STEFANIA SAPORA
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PAGINA 23 IN COSTRUZIONE In
stefania15/storia prassi Senso
della storia e senso della prassi Se
il senso della storia è da considerare tra gli indici più
significativi della coscienza che una data epoca storica, e
all’interno di essa, gli individui che vi appartengono hanno di
sé e del proprio rapporto con il mondo, è noto come uno dei
tratti caratteristici della modernità sia la novità nella
percezione della continuità della storia, e conseguentemente
della posizione dell’uomo nel mondo. A tratteggiare la modernità
può cioè chiamarsi anche la fine di ogni visione teleologica di
uno sviluppo progressivo della storia, che ha portato con sé
l’incertezza, ma pure la libertà, e la responsabilità
derivanti dall’umanizzazione di ogni telos. Sul
piano della filosofia della storia il dibattito aperto dalla crisi
dei sistemi positivistici e idealistici da un lato, dalla
secolarizzazione dall’altro può dirsi tutt’altro che
concluso, dal momento che l’impossibilità di rintracciare un
senso unitario nel susseguirsi degli eventi e delle epoche
storiche, nonché di intravvedere un piano razionale nel
diversificarsi delle culture e dei popoli, ha consentito di
intendere il concetto di relativismo storico, che di
quell’impossibilità è derivazione necessaria, secondo
latitudini e
significati molto diversi. Se
un senso positivo si vuol dare al concetto di una relatività
degli eventi come dei valori che muovono la storia, si deve
intenderlo nel senso di una storicità del mondo umano la cui
comprensibilità, lungi dall’essere negata o ridotta a visione
estetica o irrazionalistica, è riaffermata come possibile a
partire da categorie anch’esse storiche,
e la cui comprensione è considerata come necessaria in
vista, potremmo dire, dell’orientazione nel mondo. In tal modo,
si delinea una continuità storica il cui senso è aperto, da
costruire quindi di volta in volta nella teoria come nella prassi. Alternativa
rispetto a una considerazione che si ponga nei confronti
dell’oggetto storico come sguardo estetizzante e musealizzante,
o negatore del suo senso e della possibilità di una sua
comprensione, è uscita ora un’interessante monografia di
Salvatore Giammusso, Potere
e comprendere.La questione dell’esperienza storica e l’opera
di Helmut Plessner, Guerini e Associati, Milano 1995.L’opera
si inquadra in un orizzonte teoretico che prende le mosse da
quella che potremmo definire un’opzione forte. La filosofia
della storia viene assunta da Giammusso non più legata agli
schemi idealistici o anche positivistici che l’hanno resa
improponibile a una moderna concezione scientifica della
storiografia, bensì fortemente ancorata alla necessaria
correlazione tra storicità e comprendere storico, la cui
negazione finirebbe col rendere quella stessa storiografia
impossibile. Nella prospettiva storicistica che guida l’opera,
allora, filosofia della storia ha il senso rifondato, e da
rifondare, di una visione della storia che tiene conto del
disincanto come del relativismo come problemi con cui confrontarsi
per procedere oltre, nella direzione di una comprensione
dell’oggetto storico che, dando spessore al passato, rimandi
luce sul presente. Il
progetto è ambizioso: una filosofia della storia che faccia
interagire tra loro fenomenologia e ermeneutica in un orizzonte
storicistico, per porsi come fenomenologia della storia in senso
pratico. Sembra superfluo sottolineare a questo punto il valore più
pratico che normativo in senso forte dell’oggetto storico, perché
esso è assunto nella necessaria consapevolezza dell’apertura
della storia nella sua problematicità di svolgimento, che non è
né può mai essere certezza. Ma pure, nonostante ciò, il suo
valore pratico, che l’Autore suggerisce essere politico, è
l’unico in grado, senso il senso nietzscheiano di storia
critica, di autogiustificarsi. Ma
perché Plessner? Perché Plessner è il luogo in cui, secondo
Giammusso, si intrecciano in modo paradigmatico e originale
fenomenologia, ermeneutica e storicismo, che appunto l’Autore
vuol fare interagire tra loro, mostrando come sia possibile
superare la distanza che li separa e come, a partire da
quest’interazione, sia possibile porre proficuamente in un senso
rinnovato il nesso teoria-prassi. Helmut
Plessner (1892-1985) ha studiato medicina, zoologia e filosofia a
Freiburg, Heidelberg e Gottingen, sotto la guida, tra gli altri,
di Husserl e Windelband. Dal 1926 ha insegnato filosofia e, dopo
l’emigrazione in Olanda, a Groningen nel 1933 (era ebreo), anche
sociologia, che dal 1962 al 1963 lo ha portato alla New School of
Social Research di New York. Poiché Plessner rimase
sostanzialmente un outsider, che perciò scontò con
l’isolamento il prezzo della propria autonomia, la sua figura di
teorico dell’antropologia filosofica del ‘900 è sempre stata
oscurata da quella di Max Scheler e Arnold Gehlen, sebbene dagli
Anni Ottanta, soprattutto in seguito alla pubblicazione delle Gesammelte
Schriften [G.S.,
hrsg. von G. Dux, O. Marquand und E. Srocker, Suhrkamp, Frankfurt
a M. 1980-86, 10voll.], numerosi comincino a essere gli
studi a lui dedicati (si ricordano tra gli altri M. Meyer, E.
Stroker, M. Herzog, W. Seitter, K. S. Rehberg, K. Thomas, ecc.). L’interesse
che Giammusso nutre per questa figura di filosofo-antropologo, cui
ha dedicato più di uno scritto, curandone anche la bibliografia
per il “Dilthey-Jahrbuch”, consiste nell’essere stato
Plessner in rapporto con diverse scuole filosofiche, che ne
influenzarono la formazione ma non ne minarono l’originalità,
cosicché si può dire che egli traesse da ognuna di esse apporti
teorico-metodologici da utilizzare funzionalmente alle proprie
ricerche empiriche e al proprio programma teorico. Infatti, oltre
ai contatti con la fenomenologia di Husserl e il neokantismo di
Windelband, Plessner intrattenne rapporti fondamentali anche con
Max Weber, e poi con Max Scheler e con Georg Misch, che lo
introdusse alla filosofia di Dilthey. Nei fecondi anni Venti, fondò
a Colonia la rivista “Philosophischer Anzeiger”, cui
collaborarono anche, oltre al nostro Croce [1], Heidegger e
Hartmann, e che voleva porsi come luogo di confronto della
sociologia tedesca con il
funzionalismo americano e la Scuola di Francoforte. Inevitabile
che tutta questa ricchezza e diversità di contatti e di rapporti
rendesse la sua personalità culturale estremamente composita e
ricca di stimoli nelle più diverse direzioni, e che questa si
proiettasse anche nella sua produzione: studi su Kant, di
zoologia, biologia, fenomenologia, sociologia, antropologia, sulla
teoria della conoscenza, saggi di storia, scritti storico-politici,
ecc. Intorno
agli anni Venti, la massa dei suoi interessi viene a chiarirsi
come guidata da un’impostazione kantiana, mirante a una
fondazione delle scienze dell’uomo a partire
dall’antropologia, che tenga presente da un lato la
fenomenologia husserliana e, dall’altro, il principio diltheyano
dell’intreccio tra natura e cultura. Aspetti
teorico-metodologici e aspetti storico-empirici sono perciò
ambedue compresenti nell’antropologia filosofica di Plessner: se
la questione fondamentale è kantianamente quella delle condizioni
di possibilità dell’uomo, questa viene inserita in un orizzonte
teorico di tipo storicistico, che si distacca da qualunque
definizione ontologica dell’essenza dell’uomo, e che viene
affrontata sul piano empirico da un lato con ricerche storiche
sull’essenza dell’uomo nella civiltà occidentale,
dall’altro con numerose ricerche fenomenologiche sul
comportamento dell’uomo (il riso, il pianto, il sorriso, ecc.).
In tutte queste ricerche Plessner, aperto alle sollecitazioni di
più orientamenti teorici e mai chiuso dai limiti problematici di
ciascuno, fa interagire tra loro, in modo originalmente scevro da
dogmatismi, i modelli della fenomenologia, dello storicismo, della
Lebensphilosophie, dell’ermeneutica, del marxismo e della
sociologia del sapere, per collegare la questione fondamentale
delle condizioni di possibilità dell’uomo a una ridefinizione
del problema della storia in vista di una teoria della modernità. In
questo quadro, la ricerca di Giammusso si pone come “una
ricostruzione di storia della filosofia orientata verso questioni
di filosofia della storia” in funzione della situazione
culturale del presente. L’obiettivo teorico è allora, potremmo
dire, quello di una filosofia materiale della storia che prende le
distanze dalla filosofia della storia ottocentesca di più chiara
matrice conservatrice ed è ricollegabile piuttosto alla
problematicità dello storicismo troeltschiano, da cui deduce
pure, come si è detto, la connessione con il presente. In questa
prospettiva, quella dell’importanza della storia per la vita,
anche il richiamo alla nietzschiana storia critica si fa
imprescindibile. Ma in questa costellazione teorica è soprattutto
a Dilthey che Giammusso riconosce il suo debito: categorie come
comprensione, rivivere, coscienza storica, individualità storica,
ecc., da un lato guidano la ricerca, dall’altro sono ritrovate
nell’opera plessneriana, che perciò riveste interesse per
l’Autore. L’interpretazione
di Giammusso mira infatti a far emergere un Plessner storicista
che, profondamente consapevole del nesso tra coscienza storica e
scienza empirica – in particolare l’antropologia – inserisce
tale nesso all’interno di una più complessiva strategia di
riflessione filosofica sul moderno, per correggerne gli aspetti
patologici che derivano dalla stessa degenerazione dei processi di
modernizzazione. Questo progetto teorico presuppone una teoria
della storicità che considera vitale l’apertura al potere, e si
incontra con una concezione politica di superamento dell’eurocentrismo.
Il concetto cardine di tale teoria della storicità è il concetto
del comprendere, che viene esteso a tutte le forme del
comportamento umano, analizzato in termini fenomenologici.
Giammusso mette in evidenza come l’antropologia filosofica
plessneriana sia passibile di uno sviluppo
in una filosofia della storia di impostazione moderna, che
voglia sottrarsi ai rischi paralleli del naturalismo e della
metafisica, cioè sia fuori da ogni teleologismo
sette/ottocentesco di stampo positivistico o idealistico
e sia aperta invece alla considerazione, appartenente
all’orizzonte del moderno, della storicità come dinamica
dell’esperienza della storia “in cui aspetto teorico del
comprendere e aspetto pratico della lotta per il potere si
lasciano distinguere solo in via teorica.” Ecco in un primo
significato apparire la correlazione tra potere e comprendere che
dà il titolo al volume, laddove il potere si fa da potere tout
court a potere del comprendere e viceversa, in una circolarità
tra momento teorico e momento pratico in cui ciascuno getta luce e
serve da supporto all’altro. Plessner
appartiene perciò, secondo la lettura che ne dà Giammusso, a
quella costellazione dello storicismo che dopo Hegel non ha
rinunciato alla filosofia della storia pur rinunciando a ogni
metafisica della storia, e l’attualità del suo pensiero per noi
consiste anche nel collegare questa riflessione sulla storia a una
teoria della modernità inserita in una moderna antropologia
filosofica finalizzata all’agire pratico. E’ infatti la teoria
del moderno quella che secondo Giammusso costituisce la chiave di
volta per penetrare nell’apparente discontinuità del pensiero
plessneriano, consentendo di interpretarlo in un senso unitario.
Già nei primi saggi di storia (Sul
concetto occidentale di cultura, 1916, e La
visione del declino e l’Europa, del 1920-21), è possibile
rilevare l’obiettivo più profondo di una determinazione
dell’essenza dell’uomo in rapporto alla storia, laddove
Plessner si interroga sulla specificità del mondo occidentale
moderno rispetto al mondo orientale e rispetto al mondo medievale.
L’influsso di Weber è evidente, anche se Plessner procede oltre
la teoria weberiana del rapporto tra l’etica protestante e lo
spirito del capitalismo. Gli elementi che caratterizzano la
modernità occidentale sono sintetizzati nella formula dell’”eraclitismo
della prassi”, che sta lì a indicare un sistema aperto come
processo illimitato e illimitabile di perfezionamento dell’uomo
e di purificazione della materia ad opera del lavoro. Se
l’antico dualismo tra spirito e materia è quindi conservato,
questo trova nel lavoro inteso come valore e nella lotta che si
determina nella prassi un nuovo significato che caratterizza il
mondo occidentale moderno a partire dalla secolarizzazione del
luteranesimo. Elementi tutti estranei al mondo orientale, che
trova invece nella vita contemplativa orientata al valore di una
fede religiosa onnipervasiva il motivo della propria immutabilità. Il
pathos dell’apertura,
che Plessner ritiene caratteristica della modernità, e che tornerà
in molti suoi lavori, fa qui la sua prima apparizione interagendo
con quel rapporto tra le forme e la vita che rappresenta
anch’esso una specifica categoria interpretativa della storicità
come processo infinito di tensione irrisolta tra compiutezza e
incompiutezza. In questo processo il sapere come compito aperto,
che travolge nel processo la rigida forma, si inserisce come
valore che contribuisce a plasmare l’individualità e a formare
lo specifico ethos della modernità occidentale.
In questo quadro infatti l’individualità è definita
come compito infinito che si dà nel richiamarsi reciproco tra
autonomia e irripetibilità da un lato, e partecipazione a questo
processo infinito dall’altro. Una partecipazione dunque che non
è mai possesso, e che pertanto richiede il sacrificio di far
parte di un tutto inconcluso. Questo
stesso pathos
dell’apertura come secolarizzazione dello spirito del
protestantesimo anima anche i saggi di teoria della conoscenza di
Plessner, che mira a connettere impostazione neokantiana e
fenomenologica nella comune convinzione che obiettivo della
scienza sia sempre l’universale in base a cui connettere il
particolare, che per le scienze della cultura è il valore e per
le scienze della natura la legge. L’universale tendenza umana a
mettere ordine superando il caos e a trasformare l’ignoto in
noto trova nella scienza un caso particolare che però si presenta
come la forma di vita per eccellenza, dal momento che incarna in
modo paradigmatico l’ethos
moderno dell’apertura. La verità infatti si pone come idea
regolativa, compito aperto che richiede allo scienziato, come già
all’uomo comune, di sacrificarsi rinunciando al possesso del
proprio lavoro per inserirsi in una catena infinita in cui anche
la fine del processo di conoscenza si pone come un’idea limite.
La scienza si delinea così come una totalità impossibile, in cui
la fine della conoscenza si definisce come idea apriori
empiricamente irrealizzabile ma al tempo stesso necessaria perché
la conoscenza avanzi. Così nella scienza come nella conoscenza
comune l’ethos
dell’apertura implica che acquisti centralità la categoria
temporale del futuro: l’esistenza è continuo spostamento in
avanti in vista del futuro. L’importanza
del rapporto con Kant che emerge già da queste analisi è
sottolineata da Giammusso, che mette in evidenza come
l’antropologia filosofica di Plessner voglia essere un
ripensamento di Kant che vada oltre Kant “dall’interno”,
ossia sempre tenendo presente il primato della ragion pratica che
definisce l’autonomia dell’uomo come libertà che dà a se
stessa la propria legge. Giammusso non manca di prendere in
considerazione anche scritti normalmente trascurati nell’analisi
del pensiero di un autore, come la Dissertazione di Dottorato del
1917, poi pubblicata nel ’18. Qui la critica plessneriana
all’idealismo e al soggettivismo moderno attraverso Kant è più
esplicita, ed è portata avanti a partire dal fondamentale
concetto kantiano di sintesi trascendentale come processo in cui
il senso del soggetto e il senso dell’oggetto non sono definiti
una volta per tutte, ma trovano nella dinamicità stessa del
processo in cui sono inseriti la propria determinazione. Il
principio kantiano che la conoscenza sia basata sulla sintesi
trascendentale consente a Plessner di superare il dualismo
sostanzialistico di derivazione cartesiana e la metafisica della
coscienza, perché quest’ultima si rivela come il polo di una
relazione dinamica che collega l’io al mondo in modo originario,
ed è perciò sempre già inserita in questa relazione.
Il
criticismo kantiano si presenta così a Plessner come il modello
di un sapere moderno fondato sul primato della ragion pratica e
sull’apertura della verità come idea regolativa. Ma nonostante
ciò, il progetto plessneriano di un’antropologia filosofica
rinnovata, maturo a partire dagli anni ’20, richiedeva un
oltrepassamento dello stesso criticismo, perché includeva come
suoi punti cardine da un lato il superamento del dualismo tra
sensibilità e intelletto, che Plessner ritiene insufficientemente
risolto dallo schematismo trascendentale, e dall’altro
l’allargamento della riflessione critica anche all’esperienza
extrascientifica e prescientifica, obiettivo inevaso da Kant. Giammusso
mostra l’impianto storicistico che guida questo programma, che
Plessner si propone di realizzare a partire da una rinnovata
funzione da attribuire alla sensibilità e ai sensi, ispirandosi a
Dilthey sia nella critica al dualismo cartesiano sia nella
connessione tra sensi e intelletto che deriva dal principio
diltheyano dell’uomo intero. Il campo della sensibilità viene
esteso anche al di fuori della conoscenza a tutta l’esistenza
dell’uomo, che viene interpretata a partire dalla centralità
del concetto di comprensione. L’esistenza è sempre
interpretazione: in tal modo il concetto di comprendere viene a
essere il ponte da un lato tra sensibilità e intelletto,
dall’altro tra esperienza conoscitiva in senso stretto e
esperienza esistenziale tout
court. Ma
se l’esperienza è sempre esperienza del comprendere, un ruolo
di primo piano viene a assumere per Plessner
l’ermeneutica, atta ad analizzare non più documenti e
monumenti, bensì le condizioni di possibilità dell’esperienza
stessa. Gioca qui di sfondo un concetto cardine dello storicismo
ermeneutico di Dilthey, da Plessner tradotto più tardi nella
formula dell’homo
absconditus, cui dedicherà l’omonimo saggio del 1969: il
concetto di individualità, come vita spirituale al tempo stesso
accessibile attraverso le sue espressioni e le sue oggettivazioni,
e inaccessibile nell’inesauribilità della sua interiorità e
nella totalità infinita delle sue possibilità. L’individualità
si configura cioè come dinamismo tra essere e divenire in cui il
senso della totalità è insondabile perché essa si presenta come
un sistema aperto di possibilità, ma pure il senso delle singole
espressioni e oggettivazioni, che noi comprendiamo, è
inesauribile perché esse affondano le radici in un’interiorità
spirituale che non si oggettiva
mai sino in fondo. In
questo quadro teorico in cui si incontrano antropologia,
storicismo ed ermeneutica, e che si situa nella direzione della Gottingen-Dilthey-Schule,
Plessner introduce la fenomenologia come metodologia per lo studio
delle emergenze in cui si dà il rapporto tra uomo e mondo per far
apparire intuitivamente il senso dei fenomeni stessi dalla loro
descrizione analitica. Il concetto centrale che esprime questo
rapporto tra uomo e mondo diviene in Die
Stufen des Organischen und der Mensch, del 1928, quello di
posizionalità: il corpo è il medium necessario tra io e mondo,
che, mostrando l’ambiguità tra interno e esterno, dentro
e fuori, supera la distinzione cartesiana tra res
cogitans e res extensa. Nel comportamento infatti,
l’intenzione spirituale si oggettiva nell’espressione
sensibile, per un verso mediando attraverso il corpo il rapporto
tra io e mondo, per l’altro ponendo l’io immediatamente in
rapporto con l’altro che quell’espressione comprende. Il
comportamento, analizzato da Plessner col metodo fenomenologico in
molti suoi aspetti, viene considerato perciò come una totalità
originaria che fonda il rapporto tra uomo e mondo e che è sempre
dotato di un senso comprensibile, sebbene non esauribile. La
teoria del comprendere porta con sé una teoria del senso inteso
come essenza già sempre espressa nel comportamento e già sempre
compresa mediante l’espressione sensibile. Il corpo diviene
perciò il medium del
senso, perché da un lato lo esprime comportamento, dall’altro
lo esperisce nella comprensione. Si stabilisce pertanto una
circolarità tra sensi e senso in cui il corpo si pone come il
luogo del comprendere e il luogo dell’espressione, in altre
parole il centro dell’esperienza del mondo. L’importanza della
rivalutazione operata da Plessner dei sensi e della sensibilità,
puntando sulla centralità del corpo come medium
nel rapporto tra l’io e il mondo, è riconosciuta da Habermas,
che sottolinea come in tal modo l’espressione viene scissa dal
tradizionale veicolo del linguaggio verbale, per divenire
espressione sensibile tout
court. E’
possibile pertanto porre alla base dell’antropologia filosofica
di Plessner , come punto di incontro tra fenomenologia e
ermeneutica, il nesso comportamento-senso-comprensione. Il
comprendere diviene così per Plessner, da categoria
interpretativa delle scienze dello spirito, una struttura
fondamentale del comportamento, con un notevole allargamento del
suo raggio d’azione e una rivalutazione del senso comune e
dell’esperienza vissuta. Infatti Plessner considera il
comportamento, che mi sembra poter interpretare nel senso del
nesso comportamento-senso-comprensione, come guida dell’agire
pratico nelle situazioni di vita dell’essere umano, delineando
un ulteriore nesso teoria-prassi: l’interpretazione è sempre in
vista dell’agire pratico. Nella
sua teoria del moderno come ethos
dell’apertura Plessner è profondamente influenzato dai princìpi
della Lebensphilosophie dell’inesauribilità
del senso che deriva dall’inoggettivabilità del rapporto
vita-forme e dall’inadeguatezza dell’espressione, assumendo
l’apertura da un lato del mondo storico dall’altro delle
categorie che quel mondo devono sempre reinterpretare. Da
quest’apertura deriva che per l’antropologia plessneriana, in
un’ottica di superamento dell’eurocentrismo, ogni cultura ha
pari dignità rispetto alle altre, sia in senso diacronico che
sincronico. Ma da questa apertura deriva anche che, essendo il
mondo storico un sistema aperto di possibilità, la politica viene
a assumere nel pensiero di Plessner un ruolo fondamentale per la
società. Plessner vede la società come l’insieme dei ruoli
sociali in cui ciascuno entra in rapporto con gli altri sulla base
di uno scambio che è sempre gioco di potere, gioco in quanto la
lotta per il potere è sempre mascherata e nascosta da
innumerevoli forme sociali e socializzanti, di espressione e di
comportamento, che richiedono tatto e prudenza, nonché conoscenza
e rispetto delle regole del gioco stesso. In questo senso la
politica, universale perché universale è la lotta per il potere,
si definisce primariamente come diplomazia, che ha reso sfumata la
lotta nel riconoscimento e nel rispetto dell’altro. Giammusso
non manca di notare come questa concezione sottenda una visione
della storia che, pur lontana da ogni teleologismo, si avvicina
alla tradizionale visione del liberalismo ottocentesco che sulla
storia delle idee fa prevalere la storia politico-militare, poiché
vede l’elemento che fa la storia nell’azione
politico-diplomatica individuale. Ma Giammusso mette anche in
risalto come l’elemento centrale della filosofia politica
plessneriana sia il concetto di politica come cultura, non
soltanto perché la politica esprime nella forma più alta il
gioco di potere proprio della società come gioco diplomatico
fatto di tatto, prudenza, conoscenza delle regole e rispetto
dell’altro che si è detto, ma soprattutto perché Plessner
attribuisce alla
politica, all’interno dello Stato, una funzione di progressiva
democratizzazione e civilizzazione della società, secondo
l’ideale utopico di un’umanità da realizzare superando gli
angusti confini dell’eurocentrismo. Così l’agire politico
viene a caratterizzarsi nella visione plessneriana per
l’autonomia, la creatività e la responsabilità che lo
contraddistinguono rispetto alle altre forme di agire sociale e
che ad esso assumere un ruolo elitario: Plessner lo definisce, con
accenti utopici, come “arte dello Stato al partire dall’umanità
e per l’umanità”. La
concezione della storia come storia politico-militare fondata
sull’azione individuale e della diplomazia come gioco mediato
dei rapporti di forza che fa della politica un’arte orientata in
funzione civilizzatrice viene espressa in Die Grenzen der
Gemeinschaft, del 1924, dove Plessner precisa anche il
rapporto tra storia e politica nel quale un ruolo importante è
svolto dal tempo. La politica è connotata come decisione del
presente che prefigura il futuro a partire dalla rilettura del
passato, così da istituire una connessione di senso che apre alla
storia. Ne deriva l’importante affermazione che “nessun evento
nella storia è stabilito in maniera del tutto univoca”, ma “è
sempre in funzione della storia in divenire”. Ciò significa che
il senso di un evento storico non è definibile in modo oggettivo,
ma è sempre riattualizzabile a partire dal presente che lo
inserisce in un orizzonte di senso in vista dell’azione futura.
Il senso della storia non è più proponibile secondo gli schemi
precostituiti della filosofia della storia tradizionale, né del
Positivismo né dell’Idealismo: “L’unico senso della storia
è la storicità del senso, che si comprende sempre di nuovo in un
processo ermeneutico aperto”.
Che
la concezione plessneriana della stretta connessione tra
riflessione teorica e agire pratico non fosse una pura
teorizzazione accademica lo mostra l’importante Macht und
Menschliche Natur, del 1931, che ha un chiaro
intento pratico-politico. Di fronte all’indifferenza
dell’intellettualità tedesca nei confronti della vita politica,
considerata con dispregio pura tecnica, Plessner intende
riaffermare la dignità della sfera politica di fronte alle altre
forme culturali e ribadisce il valore culturale della politica e
il valore politico della cultura, insito anche nelle forme
culturali apparentemente più distanti dalla politica in senso
stretto. La nascita di una nuova cultura politica, autonoma e al
tempo stesso dotata di una sua dignità al pari delle altre forme
di vita spirituale, è lo scopo della teoria della circolarità
tra filosofia e politica, il cui nesso restituisce concretezza
alla prima e valore alla seconda. Contro ogni visione avalutativa
e oggettivizzante del sapere, ciò significa per Plessner che ogni
agire politico ha in sé una specifica concezione teorica della
natura umana, e che viceversa ogni concezione antropologica
implica una determinata visione dell’ordine politico. Plessner
si confronta qui più che altrove con i punti nodali dello
storicismo, scrivendo anche un lungo excursus su Dilthey.
L’idea che la modernità sia apertura al pluralismo e alla
democrazia e superamento dell’eurocentrismo si incontra con una
riflessione sul problema della storia e delle categorie storiche
che affronta anche la spinosa questione del relativismo. La Lebensphilosophie
permette a Plessner la critica al soggettivismo metafisico, che
vede l’io come sostanza: l’individuo non è, ma vive. Il
principio diltheyano della vita come connessione dinamica tra
esperienza e categorie che guidano l’esperienza, come tensione
sempre irrisolta tra vita e forme, come circolarità tra
indeterminatezza e determinazione, si situa nell’orizzonte della
critica alle concezioni che, determinando ontologicamente una
struttura intemporale dell’umano, sottraggono all’essere umano
l’autonomia e la responsabilità. L’uomo è potere, afferma Plessner: apertura alla
possibilità e dunque libertà che è responsabilità, immanenza
aperta, decisione per il futuro. E questo potere è teorico e
pratico: è un comprendere che è un fare ed è un fare che è un
comprendere. La storicità in cui già da sempre l’individuo si
trova inserito si configura allora nella modernità come orizzonte
pluralistico e
apertura di possibilità in cui l’uomo si pone con la sua
assenza di fondamento ontologico che implica un compito morale. In
questo primato della ragion pratica, senso della storia e senso
della prassi si incontrano. Nota
[1]: Devo qui ringraziare, per averli gravemente dimenticati nei
Ringraziamenti ufficiali del sito, la compianta Signora Elena
Croce, che mi ha gentilmente aiutato, all’Istituto di Studi
Storici “Benedetto Croce” di Napoli, nel rinvenimento delle
lettere del pensatore Carlo Michaelstaedter all’illustre
Benedetto Croce, l’allora Direttore dell’Istituto Professore
Gennaro Sasso, l’attuale Direttrice Dottoressa Marta Haerling, e
l’allora Direttore della Biblioteca Dottore Maurizio Tarantino.
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