STEFANIA SAPORA

                 COGITO ergo SUM.....ergo DIGITO

 

PAGINA 23 IN COSTRUZIONE

In stefania15/storia prassi

 

Senso della storia e senso della prassi

 

Se il senso della storia è da considerare tra gli indici più significativi della coscienza che una data epoca storica, e all’interno di essa, gli individui che vi appartengono hanno di sé e del proprio rapporto con il mondo, è noto come uno dei tratti caratteristici della modernità sia la novità nella percezione della continuità della storia, e conseguentemente della posizione dell’uomo nel mondo. A tratteggiare la modernità può cioè chiamarsi anche la fine di ogni visione teleologica di uno sviluppo progressivo della storia, che ha portato con sé l’incertezza, ma pure la libertà, e la responsabilità derivanti dall’umanizzazione di ogni telos.

Sul piano della filosofia della storia il dibattito aperto dalla crisi dei sistemi positivistici e idealistici da un lato, dalla secolarizzazione dall’altro può dirsi tutt’altro che concluso, dal momento che l’impossibilità di rintracciare un senso unitario nel susseguirsi degli eventi e delle epoche storiche, nonché di intravvedere un piano razionale nel diversificarsi delle culture e dei popoli, ha consentito di intendere il concetto di relativismo storico, che di quell’impossibilità è derivazione necessaria, secondo latitudini  e significati molto diversi.

Se un senso positivo si vuol dare al concetto di una relatività degli eventi come dei valori che muovono la storia, si deve intenderlo nel senso di una storicità del mondo umano la cui comprensibilità, lungi dall’essere negata o ridotta a visione estetica o irrazionalistica, è riaffermata come possibile a partire da categorie anch’esse storiche,  e la cui comprensione è considerata come necessaria in vista, potremmo dire, dell’orientazione nel mondo. In tal modo, si delinea una continuità storica il cui senso è aperto, da costruire quindi di volta in volta nella teoria come nella prassi.

Alternativa rispetto a una considerazione che si ponga nei confronti dell’oggetto storico come sguardo estetizzante e musealizzante, o negatore del suo senso e della possibilità di una sua comprensione, è uscita ora un’interessante monografia di Salvatore Giammusso, Potere e comprendere.La questione dell’esperienza storica e l’opera di Helmut Plessner, Guerini e Associati, Milano 1995.L’opera si inquadra in un orizzonte teoretico che prende le mosse da quella che potremmo definire un’opzione forte. La filosofia della storia viene assunta da Giammusso non più legata agli schemi idealistici o anche positivistici che l’hanno resa improponibile a una moderna concezione scientifica della storiografia, bensì fortemente ancorata alla necessaria correlazione tra storicità e comprendere storico, la cui negazione finirebbe col rendere quella stessa storiografia impossibile. Nella prospettiva storicistica che guida l’opera, allora, filosofia della storia ha il senso rifondato, e da rifondare, di una visione della storia che tiene conto del disincanto come del relativismo come problemi con cui confrontarsi per procedere oltre, nella direzione di una comprensione dell’oggetto storico che, dando spessore al passato, rimandi luce sul presente.

Il progetto è ambizioso: una filosofia della storia che faccia interagire tra loro fenomenologia e ermeneutica in un orizzonte storicistico, per porsi come fenomenologia della storia in senso pratico. Sembra superfluo sottolineare a questo punto il valore più pratico che normativo in senso forte dell’oggetto storico, perché esso è assunto nella necessaria consapevolezza dell’apertura della storia nella sua problematicità di svolgimento, che non è né può mai essere certezza. Ma pure, nonostante ciò, il suo valore pratico, che l’Autore suggerisce essere politico, è l’unico in grado, senso il senso nietzscheiano di storia critica, di autogiustificarsi.

Ma perché Plessner? Perché Plessner è il luogo in cui, secondo Giammusso, si intrecciano in modo paradigmatico e originale fenomenologia, ermeneutica e storicismo, che appunto l’Autore vuol fare interagire tra loro, mostrando come sia possibile superare la distanza che li separa e come, a partire da quest’interazione, sia possibile porre proficuamente in un senso rinnovato il nesso teoria-prassi.

Helmut Plessner (1892-1985) ha studiato medicina, zoologia e filosofia a Freiburg, Heidelberg e Gottingen, sotto la guida, tra gli altri, di Husserl e Windelband. Dal 1926 ha insegnato filosofia e, dopo l’emigrazione in Olanda, a Groningen nel 1933 (era ebreo), anche sociologia, che dal 1962 al 1963 lo ha portato alla New School of Social Research di New York. Poiché Plessner rimase sostanzialmente un outsider, che perciò scontò con l’isolamento il prezzo della propria autonomia, la sua figura di teorico dell’antropologia filosofica del ‘900 è sempre stata oscurata da quella di Max Scheler e Arnold Gehlen, sebbene dagli Anni Ottanta, soprattutto in seguito alla pubblicazione delle Gesammelte Schriften  

[G.S., hrsg. von G. Dux, O. Marquand und E. Srocker, Suhrkamp, Frankfurt  a M. 1980-86, 10voll.], numerosi comincino a essere gli studi a lui dedicati (si ricordano tra gli altri M. Meyer, E. Stroker, M. Herzog, W. Seitter, K. S. Rehberg, K. Thomas, ecc.).

L’interesse che Giammusso nutre per questa figura di filosofo-antropologo, cui ha dedicato più di uno scritto, curandone anche la bibliografia per il “Dilthey-Jahrbuch”, consiste nell’essere stato Plessner in rapporto con diverse scuole filosofiche, che ne influenzarono la formazione ma non ne minarono l’originalità, cosicché si può dire che egli traesse da ognuna di esse apporti teorico-metodologici da utilizzare funzionalmente alle proprie ricerche empiriche e al proprio programma teorico. Infatti, oltre ai contatti con la fenomenologia di Husserl e il neokantismo di Windelband, Plessner intrattenne rapporti fondamentali anche con Max Weber, e poi con Max Scheler e con Georg Misch, che lo introdusse alla filosofia di Dilthey. Nei fecondi anni Venti, fondò a Colonia la rivista “Philosophischer Anzeiger”, cui collaborarono anche, oltre al nostro Croce [1], Heidegger e Hartmann, e che voleva porsi come luogo di confronto della sociologia tedesca con il   funzionalismo americano e la Scuola di Francoforte.

Inevitabile che tutta questa ricchezza e diversità di contatti e di rapporti rendesse la sua personalità culturale estremamente composita e ricca di stimoli nelle più diverse direzioni, e che questa si proiettasse anche nella sua produzione: studi su Kant, di zoologia, biologia, fenomenologia, sociologia, antropologia, sulla teoria della conoscenza, saggi di storia, scritti storico-politici, ecc.

Intorno agli anni Venti, la massa dei suoi interessi viene a chiarirsi come guidata da un’impostazione kantiana, mirante a una fondazione delle scienze dell’uomo a partire dall’antropologia, che tenga presente da un lato la fenomenologia husserliana e, dall’altro, il principio diltheyano dell’intreccio tra natura e cultura. Aspetti teorico-metodologici e aspetti storico-empirici sono perciò ambedue compresenti nell’antropologia filosofica di Plessner: se la questione fondamentale è kantianamente quella delle condizioni di possibilità dell’uomo, questa viene inserita in un orizzonte teorico di tipo storicistico, che si distacca da qualunque definizione ontologica dell’essenza dell’uomo, e che viene affrontata sul piano empirico da un lato con ricerche storiche sull’essenza dell’uomo nella civiltà occidentale, dall’altro con numerose ricerche fenomenologiche sul comportamento dell’uomo (il riso, il pianto, il sorriso, ecc.). In tutte queste ricerche Plessner, aperto alle sollecitazioni di più orientamenti teorici e mai chiuso dai limiti problematici di ciascuno, fa interagire tra loro, in modo originalmente scevro da dogmatismi, i modelli della fenomenologia, dello storicismo, della Lebensphilosophie, dell’ermeneutica, del marxismo e della sociologia del sapere, per collegare la questione fondamentale delle condizioni di possibilità dell’uomo a una ridefinizione del problema della storia in vista di una teoria della modernità.

In questo quadro, la ricerca di Giammusso si pone come “una ricostruzione di storia della filosofia orientata verso questioni di filosofia della storia” in funzione della situazione culturale del presente. L’obiettivo teorico è allora, potremmo dire, quello di una filosofia materiale della storia che prende le distanze dalla filosofia della storia ottocentesca di più chiara matrice conservatrice ed è ricollegabile piuttosto alla problematicità dello storicismo troeltschiano, da cui deduce pure, come si è detto, la connessione con il presente. In questa prospettiva, quella dell’importanza della storia per la vita, anche il richiamo alla nietzschiana storia critica si fa imprescindibile. Ma in questa costellazione teorica è soprattutto a Dilthey che Giammusso riconosce il suo debito: categorie come comprensione, rivivere, coscienza storica, individualità storica, ecc., da un lato guidano la ricerca, dall’altro sono ritrovate nell’opera plessneriana, che perciò riveste interesse per l’Autore.

L’interpretazione di Giammusso mira infatti a far emergere un Plessner storicista che, profondamente consapevole del nesso tra coscienza storica e scienza empirica – in particolare l’antropologia – inserisce tale nesso all’interno di una più complessiva strategia di riflessione filosofica sul moderno, per correggerne gli aspetti patologici che derivano dalla stessa degenerazione dei processi di modernizzazione. Questo progetto teorico presuppone una teoria della storicità che considera vitale l’apertura al potere, e si incontra con una concezione politica di superamento dell’eurocentrismo. Il concetto cardine di tale teoria della storicità è il concetto del comprendere, che viene esteso a tutte le forme del comportamento umano, analizzato in termini fenomenologici. Giammusso mette in evidenza come l’antropologia filosofica plessneriana sia passibile di uno sviluppo  in una filosofia della storia di impostazione moderna, che voglia sottrarsi ai rischi paralleli del naturalismo e della metafisica, cioè sia fuori da ogni teleologismo sette/ottocentesco di stampo positivistico o idealistico  e sia aperta invece alla considerazione, appartenente all’orizzonte del moderno, della storicità come dinamica dell’esperienza della storia “in cui aspetto teorico del comprendere e aspetto pratico della lotta per il potere si lasciano distinguere solo in via teorica.” Ecco in un primo significato apparire la correlazione tra potere e comprendere che dà il titolo al volume, laddove il potere si fa da potere tout court a potere del comprendere e viceversa, in una circolarità tra momento teorico e momento pratico in cui ciascuno getta luce e serve da supporto all’altro.

Plessner appartiene perciò, secondo la lettura che ne dà Giammusso, a quella costellazione dello storicismo che dopo Hegel non ha rinunciato alla filosofia della storia pur rinunciando a ogni metafisica della storia, e l’attualità del suo pensiero per noi consiste anche nel collegare questa riflessione sulla storia a una teoria della modernità inserita in una moderna antropologia filosofica finalizzata all’agire pratico. E’ infatti la teoria del moderno quella che secondo Giammusso costituisce la chiave di volta per penetrare nell’apparente discontinuità del pensiero plessneriano, consentendo di interpretarlo in un senso unitario. Già nei primi saggi di storia (Sul concetto occidentale di cultura, 1916, e La visione del declino e l’Europa, del 1920-21), è possibile rilevare l’obiettivo più profondo di una determinazione dell’essenza dell’uomo in rapporto alla storia, laddove Plessner si interroga sulla specificità del mondo occidentale moderno rispetto al mondo orientale e rispetto al mondo medievale. L’influsso di Weber è evidente, anche se Plessner procede oltre la teoria weberiana del rapporto tra l’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Gli elementi che caratterizzano la modernità occidentale sono sintetizzati nella formula dell’”eraclitismo della prassi”, che sta lì a indicare un sistema aperto come processo illimitato e illimitabile di perfezionamento dell’uomo e di purificazione della materia ad opera del lavoro. Se l’antico dualismo tra spirito e materia è quindi conservato, questo trova nel lavoro inteso come valore e nella lotta che si determina nella prassi un nuovo significato che caratterizza il mondo occidentale moderno a partire dalla secolarizzazione del luteranesimo. Elementi tutti estranei al mondo orientale, che trova invece nella vita contemplativa orientata al valore di una fede religiosa onnipervasiva il motivo della propria immutabilità.

Il pathos dell’apertura, che Plessner ritiene caratteristica della modernità, e che tornerà in molti suoi lavori, fa qui la sua prima apparizione interagendo con quel rapporto tra le forme e la vita che rappresenta anch’esso una specifica categoria interpretativa della storicità come processo infinito di tensione irrisolta tra compiutezza e incompiutezza. In questo processo il sapere come compito aperto, che travolge nel processo la rigida forma, si inserisce come valore che contribuisce a plasmare l’individualità e a formare lo specifico ethos della modernità occidentale.  In questo quadro infatti l’individualità è definita come compito infinito che si dà nel richiamarsi reciproco tra autonomia e irripetibilità da un lato, e partecipazione a questo processo infinito dall’altro. Una partecipazione dunque che non è mai possesso, e che pertanto richiede il sacrificio di far parte di un tutto inconcluso.

Questo stesso pathos dell’apertura come secolarizzazione dello spirito del protestantesimo anima anche i saggi di teoria della conoscenza di Plessner, che mira a connettere impostazione neokantiana e fenomenologica nella comune convinzione che obiettivo della scienza sia sempre l’universale in base a cui connettere il particolare, che per le scienze della cultura è il valore e per le scienze della natura la legge. L’universale tendenza umana a mettere ordine superando il caos e a trasformare l’ignoto in noto trova nella scienza un caso particolare che però si presenta come la forma di vita per eccellenza, dal momento che incarna in modo paradigmatico l’ethos moderno dell’apertura. La verità infatti si pone come idea regolativa, compito aperto che richiede allo scienziato, come già all’uomo comune, di sacrificarsi rinunciando al possesso del proprio lavoro per inserirsi in una catena infinita in cui anche la fine del processo di conoscenza si pone come un’idea limite. La scienza si delinea così come una totalità impossibile, in cui la fine della conoscenza si definisce come idea apriori empiricamente irrealizzabile ma al tempo stesso necessaria perché la conoscenza avanzi. Così nella scienza come nella conoscenza comune l’ethos dell’apertura implica che acquisti centralità la categoria temporale del futuro: l’esistenza è continuo spostamento in avanti in vista del futuro.

L’importanza del rapporto con Kant che emerge già da queste analisi è sottolineata da Giammusso, che mette in evidenza come l’antropologia filosofica di Plessner voglia essere un ripensamento di Kant che vada oltre Kant “dall’interno”, ossia sempre tenendo presente il primato della ragion pratica che definisce l’autonomia dell’uomo come libertà che dà a se stessa la propria legge. Giammusso non manca di prendere in considerazione anche scritti normalmente trascurati nell’analisi del pensiero di un autore, come la Dissertazione di Dottorato del 1917, poi pubblicata nel ’18. Qui la critica plessneriana all’idealismo e al soggettivismo moderno attraverso Kant è più esplicita, ed è portata avanti a partire dal fondamentale concetto kantiano di sintesi trascendentale come processo in cui il senso del soggetto e il senso dell’oggetto non sono definiti una volta per tutte, ma trovano nella dinamicità stessa del processo in cui sono inseriti la propria determinazione. Il principio kantiano che la conoscenza sia basata sulla sintesi trascendentale consente a Plessner di superare il dualismo sostanzialistico di derivazione cartesiana e la metafisica della coscienza, perché quest’ultima si rivela come il polo di una relazione dinamica che collega l’io al mondo in modo originario, ed è perciò sempre già inserita in questa relazione.        

Il criticismo kantiano si presenta così a Plessner come il modello di un sapere moderno fondato sul primato della ragion pratica e sull’apertura della verità come idea regolativa. Ma nonostante ciò, il progetto plessneriano di un’antropologia filosofica rinnovata, maturo a partire dagli anni ’20, richiedeva un oltrepassamento dello stesso criticismo, perché includeva come suoi punti cardine da un lato il superamento del dualismo tra sensibilità e intelletto, che Plessner ritiene insufficientemente risolto dallo schematismo trascendentale, e dall’altro l’allargamento della riflessione critica anche all’esperienza extrascientifica e prescientifica, obiettivo inevaso da Kant.

Giammusso mostra l’impianto storicistico che guida questo programma, che Plessner si propone di realizzare a partire da una rinnovata funzione da attribuire alla sensibilità e ai sensi, ispirandosi a Dilthey sia nella critica al dualismo cartesiano sia nella connessione tra sensi e intelletto che deriva dal principio diltheyano dell’uomo intero. Il campo della sensibilità viene esteso anche al di fuori della conoscenza a tutta l’esistenza dell’uomo, che viene interpretata a partire dalla centralità del concetto di comprensione. L’esistenza è sempre interpretazione: in tal modo il concetto di comprendere viene a essere il ponte da un lato tra sensibilità e intelletto, dall’altro tra esperienza conoscitiva in senso stretto e esperienza esistenziale tout court.

Ma se l’esperienza è sempre esperienza del comprendere, un ruolo  di primo piano viene a assumere per Plessner l’ermeneutica, atta ad analizzare non più documenti e monumenti, bensì le condizioni di possibilità dell’esperienza stessa. Gioca qui di sfondo un concetto cardine dello storicismo ermeneutico di Dilthey, da Plessner tradotto più tardi nella formula dell’homo absconditus, cui dedicherà l’omonimo saggio del 1969: il concetto di individualità, come vita spirituale al tempo stesso accessibile attraverso le sue espressioni e le sue oggettivazioni, e inaccessibile nell’inesauribilità della sua interiorità e nella totalità infinita delle sue possibilità. L’individualità si configura cioè come dinamismo tra essere e divenire in cui il senso della totalità è insondabile perché essa si presenta come un sistema aperto di possibilità, ma pure il senso delle singole espressioni e oggettivazioni, che noi comprendiamo, è inesauribile perché esse affondano le radici in un’interiorità spirituale che non si oggettiva  mai sino in fondo.

In questo quadro teorico in cui si incontrano antropologia, storicismo ed ermeneutica, e che si situa nella direzione della Gottingen-Dilthey-Schule, Plessner introduce la fenomenologia come metodologia per lo studio delle emergenze in cui si dà il rapporto tra uomo e mondo per far apparire intuitivamente il senso dei fenomeni stessi dalla loro descrizione analitica. Il concetto centrale che esprime questo rapporto tra uomo e mondo diviene in Die Stufen des Organischen und der Mensch, del 1928, quello di posizionalità: il corpo è il medium necessario tra io e mondo,  che, mostrando l’ambiguità tra interno e esterno, dentro e fuori, supera la distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa. Nel comportamento infatti, l’intenzione spirituale si oggettiva nell’espressione sensibile, per un verso mediando attraverso il corpo il rapporto tra io e mondo, per l’altro ponendo l’io immediatamente in rapporto con l’altro che quell’espressione comprende. Il comportamento, analizzato da Plessner col metodo fenomenologico in molti suoi aspetti, viene considerato perciò come una totalità originaria che fonda il rapporto tra uomo e mondo e che è sempre dotato di un senso comprensibile, sebbene non esauribile. La teoria del comprendere porta con sé una teoria del senso inteso come essenza già sempre espressa nel comportamento e già sempre compresa mediante l’espressione sensibile. Il corpo diviene perciò il medium del senso, perché da un lato lo esprime comportamento, dall’altro lo esperisce nella comprensione. Si stabilisce pertanto una circolarità tra sensi e senso in cui il corpo si pone come il luogo del comprendere e il luogo dell’espressione, in altre parole il centro dell’esperienza del mondo. L’importanza della rivalutazione operata da Plessner dei sensi e della sensibilità, puntando sulla centralità del corpo come medium nel rapporto tra l’io e il mondo, è riconosciuta da Habermas, che sottolinea come in tal modo l’espressione viene scissa dal tradizionale veicolo del linguaggio verbale, per divenire espressione sensibile tout court.

E’ possibile pertanto porre alla base dell’antropologia filosofica di Plessner , come punto di incontro tra fenomenologia e ermeneutica, il nesso comportamento-senso-comprensione. Il comprendere diviene così per Plessner, da categoria interpretativa delle scienze dello spirito, una struttura fondamentale del comportamento, con un notevole allargamento del suo raggio d’azione e una rivalutazione del senso comune e dell’esperienza vissuta. Infatti Plessner considera il comportamento, che mi sembra poter interpretare nel senso del nesso comportamento-senso-comprensione, come guida dell’agire pratico nelle situazioni di vita dell’essere umano, delineando un ulteriore nesso teoria-prassi: l’interpretazione è sempre in vista dell’agire pratico.

Nella sua teoria del moderno come ethos dell’apertura Plessner è profondamente influenzato dai princìpi della Lebensphilosophie  dell’inesauribilità del senso che deriva dall’inoggettivabilità del rapporto vita-forme e dall’inadeguatezza dell’espressione, assumendo l’apertura da un lato del mondo storico dall’altro delle categorie che quel mondo devono sempre reinterpretare. Da quest’apertura deriva che per l’antropologia plessneriana, in un’ottica di superamento dell’eurocentrismo, ogni cultura ha pari dignità rispetto alle altre, sia in senso diacronico che sincronico. Ma da questa apertura deriva anche che, essendo il mondo storico un sistema aperto di possibilità, la politica viene a assumere nel pensiero di Plessner un ruolo fondamentale per la società. Plessner vede la società come l’insieme dei ruoli sociali in cui ciascuno entra in rapporto con gli altri sulla base di uno scambio che è sempre gioco di potere, gioco in quanto la lotta per il potere è sempre mascherata e nascosta da innumerevoli forme sociali e socializzanti, di espressione e di comportamento, che richiedono tatto e prudenza, nonché conoscenza e rispetto delle regole del gioco stesso. In questo senso la politica, universale perché universale è la lotta per il potere, si definisce primariamente come diplomazia, che ha reso sfumata la lotta nel riconoscimento e nel rispetto dell’altro.

Giammusso non manca di notare come questa concezione sottenda una visione della storia che, pur lontana da ogni teleologismo, si avvicina alla tradizionale visione del liberalismo ottocentesco che sulla storia delle idee fa prevalere la storia politico-militare, poiché vede l’elemento che fa la storia nell’azione politico-diplomatica individuale. Ma Giammusso mette anche in risalto come l’elemento centrale della filosofia politica plessneriana sia il concetto di politica come cultura, non soltanto perché la politica esprime nella forma più alta il gioco di potere proprio della società come gioco diplomatico fatto di tatto, prudenza, conoscenza delle regole e rispetto dell’altro che si è detto, ma soprattutto perché Plessner  attribuisce  alla politica, all’interno dello Stato, una funzione di progressiva democratizzazione e civilizzazione della società, secondo l’ideale utopico di un’umanità da realizzare superando gli angusti confini dell’eurocentrismo. Così l’agire politico viene a caratterizzarsi nella visione plessneriana per l’autonomia, la creatività e la responsabilità che lo contraddistinguono rispetto alle altre forme di agire sociale e che ad esso assumere un ruolo elitario: Plessner lo definisce, con accenti utopici, come “arte dello Stato al partire dall’umanità e per l’umanità”.

La concezione della storia come storia politico-militare fondata sull’azione individuale e della diplomazia come gioco mediato dei rapporti di forza che fa della politica un’arte orientata in funzione civilizzatrice viene espressa in Die Grenzen der Gemeinschaft, del 1924, dove Plessner precisa anche il rapporto tra storia e politica nel quale un ruolo importante è svolto dal tempo. La politica è connotata come decisione del presente che prefigura il futuro a partire dalla rilettura del passato, così da istituire una connessione di senso che apre alla storia. Ne deriva l’importante affermazione che “nessun evento nella storia è stabilito in maniera del tutto univoca”, ma “è sempre in funzione della storia in divenire”. Ciò significa che il senso di un evento storico non è definibile in modo oggettivo, ma è sempre riattualizzabile a partire dal presente che lo inserisce in un orizzonte di senso in vista dell’azione futura. Il senso della storia non è più proponibile secondo gli schemi precostituiti della filosofia della storia tradizionale, né del Positivismo né dell’Idealismo: “L’unico senso della storia è la storicità del senso, che si comprende sempre di nuovo in un processo ermeneutico aperto”.   

Che la concezione plessneriana della stretta connessione tra riflessione teorica e agire pratico non fosse una pura teorizzazione accademica lo mostra l’importante Macht und Menschliche Natur, del 1931, che ha un chiaro  intento pratico-politico. Di fronte all’indifferenza dell’intellettualità tedesca nei confronti della vita politica, considerata con dispregio pura tecnica, Plessner intende riaffermare la dignità della sfera politica di fronte alle altre forme culturali e ribadisce il valore culturale della politica e il valore politico della cultura, insito anche nelle forme culturali apparentemente più distanti dalla politica in senso stretto. La nascita di una nuova cultura politica, autonoma e al tempo stesso dotata di una sua dignità al pari delle altre forme di vita spirituale, è lo scopo della teoria della circolarità tra filosofia e politica, il cui nesso restituisce concretezza alla prima e valore alla seconda. Contro ogni visione avalutativa e oggettivizzante del sapere, ciò significa per Plessner che ogni agire politico ha in sé una specifica concezione teorica della natura umana, e che viceversa ogni concezione antropologica implica una determinata visione dell’ordine politico. Plessner si confronta qui più che altrove con i punti nodali dello storicismo, scrivendo anche un lungo excursus su Dilthey. L’idea che la modernità sia apertura al pluralismo e alla democrazia e superamento dell’eurocentrismo si incontra con una riflessione sul problema della storia e delle categorie storiche che affronta anche la spinosa questione del relativismo. La Lebensphilosophie permette a Plessner la critica al soggettivismo metafisico, che vede l’io come sostanza: l’individuo non è, ma vive. Il principio diltheyano della vita come connessione dinamica tra esperienza e categorie che guidano l’esperienza, come tensione sempre irrisolta tra vita e forme, come circolarità tra indeterminatezza e determinazione, si situa nell’orizzonte della critica alle concezioni che, determinando ontologicamente una struttura intemporale dell’umano, sottraggono all’essere umano l’autonomia e la responsabilità.  L’uomo è potere, afferma Plessner: apertura alla possibilità e dunque libertà che è responsabilità, immanenza aperta, decisione per il futuro. E questo potere è teorico e pratico: è un comprendere che è un fare ed è un fare che è un comprendere. La storicità in cui già da sempre l’individuo si trova inserito si configura allora nella modernità come orizzonte pluralistico  e apertura di possibilità in cui l’uomo si pone con la sua assenza di fondamento ontologico che implica un compito morale. In questo primato della ragion pratica, senso della storia e senso  della prassi si incontrano.

 

Nota [1]: Devo qui ringraziare, per averli gravemente dimenticati nei Ringraziamenti ufficiali del sito, la compianta Signora Elena Croce, che mi ha gentilmente aiutato, all’Istituto di Studi Storici “Benedetto Croce” di Napoli, nel rinvenimento delle lettere del pensatore Carlo Michaelstaedter all’illustre Benedetto Croce, l’allora Direttore dell’Istituto Professore Gennaro Sasso, l’attuale Direttrice Dottoressa Marta Haerling, e l’allora Direttore della Biblioteca Dottore Maurizio Tarantino.

HOME PAGE NEXT PAGE f_entebk.gif (14663 byte)  

Se vuoi scrivi un  commento  nel Libro degli Ospiti

 

All M.C. Escher works (c) Cordon Art-Baarn-the Netherlands. All rights reserved. Used by permission.