STEFANIA SAPORA COGITO ergo SUM.....ergo DIGITO |
Alcune
considerazioni sul film “Prima la musica, poi le parole” di Fulvio
Wetzl, Italia, 1998 Qual
è il confine tra educazione e manipolazione? Quando un genitore, anche
al di là delle sue stesse intenzioni, altera la condizione mentale del
figlio fino a renderlo, nell’ora e nel futuro, un disadattato? Come può
quest’infante sempre vissuto in questa condizione di alterazione della
realtà familiare e sociale giungere a considerare questa stessa realtà
l’unica realtà vera, e dunque a esservi felicemente e
inconsapevolmente immerso? A queste domande, che costituiscono anche la
base e lo sfondo di ogni mirato intervento rieducativo e assistenziale
nei confronti di quelle famiglie in cui l’istituzione riscontra la
necessità e il bisogno di
un supporto esterno da parte di figure professionali deputate, dà, a
partire dalla essenziale ma completa sceneggiatura, a finire alla
curatissima e simbolica rappresentazione scenografica,
un considerevole contributo questo film impegnato e impegnativo,
nonché praticamente ignorato sia dalla critica che dalle stesse sale
cinematografiche cosiddette d’essai. La
storia è quella di un bambino che vive una condizione apparentemente
privilegiata all’interno di un contesto familiare alto-borghese (il
film è girato nella bellissima Villa Inghirami, nel Volterrano), ma che
ha come genitore – la madre appare in una sola scena ed è tutta
concentrata sulla sua ulteriore gravidanza - un colto padre-padrone.
E’ proprio qui, nella natura di questo rapporto educativo molto
particolare che il padre impone al figlio, il primo shock cui è
sottoposto lo spettatore: padre-padrone non nei modi ma nella violenza
psicologica con cui impone al figlio, in un rapporto simbiotico
esclusivo e escludente tutto il resto del mondo (il bambino non sembra,
pur essendo in età scolare, frequentare nessuna scuola né avere altri
rapporti al di fuori di quelli strettamente familiari),
il proprio lessico familiare fatto di parole comprensibili solo a
lui e, appunto, al figlio. La reazione dello spettatore è di sorpresa e
sconcerto, soprattutto quando il padre, colto da un attacco di cuore in
cui, dimentico del lessico, implora il figlio di chiamare aiuto, lo fa
nella lingua corrente, e dunque, evidentemente inascoltato perché
incompreso, muore. La realtà esterna quindi fa finalmente il suo
ingresso a rompere questo equilibrio precario: bellissima la scena in
cui il bimbo apre il
cancello della Villa che si spalanca sulla vita, e esce finalmente dalla
maledizione di questo incantesimo alla rovescia. Ma che cosa accadrà
ora? Come faranno due universi vicendevolmente escludentisi, quello
della società “normale” e quello di una piccola esistenza che, lì
sperduta, viaggia sui binari di una propria particolarissima identità,
a collegarsi? Lasciamo allo spettatore la voglia di scoprire cosa il
regista ha preparato per noi, ma certo è che egli non risparmia nessuna
delle istituzioni, nemmeno quella medicale a pro preposta, ossia la
casta di psichiatri e psicologi che, mossi solo dal cervello, non
possono che decretare l’anormalità del piccolo. Non è infatti solo
con il cervello che si dipana la trama di un problema apparentemente
irrisolvibile come quello della comunicazione tra diversi: il cuore,
anch’esso da solo impotente a guidare l’analisi della soluzione, a
sua volta guidato, deve giungere a colmare le lacune del mentalismo e
dell’intellettualismo. Mirabile
il parallelo istituito dall’autore tra il dramma del bambino e quello
del Cristo, rappresentato in un celebre quadro di Rosso Fiorentino
mentre viene deposto dalla Croce, e su cui la macchina da presa indugia
a lungo, apparentemente soltanto nel senso di suggerire la drammaticità
del racconto e dei due destini. Ma non c’è solo questo: la scena
della deposizione del Cristo dalla Croce si ricollega apparentemente
senza alcun legame al prefinale in cui in una lezione universitaria
viene mostrata la nuova logica delle geometrie non-euclidee: il regista
sembra suggerire che è necessaria, perché il mondo possa e debba
ulteriormente evolversi nel progresso della storia, oltre il
multiculturalismo e il globalismo, l’uscita dalla Croce che ancora
impregna la cultura europea, e che l’Occidente concentrico vorrebbe
imporre al mondo come suo primario sguardo. Non basta allora che, come
vediamo sotto i nostri occhi attenti, le tre religioni monoteiste
dialoghino tra loro alla ricerca di una nuova fede comune, ma che questa
fede, nel sentimento del sacro insito in ciascuno e che purtroppo
vediamo muovere la mano dei fondamentalismi di ogni risma, davvero sia
la realizzazione concreta di un nuovo umanesimo non più etnocentrico né,
meno che mai, antropocentrico, di là da venire sicuramente, ma
altrettanto da perseguire con tenacia sia nel piccolo del quotidiano di
ognuno di noi sia nel grande delle istituzioni sovranazionali e
internazionali. Ma direi che, mentre per l’idea di un’Europa unita,
nonostante la necessaria preminenza mai sufficientemente sottolineata
della storia delle idee su
quella economica, basta risalire almeno al XIX secolo, per rifarsi a una
storia del mondo sul piano della realtà concreta bisogna riandare al
tempo precedente alla divisione politica dell’Impero romano attuata da
Teodosio nel 395 d.C., o allo scisma religioso del 1054 d.C. tra Oriente
e Occidente, che hanno segnato in modo indelebile la frattura culturale
il cui contrasto violento e monopolizzante trova oggi posto nella
cronaca quotidiana, con tutto il suo portato di sfruttamento industriale
e di imposizione di un modello culturale creduto “superiore” solo
perché porta maggiore benessere sociale e materiale. Ma
non divaghiamo, anche se il film conduce lontano con queste
considerazioni: c’è da dire ancora che la recitazione di Anna
Bonaiuto, la psichiatra che si occupa da vicino del complicato caso, è
superba e come al solito fortemente partecipata, d’impatto. E ancora,
che la sceneggiatura è asciutta, senza sbrodolii né derive da
melodramma familiare o sociale, nonostante la scottante materia. E
infatti il regista conclude con un finale affatto consolatorio o da happy
end: senza volervelo contro ogni regola svelare, godetevi il
trittico della natività ricomposto anche figurativamente, che
suggerisce che la famiglia di sangue è morta, e che quella del
cuore è tutt’altro che di là da venire. |
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