con la storia anche non umana, nel senso di non soltanto umana, per l'altro è raccolta di messaggi che la ricerca porta avanti e che solo pochi conoscono. Per un altro verso ancora c'è il rapporto tra Dio e i termini, che è rapporto verticale, in cui i termini sono tutti uguali tra loro nel senso che fanno tutti parte della medesima comunità soggettiva in senso cristiano, mentre Dio è al vertice di tale rapporto dei termini tra loro e dall'altro è il vertice, ossia il Principio che fonda tale rapporto e nello stesso tempo è l'Assoluto verso cui tutti tendono. Qual è, mi chiedo, all'interno della Chiesa, così che non possa dirsi che Carabellese fosse fuori di essa, benché non ateo, una soluzione che metta in rapporto tra loro il Concreto, l'attività spirituale umana e il rapporto tra Dio e i Termini? Oppure è necessario uscire da essa ed entrare ndlla Filosofia? E qual è, mi chiedo ancora, il frutto del  rapporto tra filosofia e teologia, che è la soluzione scelta da Carabellese, ossia di una filosofia teologica che da un lato prenda alimento dall'una e dall'altra nella storia, e dell'una e dell'altra dall'altro lato sia figlia come  ricerca? I miei studi teologici, inesistenti, non mi consentono di rispondere a tali domande, ma forse i miei studi filosofici possono aiutarmi perché sembrano far coincidere i risultati più avanzati della ricerca scientifica: faccio riferimento qui alla coincidenza tra le ricerche di uno studioso di Platone che teorizzano la possibilità di inversioni del tempo e la ricerca in ambito fisico-teorico che organizza modelli che rispondono a quesiti altrettali.

Il problema che vorrei mettere in luce e per il quale, ripeto, non ho a disposizione tutti gli strumenti concettuali perché non teologa, è non tanto il rapporto tra Dio e i Termini o quello tra Oggetto e soggetti, che sono chiari essere in Carabellese rapporti di distinzione-relazione, l'uno in termini di trascendenza, l'altro di immanenza, quanto il rapporto tra l'Essere spirituale e Dio. Questo Essere spirituale infinito ed eterno appare essere, nell'ultimo periodo della sua vita ma anche a partire da L'Essere e il problema religioso del 1914, il primum. Ma Dio è, come Assoluta Idea, Principio anche rispetto ad esso e non soltanto rispetto ai termini, infatti il suo trascendentismo si spiega come eternità inesauribile, origine non in senso della temporaneità che richiede un principio nel tempo, ma nel senso della temporalità che è eterna ab aeterno. Ciò non contrasta  con la tesi carabellesiana di un'eternità degli spiriti non solo nella sopravvivenza ma anche nella previvenza come esseri spirituali pensanti.

A parte questo, che ancora una volta sembra mettere Carabellese in contraddizione con la dottrina cattolica ma non cristiana, o addirittura, non vorrei azzardare data la mia ignoranza teologica che ribadisco, la dottrina cattolica in contraddizione con se stessa, o almeno con la parte e interpretazione essoterica di essa, e che pure mi sembra una contraddizione importante, resta ancora il fatto che Carabellese chiama Essere il vero Dio, essere spirituale veramente infinito ed eterno ed in continuo pulsare senza principio né termine perché non in divenire, divenire chn costituisce nella sua dimensione non solo umana ma anche naturale uno dei suoi livelli, per il quale però se si parla di rivelazione o di manifestazione divina, siano esse la prima quella storico-religiosa o quella naturale, e la seconda quella hegeliana o anche cristiana del Cristianesimo delle origini, se ne può parlare soltanto uscendo dal livello dell'immanentismo  ed entrando in quello del trascendentismo. A questa dimensione del trascendentismo appartiene un  dualismo che non riguarda più soltanto il Dio Principio in rapporto dualistico di distinzione-relazione coi suoi termini come soggetti, e dunque anche l'uomo coi suoi valori la sua libertà le sue scelte, e quindi anche col suo rapporto trascendente con Dio, ma riguarda proprio anche il livello "naturale" che comprende spazio tempo divenire materia: un dualismo insito nel concetto stesso di manifestazione o rivelazione o anche emanazione, perché implica che Qualcosa, in qualunque modo si voglia chiamare Dio, si riveli o si manifesti o si emani, e che quindi sia al tempo stesso se stesso e non se stesso in tale rivelazione manifestazione emanazione, ossia si alteri in altro da sé, si oggettivi, pur conservando un nucleo segreto che trascende tale oggettivazione emanazione rivelazione manifestazione, e che soltanto nell'infinito e nell'eterno, che per loro stesso significato dal punto di vista soggettivo sono le dimensioni-limite al di là dello spazio e del tempo sia naturale che umano, può dirsi completamente esplicitato: cioè dal punto di vista del trascendentismo, e, a questo livello del discorso, mai.

E a questo livello del discorso, questa trascendenza del Dio che si rivela, come del divenire della "natura" (Gentile abbiamo visto parla di una storia eterna come eterno esplicarsi del pensiero, dunque non di storia soltanto umana) come del trascendere dello stesso io soggettivo - sia esso il singolo come in Jaspers o la comunità umana come nella filosofia del Romanticismo - a questo livello del discorso il trascendere non ha mai fine, il divenire è eterno in avanti, la verità è aletheia che si discopre nascondendosi nel Mistero di un nucleo inesauribile, e l'errore soggettivo (il peccato mortale che Gentile ha "tradotto in termini concettuali") è la staticità che equivale alla morte dello spirito, alla negazione della scelta e della libertà, alla ferma opposizione alla crescita della coscienza e alla responsabilizzazione, in cambio di una falsa pace dello spirito: è la visione ottimistica del Progresso illuministico sempre rinascente, esigenza etica dello spirito che trova conferma oggettiva nella realtà visibile.

Ma se dal livello del trascendentismo ci spostiamo a quello dell'immanentismo, ossia dell'essere spirituale che Carabellese chiama Concreto, vediamo che più volte egli afferma che esso si scinde in Dio Principio e io plurimi suoi termini, e che pertanto ontologicamente è il vero livello dell'essere, e dunque per Carabellese, come abbiamo già visto prima, il vero Dio, infinito, pulsante, eterno Spirito sostenente l'essere in divenire di cui si parlava al livello del trascendentismo, come miracolo continuo, e Spirito racchiudente nella sua totalità infinita infiniti esseri spirituali senza nascita né morte - o meglio con nascite e morti multiple, quei previventi sopravviventi di cui Carabellese ha parlato prima, vera realtà invisibile in cui la vera Chiesa invisibile è la comunicazione tra spiriti passati presenti e futuri, comunicazione possibile appunto per l'eternità degli spiriti.

Giungere a queste conclusioni è possibile a partire dalla stessa lettera carabellesiana, che recita testualmente: "Il G. [Gentile] decisamente è per la sola sopravvivenza e non per la previvenza proprio per salvare l'atto creativo pernio del cattolicesimo [...]."[93]. Questa frase è importantissima perché ci consente di comprendere tutta una serie di questioni in essa racchiuse. Dunque, la Chiesa cattolica, al tempo di Carabellese[94], era per la sola sopravvivenza, e questo per salvare Dio come Principio creatore, che richiede un inizio dei tempi.

Ma la questione che denota l'originalità di Carabellese, oltre che il suo essere avanti nella riflessione filosofica perché così convinto da affermarlo in modo certo non categorico ma molto chiaro, consiste non tanto nel confronto con la Chiesa cattolica consistente anche nella  fondamentale questione teologica del modo in cui Dio debba essere pensato come Principio, bensì nella sua affermazione implicita di una previvenza dello spirito. A questo punto si aprono questioni difficilmente dipanabili, perché c'è da interrogarsi sui modi in cui questa previvenza si articola: Carabellese la pensa come una previvenza anteriore all'incarnazione, la Chiesa cattolica opta oggi per la tesi di un'anima individuale che è in Dio e che discende nel corpo al momento del concepimento, e questa è una soluzione che sembrerebbe collimare con la tesi carabellesiana di Dio Principio dei suoi termini intesi qui anche in senso umano. Ma se si approfondisce la questione, si aprono delle domande che sono  altre soluzioni possibili del problema dell'incarnazione. Se si considera infatti la tesi carabellesiana di uno spirito infinito che come Coscienza è tutto l'Essere,  si può considerare sia una soluzione che contempli la discesa dello spirito una sola volta, come per il cattolicesimo, sia una soluzione che ammetta più discese nella  corporeità, come sostiene il buddismo. E' questa la questione dell'individualità dello spirito, una volta accettatane con Carabellese l'infinità temporale: sia la prima che la seconda soluzione, quella di un'individualità soggettiva che si incarna una sola volta e quella di un'individualità soggettiva che si incarna più volte, proprio perché ambedue rivolte verso lo spiritualismo, non prendono in considerazione alcun fattore né di tipo fisico-fisiologico, né di tipo storico, ma fanno appello ad un'individualità irripetibile che scavalca il tempo e lo spazio fenomenici, sebbene sia sempre, jaspersianamente, in situazione, e cioè a quell'Individuum metafisico che ognuno di noi è, inirreggimentabile in nessuna delle cerchie sociali cui pure come persona umana appartiene con una parte del sé, come irripetibile nella profonda creatività che dentro e fuori quelle stesse cerchie sociali porta.   

Concludendo, in Carabellese è possibile ritrovare un'implicita professione di spiritualismo, riconosciuta dalla critica[95] che infatti a questa corrente di pensiero lo ascrive: "[...] per salvare l'uomo scoperto da Gesù [...], l'uomo cioè nella sua radicale pluralità di persone pensanti, bisogna subordinarlo come uomo vivente, subordinare la vita (fenomeno materiale) all'essere (attività spirituale)."[96]. Egli nega invece a Gentile questa stessa professione di spiritualismo cristiano-ebraico quando dice: "Gentile sentì profondamente anche se confusamente questa esigenza di salvezza della personalità pensante dell'uomo; volle salvare il credente. Ma appunto la sua ortodossa cattolicità glielo fece perdere: ammesso (dogmaticamente con la Chiesa cattolica) Dio come il creatore degli spiriti, noi persone credenti, siamo perduti. [...] il sole fideistico di Gesù di Nazareth [...], che insegnò agli uomini, giudei e greci, che noi siamo persone e perciò enti plurimi di quell'essere spirituale, del quale Dio, l'Unico, è il Principio."[97]: qui è lo spiritualismo carabellesiano.


 



[1][1] E. Mirri, Introduzione  a P. Carabellese, L'attivita' spirituale umana. Prime  linee di una logica dell'essere cit., p. 18. Cfr. anche E. Mirri, Considerazioni sul rapporto tra filosofia, metafisica e teologia in Carabellese cit., in AA.VV., Pantaleo Carabellese, il <<tarlo del filosofare>>  cit., pp. 96-98 e 110-15, dove Mirri afferma che  così come la filosofia è e non può non essere metafisica, così altrettanto la filosofia, essendo metafisica, non può non essere teologia, per cui c'è un'identità reciproca tra filosofia, metafisica e teologia. Se metafisica è leibnitzianamente parlare dell'essere dell'essente, intendendo quest'ultimo non come l'ente uomo ma come l'ente in generale, come l'essente tout court, allora metafisica è parlare dell'essere costitutivo di quest'essente, dell'essere come condizione d'essere, fondamento dell'essente, dunque Dio. Perciò più che essere obliato o ritenuto questione del sentimento, il problema di Dio, lungi dall'essere un problema accanto ad altri, è il problema stesso del pensare e della coscienza, e questo perché Dio non è causa degli essenti e nemmeno essente egli stesso per Carabellese (ché altrimenti sarebbe loro parificato), ma è bensì l'Essere degli essenti, ciò per cui gli essenti sono. Così Mirri può sostenere che più che a Kant o a Cartesio, per i quali il problema teologico era fuori dalla filosofia, Carabellese può essere avvicinato a Spinoza, soprattutto per questa concezione di Dio come essere dell'essente che non esiste in sé, personalisticamente, e ad Heidegger, per la recisa affermazione della "differenza ontologica" tra Dio e gli essenti, come vedremo nello svolgersi di questo scritto. Per Mirri, al contrario di ciò che la critica teistica del Lombardi, nella polemica del 1941, e poi del Babolin (Cfr. A. Babolin, Perché l'assoluto in P. Carabellese non è ontologicamente trascendente?, in AA.VV., Giornate di studi carabellesiani cit., pp. 169-77) sostiene, la negazione dell'esistenza di Dio è in Carabellese massima affermazione del perenne bisogno di ascesi della coscienza, che piuttosto che abbassare a sé l'Assoluto e relativizzarlo, si innalza ad esso spinozianamente rendendosi possibile il guardare asceticamente l'eterno.

[2][2] I. Kant, Critica della Ragion Pura, Dialettica trascendentale, Libro II, cap. III, Sez. VII, pp. 493-97 della III ediz. Laterza BUL, Bari, 1985. Forse non è inutile ricordare che Kant riprende il problema dell'esistenza di Dio anche nella Critica della Ragion Pratica, Parte I Dottrina degli elementi, Libro II Dialettica della ragion pura pratica, Cap. II Della Dialettica della ragion pura  nella determinazione del concetto del Sommo Bene, par. V L'esistenza di Dio come postulato della ragion pura pratica, Laterza, Bari, V ediz. 1985, pp. 150 sgg., e nella Critica del Giudizio, Parte II Critica del giudizio teleologico, Appendice: Metodologia del Giudizio teleologico, parr. 85-91, BUL Laterza, Bari, III ediz. 1987, pp. 314-71.

[3][3] I. Kant, Critica della Ragion Pura cit., Dialettica trascendentale, Libro II, cap. III, Sez. VII, p. 497.

[4][4] Che Carabellese voglia tornare ad Aristotele, e alla concezione aristotelica della filosofia come scienza dell'essere, metafisica, lo si evince esplicitamente nell'opera Che cos'è la filosofia? cit., p. 214 sg., quando dice: "L'aristotelico oggetto della metafisica (l'essere come essere) che dopo millenni di speculazione Kant aveva riguadagnato ad essa mediante una rivalutazione di Platone [...]", ossia dell'Idea platonica, che però ha riguadagnato solo dal punto di vista dell'esigenza del soggetto, come idea infinita, secondo l'implicita differenza sostanziale tra idea e concetto. L'essere in Aristotele è invece diverso dall'idea platonica nell'interpretazione che ne dà Kant nella Critica della Ragion Pura, quindi avvicinare come fa Carabellese Kant ad Aristotele per quanto riguarda la metafisica, che Kant definisce dialettica riguardo allo status in cui si trova ai suoi  tempi, è possibile solo a partire dall'esigenza che anche Kant sente di una metafisica come scienza rigorosa. Il concetto, e il progetto, carabellesiano di filosofia è alla maniera aristotelica, e kantiana, quello di una "[...] filosofia indispensabile, che non può non essere [...]." (Cfr. P. Carabellese, Che cos'è la filosofia? cit., p. 215), dunque una filosofia come metafisica.

[5][5] P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia  cit., n. 1 p. 131, in partc. p. 133.

[6][6] Ibidem, p. 141.

[7][7] P. Carabellese, Che cos'è la filosofia? cit., p. 161.

[8][8] Ibidem, p. 167 sg.

[9][9] Ibidem, p. 358 sg.

[10][10] Ibidem, p. 187.

[11][11] Ibidem, p. 168.

[12][12] P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit., p. 166.

[13][13] Ibidem, p. 168.

[14][14] Il giovane Carabellese era convinto assertore di queste tesi, come dimostrano, a partire dalla Tesi di Laurea in Lettere Sulla vetta ierocratica del Papato. Idee, fatti, intuizioni cit., i suoi primi scritti su "La Riforma laica", rivista modernista sulla quale egli scrisse più volte dal 1910.

[15][15] Carabellese si dedicò ai temi della religione e della morale, come ricorda Semerari, in particolare nel decennio compreso tra il 1910 e il 1920, con lo scopo di pervenire a un concetto di religiosità laica che sul piano istituzionale separasse lo Stato dalla Chiesa, sul piano civile riconoscesse la progressiva laicizzazione della società con la sostituzione di valori razionali a valori trascendenti, e sul piano della riflessione filosofica mirasse a distinguere  moralità e religiosità, riconoscendo a quest'ultima uno specifico apriori religioso che permane uguale anche nel variare delle diverse religioni e forme religiose, e che perciò consente di definirle tali. Secondo Semerari, ma abbiamo visto quale valore Carabellese attribuisse alla vita intesa come vita del pensante-che-vive, del soggetto infinito, il processo di laicizzazione della coscienza civile significava per Carabellese la costruzione di un'etica indipendente che di fronte alla concezione religiosa del disvalore della vita riconosce invece il valore immanente della vita. Per Semerari  è in questo progetto che si inquadrano questi studi di religione e l'attenzione al Kant filosofo morale, di cui però Carabellese riconosceva i limiti nel voler inserire la religione nell'ambito della morale, l'una per eccellenza eteronoma, l'altra autonoma, e nel considerare il dovere quale principio di repressione delle inclinazioni, dovere che viceversa Carabellese trasforma in principio immanente della coscienza, atto di volontà che ha in sé la propria  legge. Cfr. G. Semerari, La sabbia e la roccia cit., pp. 40-50.

[16][16] Cfr. P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit., passim, in partc. capp. VII e IX.

[17][17] Cfr. P. Carabellese, Ho io coscienza di Dio? cit., in AA.VV., Il problema di Dio cit., pp. 57 sgg.

[18][18] Cfr. P. Carabellese, La filosofia dell'esistenza di Kant cit., pp. 13-19.

[19][19] P. Carabellese, Il  problema teologico come filosofia cit., p. 155.

[20][20] Ibidem, p. 159.

[21][21] Ivi.

[22]P. Carabellese, La filosofia di Kant. I. L'idea teologica cit., pp. 378 sg.

[23][23] Cfr. P. Carabellese, La filosofia dell'esistenza di Kant cit., pp. 48-49.

[24][24] Cfr. I. Kant., Critica della Ragion Pura  cit., Dialettica trascendentale, Libro II, cap. III, sez. I-IV, pp. 451-74.

[25][25] Cfr. Ibidem, pp. 467. 

[26][26] Cfr. Ibidem, pp. 473 sg.

[27][27] Rosario Assunto sottolinea "[...] il senso profondamente religioso e ascetico della negazione carabellesiana dell'esistenza di Dio, che è rifiuto, di tono decisamente spinoziano, di relativizzare l'assoluto, di storicizzare l'eterno, di umanizzare Dio [...] il pensare carabellesiano [...] resta pur sempre quel pensare che ha riaffermato l'assolutezza dell'assoluto, l'inevitabilità del principio, la divinità di Dio. Sarebbe, se mai, da obiettare che [...] il Carabellese non è stato coerente fino in fondo, sembrando addirittura negare assolutezza a Dio quando ne ha fatto un momento, e solo un momento, del concreto [...]". Cfr. R. Assunto, Estetica e metafisica del tempo nella filosofia di Carabellese cit., in AA.VV., Pantaleo Carabellese, il <<tarlo del filosofare>> cit., pp. 114 sg.

[28][28] P. Carabellese, Ho io coscienza di Dio? cit., p. 72 sg.

[29][29] Ibidem, p. 79. Cfr. anche le pp. 73 e 75.

[30][30] Ibidem, pp. 82-83.

[31][31] Cfr. E. Mirri, Introduzione cit. a P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit., passim.

[32][32] P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit., p. 153.

[33][33] P. Carabellese, Critica del concreto cit., p. 175 n. 1.

[34][34] L'Oggetto puro, cioè Dio, è per Carabellese nell'interiorità di ciascuna coscienza empirica, ma solo la coscienza del filosofo lo eleva ad oggetto tematico della propria riflessione in quello sforzo continuo di ricerca che è "pura ricerca di Dio". Ma nello stesso tempo le conquiste della filosofia riguardano tutti e perciò sono universali, e qui è la polemica di Carabellese verso ogni personalismo filosofico, perché "[...] c'è, ci deve essere in tutti ciò che tal riflessione scopre [...] perché [...] riguarda il principio unico della coscienza." Cfr. P. Carabellese, Che cos'è la filosofia? cit., p. 243.

[35][35] Ibidem, p. 319.

[36][36] Ibidem, p. 247 sg.

[37][37] Ibidem, p. 267.

[38][38] Ibidem, p. 268.

[39][39] Ibidem, p. 269.

[40][40] P. Carabellese, Ho io coscienza di Dio? cit., pp. 84-87.

[41][41] P. Carabellese, Che cos'è la filosofia? cit.,  p. 293.

[42][42] Ibidem, p. 292 sgg., n. 1.

[43][43] P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit., p. 35 sgg., in partc. p. 37.

[44][44] Ibidem, p. 41 sg.

[45][45] Ibidem, p. 57.

[46][46] Ibidem, p. 58.

[47][47] P. Carabellese, L'idealismo italiano cit., Appendice V: L'esigenza dell'oggettività, pp. 266-68.

[48][48] P. Carabellese, Critica del concreto cit., p. 157.

[49][49] P. Carabellese, La filosofia di Kant. I: L'idea teologica cit., p. 381.

[50][50] T. Moretti-Costanzi, Ontologismo critico e cattolicesimo cit., in AA.VV., Il problema di Dio cit., p. 187.

[51][51] O. Nobile Ventura, Filosofia e religione in un metafisico laico: Pantaleo Carabellese cit., p. 128.

[52][52] P. Carabellese, La filosofia di Kant. I: L'idea teologica cit., p. 383, laddove è a nostro parere da sottolineare l'oscillazione, evidente nel brano, tra accettazione del panteismo e sua negazione.

[53][53] P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit., pp. 143 sgg.

[54][54] Ibidem, p. 149.

[55][55] Ibidem, pp. 175 sgg.

[56][56]  Ibidem, p. 178.

[57][57]  Ibidem, p. 178.

[58][58] Ibidem, p. 178 sg.

[59][59] P. Carabellese, L'idealismo italiano cit., p. 159-67.

[60][60] Ibidem, p. 162.

[61][61] Ibidem, p. 166.

[62][62] P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit., p. 181.

[63][63] Ibidem,  p. 183.

[64][64] Ibidem, p. 183.

[65][65] P. Carabellese, Che cos'e la filosofia? cit., p. 125 sgg., n. 1.

[66][66] Ibidem, p. 127.

[67][67] Ibidem, p. 126.

[68][68] Ibidem, p. 127.

[69][69] Ibidem, p. 128.

[70][70] P. Carabellese, Cattolicita' dell'attualismo, in "Giornale critico della filosofia italiana", n. 1-2, 1947, poi ristamp. in AA.VV., Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, Sansoni Firenze, 1948, 2 voll., vol. I, pp. 125-44, passim.

[71][71] Ibidem, p. 134.

[72][72] Ibidem, p. 142.

[73][73] Ibidem, p. 138.

[74][74] Ibidem, p. 132.

[75][75] Ibidem, p. 133.

[76][76] Ivi.

[77][77] Ancora Ivi.

[78][78] Ibidem, p. 135.

[79][79] Di nuovo Ivi.

[80][80] Ibidem, p. 136.

[81][81] G. Gentile, Il superamento del tempo nella storia, 1935, citato in P. Carabellese, Cattolicità dell'attualismo cit., p. 140.

[82][82] G. Gentile, Storicismo e storicismo, in Problema della storia, 1942, p. 202, citato in P. Carabellese, Cattolicità dell'attualismo cit., p. 140.

[83][83] P. Carabellese, Cattolicità dell'attualismo cit., p. 140.

[84][84] B. Croce, Perché non possiamo non dirci <<cristiani>>, in Id., La mia filosofia, Adelphi, Milano, 1993, pp. 38-53.

[85][85] Cfr. Marco de Angelis, La Religionsschrift di Kant e il giovane Hegel, in  Atti dell'Accademia di Scienze Morali e Politiche, Giannini, Napoli, 1996.

[86][86] P. Carabellese, Cattolicità dell'attualismo cit., p. 142-43.

[87][87] Ibidem, p. 143.

[88][88] Ivi.

[89][89] Ivi.

[90][90] Ibidem, p. 144.

[91][91] Ibidem, p. 143.

[92][92] P. Carabellese, L'attività spirituale umana cit., passim.

[93][93] Cfr. P. Carabellese, Cattolicità dell'attualismo cit., p. 141.

[94][94] Attualmente la Chiesa, come la scienza, è giunta ad ammettere una previvenza, oltre che una sopravvivenza dello spirito post mortem, al punto che considera già vivente il frutto dell'amore allo stadio prenatale.

[95][95] Cfr. C. Dollo, Momenti e problemi dello spiritualismo (Varisco, Carabellese, Carlini, Le Senne) cit., Parte II: L'Assoluto come oggetto in Pantaleo Carabellese cit., pp. 87-154.

[96][96] P. Carabellese, Cattolicità dell'attualismo cit., pp. 143-44.

[97][97] Ibidem, p. 144.

 

 

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