STEFANIA
SAPORA
COGITO ergo SUM.....ergo DIGITO |
Presentazione della mostra fotografica di Stefania Sàpora “Logiche dello spazio. Forme e colori del reale” presso
il Caffè letterario Intramoenia dal 6 ottobre al 10 dicembre 2011. Il
titolo della mostra, “Logiche dello spazio. Forme e colori del
reale”, va spiegato. Potrebbe
anche molto più presuntuosamente nonché erroneamente essere “Logiche
del reale. Forme e colori dello spazio”, in quanto in ambedue i titoli
il genitivo della prima come della seconda espressione è soggettivo e
non oggettivo. Ossia il genitivo di logiche dello
spazio vuol dire, così come quello di forme e colori del
reale, che è proprio lo spazio ad avere e ad esprimersi in delle sue
logiche, così come è proprio il reale ad avere forme e colori in cui
si esprime, come se fossero, lo spazio e il reale, delle entità a sé
stanti dotate di proprietà e caratteristiche precipue. Ma il genitivo
in ambedue i casi è nonostante ciò anche oggettivo, nel senso più
comune di voler sottolineare che sono la logica e la forma e il colore
ad avere una loro preminenza e autonomia, in tal caso come espressioni
di un’entità vuoi soggettiva vuoi oggettiva che si esprime in esse e
che genera appunto il genitivo oggettivo, nel senso che tale entità
esterna alla fotografia formerebbe oggettivamente reale e spazio,
l’uno attraverso la forma e il colore, l’altro attraverso le sue
logiche. Ma
il titolo della mostra, seppure passasse la presunzione e l’errore,
non potrebbe essere invertito in “Logiche del reale. Forme e colori
dello spazio”, perché, e qui devo necessariamente introdurre il mio
background filosofico, le logiche del reale, che si è voluto siano
plurali e non una sola, sono molte di più di quelle che la fotografia
può cogliere in uno scatto per quanto pensato. Infatti le logiche del
reale sono infinite e infinitamente complesse, andando dal mondo umano a
quello animale e vegetale, a quello delle scienze astratte a quello
delle scienze applicate, come può essere l’astronomia e tutte le sue
derivazioni. Per cui voler anche solo sfiorare con la fotografia pure
soltanto alcune – magari appunto quelle rappresentabili in
un’immagine - delle
logiche del reale è impresa impossibile, nonché vana. Pertiene
viceversa alla fotografia che voglia darsi un contenuto logico astratto
la rappresentazione di alcune – anche qui solo alcune… - logiche
rinvenibili nello spazio e che allo spazio appartengono, proprio in
quanto qui si è voluto che lo spazio sia appunto il luogo della
fotografia, e per me il suo luogo logico, così come il reale è
esprimibile nel linguaggio fotografico attraverso forma e colore quando
si vuole dare dello spazio un’interpretazione nell’immagine che sia
attenta precipuamente al venire all’essere non del significato, ma del
segno. Stefania
Sàpora dal 1982 conduce in proprio una ricerca fotografica che si può
definire metafisica, producendo molto materiale soprattutto in diacolor.
Scopo della ricerca di questo nuovo linguaggio che solo per
approssimazione è così definibile – linguaggio di ricerca di una
nuova metafisica in campo fotografico – è quello di rinvenire nello
spazio fotografico, sia esso “naturale” sia manipolato o decisamente
artefatto dall’uomo, logiche
e razionalità che sfuggono al banale sguardo quotidiano, ma che pure
sono presenti nell’ambiente e che aspettano soltanto di essere portate
alla luce e fissate nello scatto sia per essere finalmente definite sia
per essere fruite anche da chi è troppo distratto o cieco per vederle. “Queste
foto – che sono intuizioni pure – vogliono dimostrare come la realtà,
anche quella costruita dall’uomo, abbia una sua logica sacrale che
sfugge al banale sguardo empirico, che distoglie dal valore metafisico
del reale che avvolge tutto, anche la turgidità dei colori e la
presenza inquietante dell’ombra.” Grande
parte in questi scatti ha il cielo, che sta lì a scontornare col suo
contrasto col mondano la miseria e l’audacia della terra, sempre denso
e insistentemente colorato di azzurro, quasi a suggerire che il
“cielo” sia lì a guardarci, benevolo e protettivo nel suo occhio
superiore, oppure indifferente indecifrabile e irraggiungibile. Quasi
assenti, viceversa, tranne un paio di rari casi, le figure umane, che
pure fanno parte dell’archivio dell’autrice sotto forma di ritratti
femminili: la terra non può essere infranta, nella sua bellezza e nella
sua razionalità, dalla presenza umana, la cui audacia, ripetiamo, si
evince dai manufatti, ma la cui mano pure deve restare invisibile allo
sguardo fotografico per la compresenza di elementi spuri e di disturbo
non solo e non tanto alla visione quanto all’etica. Solo al lavoro
operaio, appunto in un paio di casi, è consentito di togliere il velo
dell’autonomia all’inquadratura, rivelando appunto che, oltre
l’occhio del fotografo, anche l’occhio e la mano umana in generale,
soprattutto se appunto “manuale”, ossia faticosa e umile, sono lì a
produrre il contenuto della visione.
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