STEFANIA SAPORA

                 COGITO ergo SUM.....ergo DIGITO

 

PAGINA 21 IN COSTRUZIONE

Qui è necessario fare una riflessione sulla differenza tra realismo empirico, che potremmo anche chiamare fenomenismo, e realismo razionale, dove per razionale si intende un realismo che comprenda anche, come si vede dalle matematiche contemporanee, o anche dai più recenti studi di psicologia o di psichiatria, e anche in primis di filosofia, l’irrazionale, il quale, lungi dall’essere incomprensibile e non sottoponibile a riflessione, o meglio razionalizzazione, è dotato, come le ricerche più avanzate mirano a fare, di una sua razionalità altra da quella classica. Tale razionalità, che è dunque sottoponibile a scienza, intende allargare il campo, sia umano sia extraumano, delle facoltà e degli elementi che compongono il nostro universo e mentale e extramentale, appunto, potremmo dire, sia il microcosmo che il macrocosmo, comprendendone la razionalità. In tal modo si può affermare che non solo il campo delle scienze viene così ad essere allargato, come anche il campo di ciò che è considerato facente parte del concetto di uomo, ma pure, soprattutto, il tì o la res - ossia la cosa in sé che a partire dalla lettura del kantismo e in particolare del noumeno in termini  post-kantiani di ciò che, in quanto pensabile, è conoscibile, e non inconoscibile come affermava Kant, e che ancora non è però conosciuto e deve perciò essere attentamente indagato - diviene un limite che si sposta a un tempo in avanti e indietro rispetto al campo del conosciuto attuale. E’ questo ciò che si può definire progresso della scienza, la quale, attraverso, come è ormai acquisito, congetture e confutazioni, come direbbe Karl Popper, e cambi o aggiustamenti di paradigma, come direbbe Kuhn, in un velocizzarsi e un incrementarsi della temporalità che sono sotto gli occhi di tutti, e che fanno sì che Io, Mondo e Dio siano sempre più vicini, e che da essere pure Idee divengano concreti, procede a uno slargarsi che è a un tempo sia orizzontale sia verticale, ossia a una cultura che è al tempo stesso sempre più comune, ossia includente un numero sempre più alto di persone, e sempre più “alta”, ossia sempre più scientifica e penetrante nelle infinite pieghe della “realtà”, meno “naive”, meno mitologica. Potremmo dire infatti che il sogno non solo italiano del ’68 del secolo scorso, quello di rendere la cultura accessibile a tutti, si stia, dopo un periodo di necessario abbassamento del livello culturale di massa dovuto allo slargarsi a patrimonio della cultura comune  della cultura precedente, appannaggio prima di pochi privilegiati, realizzando sotto i nostri occhi, con un nuovo innalzamento di massa dovuto non solo ai media e a una scolarizzazione sempre più estesa e approfondita, ma anche alle nuove tecnologie informatiche e della comunicazione, che, ad esempio con internet, portano un sempre maggior numero di persone in contatto col sapere.  Così, considerando, se vogliamo, la scienza e la sua storia una linea progredente all’infinito, ammesso che non sia una linea curva il cui inizio e la cui fine coincidono, il tì è, potremmo dire, sia il limite “in avanti” di ciò che la scienza conosce e che è progetto non ancora conosciuto, ossia lo stato della ricerca,  sia il limite “indietro”, oltre il quale la scienza non è ancora in grado di andare. Ma è chiaro che qui per scienza non si intende solo la conoscenza scientifica in senso stretto, ossia le scienze vuoi umane vuoi esatte, che restano ambedue sempre in qualche modo legate all’umano, bensì la Filosofia, che, quale linguaggio dell’universo, in altre parole Linguaggio di Dio, inteso come Assoluto, si incarna nel Logos, cioè nel Verbo, inteso nelle due accezioni di Parola e di Uomo, e dunque ha una sua Storia che è Progresso.

A differenza del realismo razionale o post-razionale, il realismo empirico, o fenomenismo, che Kant ha il merito di aver scandagliato e compreso in tutte le sue forme, è quello che, potremmo dire, è il primo livello della conoscenza, appartenente originariamente a ogni uomo, a prescindere dalla sua “cultura”: è la considerazione o conoscenza delle cose appunto come “fenomeni” (da fainomai= apparire), ossia per come appaiono, e precisamente apparenze che distinguono la conoscenza in doxa, ossia opinione, e episteme, ossia concetto della scienza. Dei fenomeni non si può avere scienza, o meglio, la scienza dei fenomeni è quella che Kant ha in via definitiva impostato attraverso spazio, tempo e categorie, e da cui, riferita al mondo storico umano, e al cammino dello spirito, Hegel fa derivare la fenomenologia dello spirito, ossia l’apparire dello spirito incarnato nell’uomo in forme e figure storiche del mondo umano, e che poi Husserl riprende insieme ai concetti cartesiani di dubbio e di necessaria epoché. Kant ha mostrato come la conoscenza di tipo empirico si basi sulla distinzione, è cosa nota ma vorremmo ripeterla per chiarirne meglio le distinzioni col realismo razionale, in primis tra materia e forma della conoscenza, la materia essendo il “dato” esterno che “entra” nelle forme a priori della conoscenza e fa sì che la conoscenza da potenza, o potenzialità comune a qualsiasi uomo a partire dalla sua venuta alla luce - direbbe  Antonio Rosmini l’accensione della luce della ragione o primo atto di conoscenza del neonato, ossia sintesi primitiva -, passi dalla potenza all’atto. Tali forme a priori, com’è noto, sono quelle della sensibilità, ossia l’intuizione spaziale e quella temporale che fanno sì che qualsiasi percezione sia determinata in un hic et nunc imprescindibili, ossia in un punto preciso delle coordinate spaziali e temporali, e quelle dell’intelletto, che fa sì che qualunque cosa venga conosciuta attraverso le forme a priori dell’intelletto, ossia categorizzata secondo la tavola delle dodici categorie che Kant, derivandola da quella aristotelica, riduce appunto a dodici e individua. Ma mentre secondo Rosmini, e dopo di lui Carabellese e Gentile, in questo primo atto della ragione che attiene al neonato, o sintesi primitiva della ragione tra materia e forma della conoscenza, non c’è distinzione appunto tra materia e forma della conoscenza, né tra io e mondo, e il neonato percepisce se stesso e la realtà che lo circonda come un tutt’uno, nel prosieguo della sua vita avviene il distacco tra il sé e il mondo che lo circonda,  cioè la distinzione, ovvia ma vogliamo ripeterla, tra soggetto e oggetto della conoscenza. E’ questa distinzione quella che fonda il rapporto dell’uomo comune con la realtà, appunto il fenomenismo o anche l’intellettualismo, e che fa sì che il soggetto si chieda in sostanza qual è il rapporto tra vero e certo, intendendo per “vero” l’in sé della cosa, che abbiamo precedentemente detto essere un limite via via estinguibile nel tempo dalla scienza e dalla sua ricerca nella loro storia, o anche, più comunemente, il vero inteso quale generale – si badi, non universale - sentimento di certezza appartenente a un più o meno grande numero di persone – e che spesso è il risultato della cultura a cui si appartiene -, e per “certo”, naturalmente, la propria singola conoscenza, che in genere è accompagnata da un sentimento di certezza interiore il cui valore numerico può essere alto o basso, e anche variare sia nel confronto con altri io, sia in quello con altre esperienze dello stesso soggetto. Per cui, riprendendo la distinzione tra doxa ed episteme, all’uomo comune attiene la doxa, allo scienziato l’episteme.

Ma la scienza contemporanea e poi post-contemporanea nel suo complesso, già a partire, in campo filosofico, dall’idealismo, e in particolare da Hegel e l’hegelismo prima, e poi, nel ‘900 italiano, tra gli altri, da Pantaleo Carabellese, ha finalmente superato la distinzione che ci portavamo dietro almeno da Cartesio tra res cogitans e res extensa, tra materia e forma in primis della realtà e in secundis della conoscenza e tra soggetto e oggetto, e ha parlato, in campo conoscitivo, di concreto, ossia di un tipo di realtà, e della relativa conoscenza, in cui soggetto e oggetto non sono distinti, essendo la distinzione un aposteriori (che produce il soggetto quando riflette da un lato sulla propria conoscenza e sulla conoscenza in generale, e dall’altro sulla “realtà”), e non un apriori esistente nella realtà, che, a questo livello, è un unicum (potremmo affermare, con un atto di fede, un Uno-Tutto), e,  seguendo Giuseppe Semerari, parla di “concrescenza materiale-formale”, ossia appunto di un venire all’essere dell’essere, nel caso specifico del quale stiamo parlando della conoscenza, in cui soggetto e “dato”, e soggetto e contesto, siano un tutt’uno in rapporto dialettico di osmosi tra loro. Pietro Piovani, per rimanere in Italia e sempre nel ‘900, parla di oggettivazione  etica, ossia del necessario rapporto, appunto quello di oggettivare la realtà in concretizzazioni in particolare etiche, che lega il soggetto e il mondo che lo circonda, che non è il mondo in assoluto, ma il suo mondo sempre frutto di una costruzione, necessità che proviene all’uomo da ciò che questo autore chiama “assenzialismo”, cioè l’anelito a superare e a superarsi, e separare e separarsi, dal Male e dall’imperfezione, in un continuo rovello interiore – di rovello parlerà anche Semerari per Carabellese – perché ogni meta divenga nuovo punto di partenza. Per il pensiero di Teodorico Moretti-Costanzi si parlerà, a proposito di questo anelito interiore a superarsi continuamente, di ascetismo (quindi di un necessario movimento della coscienza verso l’alto, verso una sempre più intensa idealizzazione del rapporto tra l’io e il proprio mondo), e lo stesso Carabellese, quando verso la fine della sua esistenza punterà l’attenzione sulla speculazione prima e sulla meditazione poi, lo sarà nello stesso senso, semmai più marcato, di una simbiosi tra scienza filosofica e ascetismo religioso, ovviamente intendendo qui per religione non quella confessionale in senso stretto. Oggettivazione: non dunque una conoscenza assoluta dell’in sé dell’oggetto, o come afferma Carabellese dell’Oggetto, allo stato irraggiungibile se non per fede, ma una scoperta – aletheia nel senso di disvelamento, e non creazione – di ciò che il soggetto rende oggetto della propria esperienza, a partire non soltanto dal proprio essere, ma anche dal proprio contesto più generale, in quella che ancora Pietro Piovani definisce l’etica della situazione, per cui la situazione, che definisce l’Individuo come un unicum in quell’hic et nunc, è sempre “in situazione”, ossia calato, “gettato”, direbbe Heidegger, in un determinato campo di significati.  In ambito psicologico, si parla oggi di costruttivismo – una derivazione del comportamentismo vicina al cognitivismo -, ossia di un costrutto, appunto, che il soggetto si fa della realtà che lo attornia e su cui egli punta l’attenzione, e in cui si trova: un sistema io-mondo, che non solo cambia da soggetto a soggetto, essendo ogni soggetto, diremmo appunto in filosofia, Individuum metafisico, ossia come minimo un irripetibile, ma anche cambia nella storia del soggetto col suo andare avanti nel tempo e acquisire nuove esperienze che mutano il senso e della propria identità e della realtà che lo circonda, mutando appunto i significati che egli attribuisce alle sue esperienze. E si parla più precisamente, in psicologia, di costruttivismo post-razionalista, a mio parere perché finalmente anche in questo campo da tempo, come in filosofia in modo precipuo ed esplicito da non molti decenni, si cerca una logica dell’irrazionale che estenda il senso stesso dell’Individuum metafisico a cui abbiamo accennato. In questo si deve necessariamente operare un’importante distinzione tra descrizione e interpretazione: l’una, potremmo dire in termini filosofici, afferente al fenomenismo, come operazione che il soggetto compie nella conoscenza di semplice esplicitazione di ciò che vede, l’altra, viceversa, in senso stretto costrutto del soggetto in cui i confini tra vero e falso, e tra vero e certo, sono molto più labili, perché interpretare significa sempre guardare da un determinato punto di vista, inferire non il Vero, ma ciò che ogni singolo uomo, o in campo scientifico ogni singola prospettiva di una determinata scienza,  getta come luce su una porzione estratta e specifica della realtà intesa come Tutto (si ricordi il continuum eterogeneo del reale di Wilhelm Dilthey, da cui il soggetto trae o un discretum omogeneo, come nelle matematiche, oppure un continuum eterogeneo, come nelle scienze umane) per cui il costrutto si può dire sia sempre un’operazione astraente e interpretativa. 

Per tornare alle ricerche in campo filosofico che per prime stabiliscono come il rapporto tra individuo e realtà sia appunto sempre un rapporto mediato dalla struttura esperienziale a priori che fa parte della natura umana, vuoi in senso individuale vuoi umana in senso lato, o più specificatamente culturale e scientifica, dell’individuo, com’è noto con Hans Georg Gadamer si affermerà l’ermeneutica appunto come scienza dell’interpretazione, che, da lui applicata al rapporto tra soggetto conoscente e testo da comprendere, vede, nella precomprensione anche linguistica che sempre precede il contatto diretto e immediato tra pensiero e realtà, e nel circolo ermeneutico tra interprete e realtà da interpretare secondo cui a partire appunto dalla precomprensione, si ha un continuo movimento parte-tutto che mira alla comprensione totale, irraggiungibile, del testo, sia esso un testo scritto, sia esso pure un’esperienza di cui si è parte o che si mira a comprendere, un nuovo modo di dipanare l’antico dilemma tra vero e falso. Date allora per acquisite le forme intellettive che il singolo interpretante “trova” nella specificità del suo essere uomo, e quelle che gli appartengono come formazione culturale individuale (di Individuum metafisico) e collettiva (la civiltà cui appartiene), si può affermare che il singolo non è mai lui, solo, di fronte alla sua esperienza, ma è sempre precondizionato almeno da questi tre livelli. Ma ce n’è un quarto, che Gadamer sottende ma che pure, anche al livello collettivo dell’umano, almeno nell’istante, non può risolvere: il Vero. E’, questa, la distanza tra Vero e Storia, che solo la fede individuale, intesa in senso lato e non specifico, può colmare: per un verso è la propria Weltanschauung  di Individuo irripetibile, il punto oltre il quale si ferma il proprio progresso esperienziale che può dirsi concluso solo dalla morte, e anche più precisamente, sempre in senso esistenziale e non religioso, il proprio percorso di vita comprensivo dell’eredità spirituale e materiale che egli, come punto su una linea infinita che coniuga tradizione e innovazione, lascia ai posteri, e le linee di continuazione come tracce da sviluppare che egli anche inconsapevolmente porta all’essere e che altri dopo di lui riprenderanno, per l’altro è anche, la distanza tra Vero e Storia, la Weltanschauung, potremmo dire, dell’epoca storica che il mondo nel suo complesso attraversa e fa propria come vera, nell’osmosi sincretistica e nelle fratture e nelle collisioni che le sue diverse civiltà contemporanee rendono concrete. Ma evidentemente qui il confine sempre presente e sinora sottaciuto, anche dai migliori ingegni del ‘900, il rovello di filosofi e scienziati, torna: è l’antico dilemma, ripetiamo, tra Vero e Falso, la distanza incolmabile, all’atto, tra Realtà e immaginazione, vuoi pure quest’ultima intesa come costrutto ipotetico. Sogno, direbbe Cartesio, o son desto?  Che cosa c’è al di là dello specchio? La frattura tra Vero e Falso, anche con l’ermeneutica, anche col costruttivismo post-razionalista, si ripresenta, semmai spostata più avanti: potremo mai essere certi del vero, giungere al punto in cui l’interpretazione si dimostrerà autentica, il punto in cui idealità e realtà si incontrano? Oppure ancora una volta la scienza mostrerà di non essere poi così assolutamente distante dal mito? Pur con tutte le teorizzazioni e le razionalizzazioni, siamo veramente distanti dalla ormai millenaria separazione voluta come nascita della filosofia tra mithos e logos? Abbiamo costruito un Logos che anche per chi non crede in senso stretto è una specifica prospettiva necessaria per comprendere la realtà vuoi umana vuoi naturale, vuoi del mondo storico vuoi di quello scientifico-esatto, e in questo senso dobbiamo molto a Hegel, se non anche a Platone e Aristotele. Abbiamo anche allargato il concetto di logos o ragione a comprendere vasti campi dell’irrazionale, via via sempre più chiari. Ma la chiarezza e distinzione delle idee non sempre è sufficiente, come il cammino della scienza e della storia mostrano: il percorso conoscitivo sembra non avere mai fine. Torna allora qui il vecchio distinguo tra perfezione e imperfezione, e prende piede il dubbio, che, seppure allontanato con l’epoché, o seppure “sconfitto” dalla distanza che abbiamo assottigliato tra fides e ratio  col cammino della scienza verso il disvelamento, sempre più avanti e indietro nello spazio-tempo sia naturale che storico, del o della res, e tra l’ideale dell’uomo vitruviano e la sua realizzazione concreta in termini di diritti, resta. E allora il diaframma tra dubbio da una parte, e fede, intesa stavolta in senso religioso, dall’altra,  riappare: lo scontro di civiltà al quale stiamo assistendo si fa più strettamente religioso, o, in senso lato, di fede, anche intesa come fede laica secolarizzata. E’ lecito chiedersi, a questo punto: non considerando, ovviamente, la scia di sangue, proprio e altrui, che si portano dietro, sono più “evoluti”  o più involuti di noi occidentali gli individui e i movimenti che stanno sconvolgendo l’assetto tradizionale dell’Occidente in termini di ratio, e il suo trionfale cammino in termini di Progresso? Non stanno dicendoci qualcosa riguardo proprio a quell’allargamento al diverso del concetto di uomo vitruviano (il simbolo dell’Uomo universale che coincide col suo mondo) che stiamo noi stessi per nostra parte allargando con l’ingresso nella storia dell’Occidente di nuovi soggetti politici e sociali già presenti nel nostro assetto sociale, e “solo” emarginati? Il diverso così, da presente ma lontano dall’integrazione sociale e culturale (e si potrebbe dire del valore acquisito dalle classi popolari e dalle loro culture come di quello dei gay o dei folli, ma anche dei minori e degli anziani), è anche il diverso ma lontano geograficamente e storicamente, oltre che culturalmente. L’uomo vitruviano è anche questo, un uomo che coincide, nel macro come nel microcosmo, col suo mondo: un ideale da raggiungere, nessuno sa quando, nessuno sa come. Intanto la fede e la fede nel dubbio continuano a incontrarsi e a scontrarsi, in tutte le loro forme, e in sempre più vasti e specifici contesti del piano storico-sociale: IO/tu, NOI/voi: questo è il punto di non ritorno. Finquando non smetteremo di considerare il diverso non, come diceva Carabellese, un altro come noi, ma un altro da noi, non ci sarà soluzione al conflitto. Apparentemente l’uomo non riesce a uscire da questa dicotomia, che, quando non dell’altro uomo, ha preso sembianze animali, naturali o aliene: essa sembra essere un apriori collegato con la dicotomia Bene/Male, che è innegabile, se non in termini filosofico-religiosi di teoria o fede – che com’è noto nel campo della filosofia contemporanea sono connesse -, almeno a livello “naturale”, ossia con la lettera minuscola. Questa nostra attuale non è, come vorrebbe Domenico De Masi, una società senza modelli: è una società alla ricerca di un modello comune e unico per tutti gli uomini, che li ri-orienti in una sola unica nuova direzione. Solo perciò quando dalla società senza modelli si sarà giunti alla società con un solo modello potranno riprendere il cammino la Storia e il Progresso.  Per ora nel popperiano Mondo Tre, quello delle idee – ovviamente non quelle platoniche, divine, bensì quelle umane -, che già da alcuni decenni ha preso prepotentemente piede, si assiste, e purtroppo non soltanto a livello delle sole parole, allo scontro di pensieri e azioni, delle ideologie e della loro attuazione spesso non pacifica né dialogante. E così, il dialogo socratico, che nuove menti e prospettive ripropongono ancora dopo 2500 anni, potranno realizzarsi nella compenetrazione attiva delle idee. Carabellese, non solo riguardo al tempo, parlava di penetratività: oltre al compenetrarsi cioè nell’istante, in ogni istante, di passato presente e futuro che sono tutti e tre appunto compresenti, “intensive”, in ogni istante della vita della realtà e dell’umano, la penetratività deve riguardare appunto anche le persone e le personalità – i pensanti-che-vivono, li definiva Carabellese: un lascito morale e etico carabellesiano che permette di guardare al futuro con speranza.   

Tornando a guardare la conoscenza del soggetto (genitivo oggettivo), si tratta oggi in campo scientifico di scandagliare un Individuo, come affermava già Dilthey e tutto il movimento che a lui fa capo in Germania a cavallo tra l’800 e il ‘900, che sente vuole conosce, ossia un uomo “intero”, che, nelle ricerche attuali ma per quanto riguarda l’intuizione almeno a finire a Kant come suo punto fermo, comprenda, nel doppio senso di capire e di avere, anche ciò che è al di là del razionale, o meglio intenda per razionale non solo le potenzialità della sensibilità e dell’intelletto così chiaramente esplicate da Kant e di cui si diceva all’inizio di questa lunga digressione, ma anche quelle della ragione, intesa però in un senso molto più ampio di quello finora tramandatoci, ossia che includa elementi apparentemente irrazionali quali, riprendiamo l’ultimo Carabellese delle sue dispense metafisiche da circa un decennio pubblicate, la fede, l’intuito, il fato, il destino, ecc.

Ecco forse il punto della questione: la fede, intesa sia in senso religioso-confessionale sia in senso laico, ossia come credere in senso lato che qualcosa sia vero, e che faccia parte della propria Weltanschauung. E’ punto questo che, inteso in senso stretto di credere in Dio, nella Scolastica in particolar modo la Chiesa cattolica si pone come nodo da dipanare razionalmente. Infatti che dire a un non credente per convincerlo a far parte della ecclesia? Già nel Medioevo, per non dire della storia della filosofia nel suo complesso a partire dai greci riguardo all’esistenza di un essere e di un mondo divini da cui derivare il mondo umano e naturale, la Chiesa cattolica si pone il problema della dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, perché dimostrazione, appunto razionale, significa che credere in Dio non è più questione di fede, sia essa illuminazione divina intesa come grazia che Dio fa al singolo uomo, oppure come credenza che proviene dal sentire interiore di ognuno. Credere, nel momento in cui si perviene alla dimostrazione razionale, non è più un atto di fede ma di logica: e alla logica ogni individuo deve credere, perché gli appartiene come facoltà in quanto uomo. Qui punto fermo è ovviamente Tommaso d’Aquino con le sue cinque prove, come maggior rappresentante dello sforzo della Chiesa cattolica di  superare il pericolo dello scetticismo: dal credo quia absurdum che risale a Tertulliano (II sec. d.C.), Tommaso passa al credo ut intellegam e all’intelligo ut credam, ossia al legame indissolubile tra credere e comprendere, fede e ragione, compresenti ambedue quando si tratta di affrontare temi che esulano dall’esperienza immediata.

Ma l’altro enorme passo avanti che Carabellese con altri, in Italia e non solo, ha fatto è nella distinzione tra umanesimo e  nuovo umanesimo, quest’ultimo che si distingue a sua volta nettamente dall’antropocentrismo. Nell’umanesimo in quanto antropocentrismo, che Carabellese rifiutava recisamente criticandolo più e più volte nelle sue opere, al centro dell’universo, appunto, c’è l’uomo in quanto creatura di Dio, il cui concetto nasce con Cristo in quanto primo Uomo apparso nella storia, a partire dalla sua evangelizzazione dell’uomo inteso quale Persona, ossia uomo dotato di pienezza di senso e di valore assoluto nel creato: in questo senso Carabellese concordava con il pensiero umanista.

Ma, come Carabellese acutamente notava, Umanesimo e antropocentrismo, apparentemente sinonimi, non lo sono affatto, perché l’antropocentrismo intende l’uomo non in rapporto immediato con Dio attraverso l’illuminazione spirituale che deriva dalla grazia di Dio, ma come uomo mondano: l’asse si sposta così nell’antropocentrismo dal creato e dal Creatore alla creatura, che a partire dalla fine del Medioevo è completamente secolarizzata, ossia si occupa dello sviluppo del mondo umano, sia in termini materiali, con l’urbanizzazione e la nascita delle città, sia in termini spirituali, con la nascita delle corporazioni e lo sviluppo di arti e mestieri. Si tratta di un concetto di uomo talmente secolarizzato e lontano dalla spiritualità di Dio che nel ‘900 europeo porterà, Carabellese con sagacia ne è consapevole, all’esistenzialismo, e quindi alla sua deriva, o meglio alle sue estreme conseguenze, al nichilismo, ossia a un concetto di uomo che nullifica il suo valore spirituale.         

Ma, al di là di questo piccolo excursus teoretico sull’affacciarsi già prima del Novecento dello studio multidisciplinare di una possibile logica dell’irrazionale, e in conclusione di queste mie poche osservazioni, è necessario fare alcune precisazioni sul significato dei termini e dei concetti qui di volta in volta utilizzati e richiamati.

Prima di tutto sarebbe da dipanare il concetto di logica, che nel patrimonio scientifico comune diviene multicentrico e plurale: perciò, col soccorso di Hegel e della sua Scienza della Logica, il cui significato è tutto da approfondire, sembra ormai scontato affermare che le logiche si pluralizzano e vi si ricercano i punti comuni. Nuovi soggetti si affacciano alla Storia del Mondo, e di ciascuna categoria, che sembrerebbe, compito difficilissimo, non voler escludere nessuno, si ricerca da più parti la logica, e in senso lato la Weltanschauung: è un aprirsi rivoluzionario alla, si potrebbe dire, democratizzazione  del mondo, in un senso mai visto prima d’ora. E’ in questo senso interessante il breve saggio, da poco in libreria,  del costituzionalista Michele Ainis, La piccola uguaglianza, in cui si auspica, come in un nuovo ideale utopico di società,  un’uguaglianza “di partenza”, ossia non l’egualitarismo della vecchia Cina e della Russia, così mortificanti per l’essere umano perché tendenti al livellamento  “di arrivo” che costringeva ciascuno a essere, a prescindere dalle sue potenzialità, uguale all’altro,  bensì la possibilità che ciascuno, a prescindere dal suo background culturale di nascita, così fortuito, sia messo in condizione di costruirsi, con strumenti culturali che colmino le differenze inevitabili, almeno per ora, tra individui e gruppi, un futuro a sé confacente e per sé soddisfacente.  Altra pubblicazione illuminante, in altro ambito ma sempre attinente a quella più su definita la “democratizzazione del mondo”, è l’opera recentissima di Louiss A. Sass, Follia e modernità, sui rapporti molto ben elucidati tra arte contemporanea (del Novecento) e malattia mentale: lo scopo, ambizioso e ben riuscito, è quello di rinvenire un ideal-tipo, alla Weber, della malattia mentale, sia attraverso la comparazione, mai descrittivamente fine a se stessa, e la ricerca della Gestalt e della struttura della malattia mentale, in particolare della schizofrenia, sia mediante la ricerca delle sue attinenze con l’arte soprattutto pittorica del Novecento.

Per fare un altro esempio di ricerca di una logica specifica ma pure complessiva, stavolta in ambito più marcatamente filosofico e psicologico, la realtà dell’esperienza sembra suggerire che, a partire dalla specifica storia di ciascun soggetto, sia possibile rintracciarvi, oltre al significato immediato e a quello immediatamente vissuto, che parcellizzano le esperienze e le cose, un secondo binario, una seconda logica di esperienza, un’esperienza di secondo livello (una seconda navigazione di platonica memoria), più sotterranea e nascosta, che fa parlare tra loro, nel soggetto, come binari paralleli, flusso del reale e flusso del vissuto, in un continuo rimando di significati simbolici che “costruisce” una seconda realtà in cui intuizione interiore e “realtà” esteriore sono, come si chiarirà più avanti, “concrescenti”. E’ allora evidente che emerge come questa seconda realtà sia il senso unitario che è rintracciabile al di sopra e al di là dei singoli significati via via evenienti, e corrispondentisi, nei due paralleli binari (che sembrano rimandare ai due modi in cui si dipana la realtà, di Spinoza), senso unitario a sua volta diveniente in una costruzione piramidale sempre più astratta ed essenziale, seppure ben ancorata al “dato”: per quel che riguarda il mondo storico sia intersoggettivo che individuale, si sta parlando qui di senso della storia e significato della prassi. In tal modo, ci sembra apparire nel mondo storico la possibilità, finalmente concretizzantesi, di una comunicazione intersoggettiva tra “monadi senza porte e senza finestre” ma pure in necessaria comunicazione tra loro grazie all’Armonia prestabilita: l’utopia leibniziana.

Per tornare alle poche necessarie precisazioni conclusive su concetti fin qui sottesi, in secondo luogo bisogna chiarire in che senso ci si riferisce al concetto di fenomenismo, e parallelamente, ma ben diversamente, a quello di fenomenologia. Se per fenomenismo si è inteso qui l’attenersi del soggetto al mero scorrere dei fenomeni nel loro fluire ininterrotto nell’esperienza – altro concetto da precisare -, così come da ciascuno, in qualsivoglia cultura, viene direi “automaticamente” apparentemente vissuto e compreso in qualsiasi attimo del proprio vivere quotidiano, per fenomenologia viceversa si intende appunto lo studio e la ricerca di una logica dell’esperienza che tenga conto dei fenomeni non più come dati, ma come prodotti, come venuti all’essere. Entrano qui in gioco due fondamentali concetti: quello di concreto e quello di oggettivazione, che grande ruolo hanno nella Filosofia.

Per concreto si è inteso qui, facendo riferimento alla geniale espressione utilizzata dal compianto Giuseppe Semerari in un suo noto scritto su Carabellese, la “concrescenza materiale-formale dell’esperienza”.  Perché concrescenza? Perché è a partire da qui che l’esperienza non viene più considerata appunto un dato che si rinviene già bello e fatto nel fluire dell’esperienza di ciascun soggetto, ma un venire all’essere dell’essere, che viene sì esperito in modo irriflesso da ciascuno secondo il suo particolare e unico e irripetibile punto di vista, o sguardo sulla realtà nella quale ciascuno è immerso, ma che, sottoposto alla riflessione filosofica, si rivela  “in sé” non soltanto come frutto di una creazione dell’Io trascendentale che coniuga in una produzione sincretica la materia da un lato e la forma dall’altro dell’esperienza (intendendole in senso kantiano e postkantiano), ma anche come appunto una creazione da parte dell’Assoluto della Natura e della Storia che sostiene il Mondo e lo porta perciò all’essere non una volta per tutte, ma nell’Hic et nunc che continuamente si riproduce, ogni volta anch’esso irripetibile e diverso.

E’ necessario qui aggiungere però, e ci si sposta sul piano dell’oggettivazione, che l’Io trascendentale che “crea” (si è visto non in senso materiale ma esperienziale) la realtà in cui  ciascuno è immerso e vive, la produce nel senso appunto di produrre  un’oggettivazione, ossia, se volessimo dare un senso letterale a quest’espressione, una “creazione degli oggetti  dell’esperienza”, laddove evidentemente per oggetto non si intende la singola cosa, bensì il singolo contenuto di ciascuna esperienza.  Da questo punto di vista ciò significa che in ciascun soggetto, il singolo contenuto di esperienza, così come il suo flusso ininterrotto, e infine, nei diversi soggetti compresenti e successivi,  non può mai essere uguale, ma sia diverso nell’istante sincronico, sia diverso appunto nel tempo diacronico. La variabile Tempo, che qui si intende come sinonimo di Storia, si rivela così fondamentale nel Mondo, sia esso dei soggetti nella storia, sia esso della natura.

Perché allora Essere e Tempo? Heidegger si era prefisso un trattato di metafisica che poi tralasciò, soffermandosi viceversa soprattutto sulla preliminare chiarificazione del rapporto tra essere e tempo del soggetto. Allora il suo intento si riversa su di noi, suoi posteri, per la costruzione di una nuova metafisica, ossia di un nuovo paradigma che tenga conto sia del pluralizzarsi delle logiche, sia dell’irrazionale.        

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