STEFANIA SAPORA
COGITO ergo SUM.....ergo DIGITO |
Dalla dissertazione di dottorato IX ciclo 1993-96 Il
problema di Dio L'intento di questa ricerca e' quello di mostrare come il problema
teologico, il problema di Dio, sia centrale in tutto il pensiero di
Carabellese, e che solo successivamente si articola in un sistema
metafisico definito seppure passibile, come dice Carabellese stesso,
di ulteriori sviluppi. Il problema di Dio perciò è ad esso
propedeutico, e la sua centralità nell'itinerario carabellesiano è
visibile a partire da almeno tre motivi che tra poco andremo ad
esporre. Ma prima e' necessario ricordarsi che, come sottolinea Edoardo
Mirri [1],
l'esplicitazione che la filosofia e' ricerca di Dio Carabellese la
fara' nel suo Il problema teologico come filosofia, cioe' nel 1931, che perciò noi abbiamo considerato l'inizio
del suo periodo metafisico, perché esso è il luogo in cui
Carabellese esplicita il suo progetto di una metafisica critica:
secondo Carabellese, il Principio di cui si occupa la filosofia in
quanto metafisica e' Dio, percio' filosofia e teologia si
incontrano. 1. Il rapporto tra filosofia e
teologia Già fin dal titolo, e più volte ne Il problema teologico come
filosofia, Carabellese parla di teologia. Ma forse indagare sul
concetto carabellesiano di teologia serve a spiegare come si arrivò
a tacciare Carabellese di ateismo e perché la sua concezione, che
è sicuramente religiosa non può nel contempo dirsi
cattolica ma cristiana, inserendosi nella linea di una
concezione religiosa senza religione confessionale, almeno dal punto
di vista teoretico se non anche esistenziale. Anche se Carabellese non lo dice mai esplicitamente, né tratta del
tema, è possibile nonostante tutto giungere alla conclusione che
certamente la teologia non è per Carabellese quella che si sofferma
su questioni esegetiche rispetto alle Sacre Scritture, così come la
religione non è quella che si incentra su riti e pratiche religiose
esteriori condivise dotate di valore storico-simbolico. La teologia
è invece quella che si occupa del problema di Dio, problema
perché non è accertamento delle condizioni storico-esistenziali
della sua rivelazione sulla terra, né interpretazione ermeneutica
del racconto delle Sacre Scritture. In questo senso, Carabellese
appare ancora più rivoluzionario (e perciò incompreso e
"inattuale" alla maniera nietzscheiana, come dice Mirri
nell'Introduzione all'opera citata) anche della nuova
teologia di derivazione protestante
- penso a Bultmann, ma potrei pensare anche alla teologia
liberale di Jaspers. La teologia di Carabellese sembra insomma porsi
come problema "puro" di Dio, in questo senso problema
filosofico, eminentemente metafisico, perciò problema teologico
come filosofia: ciò che interessa Carabellese è il problema di Dio
epurato potremmo dire dall'approccio realistico esistenziale
della religione positiva, ma epurato
anche dall'esser considerato un problema squisitamente religioso, di
stretta pertinenza teologica, intendendo qui per teologia (Carabellese
non a caso usa l'espressione apparentemente impropria di religione)
appunto specificatamente il campo della teologia religiosa. Si è già
detto che Carabellese si pone nel solco della tradizione filosofica
che, come teologia laica, si è interessata al problema di
Dio, e lo si potrebbe definire, parafrasando una espressione della
Nobile Ventura resa celebre da
Semerari, "teologo laico", appunto per sottolineare
la sua estraneità all'orizzonte della teologia strictu sensu
religiosa, ma nel contempo la sua appartenenza all'orizzonte della
meditazione sul senso dell'essere in chiave religiosa, ed è quindi
in questo senso la sua appartenenza all'orizzonte di una teologia
laica. Ma è forse questa parola, "laico", che, se non presa nel
senso letterale di non appartenente ad alcun ordine religioso, come
nella già ricordata famosa definizione di "metafisico
laico" getta un'ombra di negatività in chi, come Carabellese,
crede. In questo senso, la definizione di una teologia laica può
sembrare un ossimoro, e sicuramente è espressione di una
contraddizione, di un conflitto tra un forte interesse al problema
di Dio e un approccio fuori dagli schemi della teologia classica, e
tra un profondo sentimento religioso e la ricerca di una sua nuova
espressione linguistico-concettuale, esterna alla tradizione
religiosa solo perché lontana dal considerare il problema di Dio di
stretta pertinenza religioso-teologica
nel senso specifico che sopra si è chiarito. Detto questo,
si deve specificare quella definizione di metafisico laico in
direzione più nettamente teologica anche se Carabellese riconosce
l'esistenza di altre branche della filosofia potremmo dire con lui
più "umanistiche". E potremmo ulteriormente specificare,
teologia pura, eminentemente teoretica, ossia non interessata se non
al problema di Dio e, quindi, dell'essere. Solo una lettura
critica dei testi sacri mirante a coglierne, al di là della lettera
storico-esegetica, il senso metafisico
non dalla prospettiva dell'uomo, ma, come dice Carabellese,
da quella di un mettersi direttamente "di slancio
nell'Infinito", solo questo tipo di lettura sarebbe possibile
per Carabellese, perché da lui lontano il Dio delle Sacre Scritture
come Dio esistente e realistico, Dio persona, Dio tu antropomorfo. Le sacre scritture di Carabellese, quelle in cui egli cerca Dio,
sono allora, oltre che quelle della sua formazione teologica, anche
quelle filosofiche: Platone, S. Agostino, Spinoza, Rosmini, e
soprattutto, come si è visto, Kant, ove egli trova materiale per
una concezione che può definirsi metafisica critica, ma ancor più
teologia laica, perché mette a fuoco il problema dell'essere e dei
giudizi sintetici a priori metafisici a partire dal problema di Dio.
In questo senso Carabellese invera e supera l'importante
distinzione operata da Kant nella VII Sezione del capitolo
III del Libro II della Dialettica trascendentale della
Critica della Ragion Pura [2],
distinzione tra teologia razionale, fondata sulla pura ragione, e
teologia rivelata, fondata appunto sulla Rivelazione, ove la
teologia razionale è a sua volta distinta in teologia naturale, che
si basa su concetti ricavati dalla natura (della nostra anima) e
teologia trascendentale, basata su concetti trascendentali ossia che
si riferiscono o ad un'esperienza in generale (cosmoteologia) o
fanno astrazione da qualunque esperienza (ontoteologia). Kant pone
quest'importante distinzione a conclusione di un intero capitolo in
cui ha argomentato sull'impossibilità di concludere sia a favore
che contro l'esistenza di Dio, che per lui rimane dal punto di vista
teoretico, come ben si sa, un ideale regolativo della ragion pura
dotato di valore pratico, dimostrando la fallacia sia della prova
fisico-teologica (e dunque della cosmoteologia) sia della prova
ontologica (e dunque dell'ontoteologia), e quindi in definitiva
concludendo per la vacuità della teologia razionale così come data
ai suoi tempi: "Ora io affermo che tutti i tentativi di un uso
meramente speculativo della ragione rispetto alla teologia sono
affatto infecondi e per la loro intima natura nulli e vani; ma che i
principi del suo uso naturale non conducono per nulla a una
teologia, e che pertanto, se non si mettono a fondamento o non si
prendono a guida leggi morali, non è possibile che ci sia mai una
teologia della ragione. Tutti, infatti, i principi sintetici della
ragion pura sono di uso immanente; ma alla conoscenza di un Essere
supremo si richiede un uso trascendente di essi, al quale il nostro
intelletto non è punto attrezzato." [3]
Da questo importante passo si deduce la critica di Kant a ogni
teologia razionale come teologia della ragion pura scissa dalla
ragion pratica, ma soprattutto si deduce che l'uso trascendente e
non immanente dei principi sintetici della ragion pura è possibile
non all'intelletto ma alla ragione: sono i giudizi sintetici a
priori metafisici. E' dunque possibile dopo Kant una teologia pura solo se alla ragion
pura si connetta la ragion pratica: è ciò che Carabellese,
interprete e studioso di Kant, propone. Se si resta all'interno
dello schema kantiano riguardo alle teologie razionali del suo
tempo, è impossibile inserirvelo, perché esso risulta, riguardo al
modo in cui Carabellese intende la teologia razionale, insufficiente
a darne ragione. Carabellese è sicuramente lontano, abbiamo visto,
dall'approccio della teologia confessionale, ma, sebbene nei suoi
scritti non si trovi mai il riferimento, anche critico, ai temi che
oggi si dicono dell'ermeneutica teologica, mentre vi è sempre il
riferimento critico alle religioni positive e confessionali e al Dio
personale, non per questo è deducibile un implicito rifiuto del Dio
rivelato della Rivelazione storica propria delle religioni positive,
se per Rivelazione si intende la Rivelazione di Cristo. Così
Carabellese rientrerebbe a pieno titolo nell'altro grande ramo della
teologia così come da Kant sistematizzato, la teologia razionale,
e, all'interno di questa, nella teologia trascendentale, che si
fonda su concetti trascendentali, e ancor più specificatamente
nell'ontoteologia, che fa astrazione, dice Kant come abbiamo visto,
da qualunque esperienza. Ma il concetto di esperienza di secondo
tipo che si è introdotto come esperienza guidata dall'intellectus
fidei porta Carabellese, sulla scia del kantismo, ad una
teologia razionale non scissa dalla ragion pratica, la vera teologia
razionale da Kant auspicata, quella che comporta il concorso di
ragione e fede, ossia quella che intende per ragione una ragione
fideistica. Da questo punto di vista, Carabellese rientrerebbe a pieno titolo
nel neokantismo di cui parla Semerari, appunto perché da
Kant riprende la questione, oltre che dei giudizi sintetici a priori
metafisici e quindi della metafisica critica, della teologia
razionale come teologia pura che connette, nella speculazione,
ragione e fede, speculazione che si fonda sul sapere a priori di cui
parla Carabellese e che conduce all'esperienza di secondo grado
guidata dapl'intellectus fidei, esperienza che è costituita
dalla connessione di ragion pura e ragion pratica, e che nella sua
specificità si costituisce come intuizione intellettuale.
Carabellese in altre parole si riconnette a Kant per inverarlo nei
compiti aperti da lui lasciati - la metafisica critica con i suoi
giudizi sintetici a priori metafisici e la teologia pura come
connessione di ragion pura e ragion pratica -, conducendo questo
inveramento, pur nel silenzio che fa calare su alcuni passaggi
essenziali per comprendere il suo pensiero e per ricostruirne sia
gli snodi sia l'insieme nell'interrelazione tra il detto e il
presupposto, tra l'esplicito e l'implicito, conducendo questo
inveramento di Kant, si diceva, nell'attingere a quelle fonti che,
prima di lui dopo di lui e coeve a lui stesso, potevano costituire
lungo il percorso della sua formazione quelle tessere tali da
contribuire a rendere esplicito, se non agli altri almeno a lui
stesso, il mosaico del suo pensiero, il suo progetto interiore, e
a perfezionarlo. Così come rientrerebbe nel neokantismo secondo il
modo che si è cercato di mostrare, così altrettanto
Carabellese, proprio a partire da quelle fonti che nel suo studio
storico-teoretico come formazione esplicitante il suo progetto di
pensiero, rientrerebbe a
pieno titolo in una lunga tradizione filosofica che dopo, oltre e
nonostante la scissione del legame tra filosofia e teologia
posteriore al Medioevo scolastico, ha continuato a porsi il problema
di Dio sia nell'ottica patristica dell'interiorità agostiniana di
Dio non al solo soggetto, sia nell'ottica scolastica della
dimostrazione razionale tomistica di Dio, ma ha epurato, con un
approccio critico che gli veniva dal progressivo affinarsi della
storia della filosofia, oltre che da Kant che quell'approccio
critico rese esplicito, sia quella dimostrazione dagli aspetti più
marcatamente empiristici, sia quel problema dagli aspetti più
evidentemente confessionali, continuando ad alimentare quella che
abbiamo definito teologia laica in contrapposizione alla teologia
religiosa propria delle confessioni. Questa teologia laica è
puramente razionale secondo la lettera kantiana, perché, seppur
fuori dell'appartenenza alla teologia confessionale, richiede
l'apporto, oltre che della ragione, anche della fede, come suo
presupposto altrettanto fondamentale e fondante. Non è un non
senso, una contraddizione, una teologia puramente razionale, poiché
essa, che fa appello come l'altra alla fede nella Rivelazione
storico-religiosa intesa come Rivelazione di Dio in Cristo, rivela
la sua natura profondamente fideistica come teologia che abbiamo
detto laica ma potremmo chiamare filosofica, e nel contempo
approfondisce dal punto di vista critico quelle verità della fede
che si chiamano dogmi, e dal punto di vista filosofico quei misteri
della fede che costituiscono il presupposto della religione
positiva. In ciò consiste quell'incontro tra religione e
filosofia che abbiamo visto Carabellese considerare possibile
e anzi necessario al di là della critica modernistica e idealistica
agli aspetti dogmatici e temporali delle religioni positive. Si potrebbe a questo punto rispondere che certamente è possibile
una teologia che si interessi del problema di Dio da un punto di
vista strettamente razionale nel senso di privo di fede e quindi
opposto a quello mirante, secondo l'intenzione kantiana, a escludere
una trattazione del problema di Dio fuori dall'ambito della fede
rivelata, una teologia cioè che dimostri criticamente
l'impossibilità di tale trattazione: una teologia critica in primo
luogo verso se stessa. Ma allora è necessario introdurre nella
ripartizione dei vari tipi di teologia anche una teologia priva di
fede, tendente sul piano antropologico
a escludere il campo tutto umano dei prodotti
storico-antropologici della fede religiosa, e sul piano
teoretico a dimostrare non l'inesistenza di Dio, ma la sua assenza:
una teologia atea o agnostica, per quanto ciò possa apparire un
ossimoro. Tornando a Carabellese, se da un lato la fede non è soltanto la
fede confessionale, dall'altro è rintracciabile in lui una teologia
speculativa laica che comprende la fede, dunque né atea né
agnostica, che configura un nuovo rapporto tra ragione e fede e a
cui risulta stretta la definizione kantiana di teologia razionale
dei suoi tempi, e che invece si
pone nel solco di quella teologia razionale da Kant auspicata. Una
teologia, nel caso di Carabellese, sulla scia kantiana critica verso
qualunque dumostrazione dell'esistenza di Dio, ma non critica verso
una concezione della filosofia intesa come scienza rigorosa, perché anzi il suo campo vuole
includere il non dimostrabile nel dimostrabile nella direzione della
fondazione dei giudizi sintetici a priori metafisici. In questo senso, dopo Kant ma oltre Kant, è possibile per
Carabellese una metafisica critica, così come è possibile una
teologia critica, cui egli con la sua filosofia crede di contribuire
ad aprire la strada, proseguendo nello stesso tenpo il cammino prima
di lui percorso da quanti con lui sono in consonanza: Aristotele [4]
in primo luogo, che denomina la sua filosofia prima, la metafisica,
anche teologia, e che consente a Carabellese di coniugare con essa
tutta la tradizione occidentale che ha collegato la teologia con la
Rivelazione, ma nello stesso tempo di considerarla come riflessione
pura sul problema di
Dio, esulando cioè da un approccio soggettivistico e, come anche
dice, umanistico al problema di Dio, così come egli lo vede
concretarsi dell'idealismo soggettivo non solo tedesco. Nella direzione di una teologia laica sembra infatti muoversi
consapevolmente Carabellese quando, in una nota al Problema
teologico come filosofia, riferendosi al problema di Dio come al
problema più profondo che fonda la filosofia, afferma: "Con
esso forse la filosofia diventa ... teologizzante; ma dimostra anche
così che può, e deve,
esser tale, pur senza essere una fideistica chiosa né della Bibbia
né di alcun'altra rivelazione scritta [...]"[5]. E' in quel sostantivo, "chiosa", la
chiave per comprendere l'approccio carabellesiano al problema di Dio
e della Rivelazione: non una "filosofia istituzionale",
come dice Semerari, la cui funzione sia la chiosa, ossia la
ripetizione sotto altri termini del detto utile alla Chiesa
cattolica, ma una teologia come ricerca. Dopo essersi rammaricato del fatto che il problema di Dio è oggi
in campo filosofico considerato improponibile o inesistente, nello
stesso luogo Carabellese si chiede: "Sarà così teologizzante
la nostra filosofia, perché pone esplicito il problema di Dio
[...]? Sia pure teologizzante: anzi la filosofia non è, e non può
essere fondamentalmente che teologismo. [...] La filosofia, se
qualcosa è nell'essenza sua, è proprio Dio nella sua problematicità."[6],
perciò problema teologico come filosofia. Ma appunto problema perché
deve innanzitutto liberare il campo da quelle che Carabellese
considera false impostazioni, come vedremo, del concetto di Dio,
prima fra tutte l'impostazione chd identifica teologia e religione,
secondo la quale parlare di
Dio oggi significa parlare del Dio della religione. 2. Il rapporto tra religione e
filosofia e quello tra ragione e fede KS nei primi scritti Carabellese giovane ancora istituisce un
rapporto dialettico tra religione e filosofia è perché egli è
consapevole della distinzione tra teologia e religione e, almeno
nelle prime opere, l'identificazione tra teologia e filosofia non è
ancora marcatamente in luce, ché ancora per teologia egli intende
la teologia confessionale. Filosofia e religione si fronteggiano
irrisolte nella loro antiteticità, ciascuna avocante a sé un
diritto di preminenza sull'uomo, ciascuna "esigenza di
trascendente" a suo modo e con
i propri strumenti. In questa antiteticità tra due opposte
concezioni della vita, tra due Weltanschauungen complementari
di cui l'evidente spirito critico di Carabellese non poteva non
vedere aspetti positivi e negativi, emerge il misticismo
carabellesiano e si comprende perché Semerari abbia parlato di
"tarlo del filosofare", di ricerca infaticabile e
tentativo sempre rinnovato di cogliere, attraverso appunto la
metafisica, un punto di vista superiore. Ma nonostante l'iniziale rapporto dialettico tra religione e
filosofia, in seguito il loro rapporto si chiarisce, chiarendo la
teologia come ricerca e come sistema: "La fede essenziale alla
religione non è la credenza dogmatica in un insieme di proposizioni
fisse e determinate. [...] i dogmi riempiono la rivelazione, non la
costituiscono: il dogma viene dalla filosofia alla religione e non
viceversa. Come la filosofia prende dalla religione l'intima
certezza dell'Assoluto nel suo mistero e di quella certezza veste,
facendone un sistema, i valori raggiunti nello sforzo di oggettiva
meditazione; così la religione prende dalla filosofia questi valori
da essa raggiunti nel suo sforzo e di essi riempie, facendone una
dottrina dogmatica, la misteriosa fede vissuta nell'abisso della
coscienza singolare. La filosofia, nello sforzo di svelare Dio,
scopre il soggetto e formula il sistema, la religione nella certezza
del soggetto scopre Dio e formula il dogma."[7]
Così anche il rapporto tra ragione e fede non è visto in termini
di contrapposizione, ma anzi di richiamo reciproco e, sebbene
distinte, ragione e fede risultano ambedue necessarie: "Ragione
e fede sempre han detto e dicono cose diverse, [ma] solo quando
prese astrattamente. In concreto dicono la stessa cosa [...] non
vuol dire che [...] dettino, ciascuna [...], leggi concrete
alla umana attività. Questa deve rimanere autonoma. [...]
Ogni forma concreta [...] ha in sé le sue leggi e il suo arbitrio,
leggi che legano e dissolvono l'arbitrio in tutte le altre
forme."[8].
E ancora: "[...] che il vero filosofare sia l'adorare (è la
rosminiana idea della sapienza), o che viceversa il vero adorare sia
il filosofare (è, p. es., la tesi sostenuta oggi in Italia, pur con
un filosofare diverso, dal Martinetti da una parte e dal Gentile
dall'altra) sono false entrambe, e dipendono dal non aver viste e
valutate le condizioni intrinseche della coscienza [...]. La
soluzione del problema sta nell'organizzare insieme fede e ragione,
in quanto organizzate insieme sono soggettività e oggettività."[9].
Ragione e fede sono dunque per Carabellese sul piano trascendentale
della Coscienza l'una trascendentalità oggettiva, ossia Dio,
l'altra trascendentalità soggettiva, ossia Io come soggettiva fede
e certezza di Dio, e sono ambedue necessarie al pensare, che
altrimenti scomparirebbe: sul piano della pluralità dei soggetti,
il credente puro e il filosofo puro non si combattono né
gareggiano, ma si purificano a vicenda purificando la coscienza.
Carabellese afferma che vi è "[...] una forma di coscienza, in
cui questo implicito [Dio] si fa riconoscere [...] ed è la fede
religiosa nella sua purezza di esistenza spirituale. Tale fede
non nega la ragione e quindi non è l'irrazionale: e così la
ragione non nega la fede e quindi non è non credere."[10].
Pur connettendo ragione e fede, Carabellese distingue bene tra
filosofia e religione
intesa come religione positiva, e ne fa una critica serrata.
Infatti, non soltanto di fronte a una religione che "[...] da
una parte si chiude in pratiche di culto, dall'altra vuol porsi come
dominatrice [...], la vita giustamente crede di fare a meno di un senso
religioso [sottol. mia]."[11],
ma anche la polemica con la religione positiva si incentra sul
concetto di un Dio da adorare oggetto di una speciale esperienza che
si sottrae al carattere specifico dell'esperienza, che è, secondo
Carabellese sulla scia di Kant, la sperimentabilità di più
soggetti. Ed è proprio la non sperimentabilità della religione che
conduce questa ad affermare come suo carattere costitutivo la fede,
fede che giunge all'estremo nella formula "credo quia
absurdum" quando qualunque tentativo di dimostrazione
razionale è fallito. Carabellese vuole in altre parole affermare la
possibilità della dimostrazione razionale di Dio a partire dalla
dichiarazione che abbiamo ricordato che tra i suoi maestri vi è San
Tommaso: è qui, se si ricordano le parole di Bontadini, la distanza
vera tra Carabellese e la neoscolastica: nell'estendere la
possibilità di tale dimostrazione all'Assoluto come esperienza
condivisibile di secondo livello. Il problema di Dio dunque non è per Carabellese esclusivamente
religioso - sebbene la religione abbia voluto assumerne l'esclusività
- perché "Ammettere ciò è dire o che la religione come tale
esaurisca tutta l'attività spirituale, o che vi sia un'attività
spirituale dalla quale possa essere assente Dio."[12],
due conclusioni impossibili per Carabellese, il quale come si è
visto considera Dio "[...] principio di ogni essere, di ogni
attività e più ancora quindi di ogni spiritualità."[13].
Ancor più, il problema di Dio è esclusivamente filosofico, perché
per la religione nella sua purezza Dio è certezza da adorare,
mentre è la filosofia come teologia che lo problematizza. 3. Il problema teologico come
problema fondamentale Dopo aver mostrato come è possibile un'identificazione in
Carabellese della filosofia con la teologia - intendendo per
teologia, ripetiamo, una teologia non confessionale ma laica - è
possibile forse intendere anche
le ragioni che fanno si' che il problema teologico sia da
considerare centrale in tutto il pensiero del Carabellese. Un primo motivo, ovvio, e' quello che vuole definire la fisosofia
di Carabellese come onto-teologismo,
definizione questa da lui stesso accettata e riconosciuta. Ma se al
di là della definizione noi ci soffermiamo sul suo senso, possiamo
osservare che scienza dell'essere e scienza di Dio sono in lui
strettamente connessi, e ciò per
il terzo motivo per cui si puo' definire il pensiero del Carabellese
centrato sul problema di Dio, il motivo che voglio definire
"interno", pur senza fare confusione con cio' che egli
definiva problema interno della filosofia. Un secondo motivo, che chiamerei "esterno", e' quello che
lega Carabellese ai cattolici neotomisti nella lunga polemica
sull'ateismo degli anni 1936-1948, che non si incentrò tanto, come
rinviene Mirri, sul concetto di Dio come Oggetto puro della
coscienza dei soggetti, che è di ascendenza agostiniana, quanto
appunto, in modo più complesso e radicale, sulla dimostrabilità
esperienziale dell'Assoluto. Un terzo motivo e', si diceva, "interno", e questo ha a
sua volta due aspetti: l'interesse per i problemi religiosi non
manca in Carabellese sin dai suoi primi scritti, che del suo
coinvolgimento nei problemi della sua epoca e nella sua ideologia
modernista riguardavano il grande problema dei rapporti tra Stato e
Chiesa, scritti dove si stigmatizza l'ingerenza del potere temporale
della Chiesa in un organismo laico come lo Stato poteva e doveva
essere per il Carabellese giovane, per il quale, egli ribadisce piu'
volte nei propri scritti, non soltanto l'apparato sacerdotale ne'
poteva ne' doveva interferire nelle questioni statali di stretta
pertinenza laica[14],
ma anche e vieppiu' l'intellighenzia laica doveva tenersi lontana
dalla tentazione di un "servigio" allo Stato che ne
avrebbe compromesso l'autonomia di giudizio e la liberta' di azione.
Ma cio' che invece ci consente di asserire un suo ininterrotto
interesse per l'argomento
teologico, che travalica gli scritti specifici in materia di
religione[15], che attraversa tutto lo sviluppo del suo
pensiero come interesse più prettamente e specificatamente
filosofico, attraverso la mediazione di Kant, di cui egli e'
interprete e traduttore come abbiamo visto
in un'ottica mirante alla soluzione
del problema teologico kantiano: basti per tutti ricordare
qui la sua monografia ponderosa su La filosofia di Kant: l'idea
teologica. Una formazione kantiana che influenza il suo pensiero
teologico, ma come abbiamo visto non al punto da impedirgli una
propria autonoma speculazione sul problema di Dio. Seppure uno dei nodi centrali di tutto il pensiero di Carabellese
è il rapporto originario, coessenziale, tra filosofia e teologia,
la sua fu una teologia non confessionale, come dimostra la sua tesi
dell'inesistenza di Dio, ma soprattutto la sua critica profonda a
tutte le religioni positive, colpevoli di antropomorfizzare Dio,
rendendolo ente finito tra enti finiti[16].
4. L'inesistenza di Dio in rapporto al concetto di esistenza in Kant. Secondo il Casabellese maturo del breve scritto Ho io coscienza
di Dio? la domanda corretta intorno a Dio non riguarda la sua
esistenza ma la coscienza che il soggetto ne ha[17]. Cio' perche', kantianamente, l'esistenza non e'
una determinazaone concettuale tra altre, ma un "piu' del
concetto" che si constata e che riguarda sempre qualcosa di
limitato e condizionato, qualcosa di singolare e relativo che
risulta all'esperienza. E' una posizione questa del 1947-48 che compare pure nella serie di dispense su
Il problema dell'esistenza in Kant[18]
degli anni accademici dal
1940 al 1943 e prima ancora ne Il probloma teologico come
filosofia, e che Carabellese mantiene intatta nel tempo, già
presente nell'opera del 1927 su La filosofia di Kant. I L'idea
teologica: l'esistenza risponde per Carabellese ad un'esigenza
della Coscienza. Esistenza è singolarità e dunque relazione di uno
con l'altro esistente, quindi pluralità e alterità: esistenza è
"[...] assoluta immediatezza indimostrabile, [è] questo 'più'
del concetto [...]."[19]
che nessun argomentare può dire ma che ogni argomentare presuppone.
L'esistere è per Carabellese alterità pura di coscienza,
l'esistenza è quella dell'altro soggetto come me, per cui
"[...] si dice esistere nell'altro e credenza nell'uno [...]
L'esistere è l'aspetto creduto oggettivo di ciò di cui si ritiene
di indicare nel credere l'aspetto l'aspetto soltanto
soggettivo."[20],
in modo tale che "[...] credenza ed esistenza si identificano
[...]."[21],
per cui la credenza è l'aspetto soggettivo, l'esistenza quello
oggettivo, in correlazione tra loro sul piano del soggetto.
Perciò, "Di Dio, coscienza unica, necessaria, immanente, non
si può chiedere se esista. Se poniamo l'esistenza come il
singolarizzarsi dell'essere, Dio non ci può risultare esistente.
[...] Dire <<Dio esiste>> non è affermare Dio, ma
negarlo. Per esistenza infatti intendiamo la singolarità nella
concreta realtà delle cose, nell'affermaziene della quale tutte le
coscienze convergono."[22] Kant, afferma Carabellese, si pone per la prima volta la domanda su
cosa sia in sé l'esistenza - si sta qui parlando, com'è ovvio, non
dell'esistenza dell'uomo, cioè nel senso esistenzialistico del
termine, bensì di quello dell'ente in generale, in senso più
propriamente filosofico - nell'Unico argomento per la
dimostrazione dell'esistenza di Dio del 1763, dove afferma che
l'esistenza non è una determinazione dell'essenza, ossia un
predicato tra altri puramente possibili: l'esistenza fa sì che si
passi dal piano della pura possibilità e pensabilità al piano
dell'essere, ossia al piano in cui l'origine della conoscenza che io
ho di un ente diviene l'esperienza, appunto l'esperienza
dell'essere. L'esistenza è dunque la posizione assoluta della cosa,
che si distingue dalla sua mera essenza o possibilità, ossia dalla
pensabilità delle sue determinazioni e dalle sue relazioni interne
fra i suoi predicati. In questo senso l'esistenza è il più del
possibile, è ciò che consente il salto tra la possibilità e la
realtà per quanto riguarda la cosa, mentre per quanto riguarda la
conoscenza che il soggetto ne ha, è ciò che consente il salto
dalla conoscenza come pensabilità alla conoscenza come esperienza,
poiché l'esperienza è sempre solo esperienza di cose esistenti.
Pur criticando questa posizione kantiana come realistica in quanto
pone l'esistenza come il fuori della coscienza, ossia
che non riconosce l'esistenza come specifica esigenza della
coscienza[23],
Carabellese in fondo ne riconosce implicitamente la verità quando
nega a Dio l'esistenza appunto per non ridurlo a cosa tra cose. Per
Carabellese l'esistenza è sempre esistenza singolare, individualità
irripetibile che risulta dall'incrocio di più linee spazio
temporali che la definiscono, e che appunto perché singolare,
richiede l'esistenza di altri a lei omogenei. Ma forse un
chiarimento del perché Carabellese neghi a Dio l'esistenza può
venire dal confronto diretto su come il Kant critico affronti nella Dialettica
trascendentale la confutazione delle prove dell'esistenza di
Dio. Kant afferma [24]
infatti che noi possiamo giungere all'ideale trascendentale della
ragione di un Essere originario supremo, oggetto della teologia
trascendentale, che questo ideale è assolutamente connaturato alla
natura umana e che ad
esso la ragione speculativa perviene passando dal concetto di
esistenza contingente al concetto di esistenza necessaria mediante
il concetto di causa, ossia osservando un procedimento puramente
speculativo che perviene però appunto ad un "[...] concetto
puro della ragione, cioè una semplice idea [...]"[25] . Ma la necessaria appartenenza dell'esistenza a
un concetto è diversa dalla necessità dell'esistenza: io posso
rappresentarmi un concetto, in questo caso quello dell'Ente sommo,
come necessariamente esistente senza perciò aver dimostrato che
esiste necessariamente. L'esistenza non è qualcosa che si aggiunge
come una determinazione tra altre ma è il "più del
concetto", qualcosa
che esula dal concetto e che si aggiunge sinteticamente, ossia
attraverso l'esperienza: Kant afferma testualmente: "Ora se io
mi penso un essere come la Realtà suprema (senza difetto) resta
sempre la questione, se esso esiste o no. [...] E qui apparisce
anche la causa della presente difficoltà. Se si trattasse di un
oggetto dei sensi, non potrei scambiare l'esistenza della cosa col
semplice concetto della cosa. [...] Sia quale e quanto si voglia il
contenuto del nostro concetto di un oggetto, noi, dunque, dobbiamo
sempre uscire da esso per conferire a questo oggetto l'esistenza.
Negli oggetti dei sensi questo accade [...] ma per gli oggetti del
pensiero puro non c'è assolutamente mezzo di conoscere la loro
esistenza [...]"[26],
perché l'esistenza è conoscibile soltanto nell'ambito
dell'esperienza. La dichiarazione di esistenza è per Kant una
dichiarazione sintetica, non analitica, quindi appartenente al campo
dell'esperienza e non puramente speculativa. Cionondimeno, dice Kant,
noi possiamo rappresentarci il concetto di un Essere assolutamente
necessario cui quindi è dovuta anche l'esistenza, ma in questo caso
l'esistenza, cosa che Kant ha dichiarato impossibile, è considerata
un attributo tra altri. La dichiarazione di esistenza trasformerebbe
Dio in un oggetto tra altri e non più, come vuole Carabellese,
nella condizione di tutti gli oggetti dell'esperienza, condizione di
possibilità non soltanto degli oggetti di esperienza ma dell'essere
in generale. Dunque Dio, almeno nel senso kantiano del termine, non
esiste per Carabellese. Dire che Dio è esistente significa porlo in reciprocità col
soggetto, ridurre Dio ad un tu, ad un soggetto come me, e dunque
togliergli l'assolutezza che lo pone come Unico. Negare a Dio
l'esistenza significa dunque permetterne l'incondizionatezza[27].
Dio è infatti per Carabellese
Essere in sé immanente al Concreto ma non è il
Concreto stesso: il tema dell'esistenza è il tema della
positività dell'essere, che riguarda quindi non più l'Essere in sé,
il soprasensibile, ma l'essere nelle sue determinazioni. 5. Dio come Coscienza dei
soggetti: Dio come Oggetto puro Chiarito perché Carabellese giunga a negare che Dio esiste, cosa che tra le altre gli attira
l'accusa di ateismo, potremo ora comprendere come egli affermi
viceversa che Dio è Oggetto puro della coscienza dei soggetti. Dio e' l'Oggetto della nostra coscienza in quanto consapere di
tutti gli io individuali, indispensabili tutti a che la coscienza
sia, cosi' come Dio e'
a sua volta indispensabile a che io abbia coscienza:
quindi la domanda - correttamente impostata - Ho io
coscienza di Dio? non puo' che ricevere risposta positiva
perche' Dio e' immanente sebbene implicitamente alla mia coscienza[28],
ossia, sul piano trascendentale, della coscienza in generale, nel
senso rigorosamente
neokantiano del Bewusstsein uberhaupt, e però trasposto sul
piano metafisico della Coscienza come Tutto.
Sul piano soggettivo è da notare che Carabellese pone una
netta distinzione tra coscienza ed esperienza empirica, la prima
riguardante il sapere metafisico del sapere a priori, la seconda
limitata alle cose empiriche: di Dio io ho sempre coscienza
implicita, mai esperienza, che' sarebbe ridurlo a cosa tra cose. La
coscienza non nasce con l'uomo ma e' a suo fondamento in
quanto coscienza a priori e non empirica: "Di Dio non
posso in nessun modo avere esperienza [...]. La coscienza di Dio,
dunque, e' apriorita' pura."[29],
in questo senso Io penso kantiano. Questa coscienza a priori di Dio
che supera e precede qualunque esperienza o conoscenza, Carabellese
la chiama "rivelazione coscienziale di Dio", che e' il
fondamento a priori di qualunque rivelazione religiosa di Dio,
sempre storica e a posteriori: le religioni storiche si fondano
tutte su questa rivelazione coscienziale, ossia sull'implicita
coscienza che io ho di Dio, sull'esigenza a priori che io ho di Lui
che le fonda e non viceversa le segue,
come vorrebbero le religioni stesse[30]. E questa rivelazione coscienziale di Dio è coscienza attiva che i
molti soggetti hanno dell'unico Oggetto che precede - in senso e
temporale e logico - e fonda la loro coscienza empirica: in questo
senso nuovo del concepire l'oggetto - senso metafisico e non più
gnoseologico - , l'Oggetto è Dio. Sulla definizione di Dio come Oggetto puro Mirri, nell'Introduzione
a Il problema teologico ccme filosofia[31] mette
l'accento su questa "inadeguatezza" del linguaggio usato
da Carabellese rispetto all'altezza della sua speculazione,
linguaggio, aggiungerei io, spesso ostico e definitorio, raramente
discorsivo, e che nel caso di Dio come Oggetto puro contrapposto ai
soggetti che lo hanno quale loro oggetto di coscienza immanente,
esprime un rapporto molto profondo
che Carabellese istituisce tra Dio e i soggetti che lo pensano. Dio
infatti non è soltanto l'oggetto esplicito consaputo dai soggetti e
dunque fondante la loro comunita', che e' poi l'ecclesia come
comunita' di credenti, ma e' piu' profondamente l'Oggetto immanente
e implicito che fonda la comunita' non dei soli credenti, ma dei
pensanti in generale, dunque dei soggetti. Infatti, poiche'
Carabellese, opponendosi a quello che lui definisce umanesimo
antropocentrico, considera essere non la Coscienza appartenente
all'uomo, ma l'uomo alla coscienza,
questa comunita' si estende anche oltre i confini della
comunita' umana che racchiude i pensanti intesi come uomini, per
abbracciare appunto tutto l'essere. In questo senso, che potremmo
dire francescano di
intendere l'essere, Dio e' Oggetto puro nel senso che e' la
Coscienza omnipervisiva insita in ogni determinazione dell'essere,
nel senso che, ci si scusi il bisticcio, fa essere l'essere essere,
ossia lo rende positivo e lo sorregge nella durata della sua
positivita'. E' in questo senso che è ancora attuale la domanda
metafisica fondamencale - perche' c'e' l'essere piuttosto che il
nulla - riguardante non solo l'origine dell'essere, ma anche di
identità dell'essere con se stesso pur, o anzi proprio, nella
continuita' temporale, e anche di conservazione dell'essere
all'esistenza. Il problema di Dio nasce dall'esigenza dell'oggettivita' della
coscienza dei soggetti: in quest'affermazione desunta da Carabellese[32],
la coscienza di cui si parla qui e' la coscienza intesa
trascendentalmente come coscienza in generale in senso neokantiano,
o come coscienza individuale, comunque non nel senso metafisico che
anche essa ha nella meditazione carabellesiana.
Ma qui gia' subito avviene la trasformazione, la
trasposizione di piano in Carabellese: il problema dell'oggetto non
e' piu' il problema dell'oggetto
della conoscenza come era nel Kant critico - ne' tantomeno il
problema realistico dell'oggetto, naturalmente -, ma, attraverso
Kant e attraverso lo spostamento dell'attenzione, che potrebbe ad
una prima lettura apparire realistico, dall'oggetto della cosa in
se' kantiana, diviene prima il problema ontologico dell'Oggetto
della coscienza, poi il problema metafisico dell'Essere in se' e
infine il problema teologico di Dio, il quale perde i suoi
connotati realistici di esistenza personalistica di carattere
esclusivamente religioso per porsi come problema dell'Essere in se',
da un lato oggetto per eccellenza della filosofia, dall'altro
Oggetto puro della Coscienza, Oggetto unico fondante la ccscienza
soggettiva. Carabellese sottolinea: "[...] ogni fede in Dio,
ogni dimostrazione di Dio, ogni pensiero di Dio, direi, richiede Dio
principio di quella fede, di questa dimostrazione, di questo
pensiero, cioe' richiede Dio come Oggetto puro di
coscienza dei soggetti."[33]. Dio
e' dunque per Carabellese in questa fase del suo pensiero, ma
vedremo che le ulteriori fasi non negano mai una definizione, bensi'
la arricchiscono di nuovi significati e nuove definizioni, l'Oggetto
puro di coscienza dei soggetti. Questa maniera di intendere Dio - come Oggetto puro [34]
- è infatti uno dei due modi carabellesiani, come abbiamo visto, di
concepire il rapporto tra Dio e i soggetti, l'altro essendo quello
tra Principio e termini: il
Principio, che per lui è sempre intimo, ossia sempre consaputo da
tutti in ogni attività spirituale, ma sempre trascendente e
implicito tranne che nella filosofia[35]: "E il Principio, sappiamo, è la
condizione condizionante e incondizionata della stessa concretezza
di coscienza. Ma nel riflettere filosofico il Principio pare si
liberi dalla sua natura di condizione giacché questa richiede [...]
l'altra condizione (l'alterità singolare condizionante ma
condizionata [...] perché si vuol cogliere l'Unico come tale,
questo perde la sua natura di condizione e diviene un in sé che
sta anche a sé: non è condizionato da nulla, ma neppure è
intrinsecamente e soltanto una condizione di alcun che [...] giacché
si è sganciato dal concreto."[36]. Ma questo sganciarsi dal concreto è un errore.
Il Principio è per Carabellese l'Oggetto della coscienza dei
soggetti, sia essa coscienza filosofica o religiosa o altro, ed è
quel trascendente che non è inteso realisticamente come ciò che si
trova al di là della coscienza, ad essa estranea, ma come ciò che
costituisce l'Oggettività
pura della coscienza, il suo Oggetto puro, perché trascendentale e
trascendente si richiamano a vicenda, cosicché quando si parla di
una coscienza trascendentale non si può che far riferimento
implicitamente ad un trascendente, ad un Principio Assoluto - per
Carabellese i due termini si identificano - che la rende tale, perché
"[...] togliendo il trascendente togliamo anche il
trascendentale [...]"[37].
La coscienza va al di là del suo manifestarsi empirico, ed in
questo al di là del fenomenico mostra il suo Oggetto puro,
l'Assoluto[38]. E' questo l'ontologismo critico, o idealismo
concreto, di Carabellese[39]. Teismo critico Carabellese chiama in Ho io coscienza di Dio?
il compito che il filosofo oggi come sempre e' chiamato ad
assolvere: disvelare l'Assoluto al di la' di ogni settarismo
dottrinale o istituzionale, in assoluta autonomia [40].
E è qui la chiave per comprendere la sua concezione teologica:
quella di essere fuori da ogni confessione, pur rimanendo
nell'ambito del cristianesimo. 6. Dio non è l'alterita' E come Dio non puo' essere confuso come cosa tra cose, cosi' anche
Dio non puo' essere il tu che si pone e si oppone nella comunicazione del credente
all'io - tema questo che anticipa problemi che saranno poi
affrontati dalla "nuova teologia" protestante e che e' in
singolare consonanza con la filosofia della religione di Karl
Jaspers - e non puo' nemmeno essere quell'altro, l'assolutamente
altro lontano dai soggetti. Secondo Carabellese, il realismo
gnoseologistico ridurrebbe l'alterita' degli altri io a
mera oggettualita' nel considerare il rapporto del soggetto
con la realta' come un rapporto soggetto-oggetto. L'altro da me non
puo' invece mai essere oggetto di me, ma e' invece quell'alter
ego che io riconosco nel riconoscere me come uno di essi, tale
che l'Oggetto che io so, io lo so sempre insieme con loro :
"[...] il rapporto e' sempre tra soggetti (essenti o parventi)
e non tra il soggetto e l'oggetto: dell'oggetto non e' che
individuazione in soggetti. Il L. [qui si riferisce alla polemica
con Padre Lombardi], come ogni realista, come ogni attualista, prima
chiude e restringe la coscienza nell'io singolare (e fa, o dovrebbe
fare questo unico, perche' vi ha chiuso in esso la coscienza) e
quindi toglie il rapporto, e poi vorrebbe ripescare gli altri
[...]"[41]. Infatti la coscienza si riferisce
costitutivamente a degli io plurali, che non deve quindi dedurre
dopo aver dichiarato l'unicita'
del soggetto e privilegiato il rapporto di questo con
l'oggetto: Carabellese insomma ribalta la prospettiva dichiarando
costitutivo il rapporto tra soggetti che si ritrovano tali anche
proprio nel concordare nell'unicita' dell'Oggetto. Infatti dice:
"L'alterita' come tale (cioe' la pluralita') e' anch'essa
costitutiva della coscienza: non c'e' la mia coscienza singola senza
l'alterita'. Io sono uno degli altri, io sono un altro come ciascuno
di tutti [...] tra soggetti e oggetto non c'e' rapporto ne' di
posizione ne' di opposizione ne' di altro genere mai: dell'oggetto
non c'e' che individuazione nei soggetti [...]. Una falsita'
fondamentale che bisogna estirpare [...] e' la riduzione [...] della
coscienza [...] a relazione tra soggetto e oggetto. Il rapporto e'
nella coscienza, non e' la coscienza."[42]. L'altro, dunque, non e' l'oggetto, come vuole
il realismo empirico, che considera l'alterita' come eterogeneita'
ed estraneita' alla coscienza, eterogeneita' ed estraneita' che sono
per Carabellese inammissibili in quanto fuori della coscienza non vi
e' nulla. L'alterita' invece presuppone l'omogeneita': alterita' e'
quella dell'io di fronte al tu, e' "[...] moltiplicazione di
quella coscienza che il soggetto come io afferma. [...] E'
quindi, l'alterita', molteplicita' di soggetti."[43]. Ma
questa molteplicita' non e' nel senso della molteplicita'
empiricamente esperita, bensi' nel senso di una molteplicita' come
condizione trascendentale di quella empirica: la molteplicita' dei
soggetti e' per Carabellese una
condizione trascendentale della coscienza, e questa molteplicita'
implica l'alterita' come omogeneita' dell'uno con l'altro, che e'
altro rispetto all'uno ma e' soprattutto altro dell'uno,
e dunque a lui omogeneo. L'altro allora e' "[...] momento
essenziale della coscienza [...], e' l'altro io, cioe'
l'altro da me, ma come me, cioe', evidentemente, il puro tu [...] l'alterita'
[...] e' la stessa egoita', proprio in quanto moltiplicazione di
coscienza. [...] Questa alterita' sempre afferma chi dice io, il
quale, cio' dicendo, anche trascendentalmente, si distingue, senza
per questo separarsi assolutamente, da un chi che riconosce
di fronte a se', e non da un che che riconosca assolutamente
eterogeneo e fuori di se'. Con questo chi egli afferma una relazione
reciproca, con la quale soltanto attua l'egoita'."[44],
ossia l'Io penso. Cosi', la soggettivita' e' per Carabellese
alterita', e l'alterita' e' soggettivita': l'altro e' l'altro
soggetto come me. Cio' implica la relativita' della soggettivita',
ma anche la reciproca coimplicanza dei soggetti che si implicano a
vicenda, l'un l'altro: "Chi dice io, vuol proprio distinguersi
dall'altro io cui dice tu, il che vuol dire proprio riconoscerlo
come io, e tutt'altro che un falso io messo da me come tale. [...]
Per l'io invece e' proprio necessitante il tu, cioe' l'altro io, col
quale egli e' in rapporto di reciprocita'."[45]. Cio' significa che l'"io non puo'
essere unico"[46], ossia che la soggettivita' e' sempre pluralita',
molteplicita', relazione, relativita', ed e' proprio in quanto
molteplicita' che e' condizione della coscienza.
Carabellese distingue tra alterita' e diversita' o
estraneita', questa appartenente all'oggetto, quella alla
molteplicita' dei soggetti che si riconoscono "altri io" e
dunque come me, ossia tu: l'alterita' che ogni io costituisce per
ogni altro implica la reciprocita': ogni soggetto e' io per se
stesso e tu per ogni altro, io e tu sono termini correlativi che si
richiedono a vicenda, e dunque sono per Carabellese cooriginari. La
singolarita' soggettiva e' pertanto sempre una singolarita' plurale,
che implica tanti io come me. In questa visione carabellesiana della
singolarita' cone pluralita' soggettiva, in cui e' insita una forte
spinta etica - Carabellese vuol salvare la dignita' della
soggettivita' empirica - trapela l'ottirismo della comunicazione
spirituale tra gli uomini e la necessita' di negare a Dio
l'attributo dell'alterita' che lo condurrebbe alla personalità[47]. Questo chiarisce la negazione a Dio della personalità,
in quanto lo ridurrebbe a persona come me: "Esso
sarebbe, si', trascendente relativo di fronte a me, ma anche io
sarei trascendente relativo di fronte a Lui. [...] E quando Dio
fosse in questo rapporto con gli altri soggetti, in
che cosa mai si differenzierebbe questo rapporto da quello
che corre tra i soggetti singolari? [...] Per dare a Dio una
personalita' distinta, l'avremo perduto come Dio, invece di
guadagnarne la trascendenza."[48]. La trascendenza di Dio come Persona e' per
Carabellese una questione di fatto che si ritrova nelle religioni
positive, e non una questione di diritto che procede dall'essenza
della religione, essenza che importa invece l'immanenza di Dio come
Unico nella coscienza dei singoli soggetti e la trascendenza di Dio
come Principio. 7. Creazione e Rivelazione di Dio
secondo Carabellese Se Carabellese rifiuta esplicitamente il concetto della Rivelazione
intesa secondo il Vecchio Testamento di una presenza personale di
Dio che si manifesta a Mosè, nonché la negazione di una creazione
avvenuta una sola volta all'inizio dei tempi, mentre si può
affermare che Carabellese segua piuttosto l'ortodossia cristiana del
Nuovo Testamento di una manifestazione personale e storica di Dio
agli uomini nella figura di Cristo, e che dunque per lui la
Rivelazione sia quella di Cristo. E' possibile però affermare che
Carabellese ha una
visione duplice del concetto di rivelazione: per un verso essa è la
Rivelazione di Cristo, specificatamente teologica in senso
dottrinario, per l'altro essa si collega al concetto di creazione ed
è specificatamente filosofica: il concetto di una rivelazione
naturale di Dio come miracolo continuo che sostiene l'essere. In
nessuno dei due casi però si tratta della Rivelazione di Dio del
Vecchio Testamento, ossia di una rivelazione personale che vede Dio
che si rivela a degli uomini specifici in un momento preciso, e
unico, dello spazio e del tempo, così come in nessun caso si
tratta, lo ripetiamo, della creazione del Vecchio Testamento come
evento irripetibile avvenuto una sola volta. Il concetto di una
rivelazione continua di Dio invece - non come manifestazione
personale unica ma come manifestazione continua che è un venire
all'essere dell'Essere in sé che
è Dio -, concetto che è possibile evincere da alcuni passi della
sua opera, Carabellese una sola volta lo palesa in modo esplicito:
"[...] questa immanenza di Dio nell'universo, immanenza per la
quale il cosiddetto creato diventa una continua creazione, e quindi
una manifestazione della sua divinità. Ma appunto perciò essa
coscienza filosofica è in conflitto con la stabilitasi coscienza
religiosa cattolica [...]. La religione quindi rimprovera alla
filosofia il suo immanentismo come una effettiva negazione di Dio,
giacché il Dio o è quello che si adora, religiosamente, o
non è."[49], laddove è da notare anche la profonda
consapevolezza che Carebellese nutre per i motivi scatenanti che
conducono alcuni critici cattolici ad opporglisi. Anche l'implicita
accettazione carabellesiana di una rivelazione naturale che si
compie continuamente come un miracolo continuo
nella eterna esplicazione di Dio come Coscienza concreta non
poteva infatti che contribuire ad attirargli l'ostilità di quella
parte della cultura cattolica che meno era pronta ad accogliere un
moderno concetto di rivelazione. Questo secondo concetto di
Rivelazione, di stampo prettamente filosofico, Carabellese lo
condivide tra gli altri con Karl Jaspers, che affermava essere la
Rivelazione ecclesiastica dogmatica e inaccettabile per un pensiero
critico, sebbene, come abbiamo ricordato, non solo Teodorico
Moretti-Costanzi[50]
e Ornella Nobile Ventura [51]
rilevassero che la teologia ortodossa ha sempre attribuito la
personalita' a Dio soltanto analogicamente. Del rischio di panteismo cui è soggetta la concezione
carabellesiana di Dio, pur nella sua modernità, ancora una volta
Carabellese è consapevole, che secondo lui deriva dal non aver
rettamente compreso né il suo concetto di Dio, né il suo concetto
di Concreto, e dal rimanere ancorati a una visione dualistica e
perciò realistica della realtà: "Contro tale [mia]
affermazione della unicità assoluta (cioè non singolare, non
numerica) e della immanenza essenziale di Dio nell'universo, sta lo
spavento del panteismo che è in essa implicito. Si crede che
cadendo nel panteismo, si cada in una dottrina assurda, immorale,
irreligiosa. Questo spavento nasce dall'innestare la concezione
panteistica su una concezione dualistica della realtà: materia e
spirito, natura e sopranatura. Il panteismo di Spinoza, [...] di
Fichte [...] dell'Hegel, [...] ha [...] sempre a fondamento
l'antitesi eesere-pensiero, cioè conserva ancora le tracce della
concezione dualistica della realtà. [...] Quando invece questo
dualismo abbiamo superato, entrando appieno nella concreta
coscienza, il panteismo [...] soddisfa le esigenze di ogni forma
della concretezza. Nella stessa religione non v'ha nulla di
costitutivo ed essenziale ad essa che si opponga all'accettazione
del panteismo. L'ostacolo viene da stereotipate credenze dottrinarie
e dalla morta lettera della legge, che non sono certo la vita della
religione. [...] Dio, la spiritualità unica, assoluta, infinita,
non è senz'altro lo stesso concreto. L'immanenza non è
concretezza. Il non essere, Dio, fuori del concreto non vuol dire
che sia il concreto stesso [...]."[52]
8. Carabellese di fronte alle prove dell'esistenza di Dio Il concetto carabellesiano di Dio, afferma Carabellese[53],
non e' il concetto tradizionale religioso di Dio, che e' realistico,
in quanto attribuisce a Dio un'esistenza personalistica che la
religione chiede alla filosofia di sostenere attraverso le prove
dell'esistenza di Dio e che la religione crede si sia rivelata
storicamente e manifestata direttamente, come il Vecchio Testamento
attesta. Ma e' corretto dire, come sembra fare Carabellese, che il
problema di Dio e' stato limitato al campo della religione, e che il
problema teologico e il problema religioso si identificano? Non e'
attraverso tutta la storia della filosofia invece rintracciabile una
ricerca di Dio, un problema teologico che non si identifica con la
religione ? Questa identificazione e' infatti certamente possibile
solo al livello della coscienza comune, mentre invece nel campo
specialistico della filosofia si ritrova tutto un filone della
ricerca - di cui anche Carabellese fa parte - che sicuramente ha
dovuto fare di volta in volta i conti con la riflessione religiosa strictu
sensu, ma che appunto percio' non e' ad essa assimilabile
perche' anzi le si oppone e le si e' posta di fronte da posizioni
anche molto critiche. In quest'ambito puo' senz'altro trovare posto
anche la riflessione di Carabellese perche' omogenea ad altre tutte
tendenti nella sostanza a stabilire una distinzione tra il Dio della
filosofia e il Dio della religione, sebbene non sempre i due
concetti di Dio sono nettamente separabili, come mostra appunto la
ricerca delle prove dell'esistenza di Dio da parte della filosofia -
che si protrae ben oltre la Scolastica almeno sino al Kant della Critica
della Ragion pura e poi a Hegel -. Ma la particolarita' della
posizione di Carabellese risiede nel fatto che per lui il problema
di Dio non e' un problema tra altri della filosofia, bensi' il
problema della filosofia, che da un lato fa divenire il Dio della
filosofia il problema sommo della filosofia, dall'altro lo
considiera sostanza spirituale onnipervasiva della realta'. Ma Dio e' problema sommo della filosofia la cui soluzione per
Carabellese non puo' venire dall'esperienza empirica perche' anzi la
filosofia non si fonda ma fonda questo tipo di esperienza, motivo
per cui Carabellese respinge le prove
a posteriori e salva la sola prova a priori, pur nella sua
critica alle prove razionali dell'esistenza di Dio, perché,
afferma, "Bisogna porsi di slancio nell'Infinito[...]."[54],
ma non, come vuole il misticismo, nella negazione della mia
esistenza per l'affermazione dell'esistenza di Dio, che e' ancora
per Carabellese una posizione realistica. Escluse dunque le prove a posteriori dell'esistenza di Dio perche'
non dotate di carattere filosofico in quanto la filosofia
kantianamente non puo' fondarsi ma anzi deve fondare l'esperienza,
Carabellese conserva valore alla sola prova ontologica in quanto
prova a priori, ma ne dà una nuova impostazione e una nuova
interpretazione[55]. Il
valore della prova ontologica non puo' risiedere infatti nella forma
tradizionale di prova dell'esistenza di Dio perche' abbiamo visto
che per Carabellese Dio non esiste nel senso convenzionale del
termine, essendo anzi l'essere in se' immanente in ogni esistente.
Carabellese considera la prova ontologica come prova del valore non
soltanto rappresentativo ma appunto metafisico dell'Idea di Dio, e
la trasforma da idea di Dio in Idea-Dio. La prova
ontologica deve essere non prova dell'esistenza di Dio, ma
dell'essere Dio Idea assoluta e come tale Oggetto puro della
coscienza soggettiva, "[...] Idea assoluta, che non rappresenta
piu' Dio, solo perche' non e' piu' rappresentazione, ma Dio
stesso."[56].
Carabellese cosi' oltrepassa consapevolmente il confine tra
gnoseologismo e ontologismo, perche' rimanere nella separazione tra
essere e pensare e' rendere impossibile o almeno misterioso il
rapporto, in quanto "[...] l'idea non sara' mai ne' la cosa ne'
della cosa [...]"[57]: è necessario escludere dunque la separazione
tra idea e realta', anzi affermare l'immanenza, ed escludere la
rappresentazione, ossia il valore non ontologico ma gnoseologico
dell'idea. In tal modo il difetto dell'argomento ontologico non era quello
tradizionale del passaggio indebito dall'idea alla realta', ma anzi
proprio quello di voler attribuire a Dio la realta' nel senso
dell'esistenza, dal momento che invece per Carabellese Dio e' Idea,
ma dotata di valore metafisico, e quindi il passaggio dall'idea alla
realtà è intrinseco ed essenziale alla prova stessa, e non
surrettizio. Il nucleo dell'argomento ontologico consiste per
Carabellese nel negare la singolarita' e rappresentativita' di Dio e
nell'affermare che il sapere non si limita al rappresentare, ossia
che il rappresentare è una forma del sapere, ma appunto una tra
le forme del sapere stesso[58]. Per Carabellese - e qui si vede piu' chiaro il suo consapevole
passaggio dal piano gnoseologico al piano metafisico - la soluzione
del problema dell'oggetto e dell'oggettivita' richiede infatti
l'abbandono del piano gnoseologico della conoscenza e il passaggio
al piano ontologico della coscienza[59].
Quc si innesta un altro dei numerosi richiami che Carabellese fa
alla filosofia di Kant. E' infatti di Kant la riaffermazione di Dio
come idea immanente alla coscienza del soggetto, riaffermazione che
Carabellese vede già insita nella prova ontologica di S. Anselmo,
così come da lui reinterpretata.
Solo quando si individua nell'oggetto Dio e ci si pone dunque su di
un piano metafisico, si puo' comprendere appieno "[...] la
duplice presentazione kantiana di Dio come noumeno e quindi idea da
una parte, e cosa in
se' inconoscibile dall'altra. [...] L'Idea pur inconoscibile vi e'
presente [...] ma non si risolve mai del tutto in un concetto. [...]
E percio' il concetto non e' autoconcetto. La confusione dell'idea
col concetto e' stata una delle piu' gravi che l'idealiomo
post-kantiano abbia fatta [...]"[60]. L'Assoluto
non e' per Carabellese l'opposto del relativo, ma il principio
immanente in questo, che non e' da questo mai esaurito appunto
perche' ne e' principio implicito immanente alla coscienza,
immanenza che e' "[...] la coscienza soggettiva di
Dio."[61].
Quali sono i passaggi attraverso i quali Carabellese giunge ad
affermare che Dio e' Idea in senso ontologico? Dio, in quanto
Oggetto puro della coscienza, e' assoluta Idea nel senso di essere
"[...] Idea costitutiva di ogni mente, [...] tolta la quale e'
tolto il pensare."[62]. Per
cui Carabellese riprende Anselmo nel definire chi non crede in Dio insipiens:
"Io penso, dunque affermo Dio; se tu neghi Dio, non pensi. Ecco
l'argomento ontologico nella sua forma positiva e in quella
negativa."[63]. Ma questo affermare Dio non si limita al
pensiero, ossia l'idea di Dio non ha carattere rappresentativo ma
costitutivo della coscienza del soggetto, perche' anzi Dio e'
l'oggettività della coscienza stessa, infatti: "Questa forma
dell'argomento presuppone il problema di Dio come il problema stesso
dell'oggettivita' della coscienza, come il problema stesso
dell'essere in se'. [...] Il problema di Dio, posto nell'argomento
ontologico (ineliminabilita' di Dio dal pensiero),
si chiarisce come il problema stesso dell'essere in se'
(immanenza dell'Assoluto nel concreto) [...] Essere e Idea che si
confermano a vicenda perche' sono unum et idem. L'argomento
ontologico e' la scoperta esplicita dell'immanenza di Dio come
oggetto della coscienza [...]."[64]. 9. Dio come Coscienza Cosi' non soltanto io ho coscienza di Dio a priori, ma anche Dio e'
Coscienza, Dio e' la Coscienza: questa e' affermazione
articolata che Carabellese fa a proposito della polemica con P.
Lombardi, che inizialmente non nomina nemmeno, sulla rivista "Civilta'
cattolica"[65].
Cio' che Carabellese nega e' non che Dio sia soggetto,
ma che sia uno tra altri soggetti, anche se occorre dire che
la cultura cattolica non ha mai affermato che Dio sia uno tra altri
soggetti: "Il vero è che è anche inesatto dire che io
<<neghi la soggettività di Dio>> o dica <<Dio non
è, in modo alcuno, soggetto>>."[66]
Il problema della soggettivita' di Dio e' problema
controverso poiche' ammetterne la soggettivita' significa al tempo
stesso limitarlo e giustificare, o almeno rendere possibile, il male
come presenza, e il dualismo tra Civitas Dei e Civitas
Diaboli con tutto cio' che ne consegue. Carabellese, almeno
implicitamente cosciente di cio', infatti vuole affermare,
nell'essere Dio Tutto-Coscienza, il suo comprendere in senso
letterale, appunto come Tutto-Coocienza, sia il Bene che il Male, e
dunque il suo esserne consapevole. Cio' siqnifica dire pero' che
oltre e piu' in alto del Dio della religione c'e' un altro Dio, il
vero Dio, che e' l'Idea implicita in tutte le religioni e in tutte
le forme di religiosita'. In questo senso Carabellese e' detto ed e'
metafisico laico: laico perche' non crede in una religione
particolare, nella religione cattolica, metafisico perche' comunque
e sempre crede in Dio: in un Dio superiore che concilia, ma che pure
è consapevole come Coscienza sia del Bene che del Male: "Se
neghiamo nell'Oggetto la consapevolezza perché Oggetto (e cioè
Principio) di coscienza, a maggior ragione dobbiamo negarla nei
soggetti perché soggetti (e cioè termini) di coscienza. Non si può
dire quindi: Dio non è consapevole [...]".[67]
E nello stesso luogo piu' avanti dà altri elementi per definire in che modo intende la soggettività di Dio in quanto Principio soggetto-oggettivo: "Questo escludere, che il Principio assoluto dei soggetti che sarebbe così principiato, visto positivamente è riconoscerne l'oggettività. La quale perciò non è negazione della soggettività. [...] chiedere che Dio sia un soggetto, perché sia consapevole, è ignorare senz'altro tutta l'esigenza di concretezza della coscienza. Ed è quindi: o ridurre Dio ad un soggetto tra gli altri e quindi negarlo come Dio [...] o ammettere [...] una duplice coscienza, quella con cui sa Dio, e quella con cui so io. Ora questa duplicità è sempre tolta nello stesso momento in cui la si ammette; giacché l'affermazione della coscienza di Dio è fatta da una coscienza che non è quella di Dio, ma la mia. E quindi, se non voglio entrare nella concretezza di coscienza, che richiede Dio principio intrinseco e percio' oggettivo, di ogni soggetto affermante [...]."[68], l'alternativa e' "[...] negare ogni possibile comunione o relazione della coscienza di Dio con la mia. E percio', fuori della concretezza di coscienza, se si vuol salvare Dio da quella relativita' di coscienza [...] si deve negare in me l'affermazione di Lui [...] anche ogni fede in Dio."[69]. 10. Cristianesimo e cattolicesimo: la posizione di Carabellese di fronte all'attualismo gentiliano
Ma se si vuole avere un quadro veramente chiaro dell'impostazione
che Carabellese dà al problema di Dio e della distanza che egli
intende lasciare intercorrere tra lui e il neoidealismo italiano a
lui coevo da una parte e la cultura cattolica dall'altra, bisogna
soffermarsi su di un piccolo saggio tardo nel quale Carabellese si
confronta con Gentile sul piano non più dell'interpretazione di
Rosmini che aveva caratterizzato il loro primo scambio teoretico,
bensì su quello della differenza tra Cristianesimo e cattolicesimo.
Infatti nell'approfondita analisi della Cattolicità
dell'attualismo[70],
torna prepotentemente in luce tutto il bagaglio di conoscenze
teologiche risalenti agli anni della sua formazione giovanile,
filtrato pero' da una strumentazione critica che, segnando il suo
consapevole distacco dalla dottrina cattolica, ci consente di aprire
squarci illuminanti sulla sua concezione di Dio, in un rapporto
dialettico con l'attualismo gentiliano che Carabellese instaura
attraversando tutte le principali opere di Gentile, in particolare Teoria
generale dello spirito come atto puro del 1916, considerata
"l'acme, il resto e' applicazione e conseguenza"[71].
Attualismo nel quale alle convergenze tacitamente evidenziate si
alternano i motivi di dissenso, di distacco e di critica pacatamente
ma lucidamente tracciati. Soffermarci su questo ricchissimo e
importante saggio puo' percio' essere utile sotto diversi aspetti -
tutti quelli sopra indicati ma anche altri -, a partire dalla
notazione filologico-concettuale che qui Carabellese non parla piu'
di Dio in termini di Oggetto puro di coscienza dei soggetti, ma, dal
punto di vista psicologico-soggettivo - del livello ontologico
parleremo poi - indica il rapporto del soggetto verso Dio come un
rapporto di fede - riprendendo quindi argomentazioni gia' svolte
seppure in forma lievemente accennata -, in apparente consonanza con
la dottrina cattolica, ma in realta' evidenziando soltanto il tratto
caratteristico di qualunque forma di religiosita' e che costituisce
per lui l'elemento soggettivo apriorico di una visione ben più
complessa. La tesi sostenuta e' che l'attualismo gentiliano non solo sia
profondamente cattolico, ma che anzi costituisca "la piu'
coerente concezione complessiva della dottrina cattolica", il
tentativo piu' fecondo di traduzione dei fondamenti della dottrina
cattolica in termini concettuali, ma soprattutto il piu' coerente
esempio di laicizzazione della dottrina ecclesiastica, ossia di
risoluzione della dottrina della Chiesa in dottrina pura e semplice,
al punto che "Nonostante lo storicismo, l'immanentismo,
l'umanismo (i tre scandali cattolici dell'attualismo), la dottrina
dell'atto puro e' [sottolin. mia] la dottrina del
cattolicesimo, quale questa puo' essere pensata oggi [sottolin.
mia] dal filosofo [...]."[72].
Dunque secondo Carabellese, si potrebbe dedurre, questa
laicizzazione, questa traduzione della dottrina della Chiesa in
dottrina pura e semplice - in filosofia - e' operata da Gentile, si
badi bene, non per negarla né per svilirla, ma per mostrarne l'imprescindibilità
anche fuori dell'universo dei cattolici strictu sensu, ossia
coloro che comunque si professano già tali, dunque per darle nuova
linfa nell'incontro col mondo laico della politica e della società,
incontro che tra l'altro si inserisce, fa notare tra le righe
Carabellese, nella scia di quell'ecumenismo e di quell'apostolato
che la Chiesa cattolica esorta nei suoi fedeli e di quella mai
sopita "traduzione della dottrina in istituzione" e,
Carabellese non lo dice ma lo lascia intendere, voglia di potere
sulle coscienze. Carabellese inizia la propria argomentazione con l'analisi della
figura del Dio cattolico: creatore e creatore "di me" sono
i due fondamenti della dottrina cattolica - tutti gli altri, offerma,
il Dio crocifisso, la Madonna, la Rivelazione, la vita futura, ecc.,
sono secondari per il cattolicesimo, anche se "pilastri in
confronto di altre costruzioni" - che rimandano a una visione
personalistica di Dio il cui modello è l'io: noi attribuiamo a Dio
il carattere di Persona in analogia all'io, che di quel carattere è
il presupposto e "l'ultimo insuperabile significato". Ora, sebbene, come sappiamo, Carabellese si opponga fermamente a
questa riduzione di Dio a persona, pure sottolinea, ribadendo che i
due "distinti" Dio e io sono necessariamente connessi, che
non si può prescindere
dal presupposto Dio senza negare contemporaneamente anche l'io: la
critica velatamente esplicita è al naturalismo, che ha ridotto l'io
ad un quid naturale-psichico, e all'idealismo soggettivo,
oltre che all'attualismo, che secondo Carabellese al posto di Dio ha
messo l'Io come presupposto. Vorremmo ricordare qui che Carabellese
invece considera l'Io una figura soggettiva che si inserisce
ne L'Essere. Questo rapporto diretto tra Dio e l'io, questa inscindibilità,
segna per Carabellese il distacco tra il Cristianesimo, e in
particolare il cattolicesimo, e l'ebraismo: mentre ad ambedue,
cattolicesimo ed ebraismo, è comune il concetto di Dio creatore del
mondo e dell'uomo, e Signore del popolo eletto, al cattolicesimo ciò
non è sufficiente, perché vi aggiunge che l'uomo in questione non
è l'uomo in generale, o meglio l'uomo naturale-psichico, ma l'io
come spiritualità, l'io spirito pensante, il quale, in quanto
peccatore, viene redento dalla figura di Gesù. A questi concetti fondamentali che il Cristianesimo aggiunge
all'ebraismo distaccandosene - la affermazione
dello spirito e la redenzione dal peccato da parte di
Cristo - se ne affianca un altro altrettanto importante, e
cioè che mentre nell'ebraismo la creazione è un momento posteriore
rispetto al Creatore, nel Cristianesimo l'atto della creazione è
l'atto stesso del pensare, e quindi è l'atto di una creazione
continua che è anche creazione di me, me nel duplice senso di
creatura e creatore, spirito e Spirito, io e Dio. Esplicita infatti
Carabellese alla fine del saggio: "Questa redenzione
dall'originario peccato di me uomo (sostituzione della mia finitezza
di uomo creato alla infinitezza di Me creatore) questa redenzione
che il logo concreto, che è l'Uomo-Dio, fa eternamente, io uomo,
vivente la mia vita che è il mio creare [sottolin. mia], non
posso e non devo raggiungere che vivendo, vivendo attivamente."[73]. Qui diviene chiaro in che senso Carabellese
parli di rapporto diretto tra Dio e io sia come rapporto tra
Principio e termini sia come rapporto tra Oggetto e soggetto, di
inscindibilità che si attua nel pensiero: per il Cristianesimo, cui
Carabellese aderisce con tutto se stesso, sul piano soggettivo, nel
momento stesso in cui si pensa, si attua il pensiero di Dio, e
nell'attuarlo, non soltanto io creo me stesso, ma sul piano
dell'Essere, si attua l'essere come creazione continua. Ma questa
citazione è importante anche perché apre squarci sulla concezione
che Carabellese stava preparandosi a stendere e che ha trovato una
prima espressione in L'attività spirituale umana. Prime linee di
una logica dell'Essere: la logica dell'Essere, incarnata
nell'Uomo-Dio, Cristo, che è il logo concreto, è una logica che
richiede anche l'attiva creazione della vita come
redenzione dal peccato originale che solo attraverso Cristo è
possibile. La creazione del Cristianesimo è una creazione continua, che
riguarda l'Essere ma che riguarda, nell'Essere, anche Me come Io,
Dio creatore: "La creazione, fintantoché riguardava soltanto,
come nell'ebraismo, il mondo e l'uomo, poteva anche esser concepita
come momento posteriore al pensare di Me, Dio creatore (Leibniz), ma
quando essa, per l'esigenza che il cattolicesimo eredita da Cristo,
riguarda anche me pensante (credente), essa non può non essere
l'atto stesso del pensare. Il Cristianesimo quindi, con
l'introduzione di me pensante anche come creatura, oltre che come
Creatore, richiede necessariamente il riconoscimento dell'atto
creativo come l'atto di pensiero, l'atto puro
gentiliano. [...] L'atto puro creativo del dogma cattolico
richiede che Io, Iddio creatore, crei me, soggetto
creato."[74].
L'attualismo gentiliano è per Carabellese "la prima esplicita
[sottolin. mia] messa a punto dell'atto creativo cattolico
[sottolin. mia]", liddove è da notare quell'esplicitezza che
evidentemente nel cattolicesimo era sino a quel momento implicita. A
questo proposito della creazione del me da parte dell'Io, della
creatura da parte del Creatore che Gentile traduce dai termini
analogici e mitici del
cattolicesimo agli espliciti termini concettuali della filosofia,
Carabellese ricorre al termine gentiliano di autoctisi, cioè
atto dell'autocoscienza come processo interiore e libero col quale
l'io pone se stesso, e sottolinea la differenza con la sintesi
ebraica - il riferimento a Hegel e Fichte è esplicito, come pure è
riportato a questa differenza e alla sostituzione dell'Idea col Me
l'allontanamento di Gentile da Hegel - che non solo implica i
termini da sintetizzare antecedentemente alla sintesi stessa, ma non
è un atto di creazione, ossia un atto puro che non è e non ha
un'essenza: il Dio cattolico è, come l'io, atto puro creativo senza
essere e senza essenza, perciò continuo. La sintesi invece, secondo Carabellese, è un portato dell'ebraismo
come creazione del mondo e delle "cose di natura", e non
di me essere pensante spirituale, ed è trapassata nel
protestantesimo tedesco attraverso Paolo, e cioè attraverso un
cristianesimo non puro ma inficiato dall'ebraismo di Paolo, che
dalla legge di fede da Gesù predicata e vissuta, volle tornare alla
fede di legge, ossia volle sostituire ad un credo basato sulla
fiducia e dunque sul rispetto un credo basato su una norma il cui
fondamento secondo Carabellese non era etico ma puramente esteriore.
Questo protestantesimo tedesco, inpregnato più di ebraismo che di
cristianesimo, ha secondo Carabellese prodotto in campo filosofico
la sintesi, che pervade il pensiero tedesco da Leibniz a Hegel, come
traduzione concettuale della creazione del mondo ebraica e non della
creazione di me essere pensante e spirituale
propria del pensiero cattolico e che ha trovato espressione
nell'autoctisi gentiliana. Tutta questa analisi carabellesiana, nella quale ripetiamo
riaffiorano i suoi studi teologici ma criticamente utilizzati nella
direzione di una riconciliazione attualissima tra ebraismo e
cattolicesimo a partire dal Cristianesimo, mira da un lato a
salvaguardare ancora una volta la soggettività dall'appiattimento e
dalla svalutazione cui secondo lui era sottoposta nell'idealismo
tedesco, e a valorizzarla in termini cristiani di spiritualità e
coscienza, dall'altro, come Carabellese esplicita, a stabilire
l'inscindibilità del rapporto tra gli spiriti infiniti e lo Spirito
infinito, spiriti che contro quello che secondo Carabellese è il
cattolicesimo di Gentile sono infiniti
dal momento che "[...] la spiritualità (cioè [...]
essere di coscienza puro) o è tale e non ha limiti, o è limitata e
non è spiritualità [...]"[75]
per cui "Parlare [come fanno Gentile e il cattolicesimo]
di spiriti finiti, separandoli, come positive entità sostanziali,
dallo spirito infinito è non sapere quello che si dice [...]."[76].
Gli spiriti non possono essere finiti per Carabellese perché non
sono creazioni del Dio
creatore, il Dio Creatore di Me creatura, l'Io,
ma pensieri del Dio Idea, ossia pensieri dell'essenza, del
Centro, dell'Essere. Ciò significa che per Carabellese in questa fase del suo pensiero,
e in ciò si allinea a Gentile e a quella che Carabellese considera
la sua traduzione concettuale della dottrina cattolica, lo Spirito
avvolge tutto, è Tutto come eterna autocreazione infinita di cui
gli spiriti sono parti
non separate e non separabili in senso sostanziale. Ma Carabellese
critica del cattolicesimo l'idea che gli spiriti siano finiti, e
afferma invece che sono veramente infiniti, anche se poi ad un altro
livello dell'Essere parlerà di Dio come Principio e degli io
plurimi come suoi termini. Carabellese non trova pienamente
esaustiva questa concezione dell'atto creativo come autocreazione
perché deifica il soggetto comportando che Dio sia Soggetto e non
Idea, come rivela in questa frase: "Se non si trova
soddisfacente questa conciliazione attualistica dell'infinitezza
creatrice dello spirito anche se umano con la creaturalità
dell'uomo anche se spirito, bisogna cercarne un'altra che soddisfi,
o bisogna abbandonare uno di tali contrastanti caratteri. E non potrà
certo essere abbandonata la infinitezza."[77].
Dunque un'altra soluzione, non conciliatoria tra infinitezza
e creaturalità, una soluzione che, se non vuole
abbandonare la
creaturalità intesa come me creato, deve porla su di un piano
diverso dell'Essere. Ma quale soluzione? Qui Carabellese non lo
dice, mentre invece chiarisce il concetto della creaturalità nel
proseguire analizzando l'altro concetto della soggettività proprio
della dottrina cattolica, il primo essendo quello di me spirito
pensante creatore oltre che creato: il concetto di me peccatore
redento, che l'attualismo gentiliano secondo Carabellese traduce nei
termini dell'errore (e della sua correzione) come negazione del
divenire di me creatore di me stesso e come vivere meramente
creaturale, ossia statico - il che significa, ricordiamo, secondo
quella che Carabellese considera la traduzione gentiliana della
dottrina cattolica, dotato di essenza sostanziale. Errore allora,
cioè peccato mortale, è scindere il me creatura dal me creatore,
vivermi staticamente come mero creato dotato di essenza e rinunciare
pertanto alla mia creatività e alla mia libertà, optando per una
"morte di me pensante" alla quale non è possibile opporre
alcun'altra redenzione, soluzione, correzione che dentro di me,
"Dio creatore"[78],
attraverso la coscienza immanente dell'errore stesso e il
superamento di una "radicale infrazione della legge della
creazione di me" che è anche contemporaneamente negazione di
Dio e dunque peccato contro di Lui: "Il peccato primo,
fondamentale, è il limite (io creato) dell'Illimitabile (Io
creatore) [...]"[79],
ma è un peccato inevitabile come inevitabile è la redenzione,
ambedue intrinseci alla creazione, perché questa si basa sulla
libertà e di me creatura (limite)
e di me creatore (abbattimento del limite e salita all'Illimitato).
Ma se errore e sua correzione sono inevitabili, allora in realtà
per Gentile, dice Carabellese, non c'è errore, perché errore
"[...] è, virtualmente, ogni pensato in quanto tale."[80],
ossia ogni oggettivazione, ogni "stato", anche "la
verità, il valore, Dio", perché, non più inseriti nel
processo del Dio creatore, divengono mere immagini, identità
determinate e perciò statiche nature, non più "attualità"
spirituali viventi e pulsanti perché scisse dalla logica dialettica
della contraddizione, anche se ricordiamo, Carabellese in tutti gli
altri suoi scritti si pronuncia molto criticamente riguardo alla
logica del contraddittorio perché la vede scissa dal reale. Ma, volendo tralasciare questo spostamento di piano, c'è da
sottolineare l'assenza nell'analisi carabellesiana se non
nell'argomentazione gentiliana che andrebbe verificata, degli altri
io creatori, che, come comunità nella comunicazione, possono certo
non redimere, perché l'errore e il peccato restano individuali come
la scelta e la responsabilità di averli commessi, ma forse, se non
illuminare dal di fuori, o suggerire, aiutare agendo. D'altronde, come sottolinea bene Carabellese, l'attualismo
gentiliano è una filosofia attivistica che si oppone ad ogni
teoreticismo sia pure filosofico: la storia è sì opera umana, ma
come dice Carabellese citando Gentile, "[...] non è nel tempo,
ma nel pensiero ... è ideale ed eterna [...]"[81]
e lo "[...] storicismo [...] è coscienza energica
dell'immanente carattere dell'unico processo storico, che è l'atto
spirituale [...]"[82],
il quale, qui parla
Carabellese, "[...] è l'atto creativo che è Dio, atto
costitutivo della persona Dio (Io) [...] atto che sono Io Dio in
quanto creo me uomo, il puro logo giovanneo nella sua specificazione
nettamente cristiana e contraddistinguente il cattolicesimo
dall'ebraismo, della creazione di me credente, cioè spirito
pensante. [...] Alla morte [...] non crede nessuno dei pensanti, e
tanto meno vi credeva Gentile [...] eminentemente cattolico."[83]. Se allora qui per storia non si intende solamente la res gestae,
la storia degli uomini, ma la storia dell'Essere, allora la storia,
questa storia, è attiva rivelazione continua ed eterna di Dio, atto
creativo del quale noi in quanto spiriti pensanti partecipiamo, e
dunque questa storia connota il nostro essere oltre la morte. Ma,
giustamente si chiede Carabellese, in che senso oltre la morte? Se
nel senso dell'"acquietamento" cattolico, ciò è in
contraddizione con la concezione altrettanto cattolica dell'atto
puro creativo, della creatività come continuo movimento che
richiede invece, Carabellese non lo dice ma lo lascia sottintendere,
che l'apparente annullamento dello spirito al tempo della storia
umana (ossia la morte) sia invece un'immersione dello spirito
nell'eternità dell'atto creativo puro, e quindi un'ulteriore
creatività dello spirito. Ciò che qui non è chiaro, e Carabellese
non lo dice né per sé né riguardo a Gentile, e che abbisogna
perciò di un ulteriore approfondimento nel sistema metafisico
rispetto alla sua concezione della Coscienza come concreta
individuazione dei soggetti già analizzata da me in altro lavoro,
è da un lato il punto in cui si situa l'individuazione,
l'individualità, ossia il punto in cui
c'è una distinzione tra i diversi spiriti pensanti eterni,
in quanto io creatori che in questa creazione sono plurimi
dell'Io-Dio, nella conservazione di questa distinzione oltre la
morte, ossia nell'immortalità
creativa come individualità plurima dello Spirito eterno che
è Dio, e dall'altro lato a quale livello dell'Essere si situa la
distinzione tra l'Io-Dio, ossia Io spirito pensante eterno che creo
il me in un atto puro, Io creatore di me creatura, e Dio.
Consapevole dei limiti cristiani di questi interrogativi,
trovo il conforto di Carabellese, dal momento che, per quanto
egli parli di creazione continua e di spiriti pensanti eterni,
ciononostante permane nella distinzione tra Dio e Io per un verso,
tra Dio e i Termini per l'altro, in ciò segnando il punto di
rottura rispetto a Gentile, pur, o anzi proprio nella inscindibilità
del rapporto che lega gli elementi di tali distinzioni. Ciò detto, è ancora
da disegnare in che rapporto si trova la distinzione che sul piano
storico fa di me spirito creatore eterno di me stesso creatura,
nella sua immortalità, sul piano metafisico fa di Dio Spirito
creatore dell'essere: forse è, questa, concezione più ebraica e
dunque protestante (e idealistica), che cattolica, perché implica,
come fa notare Carabellese, un inizio, una creazione se non in
senso biblico, almeno in senso filosofico, e dunque una
concezione di Dio come Creatore che solo a partire dalla concezione
carabellesiana di Dio come Principio Assoluto o Idea non
contrasterebbe per un verso con l'eternità e l'infinità
dell'Essere, per l'altro con l'immortalità del soggetto, che per
essere sino in fondo coerente deve necessariamente includere, oltre
l'immortalità intesa come sopravvivenza oltre la morte, anche
l'immortalità intesa come previvenza prima della vita. Solo in
questo senso è possibile infatti parlare per Carabellese di vera
immortalità: un'immortalità che non ha limiti né confini né in
avanti né indietro nel tempo, perchè in Carabellese il tempo è
temporalità come durata eterna. Ma qui Carabellese si ferma, perche
conserva fino in fondo a Dio la denominazione di Principio, nello
stesso tempo restando ancorato al concetto veterotestamentario di
creazione nel tempo, e alla distinzione non solo tra Principio e
Termini, ma anche tra Principio ed Essere, che, sebbene demitizzata,
richiede e implica comunque un Principio che in quanto eterno come
la temporalità, deve essere concepito come il motore immobile
aristotelico interpretato come Idea. Si ripresenta cioè qui la
possibilità di concepire concettualmente una Coscienza come Tutto
all'interno della quale vi è un Centro, un Essere in sé spirituale
infinito ed eterno, e perchè spirituale in continuo divenire che
sia tutto centro nella sua infinitezza ed eternità. Tornando al problema dell'immortalità, Carabellese
pensa che vera immortalità c'è laddove si parla oltre che
di sopravvivenza anche di previvenza, che potrebbe essere intesa in
riferimento agli
spiriti infiniti predicati da alcuni scrittori cristiani delle
origini, come San Giustino, che parlava di preesistenza ed esistenze
future degli spiriti individuali (e quindi essere intesa anche in
riferimento alla metempsicosi presente nella cultura greca classica,
in alcune correnti della qabbalah ebraica ripresa dalla filosofia
occidentale moderna e rinascimentale e in alcune religioni
orientali). In realtà allora a me sembra che il rapporto di Carabellese col
cattolicesimo sia estremamente complesso non soltanto per motivi
biografici ma soprattutto per motivi teoretici: come si è cercato
via via di evidenziare lungo il corso dell'argomentazione, e come
certamente ci sarà modo di scoprire ancora, si può dire che tale
rapporto è conflittuale e irrisolto, ossia critico, e se da un lato
la matrice teologica, benché criticamente rivista, spinge anche
inconsapevolmente verso configurazioni concettuali vicine al
cattolicesimo, sì che appaiono, lo si ripete ancora una volta,
gratuite e superficiali le accuse di ateismo, dall'altro il disegno
etico prima ancora che teoretico di un'interpretazione conoscitiva
autonoma, ossia di un percorso di ricerca filosofica personale e non
dogmatico, produce teorizzazioni che appaiono, nella loro messa in
discussione critica e presa di distanza dal cattolicesimo stesso,
andare nella direzione di una conciliazione del cattolicesimo stesso
con altre forme di religiosità biblica. In sostanza si può dire
che Carabellese, pur non teorizzandolo esplicitamente, volesse in
realtà non una negazione del cattolicesimo ma un superamento dei
suoi aspetti più deteriori, vuoi politico-sociali vuoi più
schiettamente dottrinari e teologici (ed è in questo campo che
spende le sue energie filosofiche per mettere in luce, attraverso la
propria personale esperienza, quelli che secondo lui restano gli
imprescindibili avanzamenti e chiarificazioni, ma anche per lui
riappropriazioni, del credo cattolico). Carabellese non
si è posto mai, interiormente prima ancora che pubblicamente
attraverso i suoi scritti, fuori del cattolicesimo, e anche se non
ha consapevolmente voluto, come afferma di Gentile, tradurre
concettualmente in termini filosofici la dottrina cattolica, pure le
si è posto di fronte con atteggiamento filosofico critico ma
partecipe, indice di un conflitto profondo che non ha trovato
soluzione nel senso di una piena accettazione o di un netto rifiuto,
bensì in quella di un inserimento del cattolicesimo stesso in una
sintesi più elevata, la sua metafisica critica come sistema
dell'Essere che, non
confessionale, conferma il detto crociano che non possiamo non dirci
cristiani[84]
in una problematica che a nostro parere si situa all'interno di
un grande progetto comune alla Hegel[85]
che da un lato affonda le radici nella propria storia dall'altro la
rigenera trasformandola e superandola in progetto per il futuro, il
che significa che,
proprio partendo da un atteggiamento filosofico critico ma partecipe
verso la teologia cattolica di cui era intrisa la sua formazione, se
da un lato l'approccio critico non gli consentiva una traduzione
concettuale in termini
filosofici della dottrina cattolica, dall'altro però questa, che
non poteva appunto essere accettata in toto ma nemmeno
rinnegata e per storia e per esigenza etica, veniva rielaborata in
un tentativo di sistema cristiano, in un pensiero filosofico che
trova la sua ragion d'essere non nell'ambiguità di una mediazione
forse impossibile tra accettazione e rifiuto, ma nel superamento di
ambedue e nell'apertura verso una nuova forma di religione
sopraconfessionale che, oltrepassando i confini della religione
cattolica, da un lato si ponesse su quella linea sincretistica che
ne ha preservato della religione cattolica nei secoli la
sopravvivenza, e che oggi si evidenzia quale ecumenismo
improrogabile che lo rende attuale, e dall'altro, proponendosi come
filosofia, e dunque come religione razionale senza riti né culti
visibili nonostante la fede, fosse per un verso aperta, come più
volte Carabellese ha sottolineato, alla critica e dunque al
rinnovamento, per l'altro, proprio per il suo essere una filosofia
religiosa o una religione filosofica, in grado di dare nuova linfa,
pur o anzi proprio con le sue contraddizioni, a quei nani sulle
spalle dei giganti che noi tutti siamo, risvegliando e costringendo
a fare i conti, a confrontarci, con una parte di noi rimossa o
sottovalutata, talmente importante da costituire per taluni filosofi
il nucleo dell'identità filosofica: Carabellese parla di Oggetto
puro, Gentile di Io-Dio. L'ipotesi innerpretativa avanzata, in altre
parole, non si presenta come un aut-aut tra cattolicesimo e
cristianesimo, ma anzi illumina lati diversi di una personalità,
quella di Carabellese, necessariamente sfaccettata e pur sempre
umana. Dopo questa necessaria digressione per comprendere più dal di
dentro il filosofo Carabellese nel suo rapporto col cattolicesimo
anche alla luce della sua analisi dell'attualismo gentiliano, si può
ulteriormente mettere in luce la sua concezione di Dio a partire
dalle pagine couclusive del saggio sul quale tanto a lungo si è
ritenuto di doverci soffermare, pagine ove è messa tra l'altro
chiaramente in evidenza la distanza che separa il credente ingenuo,
cui basta la fede e l'"Idea", e colui il quale essendo
oltre che credente anche filosofo, "[...] è chiamato proprio a
tradurre in concetti questa Idea [...]"[86].
Questa traduzione in concetti dell'Idea Carabellese la progetta nel
suo sistema dell'Essere come traduzione in termini concettuali del
Cristianesimo in sistema, stabilendone in Cattolicità
dell'attualismo i confini: "E' tempo che si sani sia il
difetto dell'essere greco che del creare ebraico [...]. Questo
risanamento fu già sentito e indicato da Gesù nella intuizione e
valorizzazione di noi molti credenti: esigenza nuovissima
nella storia della coscienza; esigenza che[...] dalla posteriore
filosofia e teologia [...] fu subito perduta per il sopravvento che
presero sul cristianesimo la legge ebraica del Creatore unico, da
una parte, e la universalità greca, dall'altra, dell'unico
logo."[87]
Finalmente, dopo un rapporto fatto di comunanze e divergenze che
per la necessità di svolgere l'argomentazione non sono da
Carabellese portate mai fino in fondo a termine, ossia un rapporto
dialettico mai fatto di prese di posizione precise nelle quali si
stabilissero i confini tra attualismo, ontologismo e dottrina
cattolica, Carabellese prende le distanze da Gentile e sembra
rivendicare non al cattolicesimo (che per lui è sincretismo
dell'essere greco classico e del Dio Creatore e Legislatore e
Giudice ebraico con le Scritture neotestamentarie), ma al
Cristianesimo (e dunque alla figura di Gesù) lo status di
vera religione: egli si pone il problema, in Gentile secondo
quanto da lui espresso assente, della distinzione tra io e
Dio e rivendica inoltre, a partire da Gesù, l'esigenza delle
pluralità della coscienza, ossia della pluralità di esseri
spirituali pensanti che solo con l'apparizione di Gesù cessano di
essere meri peccatori sottoposti alla Legge - e pertanto al Dio
Legislatore e Giudice dell'ebraismo - per divenire persone,
soggetti. Così per il primo punto, quello della distinzione tra Dio
e io inteso sia come rapporto tra Principio e termini, sia come
rapporto tra soggetto e Oggetto, afferma che "[...] se io,
come persona, sono la fede stessa, [...] Dio, che
di tal fede è il Principio (è il Dio della fede, mentre io sono la
fede di Dio) non può essere persona spirituale senza che
[...] non si perda l'essere spirituale, del quale Dio è il
Principio unico, io sono il termine plurimo. Termine, non creatura,
io; Principio non creatore, Dio."[88]. In questo importante passo vi è la
distinzione, fondamentale per Carabellese, dell'io da Dio, e la
sottolineatura ancora una volta che Dio è non creatore ma Principio
- sebbene con le specificazioni che altrove nella nostra ricerca
abbiamo espresso su questo concetto -, e Principio non creatore
perché Carabellese non crede alla creazione né in senso ebraico né
spirituale, perché l'essere spirituale è eterno, ma crede alla
manifestazione dell'Essere e alla creazione nel senso della
rivelazione continua di Dio. Inoltre, pur nella distinzione tra Dio
e io, viene ribadito il rapporto inscindibile tra Dio Principio e i
suoi termini, che ci consente di collegarci al secondo punto, ossia
alla pluralità degli esseri spirituali pensanti che Carabellese
chiama persone e il cui riconoscimento, "[...] subito perduto
per il sopravvento che presero sul cristianesimo la legge ebraica
del Creatore unico, da una parte, e la universalità greca,
dall'altra, dell'unico logo."[89], si deve a Gesù, che ha scoperto "l'uomo,
l'uomo nella sua radicale pluralità." Ma il punto da mettere a fuoco, e che anche altra volta si è
sfiorato, e che segna forse la maggiore distanza tra Carabellese e
non più Gentile ma il cattolicesimo ortodosso, nonostante,
ripetiamo, le convergenze riscontrate, e che qui Carabellese rende
esplicito più che altrove nell'attacco senza mezzi teamini che
sferra alla teologia strictu sensu cattolica, consiste
nell'auspicare, ancora con accenti modernistici, che "[...]
bisogna che si abbia [...] una riforma o controriforma del
cattolisesimo [...]"[90],
e che la coscienza comune rompa "[...] la spessa scorza
teologica di un concettualismo filosofico senza fede [...]"[91]. Altro punto focale è che qui appare che per
Carabellese è l'essere spirituale eterno e infinito nella sua
molteplicità ad essere il vero primum, l'Essere, e che solo
a questo livello può parlarsi di panteismo, nel quale Dio Principio
e gli io plurimi, cioè i Termini, sono i due poli in
distinzione-relazione tra loro. Questa distinzione consente che Dio
sia trascendente rispetto agli io, ossia ai suoi termini, ma questa
trascendenza, che è qui relativa soltanto appunto agli io, sappiamo
essere relativa anche all'Io, anch'essa come distinzione-relazione.
Carabellese, nell'ultima complessa opera metafisica della sua vita, L'attività
spirituale umana. Prime linee di una logica dell'Essere[92],
nel riaffermare il Principio unico, Dio, si sofferma sull'attività
spirituale umana perché sorregge anch'essa l'Essere nel suo
attuarsi in divenire storico: qui allora il famoso antiumanesimo
carabellesiano, nell'ultima fase della sua vita, si comprenderebbe
appieno. Infatti antiumanesimo non significa esclusione dall'Essere
degli uomini, ma considerazione dell'attività spirituale umana come
attività di soggetti attivi che, anche sul piano umano, sorreggono
l'Essere attraverso il pensiero. Da un lato infatti, c'è la
Coscienza-Tutto, essere spirituale eterno e infinito nella sua
molteplicità, che parla, francescanamente, e che deve essere
soltanto interpretato con uno sforzo ermeneutico, dall'altro l'attività
spirituale umana in essa contenuta, che contribuisce a sostenere
l'Essere nella sua storicità in divenire con le azioni che compie
ma soprattutto con i pensieri che kantianamente (l'intenzionalità
dell'azione, il pensiero che vi è nascosto) guidano le azioni, e
non solo le guidano ma si trasmettono da persona a persona, da
spirito a spirito, e in quanto attività spirituale umana da un lato
danno forma alla comunità umana dall'altro la trascendono in un
divenire inesauribile, divenire che per un verso è continuo dialogo
con la storia anche non umana, nel senso di non soltanto umana, per
l'altro è raccolta di messaggi che la ricerca porta avanti e che
solo pochi conoscono. Per un altro verso ancora c'è il rapporto
tra Dio e i termini, che è rapporto verticale, in cui i termini
sono tutti uguali tra loro nel senso che fanno tutti parte della
medesima comunità soggettiva in senso cristiano, mentre Dio è al
vertice di tale rapporto dei termini tra loro e dall'altro è il
vertice, ossia il Principio che fonda tale rapporto e nello stesso
tempo è l'Assoluto verso cui tutti tendono. Qual è, mi chiedo,
all'interno della Chiesa, così che non possa dirsi che Carabellese
fosse fuori di essa, benché non ateo, una soluzione che metta in
rapporto tra loro il Concreto, l'attività spirituale umana e il
rapporto tra Dio e i Termini? Oppure è necessario uscire da essa ed
entrare ndlla Filosofia? E qual è, mi chiedo ancora, il frutto del
rapporto tra filosofia e teologia, che è la soluzione scelta
da Carabellese, ossia di una filosofia teologica che da un lato
prenda alimento dall'una e dall'altra nella storia, e dell'una e
dell'altra dall'altro lato sia figlia come
ricerca? I miei studi teologici, inesistenti, non mi
consentono di rispondere a tali domande, ma forse i miei studi
filosofici possono aiutarmi perché sembrano far coincidere i
risultati più avanzati della ricerca scientifica: faccio
riferimento qui alla coincidenza tra le ricerche di uno studioso di
Platone che teorizzano la possibilità di inversioni del tempo e la
ricerca in ambito fisico-teorico che organizza modelli che
rispondono a quesiti altrettali. Il problema che vorrei mettere in luce e per il quale, ripeto, non
ho a disposizione tutti gli strumenti concettuali perché non
teologa, è non tanto il rapporto tra Dio e i Termini o quello tra
Oggetto e soggetti, che sono chiari essere in Carabellese rapporti
di distinzione-relazione, l'uno in termini di trascendenza, l'altro
di immanenza, quanto il rapporto tra l'Essere spirituale e Dio.
Questo Essere spirituale infinito ed eterno appare essere,
nell'ultimo periodo della sua vita ma anche a partire da L'Essere
e il problema religioso del 1914, il primum. Ma Dio è,
come Assoluta Idea, Principio anche rispetto ad esso e non soltanto
rispetto ai termini, infatti il suo trascendentismo si spiega come
eternità inesauribile, origine non in senso della temporaneità che
richiede un principio nel tempo, ma nel senso della temporalità che
è eterna ab aeterno. Ciò non contrasta
con la tesi carabellesiana di un'eternità degli spiriti non
solo nella sopravvivenza ma anche nella previvenza come esseri
spirituali pensanti. A parte questo, che ancora una volta sembra mettere Carabellese in
contraddizione con la dottrina cattolica ma non cristiana, o
addirittura, non vorrei azzardare data la mia ignoranza teologica
che ribadisco, la dottrina cattolica in contraddizione con se
stessa, o almeno con la parte e interpretazione essoterica di essa,
e che pure mi sembra una contraddizione importante, resta ancora il
fatto che Carabellese chiama Essere il vero Dio, essere spirituale
veramente infinito ed eterno ed in continuo pulsare senza principio
né termine perché non in divenire, divenire chn costituisce nella
sua dimensione non solo umana ma anche naturale uno dei suoi
livelli, per il quale però se si parla di rivelazione o di
manifestazione divina, siano esse la prima quella storico-religiosa
o quella naturale, e la seconda quella hegeliana o anche cristiana
del Cristianesimo delle origini, se ne può parlare soltanto uscendo
dal livello dell'immanentismo ed
entrando in quello del trascendentismo. A questa dimensione del
trascendentismo appartiene un dualismo
che non riguarda più soltanto il Dio Principio in rapporto
dualistico di distinzione-relazione coi suoi termini come soggetti,
e dunque anche l'uomo coi suoi valori la sua libertà le sue scelte,
e quindi anche col suo rapporto trascendente con Dio, ma riguarda
proprio anche il livello "naturale" che comprende spazio
tempo divenire materia: un dualismo insito nel concetto stesso di
manifestazione o rivelazione o anche emanazione, perché implica che
Qualcosa, in qualunque modo si voglia chiamare Dio, si riveli o si
manifesti o si emani, e che quindi sia al tempo stesso se stesso e
non se stesso in tale rivelazione manifestazione emanazione, ossia
si alteri in altro da sé, si oggettivi, pur conservando un nucleo
segreto che trascende tale oggettivazione emanazione rivelazione
manifestazione, e che soltanto nell'infinito e nell'eterno, che per
loro stesso significato dal punto di vista soggettivo sono le
dimensioni-limite al di là dello spazio e del tempo sia naturale
che umano, può dirsi completamente esplicitato: cioè dal punto di
vista del trascendentismo, e, a questo livello del discorso, mai. E a questo livello del discorso, questa trascendenza del Dio che si
rivela, come del divenire della "natura" (Gentile abbiamo
visto parla di una storia eterna come eterno esplicarsi del
pensiero, dunque non di storia soltanto umana) come del trascendere
dello stesso io soggettivo - sia esso il singolo come in Jaspers o
la comunità umana come nella filosofia del Romanticismo - a questo
livello del discorso il trascendere non ha mai fine, il divenire è
eterno in avanti, la verità è aletheia che si discopre
nascondendosi nel Mistero di un nucleo inesauribile, e l'errore
soggettivo (il peccato mortale che Gentile ha "tradotto in
termini concettuali") è la staticità che equivale alla morte
dello spirito, alla negazione della scelta e della libertà, alla
ferma opposizione alla crescita della coscienza e alla
responsabilizzazione, in cambio di una falsa pace dello spirito: è
la visione ottimistica del Progresso illuministico sempre
rinascente, esigenza etica dello spirito che trova conferma
oggettiva nella realtà visibile. Ma se dal livello del trascendentismo ci spostiamo a quello
dell'immanentismo, ossia dell'essere spirituale che Carabellese
chiama Concreto, vediamo che più volte egli afferma che esso si
scinde in Dio Principio e io plurimi suoi termini, e che pertanto
ontologicamente è il vero livello dell'essere, e dunque per
Carabellese, come abbiamo già visto prima, il vero Dio, infinito,
pulsante, eterno Spirito sostenente l'essere in divenire di cui si
parlava al livello del trascendentismo, come miracolo continuo, e
Spirito racchiudente nella sua totalità infinita infiniti esseri
spirituali senza nascita né morte - o meglio con nascite e morti
multiple, quei previventi sopravviventi di cui Carabellese ha
parlato prima, vera realtà invisibile in cui la vera Chiesa
invisibile è la comunicazione tra spiriti passati presenti e
futuri, comunicazione possibile appunto per l'eternità degli
spiriti. Giungere a queste conclusioni è possibile a partire dalla stessa
lettera carabellesiana, che recita testualmente: "Il G.
[Gentile] decisamente è per la sola sopravvivenza e non per la
previvenza proprio per salvare l'atto creativo pernio del
cattolicesimo [...]."[93].
Questa frase è importantissima perché ci consente di comprendere
tutta una serie di questioni in essa racchiuse. Dunque, la Chiesa
cattolica, al tempo di Carabellese[94],
era per la sola sopravvivenza, e questo per salvare Dio come
Principio creatore, che richiede un inizio dei tempi. Ma la questione che denota l'originalità di Carabellese, oltre che
il suo essere avanti nella riflessione filosofica perché così
convinto da affermarlo in modo certo non categorico ma molto chiaro,
consiste non tanto nel confronto con la Chiesa cattolica consistente
anche nella fondamentale
questione teologica del modo in cui Dio debba essere pensato come
Principio, bensì nella sua affermazione implicita di una previvenza
dello spirito. A questo punto si aprono questioni difficilmente
dipanabili, perché c'è da interrogarsi sui modi in cui questa
previvenza si articola: Carabellese la pensa come una previvenza
anteriore all'incarnazione, la Chiesa cattolica opta oggi per la
tesi di un'anima individuale che è in Dio e che discende nel
corpo al momento del concepimento, e questa è una soluzione che
sembrerebbe collimare con la tesi carabellesiana di Dio Principio
dei suoi termini intesi qui anche in senso umano. Ma se si
approfondisce la questione, si aprono delle domande che sono
altre soluzioni possibili del problema dell'incarnazione. Se
si considera infatti la tesi carabellesiana di uno spirito infinito
che come Coscienza è tutto l'Essere, si può considerare sia una soluzione che contempli la
discesa dello spirito una sola volta, come per il
cattolicesimo, sia una soluzione che ammetta più discese nella
corporeità, come sostiene il buddismo. E' questa la
questione dell'individualità dello spirito, una volta accettatane
con Carabellese l'infinità temporale: sia la prima che la seconda
soluzione, quella di un'individualità soggettiva che si incarna una
sola volta e quella di un'individualità soggettiva che si incarna
più volte, proprio perché ambedue rivolte verso lo spiritualismo,
non prendono in considerazione alcun fattore né di tipo
fisico-fisiologico, né di tipo storico, ma fanno appello ad
un'individualità irripetibile che scavalca il tempo e lo spazio
fenomenici, sebbene sia sempre, jaspersianamente, in situazione, e
cioè a quell'Individuum metafisico che ognuno di noi è,
inirreggimentabile in nessuna delle cerchie sociali cui pure come
persona umana appartiene con una parte del sé, come irripetibile
nella profonda creatività che dentro e fuori quelle stesse cerchie
sociali porta. Concludendo, in Carabellese è possibile ritrovare un'implicita
professione di spiritualismo, riconosciuta dalla critica[95] che infatti a questa corrente di pensiero lo
ascrive: "[...] per salvare l'uomo scoperto da Gesù [...],
l'uomo cioè nella sua radicale pluralità di persone pensanti,
bisogna subordinarlo come uomo vivente, subordinare la vita
(fenomeno materiale) all'essere (attività spirituale)."[96]. Egli nega invece a Gentile questa stessa
professione di spiritualismo cristiano-ebraico quando dice:
"Gentile sentì profondamente anche se confusamente questa
esigenza di salvezza della personalità pensante dell'uomo; volle
salvare il credente. Ma appunto la sua ortodossa cattolicità
glielo fece perdere: ammesso (dogmaticamente con la Chiesa
cattolica) Dio come il creatore degli spiriti, noi persone credenti,
siamo perduti. [...] il sole fideistico di Gesù di Nazareth [...],
che insegnò agli uomini, giudei e greci, che noi siamo persone e
perciò enti plurimi di quell'essere spirituale, del quale Dio,
l'Unico, è il Principio."[97]: qui è lo spiritualismo carabellesiano. [1][1]
E. Mirri, Introduzione
a P. Carabellese, L'attivita' spirituale umana. Prime
linee di una logica dell'essere cit., p. 18. Cfr. anche
E. Mirri, Considerazioni sul rapporto tra filosofia, metafisica
e teologia in Carabellese cit., in AA.VV., Pantaleo
Carabellese, il <<tarlo del filosofare>>
cit., pp. 96-98 e 110-15, dove Mirri afferma che
così come la filosofia è e non può non essere
metafisica, così altrettanto la filosofia, essendo metafisica,
non può non essere teologia, per cui c'è un'identità reciproca
tra filosofia, metafisica e teologia. Se metafisica è
leibnitzianamente parlare dell'essere dell'essente, intendendo
quest'ultimo non come l'ente uomo ma come l'ente in generale, come
l'essente tout court, allora metafisica è parlare
dell'essere costitutivo di quest'essente, dell'essere come
condizione d'essere, fondamento dell'essente, dunque Dio. Perciò
più che essere obliato o ritenuto questione del sentimento, il
problema di Dio, lungi dall'essere un problema accanto ad altri,
è il problema stesso del pensare e della coscienza, e questo
perché Dio non è causa degli essenti e nemmeno essente egli
stesso per Carabellese (ché altrimenti sarebbe loro parificato),
ma è bensì l'Essere degli essenti, ciò per cui gli essenti
sono. Così Mirri può sostenere che più che a Kant o a Cartesio,
per i quali il problema teologico era fuori dalla filosofia,
Carabellese può essere avvicinato a Spinoza, soprattutto per
questa concezione di Dio come essere dell'essente che non esiste
in sé, personalisticamente, e ad Heidegger, per la recisa
affermazione della "differenza ontologica" tra Dio e gli
essenti, come vedremo nello svolgersi di questo scritto. Per Mirri,
al contrario di ciò che la critica teistica del Lombardi, nella
polemica del 1941, e poi del Babolin (Cfr. A. Babolin, Perché
l'assoluto in P. Carabellese non è ontologicamente trascendente?,
in AA.VV., Giornate di studi carabellesiani cit., pp.
169-77) sostiene, la negazione dell'esistenza di Dio è in
Carabellese massima affermazione del perenne bisogno di ascesi
della coscienza, che piuttosto che abbassare a sé l'Assoluto e
relativizzarlo, si innalza ad esso spinozianamente rendendosi
possibile il guardare asceticamente l'eterno. [2][2]
I. Kant, Critica della Ragion Pura, Dialettica
trascendentale, Libro II, cap. III, Sez. VII,
pp. 493-97 della III ediz. Laterza BUL, Bari, 1985. Forse non è
inutile ricordare che Kant riprende il problema dell'esistenza di
Dio anche nella Critica della Ragion Pratica, Parte I Dottrina
degli elementi, Libro II Dialettica della ragion pura
pratica, Cap. II Della Dialettica della ragion pura
nella determinazione del concetto del Sommo Bene, par.
V L'esistenza di Dio come postulato della ragion pura pratica,
Laterza, Bari, V ediz. 1985, pp. 150 sgg., e nella Critica del
Giudizio, Parte II Critica del giudizio teleologico, Appendice:
Metodologia del Giudizio teleologico, parr. 85-91, BUL Laterza,
Bari, III ediz. 1987, pp. 314-71. [3][3]
I. Kant, Critica della Ragion Pura cit., Dialettica
trascendentale, Libro II, cap. III, Sez. VII, p. 497. [4][4]
Che Carabellese voglia tornare ad Aristotele, e alla concezione
aristotelica della filosofia come scienza dell'essere, metafisica,
lo si evince esplicitamente nell'opera Che cos'è la filosofia?
cit., p. 214 sg., quando dice: "L'aristotelico oggetto della
metafisica (l'essere come essere) che dopo millenni di
speculazione Kant aveva riguadagnato ad essa mediante una
rivalutazione di Platone [...]", ossia dell'Idea platonica,
che però ha riguadagnato solo dal punto di vista dell'esigenza
del soggetto, come idea infinita, secondo l'implicita differenza
sostanziale tra idea e concetto. L'essere in Aristotele è invece
diverso dall'idea platonica nell'interpretazione che ne dà Kant
nella Critica della Ragion Pura, quindi avvicinare come fa
Carabellese Kant ad Aristotele per quanto riguarda la metafisica,
che Kant definisce dialettica riguardo allo status in cui
si trova ai suoi tempi,
è possibile solo a partire dall'esigenza che anche Kant sente di
una metafisica come scienza rigorosa. Il concetto, e il progetto,
carabellesiano di filosofia è alla maniera aristotelica, e
kantiana, quello di una "[...] filosofia indispensabile, che
non può non essere [...]." (Cfr. P. Carabellese, Che cos'è
la filosofia? cit., p. 215), dunque una filosofia come
metafisica. [5][5]
P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia
cit., n. 1 p. 131, in partc. p. 133. [6][6]
Ibidem, p. 141. [7][7]
P. Carabellese, Che cos'è la filosofia? cit., p. 161. [8][8]
Ibidem, p. 167
sg. [9][9]
Ibidem, p. 358
sg. [10][10]
Ibidem, p. 187. [11][11]
Ibidem, p. 168. [12][12]
P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit.,
p. 166. [13][13]
Ibidem, p. 168. [14][14]
Il giovane Carabellese era convinto assertore di queste tesi, come
dimostrano, a partire dalla Tesi di Laurea in Lettere Sulla
vetta ierocratica del Papato. Idee, fatti, intuizioni cit., i
suoi primi scritti su "La Riforma laica", rivista
modernista sulla quale egli scrisse più volte dal 1910. [15][15]
Carabellese si dedicò ai temi della religione e della morale,
come ricorda Semerari, in particolare nel decennio compreso tra il
1910 e il 1920, con lo scopo di pervenire a un concetto di
religiosità laica che sul piano istituzionale separasse lo Stato
dalla Chiesa, sul piano civile riconoscesse la progressiva
laicizzazione della società con la sostituzione di valori
razionali a valori trascendenti, e sul piano della riflessione
filosofica mirasse a distinguere
moralità e religiosità, riconoscendo a quest'ultima uno
specifico apriori religioso che permane uguale anche nel variare
delle diverse religioni e forme religiose, e che perciò consente
di definirle tali. Secondo Semerari, ma abbiamo visto quale valore
Carabellese attribuisse alla vita intesa come vita del
pensante-che-vive, del soggetto infinito, il processo di
laicizzazione della coscienza civile significava per Carabellese
la costruzione di un'etica indipendente che di fronte alla
concezione religiosa del disvalore della vita riconosce invece il
valore immanente della vita. Per Semerari
è in questo progetto che si inquadrano questi studi di
religione e l'attenzione al Kant filosofo morale, di cui però
Carabellese riconosceva i limiti nel voler inserire la religione
nell'ambito della morale, l'una per eccellenza eteronoma, l'altra
autonoma, e nel considerare il dovere quale principio di
repressione delle inclinazioni, dovere che viceversa Carabellese
trasforma in principio immanente della coscienza, atto di volontà
che ha in sé la propria legge.
Cfr. G. Semerari, La sabbia e la roccia cit., pp. 40-50. [16][16]
Cfr. P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia
cit., passim, in partc. capp. VII e IX. [17][17]
Cfr. P. Carabellese, Ho io coscienza di Dio? cit., in AA.VV.,
Il problema di Dio cit., pp. 57 sgg. [18][18]
Cfr. P. Carabellese, La filosofia dell'esistenza di Kant
cit., pp. 13-19. [19][19]
P. Carabellese, Il problema
teologico come filosofia cit., p. 155. [20][20]
Ibidem, p. 159. [21][21]
Ivi. [22]P.
Carabellese, La filosofia di Kant. I. L'idea teologica cit.,
pp. 378 sg. [23][23]
Cfr. P. Carabellese, La filosofia dell'esistenza di Kant
cit., pp. 48-49. [24][24]
Cfr. I. Kant., Critica della Ragion Pura
cit., Dialettica trascendentale, Libro II, cap. III,
sez. I-IV, pp. 451-74. [25][25]
Cfr. Ibidem, pp. 467.
[26][26]
Cfr. Ibidem, pp. 473 sg. [27][27]
Rosario Assunto sottolinea "[...] il senso profondamente
religioso e ascetico della negazione carabellesiana dell'esistenza
di Dio, che è rifiuto, di tono decisamente spinoziano, di
relativizzare l'assoluto, di storicizzare l'eterno, di umanizzare
Dio [...] il pensare carabellesiano [...] resta pur sempre quel
pensare che ha riaffermato l'assolutezza dell'assoluto,
l'inevitabilità del principio, la divinità di Dio. Sarebbe, se
mai, da obiettare che [...] il Carabellese non è stato coerente
fino in fondo, sembrando addirittura negare assolutezza a Dio
quando ne ha fatto un momento, e solo un momento, del concreto
[...]". Cfr. R. Assunto, Estetica e metafisica del tempo
nella filosofia di Carabellese cit., in AA.VV., Pantaleo
Carabellese, il <<tarlo del filosofare>> cit., pp.
114 sg. [28][28]
P. Carabellese, Ho io coscienza di Dio? cit., p. 72 sg. [29][29]
Ibidem, p. 79. Cfr. anche le pp. 73 e 75. [30][30]
Ibidem, pp. 82-83. [31][31]
Cfr. E. Mirri, Introduzione cit. a P. Carabellese, Il
problema teologico come filosofia cit., passim. [32][32]
P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit.,
p. 153. [33][33]
P. Carabellese, Critica del concreto cit., p. 175 n. 1. [34][34]
L'Oggetto puro, cioè Dio, è per Carabellese nell'interiorità di
ciascuna coscienza empirica, ma solo la coscienza del filosofo lo
eleva ad oggetto tematico della propria riflessione in quello
sforzo continuo di ricerca che è "pura ricerca di Dio".
Ma nello stesso tempo le conquiste della filosofia riguardano
tutti e perciò sono universali, e qui è la polemica di
Carabellese verso ogni personalismo filosofico, perché
"[...] c'è, ci deve essere in tutti ciò che tal riflessione
scopre [...] perché [...] riguarda il principio unico della
coscienza." Cfr. P. Carabellese, Che cos'è la filosofia?
cit., p. 243. [35][35]
Ibidem, p. 319. [36][36]
Ibidem, p. 247
sg. [37][37]
Ibidem, p.
267. [38][38]
Ibidem, p. 268. [39][39]
Ibidem, p. 269. [40][40]
P. Carabellese, Ho io coscienza di Dio? cit., pp. 84-87. [41][41]
P. Carabellese, Che cos'è la filosofia? cit.,
p. 293. [42][42]
Ibidem, p. 292 sgg., n. 1. [43][43]
P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit.,
p. 35 sgg., in partc. p. 37. [44][44]
Ibidem, p. 41
sg. [45][45]
Ibidem, p. 57. [46][46]
Ibidem, p. 58. [47][47]
P. Carabellese, L'idealismo italiano cit., Appendice V:
L'esigenza dell'oggettività, pp. 266-68. [48][48]
P. Carabellese, Critica del concreto cit., p. 157. [49][49]
P. Carabellese, La filosofia di Kant. I: L'idea teologica
cit., p. 381. [50][50]
T. Moretti-Costanzi, Ontologismo critico e cattolicesimo
cit., in AA.VV., Il problema di Dio cit., p. 187. [51][51]
O. Nobile Ventura, Filosofia e religione in un metafisico
laico: Pantaleo Carabellese cit., p. 128. [52][52]
P. Carabellese, La filosofia di Kant. I: L'idea teologica
cit., p. 383, laddove è a nostro parere da sottolineare
l'oscillazione, evidente nel brano, tra accettazione del panteismo
e sua negazione. [53][53]
P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit.,
pp. 143 sgg. [54][54]
Ibidem, p.
149. [55][55]
Ibidem, pp.
175 sgg. [56][56]
Ibidem,
p. 178. [57][57]
Ibidem,
p. 178. [58][58]
Ibidem, p. 178
sg. [59][59]
P. Carabellese, L'idealismo italiano cit., p. 159-67. [60][60]
Ibidem, p. 162. [61][61]
Ibidem, p. 166. [62][62]
P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit.,
p. 181. [63][63]
Ibidem, p.
183. [64][64]
Ibidem, p. 183. [65][65]
P. Carabellese, Che cos'e la filosofia? cit., p. 125 sgg.,
n. 1. [66][66]
Ibidem, p.
127. [67][67]
Ibidem, p.
126. [68][68]
Ibidem, p.
127. [69][69]
Ibidem, p. 128. [70][70]
P. Carabellese, Cattolicita' dell'attualismo, in
"Giornale critico della filosofia italiana", n. 1-2,
1947, poi ristamp. in AA.VV., Giovanni Gentile. La vita e il
pensiero, Sansoni Firenze, 1948, 2 voll., vol. I, pp. 125-44, passim. [71][71]
Ibidem, p.
134. [72][72]
Ibidem, p.
142. [73][73]
Ibidem, p.
138. [74][74]
Ibidem, p.
132. [75][75]
Ibidem, p.
133. [76][76]
Ivi. [77][77]
Ancora Ivi. [78][78]
Ibidem, p. 135. [79][79]
Di nuovo Ivi. [80][80]
Ibidem, p. 136. [81][81]
G. Gentile, Il superamento del tempo nella storia, 1935,
citato in P. Carabellese, Cattolicità dell'attualismo cit.,
p. 140. [82][82]
G. Gentile, Storicismo e storicismo, in Problema della
storia, 1942, p. 202, citato in P. Carabellese, Cattolicità
dell'attualismo cit., p. 140. [83][83]
P. Carabellese, Cattolicità dell'attualismo cit., p. 140. [84][84]
B. Croce, Perché non possiamo non dirci
<<cristiani>>, in Id., La mia filosofia,
Adelphi, Milano, 1993, pp. 38-53. [85][85]
Cfr. Marco de Angelis, La Religionsschrift di Kant e il giovane
Hegel, in Atti
dell'Accademia di Scienze Morali e Politiche, Giannini,
Napoli, 1996. [86][86]
P. Carabellese, Cattolicità dell'attualismo cit., p.
142-43. [87][87]
Ibidem, p. 143. [88][88]
Ivi. [89][89]
Ivi. [90][90]
Ibidem, p. 144. [91][91]
Ibidem, p. 143. [92][92]
P. Carabellese, L'attività spirituale umana cit., passim. [93][93]
Cfr. P. Carabellese, Cattolicità dell'attualismo cit., p.
141. [94][94]
Attualmente la Chiesa, come la scienza, è giunta ad ammettere una
previvenza, oltre che una sopravvivenza dello spirito post
mortem, al punto che considera già vivente il frutto
dell'amore allo stadio prenatale. [95][95]
Cfr. C. Dollo, Momenti e problemi dello spiritualismo (Varisco,
Carabellese, Carlini, Le Senne) cit., Parte II: L'Assoluto
come oggetto in Pantaleo Carabellese cit., pp. 87-154. [96][96]
P. Carabellese, Cattolicità dell'attualismo cit., pp.
143-44. |
HOME PAGE | NEXT PAGE | Se vuoi scrivi un commento nel Libro degli Ospiti
|
All M.C. Escher works (c) Cordon Art-Baarn-the Netherlands. All rights reserved. Used by permission.