STEFANIA SAPORA
COGITO ergo SUM.....ergo DIGITO |
PAGINA 21 IN COSTRUZIONE Qui
è necessario fare una riflessione sulla differenza tra realismo
empirico, che potremmo anche chiamare fenomenismo, e realismo
razionale, dove per razionale si intende un realismo che comprenda
anche, come si vede dalle matematiche contemporanee, o anche dai
più recenti studi di psicologia o di psichiatria, e anche in
primis di filosofia, l’irrazionale, il quale, lungi
dall’essere incomprensibile e non sottoponibile a riflessione, o
meglio razionalizzazione, è dotato, come le ricerche più
avanzate mirano a fare, di una sua razionalità altra da quella
classica. Tale razionalità, che è dunque sottoponibile a
scienza, intende allargare il campo, sia umano sia extraumano,
delle facoltà e degli elementi che compongono il nostro universo
e mentale e extramentale, appunto, potremmo dire, sia il
microcosmo che il macrocosmo, comprendendone la razionalità. In
tal modo si può affermare che non solo il campo delle scienze
viene così ad essere allargato, come anche il campo di ciò che
è considerato facente parte del concetto di uomo, ma pure,
soprattutto, il tì o la res - ossia la cosa in sé che a partire
dalla lettura del kantismo e in particolare del noumeno in termini
post-kantiani di ciò che, in quanto pensabile, è
conoscibile, e non inconoscibile come affermava Kant, e che ancora
non è però conosciuto e deve perciò essere attentamente
indagato - diviene un limite che si sposta a un tempo in avanti e
indietro rispetto al campo del conosciuto attuale. E’ questo ciò
che si può definire progresso della scienza, la quale,
attraverso, come è ormai acquisito, congetture e confutazioni,
come direbbe Karl Popper, e cambi o aggiustamenti di paradigma,
come direbbe Kuhn, in un velocizzarsi e un incrementarsi della
temporalità che sono sotto gli occhi di tutti, e che fanno sì
che Io, Mondo e Dio siano sempre più vicini, e che da essere pure
Idee divengano concreti, procede a uno slargarsi che è a un tempo
sia orizzontale sia verticale, ossia a una cultura che è al tempo
stesso sempre più comune, ossia includente un numero sempre più
alto di persone, e sempre più “alta”, ossia sempre più
scientifica e penetrante nelle infinite pieghe della “realtà”,
meno “naive”, meno mitologica. Potremmo dire infatti che il
sogno non solo italiano del ’68 del secolo scorso, quello di
rendere la cultura accessibile a tutti, si stia, dopo un periodo
di necessario abbassamento del livello culturale di massa dovuto
allo slargarsi a patrimonio della cultura comune
della cultura precedente, appannaggio prima di pochi
privilegiati, realizzando sotto i nostri occhi, con un nuovo
innalzamento di massa dovuto non solo ai media e a una
scolarizzazione sempre più estesa e approfondita, ma anche alle
nuove tecnologie informatiche e della comunicazione, che, ad
esempio con internet, portano un sempre maggior numero di persone
in contatto col sapere. Così,
considerando, se vogliamo, la scienza e la sua storia una linea
progredente all’infinito, ammesso che non sia una linea curva il
cui inizio e la cui fine coincidono, il tì è, potremmo dire, sia
il limite “in avanti” di ciò che la scienza conosce e che è
progetto non ancora conosciuto, ossia lo stato della ricerca,
sia il limite “indietro”, oltre il quale la scienza non
è ancora in grado di andare. Ma è chiaro che qui per scienza non
si intende solo la conoscenza scientifica in senso stretto, ossia
le scienze vuoi umane vuoi esatte, che restano ambedue sempre in
qualche modo legate all’umano, bensì la Filosofia, che, quale
linguaggio dell’universo, in altre parole Linguaggio di Dio,
inteso come Assoluto, si incarna nel Logos, cioè nel Verbo,
inteso nelle due accezioni di Parola e di Uomo, e dunque ha una
sua Storia che è Progresso. A
differenza del realismo razionale o post-razionale, il realismo
empirico, o fenomenismo, che Kant ha il merito di aver
scandagliato e compreso in tutte le sue forme, è quello che,
potremmo dire, è il primo livello della conoscenza, appartenente
originariamente a ogni uomo, a prescindere dalla sua
“cultura”: è la considerazione o conoscenza delle cose
appunto come “fenomeni” (da fainomai= apparire), ossia per
come appaiono, e precisamente apparenze che distinguono la
conoscenza in doxa, ossia opinione, e episteme, ossia concetto
della scienza. Dei fenomeni non si può avere scienza, o meglio,
la scienza dei fenomeni è quella che Kant ha in via definitiva
impostato attraverso spazio, tempo e categorie, e da cui, riferita
al mondo storico umano, e al cammino dello spirito, Hegel fa
derivare la fenomenologia dello spirito, ossia l’apparire dello
spirito incarnato nell’uomo in forme e figure storiche del mondo
umano, e che poi Husserl riprende insieme ai concetti cartesiani
di dubbio e di necessaria epoché. Kant ha mostrato come la
conoscenza di tipo empirico si basi sulla distinzione, è cosa
nota ma vorremmo ripeterla per chiarirne meglio le distinzioni col
realismo razionale, in
primis tra materia e forma della conoscenza, la materia
essendo il “dato” esterno che “entra” nelle forme a priori
della conoscenza e fa sì che la conoscenza da potenza, o
potenzialità comune a qualsiasi uomo a partire dalla sua venuta
alla luce - direbbe Antonio
Rosmini l’accensione della luce della ragione o primo atto di
conoscenza del neonato, ossia sintesi primitiva -, passi dalla
potenza all’atto. Tali forme a priori, com’è noto, sono
quelle della sensibilità, ossia l’intuizione spaziale e quella
temporale che fanno sì che qualsiasi percezione sia determinata
in un hic et nunc
imprescindibili, ossia in un punto preciso delle coordinate
spaziali e temporali, e quelle dell’intelletto, che fa sì che
qualunque cosa venga conosciuta attraverso le forme a priori
dell’intelletto, ossia categorizzata secondo la tavola delle
dodici categorie che Kant, derivandola da quella aristotelica,
riduce appunto a dodici e individua. Ma mentre secondo Rosmini, e
dopo di lui Carabellese e Gentile, in questo primo atto della
ragione che attiene al neonato, o sintesi primitiva della ragione
tra materia e forma della conoscenza, non c’è distinzione
appunto tra materia e forma della conoscenza, né tra io e mondo,
e il neonato percepisce se stesso e la realtà che lo circonda
come un tutt’uno, nel prosieguo della sua vita avviene il
distacco tra il sé e il mondo che lo circonda,
cioè la distinzione, ovvia ma vogliamo ripeterla, tra
soggetto e oggetto della conoscenza. E’ questa distinzione
quella che fonda il rapporto dell’uomo comune con la realtà,
appunto il fenomenismo o anche l’intellettualismo, e che fa sì
che il soggetto si chieda in sostanza qual è il rapporto tra vero
e certo, intendendo per “vero” l’in sé della cosa, che
abbiamo precedentemente detto essere un limite via via
estinguibile nel tempo dalla scienza e dalla sua ricerca nella
loro storia, o anche, più comunemente, il vero inteso quale
generale – si badi, non universale - sentimento di certezza
appartenente a un più o meno grande numero di persone – e che
spesso è il risultato della cultura a cui si appartiene -, e per
“certo”, naturalmente, la propria singola conoscenza, che in
genere è accompagnata da un sentimento di certezza interiore il
cui valore numerico può essere alto o basso, e anche variare sia
nel confronto con altri io, sia in quello con altre esperienze
dello stesso soggetto. Per cui, riprendendo la distinzione tra
doxa ed episteme, all’uomo comune attiene la doxa, allo
scienziato l’episteme. Ma
la scienza contemporanea e poi post-contemporanea nel suo
complesso, già a partire, in campo filosofico, dall’idealismo,
e in particolare da Hegel e l’hegelismo prima, e poi, nel ‘900
italiano, tra gli altri, da Pantaleo Carabellese, ha finalmente
superato la distinzione che ci portavamo dietro almeno da Cartesio
tra res cogitans e res
extensa, tra materia e forma in
primis della realtà e in
secundis della conoscenza e tra soggetto e oggetto, e ha
parlato, in campo conoscitivo, di concreto, ossia di un tipo di
realtà, e della relativa conoscenza, in cui soggetto e oggetto
non sono distinti, essendo la distinzione un aposteriori (che
produce il soggetto quando riflette da un lato sulla propria
conoscenza e sulla conoscenza in generale, e dall’altro sulla
“realtà”), e non un apriori esistente nella realtà, che, a
questo livello, è un unicum (potremmo affermare, con un atto di fede, un Uno-Tutto), e,
seguendo Giuseppe Semerari, parla di “concrescenza
materiale-formale”, ossia appunto di un venire all’essere
dell’essere, nel caso specifico del quale stiamo parlando della
conoscenza, in cui soggetto e “dato”, e soggetto e contesto,
siano un tutt’uno in rapporto dialettico di osmosi tra loro.
Pietro Piovani, per rimanere in Italia e sempre nel ‘900, parla
di oggettivazione etica,
ossia del necessario rapporto, appunto quello di oggettivare la
realtà in concretizzazioni in particolare etiche, che lega il
soggetto e il mondo che lo circonda, che non è il mondo in
assoluto, ma il suo
mondo sempre frutto di una costruzione, necessità che proviene
all’uomo da ciò che questo autore chiama “assenzialismo”,
cioè l’anelito a superare e a superarsi, e separare e
separarsi, dal Male e dall’imperfezione, in un continuo rovello
interiore – di rovello parlerà anche Semerari per Carabellese
– perché ogni meta divenga nuovo punto di partenza. Per il
pensiero di Teodorico Moretti-Costanzi si parlerà, a proposito di
questo anelito interiore a superarsi continuamente, di ascetismo
(quindi di un necessario movimento della coscienza verso l’alto,
verso una sempre più intensa idealizzazione del rapporto tra
l’io e il proprio mondo), e lo stesso Carabellese, quando verso
la fine della sua esistenza punterà l’attenzione sulla
speculazione prima e sulla meditazione poi, lo sarà nello stesso
senso, semmai più marcato, di una simbiosi tra scienza filosofica
e ascetismo religioso, ovviamente intendendo qui per religione non
quella confessionale in senso stretto. Oggettivazione: non dunque
una conoscenza assoluta dell’in sé dell’oggetto, o come
afferma Carabellese dell’Oggetto, allo stato irraggiungibile se
non per fede, ma una scoperta – aletheia nel senso di
disvelamento, e non creazione – di ciò che il soggetto rende oggetto della propria esperienza, a partire non soltanto dal
proprio essere, ma anche dal proprio contesto più generale, in
quella che ancora Pietro Piovani definisce l’etica della
situazione, per cui la situazione, che definisce l’Individuo
come un unicum in quell’hic et nunc, è sempre “in
situazione”, ossia calato, “gettato”, direbbe Heidegger, in
un determinato campo di significati.
In ambito psicologico, si parla oggi di costruttivismo –
una derivazione del comportamentismo vicina al cognitivismo -,
ossia di un costrutto, appunto, che il soggetto si fa della realtà
che lo attornia e su cui egli punta l’attenzione, e in cui si
trova: un sistema io-mondo, che non solo cambia da soggetto a
soggetto, essendo ogni soggetto, diremmo appunto in filosofia, Individuum
metafisico, ossia come minimo un irripetibile, ma anche cambia
nella storia del soggetto col suo andare avanti nel tempo e
acquisire nuove esperienze che mutano il senso e della propria
identità e della realtà che lo circonda, mutando appunto i
significati che egli attribuisce alle sue esperienze. E si parla
più precisamente, in psicologia, di costruttivismo
post-razionalista, a mio parere perché finalmente anche in questo
campo da tempo, come in filosofia in modo precipuo ed esplicito da
non molti decenni, si cerca una logica dell’irrazionale che
estenda il senso stesso dell’Individuum
metafisico a cui abbiamo accennato. In questo si deve
necessariamente operare un’importante distinzione tra
descrizione e interpretazione: l’una, potremmo dire in termini
filosofici, afferente al fenomenismo, come operazione che il
soggetto compie nella conoscenza di semplice esplicitazione di ciò
che vede, l’altra, viceversa, in senso stretto costrutto del
soggetto in cui i confini tra vero e falso, e tra vero e certo,
sono molto più labili, perché interpretare significa sempre
guardare da un determinato punto di vista, inferire non il Vero,
ma ciò che ogni singolo uomo, o in campo scientifico ogni singola
prospettiva di una determinata scienza,
getta come luce su una porzione estratta e specifica della
realtà intesa come Tutto (si ricordi il continuum
eterogeneo del reale di Wilhelm Dilthey, da cui il soggetto
trae o un discretum omogeneo, come nelle matematiche, oppure un continuum
eterogeneo, come nelle scienze umane) per cui il costrutto si
può dire sia sempre un’operazione astraente e interpretativa.
Per
tornare alle ricerche in campo filosofico che per prime
stabiliscono come il rapporto tra individuo e realtà sia appunto
sempre un rapporto mediato dalla struttura esperienziale a priori
che fa parte della natura umana, vuoi in senso individuale vuoi
umana in senso lato, o più specificatamente culturale e
scientifica, dell’individuo, com’è noto con Hans Georg
Gadamer si affermerà l’ermeneutica appunto come scienza
dell’interpretazione, che, da lui applicata al rapporto tra
soggetto conoscente e testo da comprendere, vede, nella
precomprensione anche linguistica che sempre precede il contatto
diretto e immediato tra pensiero e realtà, e nel circolo
ermeneutico tra interprete e realtà da interpretare secondo cui a
partire appunto dalla precomprensione, si ha un continuo movimento
parte-tutto che mira alla comprensione totale, irraggiungibile,
del testo, sia esso un testo scritto, sia esso pure
un’esperienza di cui si è parte o che si mira a comprendere, un
nuovo modo di dipanare l’antico dilemma tra vero e falso. Date
allora per acquisite le forme intellettive che il singolo
interpretante “trova” nella specificità del suo essere uomo,
e quelle che gli appartengono come formazione culturale
individuale (di Individuum
metafisico) e collettiva (la civiltà cui appartiene), si può
affermare che il singolo non è mai lui, solo, di fronte alla sua
esperienza, ma è sempre precondizionato almeno da questi tre
livelli. Ma ce n’è un quarto, che Gadamer sottende ma che pure,
anche al livello collettivo dell’umano, almeno nell’istante,
non può risolvere: il Vero. E’, questa, la distanza tra Vero e
Storia, che solo la fede individuale, intesa in senso lato e non
specifico, può colmare: per un verso è la propria Weltanschauung
di Individuo irripetibile, il punto oltre il quale si ferma
il proprio progresso esperienziale che può dirsi concluso solo
dalla morte, e anche più precisamente, sempre in senso
esistenziale e non religioso, il proprio percorso di vita
comprensivo dell’eredità spirituale e materiale che egli, come
punto su una linea infinita che coniuga tradizione e innovazione,
lascia ai posteri, e le linee di continuazione come tracce da
sviluppare che egli anche inconsapevolmente porta all’essere e
che altri dopo di lui riprenderanno, per l’altro è anche, la
distanza tra Vero e Storia, la Weltanschauung, potremmo dire,
dell’epoca storica che il mondo nel suo complesso attraversa e
fa propria come vera, nell’osmosi sincretistica e nelle fratture
e nelle collisioni che le sue diverse civiltà contemporanee
rendono concrete. Ma evidentemente qui il confine sempre presente
e sinora sottaciuto, anche dai migliori ingegni del ‘900, il
rovello di filosofi e scienziati, torna: è l’antico dilemma,
ripetiamo, tra Vero e Falso, la distanza incolmabile, all’atto,
tra Realtà e immaginazione, vuoi pure quest’ultima intesa come
costrutto ipotetico. Sogno, direbbe Cartesio, o son desto?
Che cosa c’è al di là dello specchio? La frattura tra
Vero e Falso, anche con l’ermeneutica, anche col costruttivismo
post-razionalista, si ripresenta, semmai spostata più avanti:
potremo mai essere certi del vero, giungere al punto in cui
l’interpretazione si dimostrerà autentica, il punto in cui
idealità e realtà si incontrano? Oppure ancora una volta la
scienza mostrerà di non essere poi così assolutamente distante
dal mito? Pur con tutte le teorizzazioni e le razionalizzazioni,
siamo veramente distanti dalla ormai millenaria separazione voluta
come nascita della filosofia tra mithos
e logos? Abbiamo costruito un Logos che anche per chi non crede in
senso stretto è una specifica prospettiva necessaria per
comprendere la realtà vuoi umana vuoi naturale, vuoi del mondo
storico vuoi di quello scientifico-esatto, e in questo senso
dobbiamo molto a Hegel, se non anche a Platone e Aristotele.
Abbiamo anche allargato il concetto di logos
o ragione a comprendere vasti campi dell’irrazionale, via via
sempre più chiari. Ma la chiarezza e distinzione delle idee non
sempre è sufficiente, come il cammino della scienza e della
storia mostrano: il percorso conoscitivo sembra non avere mai
fine. Torna allora qui il vecchio distinguo tra perfezione e
imperfezione, e prende piede il dubbio, che, seppure allontanato
con l’epoché, o seppure “sconfitto” dalla distanza che
abbiamo assottigliato tra fides e ratio
col cammino della scienza verso il disvelamento, sempre più
avanti e indietro nello spazio-tempo sia naturale che storico, del
tì o della res,
e tra l’ideale dell’uomo vitruviano e la sua realizzazione
concreta in termini di diritti, resta. E allora il diaframma tra
dubbio da una parte, e fede, intesa stavolta in senso religioso,
dall’altra, riappare:
lo scontro di civiltà al quale stiamo assistendo si fa più
strettamente religioso, o, in senso lato, di fede, anche intesa
come fede laica secolarizzata. E’ lecito chiedersi, a questo
punto: non considerando, ovviamente, la scia di sangue, proprio e
altrui, che si portano dietro, sono più “evoluti”
o più involuti di noi occidentali gli individui e i
movimenti che stanno sconvolgendo l’assetto tradizionale
dell’Occidente in termini di ratio,
e il suo trionfale cammino in termini di Progresso? Non stanno
dicendoci qualcosa riguardo proprio a quell’allargamento al
diverso del concetto di uomo vitruviano (il simbolo dell’Uomo
universale che coincide col suo mondo) che stiamo noi stessi per
nostra parte allargando con l’ingresso nella storia
dell’Occidente di nuovi soggetti politici e sociali già
presenti nel nostro assetto sociale, e “solo” emarginati? Il
diverso così, da presente ma lontano dall’integrazione sociale
e culturale (e si potrebbe dire del valore acquisito dalle classi
popolari e dalle loro culture come di quello dei gay o dei folli,
ma anche dei minori e degli anziani), è anche il diverso ma
lontano geograficamente e storicamente, oltre che culturalmente.
L’uomo vitruviano è anche questo, un uomo che coincide, nel
macro come nel microcosmo, col suo mondo: un ideale da
raggiungere, nessuno sa quando, nessuno sa come. Intanto la fede e
la fede nel dubbio continuano a incontrarsi e a scontrarsi, in
tutte le loro forme, e in sempre più vasti e specifici contesti
del piano storico-sociale: IO/tu, NOI/voi: questo è il punto di
non ritorno. Finquando non smetteremo di considerare il diverso
non, come diceva Carabellese, un altro come noi, ma un altro da
noi, non ci sarà soluzione al conflitto. Apparentemente l’uomo
non riesce a uscire da questa dicotomia, che, quando non
dell’altro uomo, ha preso sembianze animali, naturali o aliene:
essa sembra essere un apriori collegato con la dicotomia
Bene/Male, che è innegabile, se non in termini
filosofico-religiosi di teoria o fede – che com’è noto nel
campo della filosofia contemporanea sono connesse -, almeno a
livello “naturale”, ossia con la lettera minuscola. Questa
nostra attuale non è, come vorrebbe Domenico De Masi, una società
senza modelli: è una società alla ricerca di un modello comune e
unico per tutti gli uomini, che li ri-orienti in una sola unica
nuova direzione. Solo perciò quando dalla società senza modelli
si sarà giunti alla società con un solo modello potranno
riprendere il cammino la Storia e il Progresso.
Per ora nel popperiano Mondo Tre, quello delle idee –
ovviamente non quelle platoniche, divine, bensì quelle umane -,
che già da alcuni decenni ha preso prepotentemente piede, si
assiste, e purtroppo non soltanto a livello delle sole parole,
allo scontro di pensieri e azioni, delle ideologie e della loro
attuazione spesso non pacifica né dialogante. E così, il dialogo
socratico, che nuove menti e prospettive ripropongono ancora dopo
2500 anni, potranno realizzarsi nella compenetrazione attiva delle
idee. Carabellese, non solo riguardo al tempo, parlava di
penetratività: oltre al compenetrarsi cioè nell’istante, in
ogni istante, di passato presente e futuro che sono tutti e tre
appunto compresenti, “intensive”, in ogni istante della vita
della realtà e dell’umano, la penetratività deve riguardare
appunto anche le persone e le personalità – i
pensanti-che-vivono, li definiva Carabellese: un lascito morale e
etico carabellesiano che permette di guardare al futuro con
speranza. Tornando
a guardare la conoscenza del soggetto (genitivo oggettivo), si
tratta oggi in campo scientifico di scandagliare un Individuo,
come affermava già Dilthey e tutto il movimento che a lui fa capo
in Germania a cavallo tra l’800 e il ‘900, che sente vuole
conosce, ossia un uomo “intero”, che, nelle ricerche attuali
ma per quanto riguarda l’intuizione almeno a finire a Kant come
suo punto fermo, comprenda, nel doppio senso di capire e di avere,
anche ciò che è al di là del razionale, o meglio intenda per
razionale non solo le potenzialità della sensibilità e
dell’intelletto così chiaramente esplicate da Kant e di cui si
diceva all’inizio di questa lunga digressione, ma anche quelle
della ragione, intesa però in un senso molto più ampio di quello
finora tramandatoci, ossia che includa elementi apparentemente
irrazionali quali, riprendiamo l’ultimo Carabellese delle sue
dispense metafisiche da circa un decennio pubblicate, la fede,
l’intuito, il fato, il destino, ecc. Ecco
forse il punto della questione: la fede, intesa sia in senso
religioso-confessionale sia in senso laico, ossia come credere in
senso lato che qualcosa sia vero, e che faccia parte della propria
Weltanschauung. E’ punto questo che, inteso in senso stretto di
credere in Dio, nella Scolastica in particolar modo la Chiesa
cattolica si pone come nodo da dipanare razionalmente. Infatti che
dire a un non credente per convincerlo a far parte della ecclesia?
Già nel Medioevo, per non dire della storia della filosofia nel
suo complesso a partire dai greci riguardo all’esistenza di un
essere e di un mondo divini da cui derivare il mondo umano e
naturale, la Chiesa cattolica si pone il problema della
dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, perché
dimostrazione, appunto razionale, significa che credere in Dio non
è più questione di fede, sia essa illuminazione divina intesa
come grazia che Dio fa al singolo uomo, oppure come credenza che
proviene dal sentire interiore di ognuno. Credere, nel momento in
cui si perviene alla dimostrazione razionale, non è più un atto
di fede ma di logica: e alla logica ogni individuo deve credere, perché gli appartiene come facoltà in quanto uomo.
Qui punto fermo è ovviamente Tommaso d’Aquino con le sue cinque
prove, come maggior rappresentante dello sforzo della Chiesa
cattolica di superare
il pericolo dello scetticismo: dal credo
quia absurdum che risale a Tertulliano (II sec. d.C.), Tommaso
passa al credo ut intellegam e all’intelligo
ut credam, ossia al legame indissolubile tra credere e
comprendere, fede e ragione, compresenti ambedue quando si tratta
di affrontare temi che esulano dall’esperienza immediata. Ma
l’altro enorme passo avanti che Carabellese con altri, in Italia
e non solo, ha fatto è nella distinzione tra umanesimo e
nuovo umanesimo, quest’ultimo che si distingue a sua
volta nettamente dall’antropocentrismo. Nell’umanesimo in
quanto antropocentrismo, che Carabellese rifiutava recisamente
criticandolo più e più volte nelle sue opere, al centro
dell’universo, appunto, c’è l’uomo in quanto creatura di
Dio, il cui concetto nasce con Cristo in quanto primo Uomo apparso
nella storia, a partire dalla sua evangelizzazione dell’uomo
inteso quale Persona, ossia uomo dotato di pienezza di senso e di
valore assoluto nel creato: in questo senso Carabellese concordava
con il pensiero umanista. Ma,
come Carabellese acutamente notava, Umanesimo e antropocentrismo,
apparentemente sinonimi, non lo sono affatto, perché l’antropocentrismo
intende l’uomo non in rapporto immediato con Dio attraverso
l’illuminazione spirituale che deriva dalla grazia di Dio, ma
come uomo mondano: l’asse si sposta così nell’antropocentrismo
dal creato e dal Creatore alla creatura, che a partire dalla fine
del Medioevo è completamente secolarizzata, ossia si occupa dello
sviluppo del mondo umano, sia in termini materiali, con
l’urbanizzazione e la nascita delle città, sia in termini
spirituali, con la nascita delle corporazioni e lo sviluppo di
arti e mestieri. Si tratta di un concetto di uomo talmente
secolarizzato e lontano dalla spiritualità di Dio che nel ‘900
europeo porterà, Carabellese con sagacia ne è consapevole,
all’esistenzialismo, e quindi alla sua deriva, o meglio alle sue
estreme conseguenze, al nichilismo, ossia a un concetto di uomo
che nullifica il suo valore spirituale.
Ma,
al di là di questo piccolo excursus teoretico sull’affacciarsi
già prima del Novecento dello studio multidisciplinare di una
possibile logica dell’irrazionale, e in conclusione di queste
mie poche osservazioni, è necessario fare alcune precisazioni sul
significato dei termini e dei concetti qui di volta in volta
utilizzati e richiamati. Prima
di tutto sarebbe da dipanare il concetto di logica, che nel
patrimonio scientifico comune diviene multicentrico e plurale:
perciò, col soccorso di Hegel e della sua Scienza della Logica,
il cui significato è tutto da approfondire, sembra ormai scontato
affermare che le logiche si pluralizzano e vi si ricercano i punti
comuni. Nuovi soggetti si affacciano alla Storia del Mondo, e di
ciascuna categoria, che sembrerebbe, compito difficilissimo, non
voler escludere nessuno, si ricerca da più parti la logica, e in
senso lato la Weltanschauung: è un aprirsi rivoluzionario alla,
si potrebbe dire, democratizzazione
del mondo, in un senso mai visto prima d’ora. E’ in
questo senso interessante il breve saggio, da poco in libreria,
del costituzionalista Michele Ainis, La piccola
uguaglianza, in cui si auspica, come in un nuovo ideale utopico di
società, un’uguaglianza
“di partenza”, ossia non l’egualitarismo della vecchia Cina
e della Russia, così mortificanti per l’essere umano perché
tendenti al livellamento “di
arrivo” che costringeva ciascuno a essere, a prescindere dalle
sue potenzialità, uguale all’altro,
bensì la possibilità che ciascuno, a prescindere dal suo
background culturale di nascita, così fortuito, sia messo in
condizione di costruirsi, con strumenti culturali che colmino le
differenze inevitabili, almeno per ora, tra individui e gruppi, un
futuro a sé confacente e per sé soddisfacente.
Altra pubblicazione illuminante, in altro ambito ma sempre
attinente a quella più su definita la “democratizzazione del
mondo”, è l’opera recentissima di Louiss A. Sass, Follia e
modernità, sui rapporti molto ben elucidati tra arte
contemporanea (del Novecento) e malattia mentale: lo scopo,
ambizioso e ben riuscito, è quello di rinvenire un ideal-tipo,
alla Weber, della malattia mentale, sia attraverso la
comparazione, mai descrittivamente fine a se stessa, e la ricerca
della Gestalt e della struttura della malattia mentale, in
particolare della schizofrenia, sia mediante la ricerca delle sue
attinenze con l’arte soprattutto pittorica del Novecento. Per
fare un altro esempio di ricerca di una logica specifica ma pure
complessiva, stavolta in ambito più marcatamente filosofico e
psicologico, la realtà dell’esperienza sembra suggerire che, a
partire dalla specifica storia di ciascun soggetto, sia possibile
rintracciarvi, oltre al significato immediato e a quello
immediatamente vissuto, che parcellizzano le esperienze e le cose,
un secondo binario, una seconda logica di esperienza,
un’esperienza di secondo livello (una seconda navigazione di
platonica memoria), più sotterranea e nascosta, che fa parlare
tra loro, nel soggetto, come binari paralleli, flusso del reale e
flusso del vissuto, in un continuo rimando di significati
simbolici che “costruisce” una seconda realtà in cui
intuizione interiore e “realtà” esteriore sono, come si
chiarirà più avanti, “concrescenti”. E’ allora evidente
che emerge come questa seconda realtà sia il senso unitario che
è rintracciabile al di sopra e al di là dei singoli significati
via via evenienti, e corrispondentisi, nei due paralleli binari
(che sembrano rimandare ai due modi in cui si dipana la realtà,
di Spinoza), senso unitario a sua volta diveniente in una
costruzione piramidale sempre più astratta ed essenziale, seppure
ben ancorata al “dato”: per quel che riguarda il mondo storico
sia intersoggettivo che individuale, si sta parlando qui di senso
della storia e significato della prassi. In tal modo, ci sembra
apparire nel mondo storico la possibilità, finalmente
concretizzantesi, di una comunicazione intersoggettiva tra
“monadi senza porte e senza finestre” ma pure in necessaria
comunicazione tra loro grazie all’Armonia prestabilita:
l’utopia leibniziana. Per
tornare alle poche necessarie precisazioni conclusive su concetti
fin qui sottesi, in secondo luogo bisogna chiarire in che senso ci
si riferisce al concetto di fenomenismo, e parallelamente, ma ben
diversamente, a quello di fenomenologia. Se per fenomenismo si è
inteso qui l’attenersi del soggetto al mero scorrere dei
fenomeni nel loro fluire ininterrotto nell’esperienza – altro
concetto da precisare -, così come da ciascuno, in qualsivoglia
cultura, viene direi “automaticamente” apparentemente vissuto
e compreso in qualsiasi attimo del proprio vivere quotidiano, per
fenomenologia viceversa si intende appunto lo studio e la ricerca
di una logica dell’esperienza che tenga conto dei fenomeni non
più come dati, ma come prodotti, come venuti all’essere.
Entrano qui in gioco due fondamentali concetti: quello di concreto
e quello di oggettivazione, che grande ruolo hanno nella
Filosofia. Per
concreto si è inteso qui, facendo riferimento alla geniale
espressione utilizzata dal compianto Giuseppe Semerari in un suo
noto scritto su Carabellese, la “concrescenza materiale-formale
dell’esperienza”. Perché
concrescenza? Perché è a partire da qui che l’esperienza non
viene più considerata appunto un dato che si rinviene già bello
e fatto nel fluire dell’esperienza di ciascun soggetto, ma un
venire all’essere dell’essere, che viene sì esperito in modo
irriflesso da ciascuno secondo il suo particolare e unico e
irripetibile punto di vista, o sguardo sulla realtà nella quale
ciascuno è immerso, ma che, sottoposto alla riflessione
filosofica, si rivela “in
sé” non soltanto come frutto di una creazione dell’Io
trascendentale che coniuga in una produzione sincretica la materia
da un lato e la forma dall’altro dell’esperienza (intendendole
in senso kantiano e postkantiano), ma anche come appunto una
creazione da parte dell’Assoluto della Natura e della Storia che
sostiene il Mondo e lo porta perciò all’essere non una volta
per tutte, ma nell’Hic et nunc che continuamente si riproduce,
ogni volta anch’esso irripetibile e diverso. E’
necessario qui aggiungere però, e ci si sposta sul piano
dell’oggettivazione, che l’Io trascendentale che “crea”
(si è visto non in senso materiale ma esperienziale) la realtà
in cui ciascuno è
immerso e vive, la produce nel senso appunto di produrre
un’oggettivazione, ossia, se volessimo dare un senso
letterale a quest’espressione, una “creazione degli oggetti
dell’esperienza”, laddove evidentemente per oggetto non
si intende la singola cosa, bensì il singolo contenuto di
ciascuna esperienza. Da
questo punto di vista ciò significa che in ciascun soggetto, il
singolo contenuto di esperienza, così come il suo flusso
ininterrotto, e infine, nei diversi soggetti compresenti e
successivi, non può
mai essere uguale, ma sia diverso nell’istante sincronico, sia
diverso appunto nel tempo diacronico. La variabile Tempo, che qui
si intende come sinonimo di Storia, si rivela così fondamentale
nel Mondo, sia esso dei soggetti nella storia, sia esso della
natura.
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