STEFANIA SAPORA
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UN CARTEGGIO MONCO: LE LETTERE DI CARABELLESE A CROCE
1908-1931
Un carteggio monco: le lettere di Carabellese a Croce
1908-1931 Lettere e cartoline di Pantaleo Carabellese a Benedetto Croce
relative agli anni dal 1908 al 1931, rinvenute presso la Fondazione
"Biblioteca Benedetto Croce" di Napoli il 25 novembre 1998.
Ringrazio sentitamente l'Illustre Fondazione "Biblioteca
Benedetto Croce" di Napoli e la Gentilissima Signora Alda Croce
per avermi dato la possibilità di accedere alle lettere da Loro
custodite, il Chiarissimo
Professore Gennaro Sasso, Direttore dell'Istituto di Studi Storici,
per l'ospitalità offertami, e il Dottor Maurizio Tarantino, Direttore
della Biblioteca dell'Istituto stesso, per l'aiuto prestatomi nel
rinvenimento dalle lettere.
Un carteggio monco: le lettere di Carabellese a Croce
1908-1931
1. Alcune considerazioni generali sulle lettere e sugli anni che le
seguiranno 1931-1948: le lettere come documenti
Le lettere di Carabellese a Croce, qui presentate per la prima
volta dopo quasi un novantennio dalla prima e oltre un cinquantennio
dall'ultima, coprono un arco di più di vent'anni, da subito dopo la
Laurea in Filosofia di Carabellese[1],
il 1908 - e infatti è proprio la pubblicazione della Tesi che dà
adito alla prima cartolina - alla
metà del 1931, anno in cui la filosofia di Carabellese può dirsi già
chiaramente delineata nelle sue linee principali, e anno
importantissimo per la pubblicazione di quel Il problema teologico
come filosofia che può considerarsi segnare uno spartiacque sia
tra il Carabellese filosofo e il Carabellese teologo nel senso che si
è più volte chiarito, sia, sempre da un punto di vista teoretico,
tra Carabellese stesso e i suoi contemporanei. Le lettere (e cartoline) rinvenute - e non c'è motivo di supporre
che ve ne fossero delle altre dirette a Croce - sono solo nove, ma
danno comunque un quadro non soltanto dei rapporti che legavano i due
pensatori, ma anche dello sviluppo stesso di questi rapporti, del loro
cambiare nell'arco dei ventitré anni che coprono. Si tratta di due cartoline iniziali, cinque lettere centrali e una
cartolina finale. Delle cinque lettere, tre in particolare, la prima,
la quarta e la sesta, contrassegnate dai numeri progressivi ai
rinvenimento e di cronologia 4, 7 e 1, colpiscono, perché in esse si
ritrovano gli echi di un discorso che evidentemente doveva avvenire
molto più approfonditamente anche
di persona fra Carabellese e Croce,
probabilmente prima a Napoli e poi a Roma, dove Croce si recava
spesso, nonché perché ci restituiscono gli echi del dibattito
filosofico più generale di quegli anni cui Carabellese e Croce
partecipavano attivamente. Ma queste tre lettere risultano
interessanti anche, in particolare una, la n. 7, perché in essa
Carabellese, oltrepassando i limiti del rapporto con un illustre
collega di pensiero, emerge con tutta la sua dirompente carica umana,
al tempo stesso orgogliosa e ferita. Tutte e tre comunque risultano più
specificatamente interessanti da un punto di vista strettamente
filosofico poiché in esse Carabellese discute con Croce di problemi
filosofici che erano al centro dei suoi interessi, facendo dunque
implicito riferimento a teorizzazioni dell'uno e dell'altro espresse
in pubblicazioni o dibattute in contesti scientifici o in
conversazioni private. Ma su questo ci soffermeremo a suo tempo. Nel complesso le lettere segnano, come indici di un percorso non
soltanto di pensiero, il passaggio da un Carabellese neolaureato e
incerto a un Carabellese maturo e certo del proprio pensiero anche
nella sua solitudine, non solo accettata, ma anche esibita negli
scritti a Croce (penso all'ultima cartolina del 1931 e al riferimento
ai "puri folli"), e anche altrove nelle sue opere. Gli anni che seguiranno queste lettere saranno invece gli anni
della progressiva affermazione del pensiero di Carabellese e del suo
ontologismo critico nell'ambito del consesso filosofico italiano: si
ricordi in primo luogo come significativo di tale affermazione il
Secondo Tema "La Critica di fronte all'ontologismo" del XIV
Congresso Nazionale di Filosofia del 1940, in cui grande spazio venne
dato, tra le altre relazioni, da pensatori quali Arturo Beccari,
Gustavo Bontadini, Stefano Mazzilli, Sofia Vanni Rovighi e, fuori
Tema, da Augusto Guzzo, alla discussione dell'ontologismo
carabellesiano[2],
peraltro presentato in questa sede da Carabellese stesso nella sua
derivazione e continuazione della critica. E questi saranno anche gli
anni in cui egli raccoglierà intorno a sé non soltanto all'Università
di Roma - in cui si ere insediato come ordinario dopo il concorso
universitario del 1929 prima, nel 1930, sulla Cattedra di Storia della
Filosofia, e poi, alla morte di Gentile nel 1944, sulla Cattedra da
questi precedentemente tenuta di Filosofia Teoretica (che ricoprì
sino alla morte), conservando nel contempo come incaricato la Cattedra
di Storia della Filosofia sino al 1946 -
ma anche nella sua stessa casa di Roma, un cenacolo di giovani
allievi, tra cui possiamo ricordare Giuseppe Semerari, Rosario
Assunto, Giuseppe Pinto, Teodorico Moretti Costanzi, che però aveva
già una sua autonoma fisionomia da studioso, Ornella Nobile Ventura e
Raniero Sabarini, che curerà anche nel '53 una ristampa postuma del Disegno
storico della filosofia italiana come oggettiva riflessione pura.
Invece all'Università di Palermo, dove già nel 1922 aveva vinto come
straordinario la Cattedra di Filosofia Teoretica succedendo a Cosmo
Guastella, e dove rimase fino al 1925[3],
ebbe come allievi Anna Maria Rocchi, poi divenuta, influenzata dagli
studi storici del maestro in vista delle sue elaborazioni teoretiche,
storica della filosofia, e Vito Fazio Allmayer, poi divenuto anche
Direttore della Collana "Quaderni di filosofia e storia"
della Trimarchi di Palermo, nella quale Carabellese pubblicò Il
problema della filosofia da Kant a Fichte (1780-1801) nel 1929,
dagli appunti rielaborati dagli allievi del corso universitario
palermitano dell'A.A. 1924-23. Ma fino al '40, e successivamente al 1931, data dell'ultima lettera
a Croce, il pensiero di Carabellese, proprio a partire dalla
pubblicazione de Il problema teologico come filosofia, e quindi
di un itinerario di pensiero ormai decisamente orientato secondo una
specifica concezione della filosofia e del suo oggetto, che apriva una
nuova strada all'idealismo, quella critico-teologica, nel contempo
precisando i confini con la teologia neo-scolastica, era stato oggetto
tra gli altri delle riflessioni, sebbene spesso su fronti di pensiero
diversi, e, quando pubblicate su riviste, su riviste prestigiose, di
Nicola Abbagnano[4],
di Antonio Banfi[5],
di Giovanni Emanuele Barié[6],
di Carlo Mazzantini [7]
e di Ugo Spirito[8]
per quanto riguardava in particolare quest'opera e altre, e di Ernesto
Bonaiuti[9],
di Pietro Cristiano Drago[10],
Guido Calogero[11],
Michele Federico Sciacca[12],
Cesare Luporini[13],
di Armando Carlini[14],
Mario Dal Pra[15],
Gustavo Bontadini[16],
Enzo Paci[17],
Calogero Angelo Sacheli[18],
ancora di Augusto Guzzo[19].
Luigi Pareyson[20]. Dopo il 1940 - che può essere considerato una sorta di
affermazione pubblica, per i motivi che abbiamo messo in luce più su
e nelle brevi note di storia della critica dell'"Introduzione,
dell'interesse che il pensiero carabellesiano suscitava - e fino alla
morte di Carabellese avvenuta a Genova nel 1948[21],
ritroviamo ancora l'attenzione, tra gli altri, ai Giovanni Gentile[22],
del già citato R. Lombardi, col quale, ricordiamo, Carabellese ebbe
un'accesa polemica dall'inizio del '41, ancora di Michele Federico
Sciacca[23],
Nicola Abbagnano[24],
Pietro Cristiano Drago[25],
Teodorico Moretti Costanzi[26],
Luigi Pareyson[27],
Calogero Angelo Sacheli[28],
Guido Calogero[29]
e quindi di Giuseppe Mattai[30],
e di nuovo di Benedetto Croce[31]
- il cui rapporto con Carabellese è appunto oggetto
di quest'appendice - dopo le prime riflessioni risalenti agli
anni 1922-1930, una delle quali ripubblicata nel 1934 e poi nel 1963[32].
Nell'anno della morte, ritroviamo
a scrivere ancora su di lui Carlo Antoni[33]
e la già citata Ornella
Nobile Ventura[34],
mentre Luca Pignato lo inserisce nell'appendice su "La filosofia
del XX secolo" alla Storia della filosofia di Wilhelm
Windelband[35],
Emilio Pignoloni affronta a
più riprese un'analisi del suo ontologismo critico sulla
"Rivista Rosminiana"[36]
e E. Riva recensisce uno dei suoi ultimi scritti[37].
Dopo la morte - avvenuta a Genova, dove Carabellese era in vacanza,
il 19 settembre 1948, prima che potessero vedere la luce molti suoi
ultimi scritti[38],
e appena quattro giorni dopo la
stampa della III edizione della Critica del concreto nella
collana delle sue "Opere Complete" presso la Sansoni di
Firenze, che intanto gli aveva comunicato la sua sospensione -,
iniziano a scrivere del maestro Rosario Assunto[39],
Giuseppe Pinto[40]
e Vito Fazio Allmayer[41],
tutti a scopo commemorativo, così come valore commemorativo hanno tre
scritti di un altro suo allievo, Giuseppe Semerari[42],
di Luciano Anceschi[43],
ancora di Carlo Antoni[44]
e di Guido Calogero[45],
di Magda Da Passano[46],
che curerà il citato volume collettaneo Laicismo e non laicismo
del 1955, in cui Carabellese figura con uno dei suoi ultimi scritti,
di Ugo Spirito, che lo ricorderà anche nel palazzo della Provincia a
Bari sotto il patrocinio della Facoltà di Lettere e Filosofia
dell'Università di quella città[47],
dell'allievo Teodorico Moretti Costanzi[48],
che terrà un discorso commemorativo nel Teatro La Fenice di Molfetta
il 19 dicembre 1949, e infine di Antonio Aliotta, come Carabellese
socio dell'Accademia Nazionale dei Lincei[49]. Questo breve exscursus, che completa le note di storia della
critica dell'"Introduzione", su coloro che hanno dedicato le
loro riflessioni al pensiero di Carabellese tra gli anni 1931-1940, e
ancora, considerando il 1930 come definitiva affermazione del pensiero
di Carabellese, tra gli anni 1940-1949, considerando le commemorazioni
- excursus che esclude quindi le linee di ricerca che dal
pensiero di Carabellese hanno preso le mosse, poiché sono state già
tracciate nell'"Introduzione" - si è reso necessario a
nostro avviso per rendere esplicito il progressivo affermarsi del
pensiero di Carabellese già a partire dal 1931, anno in cui
cessano i rapporti epistolari con Croce. Questa nostra scelta mostra cioè secondo noi per un verso che il
pensiero di Carabellese non può essere considerato minore nell'ambito
del dibattito a lui contemporaneo sui problemi, gli oggetti e lo
statuto della filosofia come scienza, per l'altro verso che rimane
aperto, prima di uno studio comparato sul pensiero dei due filosofi,
l'interrogativo sui motivi, certamente teoretici, che spinsero Croce
da una parte, e Carabellese dall'altra, dopo un primo periodo di
reciproco apprezzamento delle rispettive filosofie, a
interrompere i loro rapporti, e, da parte di Croce, ad attaccare
pubblicamente Carabellese tacciando la sua filosofia di inutilità,
per cui nella critica meno accorta si è diffuso il luogo comune di un
contrasto insanabile tra i due pensieri. A nostro parere invece la questione è molto più sfumata e
complessa, ed è necessario rifarsi da un lato al fatto, emergente
dalle lettere, che tali pensieri divergessero in realtà soltanto
nella fase finale del rapporto, che ebbe una progressione che non può
essere ignorata, e nello stesso tempo considerando concretamente,
proprio anche a partire dalle lettere, la possibilità che questa
divergenza riguardasse soltanto alcuni elementi che, per quanto
fondamentali, non inficiavano un comune orizzonte teoretico di fondo.
Per dimostrare ciò, lo ripetiamo, è necessario un confronto diretto
sia sulle lettere che sulle due filosofie nei punti che emergono dalla
discussione. Dall'altro lato crediamo, essendo questa degenerazione
dei rapporti dimostrabile a partire dalle lettere come progressiva,
che anzi non soltanto l'inizio di tali rapporti sia stato improntato,
se non a una reciproca stima, sicuramente a un atteggiamento
interlocutorio di Croce verso il giovane filosofo e a un atteggiamento
di deferente stima di Carabellese, ma che anche nell'ultima fase,
quando ormai tali rapporti epistolari si avviavano alla conclusione,
in realtà la degenerazione riguardasse gli intellettuali ma non gli
uomini, perché anzi dalle lettere di Carabellese emerge semmai il
rammarico per un'occasione perduta rispetto a un rinnovamento della
filosofia - quindi per un fine ideale e alto e non personale e
transeunte, fine nel quale gli uomini passano ma il cammino della
filosofia va e deve andare avanti passando sopra i loro rapporti e le
asperità dei loro pensieri - e dunque ancora una volta la stima per
Croce. E' per questo che queste lettere, pur nella loro pochezza numerica,
possono risultare utili al chiarimento di questi punti, e costituire
una base oggettiva - perché documenti, sebbene documenti
"minori" - da cui partire per uno studio non più soltanto
biografico-epistolare, ma anche teoretico sulle pubblicazioni che
Croce da una parte e Carabellese dall'altra andavano nel frattempo
scrivendo, e ciò proprio a partire dal fatto che in esse lettere,
soprattutto le ultime, emergono in modo direi essenziale i punti di
maggiore attrito teoretico tra i due pensatori, che altrimenti negli
scritti teoretici pubblicati potrebbero apparire dispersi nel
complesso di una trattazione non a questo scopo concepita. Utili
pertanto le lettere lo sono, oltre che per l'interesse che rivestono
sul piano storico e umano, perché danno così agli studiosi la
possibilità di cogliere i veri motivi, veri perché da loro stessi
detti o sottintesi, del distacco tra i due pensatori. Da qui è
possibile partire con una maggiore cognizione di causa per un
confronto a questo punto esclusivamente teoretico, ossia basato sulle
opere edite, tra il pensiero di Carabellese e quello di Croce. Ma prima di analizzare le lettere, vorremmo dare ancora alcuni
cenni di carattere storico-politico-ideologico utili a comprendere
meglio il contesto in cui esse si inseriscono, e dunque anche, al di là
degli scopi teoretici che le ponevano in essere, lo sfondo e i
problemi più generali che agitavano la società italiana di quegli
anni che, sebbene apparentemente fuori dalle lettere, pure influivano
inevitabilmente nel pensiero e nell'azione, se non nell'animo, dei due
pensatori nel momento in cui essi si scrivevano, sino al punto da
emergere in modo da stravolgere la stessa vita pratica, come nel caso
nella cartolina dal fronte spedita da Carabellese durante la Grande
Guerra. All'interno di questo quadro storico più generale, schizzato
necessariamente in pochi cenni, situeremo alcune contemporanee tappe
bio-bibliografiche di Carabellese anche per comprenderne meglio gli
interessi teoretici e l'azione pratica. Ma c'è da dire ancora, prima, che gli anni 1908-1931, in cui le
lettere si situano, sona anni densi di avvenimenti e di trasformazioni
sul piano storico-politico-sociale italiano e non solo italiano: l'età
giolittiana, la Grande Guerra, l'avvento del fascismo[50]
.
2. Alcuni cenni sul contesto storico-politico italiano di quegli
anni in rapporto alla biografia, alla bibliografia e al pensiero di
Carabellese a partire dalle lettere
2a) L'età giolittiana Nel 1908, data della prima cartolina a Croce, quando Carabellese è
un giovane uomo trentunenne, com'è noto l'Italia è dominata
politicamente dalla figura dello statista Giovanni Giolitti,
Presidente del Consiglio dei Ministri dal 1903 al 1914, e autore di
quella "svolta liberale" che segnò profondamente la vita
italiana non soltanto politica - interna ed estera -, ma anche
economica, culturale, sociale, intellettuale, tanto che questo
decennio che giunge sino alle soglie della prima guerra mondiale
rientra in quella che è stata definita età giolittiana. Il progetto di Giolitti, che aveva radici nella tradizione liberale
progressista[51]
e illuminata dell'Ottocento, era quello di avviare ulteriormente la
complessa realtà italiana che stava sorgendo con lo sviluppo
industriale conducendo l'Italia verso la nascita di uno Stato moderno,
in grado anche di presentarsi in politica estera come nazione
competitiva nei confronti degli altri Stati europei e di ricoprire così
un ruolo non marginale rispetto ad essi. Ma soprattutto tale progetto
conseguiva una politica interna di razionalizzazione e controllo
statale che si fondava sul modello ideale di uno Stato etico da un
lato vicino ai bisogni della società civile e ad essi rispondente,
dall'altro in grado di mediarne i conflitti non solo sociali ma anche
politico-ideologici con un'azione che si proponeva di far penetrare in
modo più profondo e pregnante l'idea stessa dello Stato in tutti gli
ambiti e della società civile, e della vita politico-istituzionale
dello Stato, e della coscienza dei singoli, mediando tra le forze
contrastanti e cercando, nell'assorbirle nella vita dello Stato e
nello smussarne gli estremismi sia ideologici che pratici, di farle
collaborare a questa costruzione ideale: l'allargamento dell'idea
dello Stato a più vasti strati della popolazione
e nello stesso
tempo dunque anche delle basi istituzionali dello Stato stesso[52].
Questo "inizio di un nuovo periodo storico", come
Giolitti stesso definì il momento al cui scopo operava, fu nei fini
che si sono detti attuato in politica interna, soprattutto negli anni
1911-12, con la costruzione ex novo di uno stato sociale sul
modello socialdemocratico tedesco attraverso una legislazione sociale
e delle riforme che miravano a estendere la competenza delle sfere
dello Stato, creandone anche delle nuove, e ad avvicinare il cittadino
allo Stato: esemplare in quest'ultimo caso la riforma elettorale del
'12 che di fatto estendeva il diritto di voto a tutti i cittadini di
sesso maschile al di sopra dei ventuno anni di età (dei trenta per
gli analfabeti), il suffragio universale. Nel contempo, in sede parlamentare, Giolitti mirava ad avvicinare
alle istituzioni parlamentari i due poli opposti dell'ala estremista
del partito socialista e dell'area conservatrice del movimento
cattolico per attuare i suoi disegni riformistici e liberali sia
contro le tendenze rivoluzionario sia contro quelle reazionarie, e vi
riusciva con lo scopo di separarli dalle ali moderate e inglobare
queste ultime nel sistema costituzionale e parlamentare[53].
Così isolò tra i socialisti l'ala estremista dei rivoluzionari e
diede spazio alla linea riformista di Filippo Turati (ma nel Congresso
di Reggio Emilia del 1912 la situazione si capovolse ad opera del leader
della sinistra rivoluzionaria poi divenuto direttore
dell'"Avanti!", il giovane Benito Mussolini[54],
tanto che l'ala più vicina a Giolitti fu espulsa dal partito fondando
il Partito socialista riformista ). Per quanto riguarda i cattolici, Pio X, salito al soglio pontificio
nel 1903 e rimastovi sino al 1914, avviò un pontificato di
intransigenza dottrinaria e di lontananza dai nuovi fermenti di
religiosità pura, di ritorno al messaggio di Cristo
e di partecipazione alla vita della Chiesa e alla vita sociale
e politica che agitavano non solo il clero più giovane ma anche la
società cattolica, sino a emanare nel 1907 l'enciclica Pascendi
nella quale condannava appunto queste esigenze, incarnate dal
movimento modernista[55],
di cui anche Carabellese faceva parte[56]
almeno tra il 1910 e il 1915 e poi, in direzione più nettamente
politica, dopo la seconda guerra mondiale, nel 1944, e della cui
condanna da parte di Pio X fu vittima illustre anche il teologo
Ernesto Bonaiuti, amico di Carabellese[57].
Giolitti mirava alla partecipazione dei cattolici moderati alla vita
politica non solo per i motivi che si sono detti, ma anche perché,
nella loro trasformazione da movimento in partito, o almeno nella loro
partecipazione alla vita parlamentare, avrebbero potuto avere una
funzione di contrappeso nei
confronti dei socialisti, funzione che si concretizzò nelle elezioni
del 1909 con il non expedit, ossia la partecipazione dei
candidati cattolici alle elezioni con la formula dei "cattolici
deputati". Il disegno giolittiano era realizzato anche in questo
campo: il ventaglio parlamentare era costituito da forze moderate in
grado di sostenere il governo liberale nella sua politica riformista
ispirata al supremo valore dello Stato. In questo clima di sostanziale tranquillità sociale e politica,
troviamo un Carabellese giovane che, dal 1902 al 1910, già laureato
in Lettere a Napoli[58],
mentre studiava e poi si laureava nel 1905, per la seconda volta, in
Filosofia a Roma[59],
riprese l'insegnamento delle materie letterarie (italiano, latino e
greco) già sperimentato nel ginnasio parificato del Pontificio
Seminario Regionale di Molfetta, da cui proveniva come seminarista,
questa volta coma incaricato o supplente nei ginnasi del Regno
d'Italia ad Albano Laziale, da cui infatti proviene la prima cartolina
del 1908 a Croce[60],
L'Aquila, Maddaloni, sinché non vince, nello stesso 1910, primo in
graduatoria, il concorso nazionale di filosofia per le scuole medie
superiori e ha la cattedra come docente di ruolo nel Liceo classico di
La Spezia, dove scrive la sua prima opera teoretica, L'Essere e il
problema religioso, dedicata al pensiero del suo primo maestro
Varisco, e contemporaneamente pubblica anche La coscienza morale,
edita proprio a La Spezia nello stesso 1914 e a quella legata, e dove
rimarrà sino a quando non verrà richiamato alle armi per il 28
maggio del 1915, data dell'intervento italiano nella Grande Guerra.
Questo ruolo di docente nelle scuole del Regno, vissuto con impegno,
spiega il suo interesse per i problemi pedagogici ed educativi, che si
espresse anche in alcune pubblicazioni di quegli anni[61],
che testimoniano del coinvolgimento nei problemi della scuola non
limitato a esperienza personale umana ma elevato a riflessione,
influenzata dalle dottrine spenceriane, sui sistemi educativi, sui
loro metodi didattico-valutativi, sulla loro importanza per la
formazione e l'educazione dell'individuo, e dunque sul loro
collegamento con la società. Questo interesse carabellesiano per i
problemi della scuola, e questa comprensione della sua funzione nella
formazione del cittadino continueranno negli anni, da un lato, sul
piano pratico, con la prosecuzione della carriera scolastica sino a
diventare negli Anni Venti prima preside e poi ispettore ministeriale,
dall'altro, sul piano teorico, con la riflessione sui problemi
pedagogici[62],
che rinsaldò, su questo piano, i suoi rapporti teorici con Gentile
iniziati nel 1909 sul piano filosofico con la recensione gentiliana
alla Tesi di Laurea in Filosofia pubblicata da Carabellese[63],
e poi con la susseguente discussione sempre intorno alla teoria della
percezione intellettiva rosminiana[64]. Ma la pratica nella scuola e la riflessione sui suoi problemi più
generali in rapporto alla società non allontanarono Carabellese dalla
partecipazione attiva al dibattito filosofico di quegli anni (penso al
IV Congresso Internazionale di Filosofia del 1911 a Bologna) e dalla
meditazione filosofica, che si espresse in questi anni dell'età
giolittiana, oltre che in scritti che potremmo definire di filosofia
della religione, in quei saggi che poi nel loro insieme precedettero
quelli che furono da lui denominati del "periodo precritico"[65]. Torniamo ora all'orizzonte storico-politico italiano che avvolgeva
l'attività di Carabellese in questi anni. Alla politica giolittiana
di equilibrio si opposero non pochi intellettuali di grande rilievo e
di diverso orientamento politico, soprattutto dal Mezzogiorno, che
rimaneva in questo quadro la "zona d'ombra" del disegno
giolittiano, sostanzialmente escluso dal progresso del Paese[66],
con i suoi secolari problemi di potere della grande proprietà
terriera e con la nuova politica doganale protezionistica nei
confronti del Nord industriale, che acuivano la questione meridionale
con moti sociali repressi, giungendo a far emigrare nel solo 1913
quasi un milione di persone. Gaetano Salvemini com'è noto era uno dei
più illustri tra questi intellettuali[67],
e con lui, fondatore a Firenze nel 1911, alla sua uscita dal partito
socialista, e Direttore del foglio settimanale "L'Unità"[68]
sino alla sua chiusura nel 1919, collaborò anche Carabellese[69]
dal 1913 alla fine della pubblicazione. "Benedetto Croce fu invece uno dei pochi intellettuali
italiani che sostennero Giolitti", dal momento che per lui né la
repressione poliziesca dei ceti sociali emergenti e delle loro
esigenze politico-economiche, né l'utopistico programma
rivoluzionario o l'ostruzionismo parlamentare dei socialisti potevano
risolvere in modo positivo le spinte giustificate e inarrestabili che
venivano dalla società civile e che però non potevano consentirsi
espresse al di fuori delle leggi dello Stato: il metodo liberale
invece era il solo "[...] in grado di soddisfare le esigenze
legittime che quelle due parti estreme [i reazionari nel chiedere la
repressione dei moti di piazza in nome dell'ordine sociale e i
socialisti nel propagandare la rivoluzione in nome del riscatto
politico-sociale del proletariato] ponevano senza recare la possibilità
di porle in atto; perché, da un lato, esso manteneva l'ordine sociale
e l'autorità dello stato, e dall'altro accoglieva i nuovi bisogni col
lasciare libero campo alle competizioni economiche [...] e con
l'attendere f provvidenze sociali. [...] il Giolitti [...] uomo di
molta accortezza e di grande sapienza parlamentare, [...] ma non meno
di seria devozione alla patria, di vigoroso sentimento dello Stato, di
profonda perizia amministrativa [...]. A lui, di animo popolare, erano
connaturate la sollecitudine per le sofferenze e per le necessità
delle classi non abbienti e l'avversione all'egoismo dei ricchi e dei
plutocrati, che allo Stato sogliono chiedere unicamente la garanzia
dei propri averi e del proprio comodo. Un'altra sollecitudine lo
muoveva: il pensiero che la classa politica italiana fosse troppo
esigua di numero [...], e che perciò convenisse richiamare via via
nuovi strati sociali ai pubblici affari. [...] col Giolitti s'iniziò
un nuovo periodo di <<trasformismo>>: il che volentieri
consentiremmo, per aver noi tolto a questa parola il significato
peggiorativo col quale sorse, e perché ogni volta che l'antinomia di
conservazione e rivoluzione è superata e si attenua e quasi sparisce,
succede appunto un avvicinamento degli estremi e una trasformazione
unificatrice dei loro ideali."[70]
In questo quadro di delicati equilibri politico-ideologici e
socio-economici si inserisce la politica coloniale giolittiana di
aggressione alla Libia dopo l'ultimatum del 1919 alla Turchia,
che alcuni storici considerano una svolta reazionaria di Giolitti
rispetto al suo programma di democratizzazione liberale, comunque un
allineamento dell'Italia e quella politica colonialista europea che è
stata definita l'età degli imperialismi: i dibattiti nell'opinione
pubblica, le speranze espansionistiche e di dare uno sbocco
all'emorragia dell'emigrazione, il disegno giolittiano di legare il
capitale economico-industriale conservatore attraverso i proventi
derivanti prima dalla guerra e poi dall'occupazione del territorio e
dallo sfruttamento delle sue materie prime fallirono di fronte alla
resistenza tenace della popolazione invasa e alle spese ingenti che
riportarono dopo dieci anni in deficit il bilancio dello Stato,
cosicché si arrivò l'11 ottobre del 1912 alla pace di Losanna, che
concedeva all'Italia la sovranità della Libia, divisa in Tripolitania
e Cirenaica, e le lasciava il controllo sul Dodecaneso e sul suo
capoluogo, Rodi. Le ripercussioni negative sia di carattere economico che politico
non si fecero attendere, decretando l'inizio del declino della
politica giolittiana e acuendo il divario tra le ale estremiste del
Parlamento, cui Giolitti rimediò con successo stringendo con il
Presidente dell'"Unione elettorale cattolica", Ottorino
Gentiloni, il "Patto Gentiloni" del 1913, in vista delle
elezioni dello stesso anno, in cui si pattuì che i cattolici
avrebbero appoggiato il governo in cambio di una politica favorevole
alla Chiesa. Ma, al di là degli effetti negativi, e degli effetti positivi che
pure ci furono, la guerra di Libia significò per l'Italia dal punto
di vista culturale l'occasione - in senso non di casualità colta ma
di evento in procinto di verificarsi - di un dibattito a livello
nazionale[71]
sull'opportunità di una guerra[72]
nell'opinione pubblica[73],
dibattito che da un lato ne sancì, di questa opinione, il definitivo
sviluppo in senso moderno come ulteriore cemento per la formazione di
una coscienza nazionale, dall'altro anticipava di soli pochi anni e in
forma ridotta, ma paurosamente vicina anche nei modi, il successivo
dibattito tra interventisti e neutralisti, ben più complesso e
foriero di sventura, sulla Grande Guerra. Infatti già la guerra di
Libia, al di là degli influssi del panorama internazionale, non
nasceva in Italia dal nulla. Sin dal
1903 - anno in cui furono fondate a Firenze da Giovanni Papini,
Giuseppe Prezzolini, Enrico Corradini
e altri le prime riviste nazionaliste, "Il Regno" e
"Leonardo", con lo scopo di risvegliare nella borghesia la
coscienza di classe contro quella proletaria e nell'identificazione
con la Patria, e di connettere l'idea della politica imperialistica
dello Stato con lo sviluppo del capitalismo e il superamento sia dei
conflitti sociali sia delle crisi economiche -, in Italia si agitavano
gruppi di opinione eterogenei e scollegati tra loro per ideologia e
per ragioni, ma tutti concordi nell'opportunità di una guerra:
futuristi, nazionalisti[74]
e imperialisti, industriali e banchieri, reazionari e monarchici, le
cui ragioni spaziavano dal culto della bella guerra alla volontà di
affermare la nazione e di espanderla, dalla ricerca di nuovi mercati e
materie prime allo sviluppo delle industrie legate alla guerra e alla
ricostruzione e dei prestiti monetari, con uno sganciamento dai
capitali finanziari stranieri, dal vagheggiamento di una politica
autoritaria e conservatrice dello Stato che esprimeva
l'insoddisfazione per la politica liberal-democratica giolittiana a
quello di una ripresa della monarchia declinante dopo le speranze
aperte dalla salita al trono del giovane Vittorio Emanuele III nel
1909. Nel 1910 era nata per tutti questi specifici scopi
l'Associazione Nazionalistica Italiana, "un vero e proprio
partito"[75],
con attività propagandistica. L'opinione pubblica che tra il 1914 e il 1915 si trovò di fronte
l'eventualità di una nuova guerra, di ben altra portata, non era
quindi impreparata al dibattito che ne scaturì, e che risultò, come
vedremo, molto complesso, tanto da condurre, com'è noto, a un
intervento esterno al Parlamento, quello della Corona, per risolvere
la questione.
2b) La Prima Guerra Mondiale in Italia: 1915-1918
Espletato il servizio militare di leva a Napoli già prima di
iscriversi alla Facoltà di Lettere di questa città, cioè subito
dopo il Liceo nel Pontificio Seminario Regionale di Molfetta, sua città
natale, Carabellese, come si legge nella seconda cartolina, si trovò
ad essere richiamato alle armi come Ufficiale di Complemento il 24
maggio 1915[76],
cioè allo scoppio della guerra in Italia, a trentotto anni, presso il
33o Reggimento M. T., 509o Battaglione, 9a Compagnia, 5o Corpo
d'Armata, col grado di Tenente, prima sul fronte di battaglia e poi
in zona di guerra, per complessive quattro campagne durate in
tutto quattro anni, combattendo dunque tutta intera la guerra dal 1915
al 1918, e guadagnandosi sul campo il grado di Capitano di Fanteria,
col quale fu congedato, sempre poi, per anzianità, raggiunse il grado
di Tenente Colonnello: la prima guerra mondiale
era cominciata. Ad essa Carabellese probabilmente partecipò non controvoglia,
seppure dove' interrompere l'insegnamento liceale a La Spezia, dal
momento che più volte egli nelle sue opere ha fatto cenno ai suoi
ideali mazziniani e risorgimentali se non dedicando intere opere al
senso del dovere verso la Patria[77],
e dal momento che questi motivi gi aggiungevano alla vicinanza al
socialismo democratico di Salvemini, interventista, sul cui
settimanale, come abbiamo ricordato, egli più volte scrisse. Questi
motivi si ritrovano nelle ragioni di una parte degli interventisti
italiani, il cui panorama, come quello dei neutralisti, risultava,
come tra poco vedremo, alquanto variegato, tanto da sconvolgere il
normale assetto delle divisioni politico-ideologiche tradizionali,
presentandosi secondo schieramenti trasversali. E' quindi da
accertare, e rimane come punto interrogativo, se Carabellese partecipò
alla guerra solo perché ad essa richiamato, o se invece si arruolò,
se non come volontario,
almeno con spirito patriottico. Mentre certo appare il senso di
sconfitta per la guerra vinta dal punto di vista politico-militare ma,
come per molti intellettuali, perduta dal punto di vista ideale[78] Sarebbe troppo complesso qui in pochi cenni, oltre che non
pertinente ai fini della nostra ricerca ed esulante dalle nostre
competenze, fornire anche solo uno schizzo della Grande Guerra, che
d'altronde nelle sue linee essenziali è a tutti nota. Ci atterremo
perciò soltanto, come già per l'età giolittiana, a ciò che può
riguardare una migliore comprensione del contesto in cui si situano le
lettere di Carabellese a Croce, nonché la stessa bio-bibliografia di
Carabellese, tralasciando perciò tutto ciò che non concorre alla
comprensione del quadro politico-sociale italiano nel quale
Carabellese viveva, e agiva, anche attraverso le lettere e gli scritti
di questo periodo. Quando - nei mesi estivi successivi all'attentato del 28 giugno
1914 all'erede al trono Arciduca Francesco Ferdinando d'Asburgo e alla
consorte a Sarajevo, dichiarata guerra l'Impero Austro-ungarico di
Francesco Giuseppe alla Serbia indipendente con l'ultimatum del
23 luglio e l'attacco successivo per conquistarla, allineatosi
l'Impero Germanico di Guglielmo II Re di Prussia[79]
all'Austria con la dichiarazione di guerra alla Russia il primo agosto
e alla Francia il tre, rimaste momentaneamente neutrali l'Inghilterra
dal lato della Triplice Intesa a fianco della Francia e della Russia,
e l'Italia dal lato della Triplice Alleanza a fianco dell'Impero
tedesco e dell'Impero Austro-ungarico - in Italia sia al livello
governativo e parlamentare sia al livello sociale ed economico si pose
il problema della neutralità[80],
dichiarata formalmente il 2 agosto 1914, il Paese si divise tra
neutralisti e interventisti. Può essere considerato questo il primo
segno della nascita di una moderna opinione pubblica, per un verso
soggetta all'influenza degli organi di comunicazione di massa, per
l'altro in grado anche di influenzare, almeno apparentemente, le
scelte politiche e quelle della Corona, nonché il senso di un
allargamento della coscienza del singolo a coscienza nazionale:
la questione ora non riguardava un Paese di là dal mare da
colonizzare come la Libia, e dunque solo i ceti che ne avrebbero
tratto vantaggi economici e occupazionali o le frange che segnavano un
Impero coloniale; ora il problema era vicino, e coinvolgeva anche
motivi ideali di diversa matrice. Agli interventisti, già ampiamente organizzati secondo quanto
detto a proposito della guerra di Libia, si aggiunse l'appoggio
incondizionato della stampa in modo da influenzare l'opinione
pubblica: i ceti industriali e finanziari profusero una quantità di
danaro per riorganizzare vecchie testate o per fondarne delle nuove o
ancora per addomesticarne delle altre, nell'intento che la stampa di
qualunque precedente orientamento politico convergesse tutta
nell'apologia della guerra e nella necessità dell'intervento. Ma alle
ragioni economiche e di utilità dei ceti imprenditoriali e
industriali, che peraltro erano comuni in tutta Europa, si
affiancarono le ragioni ideali degli irredentisti, dei socialisti
democratici come Salvemini[81],
dei socialisti riformisti come Bussolati, dei repubblicani: i
primi, in nome degli ideali della tradizione mazziniani e
risorgimentale, rivendicavano di fronte all'Impero Austro-ungarico
come italiane sia Trento e Trieste che l'Istria e la Dalmazia, gli
altri vedevano nella guerra la possibilità che gli ideali della
democrazia con la fine degli Imperi e delle monarchie e della libertà
dallo straniero si
realizzassero non solo in Italia, ma anche nei Paesi slavi e in
Europa. A questa linea interventista appartenevano anche i socialisti
rivoluzionari come Mussolini, che, espulso dal partito alla fine del
1914, fondò il "Fascio autonomo di azione rivoluzionaria".
Le manifestazioni di piazza interventiste erano seguite da azioni
squadristiche contro i neutralisti. Abbiamo già implicitamente ipotizzato, a partire dagli ideali
della tradizione risorgimentale e mazziniana e del dovere verso la
Patria a cui Carabellese si ispirava,
a partire della sua collaborazione al foglio settimanale che
esprimeva il socialismo democratico del suo Direttore Salvemini, e a
partire dagli ideali di difesa della libertà dei popoli e di
progresso verso forme statuali moderne connesse a un moderato
nazionalismo che animavano una parte degli intellettuali italiani
dell'epoca, l'adesione di Carabellese al campo vario e complesso degli
interventisti. Sul fronte del neutralismo si ritrovavano invece, in ambito
istituzionale, gran parte
del Parlamento, tra qui Giolitti[82]
e i suoi sostenitori con la tesi del "parecchio", i
socialisti moderati di Turati e la maggior parte dei cattolici, nella
convinzione per un verso di preservare le istituzioni, il Paese e la
pace, per l'altro di poter comunque contribuire all'economia nazionale
rimanendo equidistanti dai due blocchi in guerra, e quindi in grado di
fornire ad ambedue il
necessario per la conduzione della guerra. Sempre sul piano
istituzionale invece, il
governo guidato da Salandra, liberale conservatore, si andava
orientando per l'intervento al fine di scongiurare la rivoluzione
sociale dopo la "settimana rossa" del giugno del '14. Sul
piano sociale, ai cattolici che seguivano l'appello alla pace e la
condanna della guerra di papa Benedetto XV si affiancava il
neutralismo del proletariato operaio e dei contadini,
quello dei socialisti fedeli all'internazionalismo pacifista, e
quello
di gran parte degli intellettuali[83]. La situazione di stallo venne sbloccata, dopo il fallimento
diplomatico delle trattative segrete con l'Austria sulle terre
irredente, dal successo
delle medesime trattative, peraltro ancor più vantaggiose in termini
territoriali, con l'Inghilterra portavoce dei Paesi dell'Intesa, che
condussero il Ministro degli Esteri Sonnino al patto di Londra del 26
aprile del 1915[84]:
l'Italia si allineò all'Intesa impegnandosi a scendere in guerra
entro un mese contro
l'Austria e la Germania. Di fronte al neutralismo del Parlamento[85]
e all'interventismo
dell'opinione pubblica più visibile e organizzata, intervenne la
Corona, che, appellandosi alla volontà popolare, costrinse il
Parlamento ad accettare
l'impegno diplomatico all'intervento e a
demandare al governo pieni poteri per non rischiare uno scontro
con il Re, di fatto piegando il Parlamento stesso ad un'autorità ad
esso estranea e formalmente super partes: la guerra contro
l'Impero Austro-ungarico iniziava il 24 maggio del 1915, come
"completamento dell'opera del Risorgimento e ultima guerra
d'indipendenza". Sono note le carenze
sul piano degli armamenti, dell'organizzazione e della preparazione
tecnica, e degli approvvigionamenti del nostro esercito, che pure
combattè strenuamente lasciando sul campo seicentomila soldati,
stremati anche dalla guerra di logoramento voluta dal Generale Luigi
Cadorna. E' nota altresì la Strafexpedition voluta dagli
austriaci il 15 maggio 1916 sugli Altopiani verso Vicenza, che portò
alla controffensiva italiana sull'Isonzo e, sul piano politico, alle
dimissioni di Salandra che condussero il nuovo governo a dichiarare
guerra all'Impero Germanico
il 25 agosto. Sono note anche le ripercussioni che sia sul piano
civile sia sul piano economico sia sul piano politico la guerra portò:
sul piano della
popolazione civile, decimazioni, fame, povertà, esodi dalle città e
dalle zone di guerra in direzione delle campagne e delle coste,
stravolgimento dei rapporti affettivi e della vita sociale; sul piano
economico inflazione, economia di guerra, grandi arricchimenti di quei
ceti che contribuivano o in termini produttivi o in termini finanziari
a sostenere quell'economia; sul piano infine dell'azione dello Stato,
una generale svolta da un sistema improntato alle libertà
costituzionali e ai principi liberali a un sistema autoritario di
controllo su tutti i settori della vita sociale in vista dello sforzo
della guerre in cui il potere esecutivo era di gran lunga
preponderante sugli altri aspetti della vita dello Stato, con
interruzione delle libertà
di stampa, di comunicazione e
di associazione, perfino di segretezza epistolare, attraverso la
censura, con controllo della vita economica attraverso la
massiccia introduzione del proletariato operaio nell'industria
bellica e della popolazione maschile attiva al fronte e relativa
immissione delle donne nel mercato del lavoro, se ancora di mercato
del lavoro si poteva parlare in un'economia di guerra. Tutto ciò,
oltre a determinare la crisi dello Stato liberale e ad anticipare
sinistramente la successiva svolta dittatoriale del nostro Paese, fece
nel contempo nascere una nuova coscienza collettiva nazionale che si
riassumeva nella riattualizzazione degli ideali ottocenteschi della
Patria, i soli in grado di dare un senso alle sofferenze e ai
sacrifici dell'ora, mentre l'esperienza della guerra imponeva ai
militari un rimescolamento dei rapporti sociali e delle provenienze
regionali e un nuovo ordine, quello appunto militare, che facevano
emergere nuovi rapporti e nuove visioni della propria e della altrui
coscienza[86].
Inoltre, lo stravolgimento dell'economia in funzione della guerra, se
da un lato come già detto faceva nascere dal nulla nuove
ricchezze e prosperare ulteriormente e in modo esponenziale quelle
vecchie, nel contempo impoverendo larghi strati dei ceti medi e
inferiori, dall'altro dava un nuovo peso sia alle masse popolari
impiegate nell'industria bellica sia alle donne che in gran parte per
la prima volta assumevano nuovi ruoli fuori dall'ambito familiare,
favorendo nelle prime una
maggiore coscienza di classe e nelle seconde una nuova coscienza
sociale. Intanto nell'Internazionale socialista dei dissidenti dell'aprile
sello stesso 1916 il partito socialdemocratico russo ebbe, per opera
di Lenin, contro il pacifismo intransigente di tutti gli altri
partiti socialisti nazionali, la possibilità di far prevalere, al
posto della tesi della guerra imperialista cui di fatto quei partiti
si erano adeguati, la tesi della guerra civile contro la borghesia
in vista della costruzione dello Stato socialista in tutti i
Paesi. Quando la guerra provocò la dissoluzione dell'Impero dei
Romanov con l'abdicazione forzata dello zar Nicola II, e poi, il 24
ottobre 1917, la Rivoluzione d'Ottobre in Russia, Lenin, a capo del
governo rivoluzionario, poté mettere in atto i suoi propositi,
accettando condizioni di pace durissime dalla Germania nel Trattato di
Brest-Litovsk del marzo 1918, pur di salvaguardare la rivoluzione e di
potere, con la pace, risolvere gli enormi problemi interni.
La partecipazione attiva alla guerra sin dal suo inizio, così come
la guerra stessa, non impedirono a Carabellese da un lato di
continuare il suo percorso di riflessione filosofica e religiosa -
penso al già citato saggio su La coscienza morale, pubblicato
nel 1915 durante l'insegnamento liceale a La Spezia e che diede adito
alla cartolina dal fronte a Croce, ma anche a un saggio sulla
coscienza religiosa del '16 e a un articolo ancora sulla coscienza
morale del '17, indici della sua continuata partecipazione al
dibattito filosofico[87],
e della prosecuzione di tale dibattito nonostante la guerra -,
dall'altro di continuare nel suo progetto di ingresso
istituzionalizzato nel mondo accademico: il 13 ottobre del 1917
Carabellese, nonostante la guerra, e nel suo pieno, vince la Libera
Docenza in Filosofia Teoretica[88]. Intanto il 6 aprile del 1917[89]
gli Stati Uniti erano entrati in guerra al fianco dell'Intesa: sono
note le preoccupazioni del Presidente Wilson per le gravi
ripercussioni economiche della guerra sottomarina tedesca sul
fittissimo commercio marittimo tra Vecchio e Nuovo Mondo e per le
pressioni dei gruppi finanziari e industriali americani che fornivano
da tempo aiuti economici ai Paesi belligeranti. Egli dichiarò la
guerra un crimine contro l'umanità: gli Stati Uniti scesero in guerra
quindi con motivi ideologici molto forti, che si espressero nei
"Quattordici punti" in cui Wilson riassumeva il ruolo
autonomo che gli Stati Uniti volevano avere di garanti della pace,
della libertà, della democrazia, del diritto dei popoli
all'autodeterminazione, del rispetto del principio della nazionalità[90]:
la guerra si trasformava in una "crociata per la
democrazia". L'ingresso in guerra degli Stati Uniti fu, com'è noto, decisivo,
da un punto di vista strategico, militare, economico
e psicologico, anche per il contemporaneo abbandono della
Russia, che provocò sconcerto e preoccupazione nei governi e
nell'opinione pubblica e un diffuso senso di fallimento negli ambienti
militari, con conseguenti diserzioni e dunque repressioni. Ma in un
primo tempo quest'ingresso non poté impedire che, nello stesso giorno
dello scoppio della Rivoluzione d'Ottobre, il 27 ottobre del 1917, gli
austriaci, concentrando sul fronte italiano uomini e mezzi prima
rivolti contro la Russia, infliggessero agli italiani la sconfitta di
Caporetto, e penetrassero quasi sino al Piave in territorio italiano,
mettendo in rotta quel che rimaneva dell'esercito, che subì
quattrocentomila perdite, e in pericolo la popolazione civile, che fu
evacuata in massa dal Friuli e in gran parte anche dal Veneto. La disfatta di Caporetto provocò sul piano politico, sociale e
militare[91]
una forte reazione, anche per il pericolo che quell'enorme massa di
combattenti sbandati e infuriati potesse abbandonare la guerra e
organizzarsi in un movimento rivoluzionario contro i ceti medi e
contro le strutture dello Stato[92]
e che questa rivoluzione potesse estendersi anche al di là dei
contadini e dei proletari che componevano le fanterie di soldati in
rotta. Sul piano politico-istituzionale questa reazione si espresse in
un nuovo governo di resistenza nazionale presieduto da Vittorio
Emanuele Orlando, che, per scongiurare il rischio di una guerra civile
e di una generale diserzione, si affrettò a promettere ai soldaki,
per la fine della guerra, concessioni sul piano politico-economico:
terra ai contadini e partecipazione alla conduzione e ai profitti
delle fabbriche agli operai - una svolta a carattere apparentemente
socialisti[93].
A livello sociale la situazione, dopo questi impegni presi dal
governo, poi come vedremo disattesi, andò normalizzandosi, e la
grande paura nei ceti medi rientrò, anche se restava il problema per
i ceti industriali del Nord e gli agrari del Sud, che vedevano in
pericolo i loro privilegi e in discussione il principio della proprietà
privata. Sul piano militare si ebbe la sostituzione del Generale
Cadorna col Generale Armando Diaz, che organizzò un fronte di difesa
del Piave che respinse gli austriaci nel novembre del 1917. Ma
nell'autunno del 1918 l'offensiva austriaca si ripresentò della
"battaglia del Piave". La controffensiva italiana fu
disperata ma vincente su tutto il fronte, costringendo gli austriaci
alla ritirata e liberando Vittorio Veneto, Trento e Trieste: il 4
novembre Diaz proclamò la vittoria. La Conferenza di Pace di Parigi apertasi il 19 gennaio 1919 con i
"Quattro Grandi" - Wilson, e i Primi Ministri Clemenceau,
Lloyd George e Orlando - fu detta "della pace punitiva",
perché in essa tutte le responsabilità della guerra furono
attribuite alla Germania, rappresentata, come si è detto,
dalla neonata Repubblica di Weimar,
costretta a sottoscrivere un'apposita clausola in tal senso,
foriera in breve tempo, assieme alle condizioni politico-economiche
impostele (solo di debiti di guerra 132 miliardi di marchi in oro in
trent'anni), di quello spirito di rivincita che avrebbe poi sconvolto
di nuovo il mondo. Tra i cinque trattati di pace, quello di Saint-Germain
che sanciva la fine dell'Impero asburgico riguardava anche l'Italia,
che vedeva in parte riconosciute le sue richieste territoriali: il
Trentino, l'Alto Adige fino al Brennero, Trieste, da cui la retorica
della "vittoria mutilata". "La Grande Guebra segnò la
fine di quattro imperi: degli zar, degli Asburgo, degli Hohenzollern,
quello ottomano.", e la Conferenza di pace diede vita a nuovi
Stati, che si ispiravano nei fatti a quel principio
dell'autodeterminazione dei popoli e a quel principio di nazionalità
che Wilson aveva inserito tra i "Quattordici punti", e che
rispettavano dove era possibile le etnie e le tradizioni nazionali. Ma
la Conferenza di pace, che stava dando un nuovo asserto territoriale,
politico, economico e sociale all'Europa, nel contempo allargandola
all'influenza degli Stati Uniti, non fu, ci si scusi il bisticcio, una
conferenza pacifica. Tra i vincitori si delinearono due blocchi, l'uno
più interessato ai vantaggi politico-economici e costituito da
Francia, Italia e Inghilterra, l'altro deciso ad applicare i
"Quattordici punti", rappresentato dal solo Wilson. In realtà,
secondo alcuni storici, tutti, vincitori e vinti, erano animati dal più
forte spirito nazionalistico, che rese i principi wilsoniani di più
alto valore, come la democrazia, la pace, la libertà, pure
petizioni teoriche.
2c) L'Italia verso il regime fascista
Anche se la guerra era finita alla fine del 1918, l'esperienza che
Carabellese ne fece, combattendo per tutti i suoi quattro anni,
dovette influire non poco sull'uomo (anche se egli non ne parlò mai
nei suoi scritti editi), se, come si evince dalle lettere, scrisse una
sola volta a Croce al suo inizio, il 17 settembre 1915, e poi fece
seguire un lungo silenzio sino alla terza cartolina del 5 dicembre
1921, e se, nella prima lettera del 6 aprile 1922, si chiede se
riuscirà a porsi di nuovo sul serio al lavoro assiduamente,
dal momento che "si può dire che dal 1915 in poi ciò non ho più
fatto"[94].
Ma in realtà questo periodo di assestamento vide Carabellese
impegnato non soltanto di nuovo nell'ambito dell'insegnamento
scolastico con il concorso speciale di filosofia delle scuole medie
superiori del 1919 e quindi presso il Liceo "Gioberti" di
Torino e poi il famoso Liceo "Visconti" di Roma, poi
nell'A.S. 1920-21 preside del Liceo di Pistoia, da cui infatti spedirà
la terza cartolina a Croce della fine del 1921, e nell'A.S. 1921-22
ispettore scolastico prima a Milano e poi a Venezia, come testimonia
il post scriptum della prima lettera del '22. E il primo
dopoguerra vide Carabellese ancora presente, sempre sul piano della
dedizione alle scuola e ai suoi problemi, con la rinnovata riflessione
intorno ai temi pedagogici[95],
ma anche e soprattutto dedito alla prosecuzione della sua attività
scientifica in ambito filosofico: è del 1920 "L'attività
concreta"[96],
così come sono del 1921 sia la prima edizione dell'importante opera Critica
del concreto, sia il saggio "Che cos'è la filosofia?"[97],
ad uno dei quali, ma lo discuteremo, si riferisce
la terza cartolina a Croce della fine del 1921, mentre
dell'agosto del 1922, dunque di subito successivo alla lettera a Croce
dell'aprile del '22 a cui stiamo facendo riferimento, è "Un
saggio di filosofia concreta"[98],
che riprende i temi centrali della Critica. Dunque, se può dirsi che nel complesso si tratta apparentemente di
un'attività scientifica di non grande rilievo, che avvalora la
dichiarazione epistolare di Carabellese a Croce, e che evidentemente
risentiva anche della situazione generale del dopoguerra, oltre che
del dissesto psicologico derivante dall'aver combattuto in prima linea
e dall'aver visto il fallimento dei propri ideali, pure
quest'interpretazione che Carabellese stesso dà della sua attività a
partire dalla guerra è smentita sia dalla pubblicazione della Critica
sia dal saggio su che cos'è la filosofia sia da quello sulla
filosofia concreta, la cui
pubblicazione di poco successiva fa pensare a una stesura almeno
contemporanea alla lettera. E quest'interpretazione carabellesiana
della sua stessa attività scientifica in quell'immediato dopoguerra
è possibile smentirla a posteriori perché quelle pubblicazioni
appaiono oggi indici tutte
di un percorso di riflessione che, seppure non immediatamente
produttivo in modo pieno come Carabellese avrebbe voluto, né
evidentemente immediatamente a lui stesso cosciente, al tempo stesso
proseguiva e si affinava, e, nelle tre opere più specificatamente
teoretiche, trovava le basi oggettive nient'affatto secondarie per le
successive elaborazioni. In particolare il saggio sulla filosofia era
il primo nucleo dell'opera del 1942 che porterà il suo nome, e
testimoniava di un interesse specifico per un tema centrale
dell'ambito disciplinare scientifico, mentre la Critica
costituiva il primo nucleo oggettivo di un passaggio dal criticismo
alla metafisica che superava definitivamente il realismo e la
separazione tra gnoseologia e metafisica, e, nel concetto di concreto,
situava la metafisica carabellesiana nell'orizzonte dell'idealismo,
mentre infine il saggio sulla filosofia concreta costituiva una
riprova e una riaffermazione sia della prima che della seconda
pubblicazione. Abbiamo voluto far precedere queste riflessioni sulla ripresa della
vita civile da parte di
Carabellese nel dopoguerra all'esposizione succinta dei gravi
avvenimenti politici italiani che seguiranno (prendendo come termine
di riferimento, in senso anche cronologico,
quell'insoddisfazione espressa nella prima lettera a Croce
dell'aprile del '22) da un lato per mostrare proprio questa ripresa
stessa nella persona Carabellese, nell'incrocio tra il livello
biografico, il livello bibliografico (ambedue riferentisi agli anni
1919-22) e il livello dell'elaborazione successiva che oltrepassa
questi anni ed è leggibile solo a posteriori e dal di fuori, con la
distanza critica dello storico. Dall'altro perché questa ripresa
stessa, individuale e irripetibile nella persona Carabellese,
costituisce comunque un indice, un caso se si vuole, della vita
sociale che in quegli anni di dopoguerra si viveva, e la possibilità
di un'apertura al piano politico della vita dello Stato nella quale
quella specifica ripresa si inserisce. A questa vita dello Stato ora
accenneremo per brevi tratti e solo sino al 1931, anno in cui
l'epistolario con Croce si interrompe. Prima però ci occorre di dire che solo a partire infatti
dall'incrocio di tutti questi livelli - più generalmente
politico-ideologoco ed economico-sociale, e, più in particolare per
quanto riguarda Carabellese, biografico, bibliografico, teoretico,
ideologico, epistolare (nel suo aspetto più formale che
contenutistico, per ora) - è possibile far interagire anche il
livello statuale nazionale - che pure è il primo logico e, in questo
caso, anche storico -, per avere di Carabellese non soltanto come
filosofo puro ma anche come uomo che nella filosofia agiva le sue idee
storico-politiche, un profilo, per quanto sempre sottoposto a una
scelta prospettica e quindi scientificamente sempre discutibile o
migliorabile, il più possibile aderente alla verità. E soprattutto,
nello scopo specifico che ci ha mossi a quest'operazione - le lettere
-, si sarà compreso che a nostro parere è possibile comprendere in
profondità le lettere solo se prima si allarga il discorso
dal piano più specificatamente filosofico ad un piano più
generalmente storico e le
si inquadra, come documenti appunto storici,
in un contesto che tenga compresenti tutti i detti livelli come
linee da intersecare tra di loro. Solo
così, e solo dopo, si può passare a discutere le lettere nel
merito del loro contenuto e quindi anche del loro specifico
filosofico, e dopo ancora ad allargare di nuovo il discorso
all'inquadramento delle lettere all'interno del rapporto teoretico tra
Carabellese e Croce a partire dalle rispettive opere, e in particolare
da quelle in cui i due pensatori polemizzarono tra loro. Infatti a
nostro parere attenersi soltanto alle lettere e al loro contenuto, sia
pure al loro contenuto specificatamente filosofico che consente
quell'ultimo allargamento appena detto, sarebbe stato in qualche modo
decurtarle di significato: le lettere sono documenti storici non
soltanto di un rapporto filosofico, ma in molti altri sensi che la
nostra piccola indagine può solo sfiorare tentando di restituirne
almeno il sentore. Esse sono cioè al tempo stesso documenti di un
uomo (con i suoi sentimenti, le sue aspettative, le sue idee, i suoi
progetti, le sue azioni, le situazioni in cui si trova e agisce, il
suo retroterra politico-sociale, la sua formazione culturale, i suoi
rapporti familiari); sono documenti di un rapporto:
di un rapporto umano, di un rapporto teoretico, di un rapporto
ideologico, di un rapporto sociale;
sono documenti di un momento: di un momento storico, di un
momento politico, di un momento ideologico-culturale, di un momento
sociale, di un momento economico; e sono infine documenti dello
sviluppo di quest'uomo, di questo rapporto, di questo momento. Tutti
questi significati, e altri ancora che sicuramente vi sono
rinvenibili, sono presenti nelle lettere o come significati palesi, o
come significati da esse deducibili e ricostruibili, o come
significati ad esse riportabili nel senso non che esse ne siano il
motore (come ad esempio il momento storico), ma che esse ne siano in
qualche modo anche espressione. Sarebbe pretensioso da parte nostra
anche solo pensare di potere esaurire l'insieme di tali significati,
mentre ci basterebbe aver contribuito a mostrarne qualcuno. Siamo
consapevoli che la nostra che qui presentiamo in Appendice, seppure
ristretta entro i limiti determinati dagli anni 1908-31 delle lettere
- e da esse originata -, è un'operazione di confine, nel senso che
non è strettamente filosofica ma devìa dall'ambito più
specificatamente disciplinare che ci appartiene per porsi come punto
di incrocio tra livello storico-filosofico, livello storico in senso
stretto, livello biografico, livello bibliografico, analisi testuale e
filosofica del piccolo epistolario ritrovato. In questo senso è
rischiosa e in senso letterale discutibile, ma è nostra speranza che
i modi in cui è condotta mostrino, come Appendice della parte più
specificatamente teoretica del nostro lavoro, la fecondità di un
approccio multiverso al problema delle lettere almeno in vista di un
loro primo inquadramento generale.
Dunque la ripresa della vita civile da parte di Carabellese negli
anni immediatamente successivi al 1918 è la ripresa della vita civile
di tutta una nazione, caratterizzata da quello che è stato definito
il "biennio rosso": tra il 1919 e il 1920, nonostante
l'iniziale ripresa anche economica dovuta alla ricostruzione
post-bellica, l'enorme problema del ritorno alla vita civile delle
grandi masse di combattenti creò, insieme ai problemi ovvi che
seguono una guerra, una condizione di generale instabilità sociale,
con una condizione economica grave e una disoccupazione dilagante che,
anche per il veto all'emigrazione imposto dagli Stati Uniti, si
espresse in conflitti sociali molto aspri e lotte sindacali che
coinvolsero anche i ceti medi e la burocrazia, oltre che i contadini e
gli operai che pretendevano il rispetto delle promesse del governo
Orlando all'indomani di Caporetto. Sulle elezioni del novembre 1919, che modificarono il sistema
elettorale uninominale di radice ottocentesca in proporzionale, prese
posizione anche Carabellese, con lo scritto ricordato "Intorno
alla proporzionale". Le prime elezioni del dopoguerra segnarono
col nuovo sistema l'affermazione, oltre che dei partiti organizzati più
che del singolo candidato, dei socialisti, tra i quali cominciava a
emergere Antonio Gramsci col suo gruppo di intellettuali torinesi
raccolti intorno a "Ordine Nuovo", e dei cattolici del nuovo
Partito Popolare Italiano guidato da Luigi Sturzo, per cui si è
parlato di "rivoluzione democratica"[99]:
la vecchia classe dirigente liberale sembrava uscirne sconfitta. Il
Ministero liberale Nitti si trovava inoltre già da prima di fronte
all'impossibilità di far convergere gli interessi di socialisti e
cattolici in un'alleanza di governo, e alla necessità di dare una
soluzione politica alla questione di Fiume, che dal settembre dello
stesso '19 era nelle mani dell'ala più estremista dei combattenti e
dei nazionalisti, guidata com'è noto da Gabriele D'Annunzio e
organizzata nella "Reggenza del Carnaro". Giolitti, che dal
giugno 1920 fu a capo del suo quinto e ultimo Ministero, riuscì a
risolvere il secondo problema del governo Nitti, dando soluzione
politica alla questione fiumana col Trattato di Rapallo, che
dichiarava Fiume città libera, ma fu costretto ad autorizzare la
smobilitazione della città con l'esercito regolare[100].
Sul piano politico interno la situazione era colto più complessa,
perché il disegno giolittiano di restituire peso al Parlamento
riducendo quello regio, e di sedare il malcontento popolare con una
serie di misure che colpivano i ceti abbienti incontrò le resistenze
di questi ultimi, conducendo all'esplosione delle agitazioni sociali
che fece deviare il "biennio rosso"
verso l'occupazione armata delle terre nel Meridione e delle
fabbriche nel triangolo industriale al Nord, e la mobilitazione e
organizzazione di migliaia di contadini nelle "Leghe rosse"
padane. Ma il disegno sovversivo di rivoluzione armata fallì per
l'isolamento sociale e politico dei ceti popolari, nonostante
l'appoggio dai socialisti
rivoluzionari di Gramsci che si rifacevano al modello dei soviet[101],
non solo per l'intervento dello Stato nella sua opera di mediazione
dei conflitti e di assicurazione dell'ordine pubblico, ma anche per la
controrivoluzione organizzata ih squadre dai gruppi più estremistici
dei ceti medi e alti nei "Fasci di combattimento", guidati
da Benito Mussolini e costituiti in prima istanza da studenti ed ex
combattenti già dal 22 marzo del 1919[102].
Sul piano programmatico i Fasci erano apparsi addirittura
un'organizzazione sinistrorsa, non un'impostazione antiborghese,
antimonarchica e anticlericale, sia con la rivendicazione dei minimi
salariali, della giornata lavorativa di otto ore e della
rappresentanza sindacale nelle fabbriche, sia con la richiesta di una
politica fiscale progressiva che colpisse il capitale, sia con
l'istanza di sequestro dei beni religiosi e dei profitti di guerra[103].
Ma con l'acuirsi dei conflitti sociali, che presentavano alcuni
caratteri propri di una guerra civile, la politica sociale dei Fasci
fu abbandonata a favore sia di accordi politici con i ceti medio-alti
che di azioni di forza dello squadrismo nei confronti delle
organizzazioni socialiste contadine e operaie che non risparmiarono il
settore della propaganda e della stampa, sino alla costituzione del
Partito Nazionale Fascista nel novembre del 1921 a Roma. Legalità e
illegalità convergevano dunque nel disegno fascista a tutto vantaggio
dell'espansione del movimento, che fu esponenziale sia dal punto di
vista dell'organizzazione sia dal punto di vista dell'appoggio
dell'opinione pubblica sia industriale e agraria sia piccolo-medio
borghese come contrasto al "pericolo rosso". Le azioni
squadriste soprattutto si estesero sia geograficamente, sia
numericamente, sia socialmente. Ancora Angelo Tasca afferma:
"[...] Il carattere militare dell'offensiva fascista [...] le
assicura, fin dagli inizi, una superiorità indiscutibile [...]
l'avversario [...] non ha alcuna seria preparazione. L'offensiva
fascista prende [...] il carattere di una guerra di movimento.
All'inizio, la spedizione contro una località non è quasi mai fatta
dai fascisti della stessa località, piccola minoranza isolata ed
esposta alle rappresaglie. E' dal centro più vicino che i camion
arrivano, carichi di persone assolutamente sconosciute nel paese.
[...] dopo di che il Fascio locale [...] s'ingrossa, con l'adesione
dei reazionari d'ogni risma, e di coloro che prima avevano paura dei
socialisti, e che hanno ora paura dei fascisti. [...] Più tardi
l'offensiva si sviluppa in azioni di grande ampiezza: le spedizioni
divengono interprovinciali e interregionali [...] Invece non vi sono
quasi esempi di attacchi socialisti contro le sedi dei Fasci, o di
antifascisti che siano andati da una località ad un'altra minacciati
dagli squadristi. [...] <<oasi>> socialiste, senza
comunicazioni tra loro. [...] Il fascismo [...] ha sul movimento
operaio una immensa superiorità colle sue possibilità di
spostamento e di concentrazione basate su una tattica militare.
[...] Gli avvenimenti che vanno dalla metà del 1921 all'ottobre 1922
dimostrano [...] che l'inferiorità della classe operaia italiana è
stata la conseguenza di un'inferiorità politica [...] Nella
classe operaia, paralizzata dalla scissione politica e dalla crisi
economica, il regresso è evidente."[104] Infatti, nel gennaio 1921, il Congresso del Partito Socialista a
Livorno aveva segnato, con la scissione tra l'ala rivoluzionaria e
l'ala riformista di Turati, Treves e Matteotti, la nascita del
"Partito Comunista d'Italia. Sezione dell'Internazionale
Comunista"[105]. Tutto questo clima trovò, secondo alcuni critici, una sostanziale
responsabilità nello Stato liberale e nella Chiesa cattolica, che di
fronte al rischio di una rivoluzione sociale, e nella speranza di
controllare la controrivoluzione in atto, si limitarono l'uno ad
assistere, l'altra a mostrare benevolenza soprattutto dopo la salita
al Soglio pontificio di Pio XI nel febbraio 1922. E questa
responsabilità si rese visibile in quello che è stato definito da
Angelo Tasca il "suicidio" dello Stato liberale: Giolitti,
nel tentativo di governare questa violenta controrivoluzione
ridimensionando nel contempo il Partito socialista, offrì al Partito
fascista di entrare a far parte del "Blocco Nazionale"
insieme ai liberali e ai nazionalisti in vista delle elezioni del
maggio 1921: Tasca afferma ancora che così l'azione terroristica era
di fatto legalizzata[106].
Infatti il Partito fascista organizzò lo squadrismo in una
"Milizia nazionale", vero e proprio esercito parallelo a
quello dello Stato, con un moltiplicarsi di azioni di guerriglia non
più soltanto contro le organizzazioni e gli esponenti
"sovversivi", ma anche contro obiettivi istituzionali e
civili, nel preciso progetto ormai della presa del potere. Le forze
socialiste, in questo acuirsi degli estremismi, rispondevano con
azioni pacifiste come lo sciopero generale nazionale del 31 luglio
1922. Lo Stato, impotente col governo Bonomi, di fronte alla
mobilitazione del Partito fascista sfociata nella "Marcia su
Roma" del 28 ottobre 1922[107],
dichiarò finalmente nella persona di Facta lo stato d'assedio
chiedendo alla Corona di firmare il decreto parlamentare che avrebbe
consentito un'azione di forza dell'esercito da parte del Generale
Badoglio. Ma Vittorio
Emanuele III rifiutò di legittimare la volontà del Parlamento,
preferendo legittimare l'azione sovversiva di Mussolini, cui offrì
perciò l'incarico di formare quel governo che ebbe a larga
maggioranza la fiducia per i pieni poteri in vista del ristabilimento
dell'ordine pubblico e che sarebbe durato
per vent'anni, fino
al luglio del 1943[108]. La politica interna fascista, da subito orientata verso il grande
capitale industriale e agrario con un abbandono, ormai da tempo
chiaro, dei programmi di stampo socialistico nonostante la propaganda
sapiente in tal senso, provocò in un primo momento sul piano
economico il rilancio della Borsa e dell'industria. L'esautoramento
dello Statuto albertino sul
piano politico-istituzionale fu
apparentemente graduale nel passaggio dal sistema parlamentare alla
dittatura, così come sul piano civile
che garantiva le libertà costituzionali: le elezioni generali del
1924, che pure si tennero, furono svolte in un clima di violenza
squadristica e di brogli elettorali e orientate dall'approvazione
della Legge Acerbo, che di fatto assegnava alla "Lista
nazionale" guidata dai fascisti, che le vinse a larga
maggioranza, il controllo
del Parlamento. Qui si inserisce il delitto Matteotti, che diede al
Paese la misura della anomia fascista: dopo il coraggioso discorso
alla Camera nel quale, denunciando l'illiceità delle elezioni, il leader
del Partito socialista richiedeva la loro invalidazione, il 10 giugno
1924, rapito in pieno giorno, fu ucciso a pugnalate[109].
Qui si inserisce anche la nota secessione dell'Aventino, sul quale i
deputati dell'opposizione, uniti, si ritirarono abbandonando per
protesta l'aula di Montecitorio, col proposito di tornarvi dopo
l'intervento del Re e la sollevazione popolare. Ma in realtà secondo
alcuni storici questa fu una scelta sbagliata, dal momento che la
reazione del Paese, che pure ci fu, non fu così esasperata e unanime,
e dal momento che l'intervento della Corona sostanzialmente non ci fu,
dando così anch'essa agio al fascismo di cavalcare la crisi politica
che si era aperta: l'Aventino perciò, secondo quest'interpretazione,
seppure dettato da motivi morali allontanò invece che avvicinare
l'opposizione alla base, e isolò i deputati in un immobilismo che
rese ancora più piana la via del potere al fascismo[110].
Mussolini, collocandosi ancora una volta come punto di convergenza
intorno a un Partito tra forze rivoluzionarie o forze normalizzatrici,
il 3 gennaio 1925 si assunse in un abile discorso di fronte al
Parlamento la responsabilità "politica, morale, storica"
del delitto Matteotti, ponendosi anche qui come arbitro, in questo
caso di fronte al Parlamento e al Paese della sua vita politica e
sociale e facendosi garante dell'ordine pubblico, aprendo così la
strada a misure istituzionali e di polizia eccezionali. Afferma Renzo
De Felice riguardo al discorso del 3 gennaio 1925: "Il suo
discorso fu relativamente breve, ma durissimo; come egli stesso
premise, tutt'altro che parlamentare. Sin dalle prime battute
Mussolini passò subito all'attacco. [...] <<L'articolo
quarantasette dello Statuto dice: 'La Camera dei deputati ha il
diritto di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all'Alta
corte di giustizia'. Domando formalmente se in questa Camera, o fuori
di questa Camera, c'è qualcuno che si voglia valere dell'articolo
quarantasette>>. [...] l'opposizione taceva, molti deputati
fascisti acclamarono [...] allora
continuò: <<[...] dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea
e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assuma, io solo, la
responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto
[...]>> [...] <<Quando due elementi sono in lotta e sono
irriducibili, la soluzione è la forza. Non c'è mai stata altra
soluzione nella storia [...] il Governo è abbastanza forte per
stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell'Aventino.
L'Italia, o signori, vuole la pace [...] Noi, questa tranquillità
[...] gliela daremo con l'amore, se è possibile, e con la forza, se
sarà necessario. [...] ciò che ho in animo [...] è soltanto amore
sconfinato e possente per la patria.>> [...] la seduta fu
sospesa. Ripresa poco dopo, Mussolini chiese che le sedute fossero
rinviate e la Camera <<riconvocata a domicilio>>. La
proposta fu approvata. Il 3 gennaio era un fatto compiuto. Nelle prime
ore della notte Federzoni diramava ai prefetti due telegrammi che
traducevano in pratica le parole di Mussolini. [...] <<[...] non
possono consentirsi per alcun motivo adunate, comizi, cortei,
pubbliche manifestazioni [...] garantire il mantenimento dell'ordine
pubblico in qualunque circostanza>> [...] disporre: <<1)
la chiusura di tutti i circoli e ritrovi
sospetti dal punto di vista politico; 2) lo scioglimento di tutte le
organizzazioni [...] che comunque tendano a sovvertire i poteri dello
Stato [...] 2) vigilanza dei comunisti e dei sovversivi [...]
procedendo a retate [...] ogni tentativo di resistenza deve essere
seriamente represso con ogni mezzo; 5) rastrellamento di armi
illegalmente detenute operando oculate frequenti perquisizioni
[...].>> E a queste prime istruzioni ne seguivano, nei giorni
successivi, altre, per [...] la rigorosa applicazione delle
disposizioni repressive sulla stampa." [111]:
lo Stato liberale era morto, la vita parlamentare sospesa - sul finire
del 1926 i partiti furono via via dichiarati illegali, e decaduti gli
aventiniani -, si ebbe tutta quella serie drammatica di eventi che
sono ben noti e riassumibili nella distruzione delle libertà civili
coagulate nello Statuto albertino: la soppressione della libertà di
stampa, di associazione, di riunione, e la violenta persecuzione degli
antifascisti sia politici (Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Antonio
Gramsci, Pietro Nenni) che civili, in un'escalation,
determinata sul piano giuridico da quelle leggi dette
"fascistissime", che condusse all'esilio di molti tra i
maggiori esponenti dell'opposizione: tra gli altri, Luigi Sturzo,
Claudio Treves, Gaetano Salvemini, Pietro Togliatti, che crearono in
Francia la "Concentrazione antifascista", momento anche di
confronto e di scontro sulle responsabilità politiche e morali di
fronte all'ascesa del fascismo, mentre i fratelli Carlo e Nello
Rosselli, poi uccisi, con
"Giustizia e Libertà" condussero sempre dalla Francia
un'attiva propaganda clandestina in Italia. Ma oltre all'opposizione esterna dei fuoriusciti, e all'opposizione
interna dei politici, il fascismo dove' com'è noto fare i conti con
un'opposizione sempre interna ben più potente e difficile da
controllare e debellare (oltre a quella di quella parte dell'opinione
pubblica silenziosa ma dissente) perché visibile e nota: quella degli
intellettuali di rilievo che, come Benedetto Croce (dopo un'iniziale
sottovalutazione del fascismo che però ne coglieva già l'assoluta
mancanza di ideologia [112]
e che sarà poi corretta nella definizione di "malattia
passeggera in un corpo sano"),
dalla sua prestigiosa
rivista "La Critica"[113],
non potevano, seppur ostacolati,
essere ridotti al silenzio né tanto meno attaccati
frontalmente, anche perché la loro notorietà oltreconfine suggeriva
l'opportunità di un'apparente libertà di espressione un Italia. Ma si sa che il fascismo tentò dopo una prima fase di rifiuto
della cultura di captare la benevolenza degli uomini di libero
pensiero, e ci riuscì soprattutto con coloro i quali videro in esso
la realizzazione degli ideali di uno Stato forte in grado di
riassumere in sé in senso moderno d'eredità dello Stato liberale
ottocentesco superandone nel contempo l'inadeguatezza alla nuova realtà
complessa uscita dalla guerra ed entrata a far parte di uno scenario
politico, economico e sociale novecentesco che veniva allargandosi
oltre la vecchia Europa. Tra questi com'è noto il più
illustre fu Giovanni Gentile, al quale si deve la Riforma che come
Ministro dell'Istruzione nel primo governo Mussolini del 1922, in cui
fu nominato Senatore, varò
nel 1923 per tutti gli ordini della scuola e che è a tutt'oggi in
parte in vigore nelle scuole superiori, ma che si assunse il compito
ben più importante di ideologo del
regime e teorico della dottrina fascista, iscrivendosi al Partito
Nazionale Fascista e promuovendo inoltre col suo prestigio la
creazione e l'organizzazione
di molte delle istituzioni culturali del regime, sino a condividerne
fino in fondo il destino e, dopo la Repubblica di Salò, ad essere
ucciso dai partigiani nel 1944. Gentile, in quello che gli è stato riconosciuto dagli storici come
impeto ideale, elaborò il famoso "Manifesto degli intellettuali
del Fascismo" del 3 gennaio 1925, in cui infatti definisce il
fascismo come "[...] movimento antico e recente dello spirito
italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana, ma
non privo di interesse e significato per tutte le altre. Le sue
origini prossime risalgono al 1919, quando intorno a Benito Mussolini
si raccolse un manipolo di uomini reduci dalle trincee e risoluti a
combattere energicamente la politica demosocialista allora imperante.
La quale della grande guerra [...] vedeva soltanto le immediate
conseguenze materiali e lasciava disperdere, se non lo negava
apertamente, il valore morale rappresentandola agl'italiani da un
punto di vista prettamente individualistico e utilitaristico [...],
donde una presuntuosa e minacciosa contrapposizione dei privati allo
Stato, un disconoscimento della sua autorità, un abbassamento del
prestigio del Re e dell'Esercito, simboli della Nazione soprastanti
agli individui e alle categorie particolari [...] Il Fascismo pertanto
alle sue origini fu un movimento politico e morale [...] un'idea in
cui l'individuo possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà
ed ogni suo diritto; idea che è Patria, come ideale che si viene
realizzando storicamente senza mai esaurirsi, tradizione storica
determinata e individuata di civiltà ma tradizione che nella
coscienza del cittadino, lungi dal restare morta memoria del passato,
si fa personalità consapevole di un fine da attuare, tradizione e
perciò missione. 2d) Il Fascismo e lo Stato. Di qui il carattere religioso del Fascismo. Questo carattere
religioso è perciò intransigente, spiega il metodo di lotta [...]
dal '19 al '22. I fascisti erano minoranza, nel Paese e in Parlamento
[...] ed il Fascismo aveva contro di sé appunto questo Stato che si
faceva liberale ed era liberale, ma del liberalismo agnostico e
abdicatorio, che non conosce se non la libertà esteriore. [...]
Contro tale Stato il Fascismo si accampò anch'esso con la forza della
sua idea la quale, grazie al fascino che esercita sempre ogni idea
religiosa che inviti al sacrificio, attrasse intorno a sé un numero
rapidamente crescente di giovani e fu il partito dei giovani (come
dopo i moti del '11 da analogo bisogno politico e morale era sorta la
<<Giovine Italia>> di Giuseppe Mazzini). [...] come ogni
fede che urti contro una realtà costituita da infrangere [...] Era la
fede stessa maturatasi nelle trincee e nel ripensamento intenso del
sacrificio [...] pel solo fine che potesse giustificarlo: la vita e la
grandezza della Patria. [...] Il Fascismo è spirito di progresso e di
propulsione di tutte le forze nazionali. [...] Il Fascismo, i cui
capi, a cominciare dal supremo, hanno tutti vissuto l'esperienza
socialista, intende conciliare due termini finora sembrati
irriducibilmente contrari: Stato e Sindacato, Stato, come forza
giuridica della Nazione nella sua unità organica e funzionale;
Sindacato, come forza giuridica dell'individuo quale attività
economica, che nel diritto possa avere la sua garanzia [...]. Stato,
come organizzazione di tutte le attività individuali, nel loro ordine
organico e concreto. Non regresso, perciò, rispetto allo Stato
costituzionale, anzi sviluppo, maggiore determinazione intrinseca e
realizzazione del suo principio di effettiva rappresentanza popolare
nel potere legislativo [...]. Oggi in Italia gli animi sono schierati
in due opposti campi [...] Ma la grandissima maggioranza degli
italiani rimane estranea [...] sanno bene che l'infocata libertà è
una parola di significato elasticissimo [...] questa piccola
opposizione al Fascismo [...] dovrà finire a grado a grado per
interno logorio e inazione, restando sempre al margine [...] nella
nuova Italia. E ciò perché essa non ha propriamente un principio
opposto ma soltanto inferiore al principio del Fascismo, ed è legge
storica che [...] di due principi opposti [...] trionfi un più alto
principio, che sia la sintesi di due diversi elementi vitali a cui
l'uno e l'altro separatamente si ispirano; ma di due principi uno
inferiore e l'altro superiore [...] il primo deve necessariamente
soccombere perché esso è contenuto nel secondo [...]."[114]
A questo Manifesto, cui abbiamo volutamente lasciato ampia voce
senza alcun commento, si contrappose com'è noto l'altro di Croce, che
con esso, chiamando a raccolta l'intellighenzia antifascista e
segnando perciò visibilmente una divisione di campo nell'ambito della
cultura italiana dell'epoca, si richiamava ai valori della tradizione
risorgimentale e liberale, determinando tra l'altro non soltanto la
sua posizione politica, ma anche la sua interpretazione dell'idealismo
hegeliano, e, non ultimo, ribadendo così pubblicamente la fine del
suo sodalizio non solo intellettuale con Gentile. Il
"Manifesto" degli intellettuali antifascisti, firmato anche
da Guido De Ruggiero, Luigi Salvatorelli e Giustino Fortunato,
affermava: "Gl'intellettuali fascisti, riuniti in congresso a
Bologna, hanno indirizzato un manifesto agl'intellettuali di tutte le
nazioni [...] Ma il maltrattamento della dottrina e della storia è
cosa di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell'abuso che vi
si fa della parola <<religione>> [...] noi ora in Italia
saremmo allietati da una guerra di religione, dalle gesta di un nuovo
evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione
[...]. Chiamare contrasto di religione l'odio e il rancore che si
accendono da un partito che nega ai componenti degli altri partiti il
carattere d'italiani e li ingiuria stranieri, e in quest'atto stesso
si pone esso agli occhi di quelli come straniero e oppressore, e
introduce così nella vita della Patria i sentimenti e gli abiti che
sono propri di altri conflitti; nobilitare col nome di religione il
sospetto e l'animosità sparsi dappertutto, che hanno tolto perfino ai
giovani delle università l'antica e fidente fratellanza dei comuni e
giovanili ideali [...]. In che mai consisterebbe il nuovo evangelo
[...] non si riesce ad intendere dalle parole del verboso Manifesto;
e, d'altra parte, il fatto pratico [...] un incoerente e bizzarro
miscuglio di appigli all'autorità e di demagogismo, di professata
riverenza alle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi
ammuffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche,
di miscredenza e di corteggiamento alla Chiesa cattolica, di
aborrimento della cultura e di conati sterili verso una cultura priva
delle sue promesse, di sdilinguimenti mistici e di cinismo. E, se
anche taluni plausibili provvedimenti sono stati attuali o avviati dal
governo presente, non è in essi nulla che possa vantare un'originale
impronta [...]. Per questa caotica e inafferrabile
<<religione>> noi non ci sentiamo, dunque, di abbandonare
la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata
l'anima dell'Italia che risorgeva, dell'Italia moderna: quella fede
che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia,
di generoso senso umano e civile, di zelo per l'educazione
intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e
garanzia di ogni avanzamento. Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini
degli uomini del Risorgimento, di coloro che per l'Italia operarono,
patirono e morirono [...]. Le nostra fede non è un'escogitazione
artificiosa e astratta o un invasamento di cervello, cagionato da mal
ceche o mal comprese teorie; ma è il possesso di una tradizione
[...]. Ripetono gl'intellettuali fascisti, nel loro manifesto, che il
Risorgimento d'Italia fu l'opera di una minoranza; ma non avvenqono
che in ciò appunto fu la debolezza della nostra costituzione politica
e sociale; e anzi par quasi che si compiacciano della odierna per lo
meno apparente indifferenza di gran parte dei cittadini d'Italia
[...]. I liberali di tal cosa non si compiacquero mai, e si studiarono
a tutto potere di venare chiamando sempre maggior numero d'italiani
alla vita pubblica; e in questo fu la precipua origine anche di
qualcuno dei più disputati loro atte, come la largizione del
suffragio universale. Perfino il favore, col quale venne accolto da
molti liberali nei primi tempi, il movimento fascistico, ebbe tra i
suoi sottintesi la speranza che, mercé di esso, nuove e fresche forze
sarebbero entrate nella vita politica [...]. Ma non fu mai nei loro
pensieri di mantenere nell'inerzia e nell'indifferenza il grosso della
nazione [...] perché sapevano che, a questo modo, avrebbero tradito
le ragioni del Risorgimento italiano e ripigliato le male arti dei
governi assolutistici e quietistici. Anche oggi, né quell'asserita
indifferenza e inerzia, né gli
impedimenti [...] alla libertà, c'inducono [...] a rassegnarci. [...]
La presente lotta politica in Italia varrà, per ragione di contrasto,
a ravvivare e a fare intendere in modo più profondo e più concreto
al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali, e
a farli amare con più consapevole affetto. E forse un giorno,
guardando serenamente al passato si giudicherà che lo prova che ora
sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio che l'Italia doveva
percorrere per rinvigorire la sua vita nazionale, per compiere la sua
educazione politica, per seguire in modo più severo i suoi doveri di
popolo civile."[115]
Carabellese, i cui richiami al Risorgimento e a Mazzini sono
frequenti in molte sue opere e che più volte ha ribadito sul piano
filosofico l'originalità della filosofia italiana, era dal canto suo
molto vicino a Gentile - e sarebbe motivo di ricerca se non abbia
partecipato, come Croce, per i suoi interessi pedagogici e per la
vicinanza in tal senso a Gentile anche attraverso le recensioni
ricordate, al suo progetto di riforma della scuola -, al di là delle
divisioni teoretiche che li separavano sia dalla discussione iniziata
nel 1911 con gli articoli ricordati che riprendevano e allargavano la
sua Tesi di Laurea in Filosofia su La teoria della percezione
intellettiva in A. Rosmini, divisioni teoretiche delle quali si è
già parlato. Così come motivo di ricerca sarebbe pure se egli si
trovò a dover compiere una scelta di campo in occasione del Manifesto
gentiliano e di quello crociano non
soltanto tra due ideologie politiche il cui sodalizio
si era ormai scisso, ma tra due stessi rapporti interpersonali,
dal momento che quello stesso 1955 rientra nel periodo delle lettere a
Croce che stiamo presentando, cui infatti si riferisce la prima breve
lettera del '25, di pochi mesi successiva al manifesto crociano, che
però, nonostante o forse proprio in grazia del reverente affetto
verso Croce, non fa alcun cenno a quanto avvenuto. E diciamo che Carabellese era vicino a Gentile perché, prima
ancora di esserne affine, avendone sposato la nipote Irene Gentile nel
1936, e prima ancora di esserne collega all'Università di Roma dove
Gentile insegnava dal 1918 Filosofia Teoretica - Cattedra che come si
è detto alla sua morte fu ricoperta appunto da Carabellese[116]
- e Carabellese giunse nel 1929 come ordinario di Storia della
Filosofia[117],
e ancora prima di aver affidate da
Gentile, che ne era il Direttore, per tutto il tempo della sua
edizione dal 1929 al 1937 ben undici voci della Grande Enciclopedia
Italiana[118]
promossa nel 1925 dal conte Giovanni Treccani, Carabellese, che lo
conosceva se non dal 1909 sicuramente dalla polemica del 1911,
collaborò sempre con Gentile, che nel 1920 aveva fondato (mentre i
rapporti con Croce si
raffreddavano sino alla rottura e alla fine della sua collaborazione a
"La Critica" nel 1933) il "Giornale critico della
filosofia italiana", con numerosi articoli su questa rivista a
partire dalla sua fondazione e, oltre la morte di Gentile, fino al
1949[119],
pubblicando anche, oltre alla sua commemorazione all'Università di
Roma ricordata, la ristampa di un saggio sulla sua filosofia in un
volume collettaneo in suo onore[120]
per la Fondazione a lui dedicata, anch'esso ricordato. Altri intellettuali però non mostrarono nei confronti di Gentile
altrettanta disponibilità, soprattutto dopo il delitto Matteotti:
com'è risaputo, oltre ai rapporti con Croce[121],
col quale è nota la stretta collaborazione su "La Critica"[122]
- ometto per pudore il comune orizzonte neoidealistico -, anche quelli
con Adolfo Omodeo, suo discepolo, si interruppero. Ma il regime, dopo un primo "atteggiamento anticulturalistico
per cui valeva più l'azione che il pensiero, più uno squadrista che
un professore" - cito sempre da Bobbio - dove' "darsi una
rispettabilità culturale" e seppe creare, con la persuasione o
con la forza, le condizioni di un'adesione almeno esteriore da parte
di molti intellettuali italiani: con la persuasione, creando, anche
attraverso Gentile, una rete di istituzioni di prestigio nome, sul
modello di quella francese, la Reale Accademia d'Italia nel 1926 che
doveva raccogliere i più eminenti uomini di cultura, tra cui
Pirandello e Marconi, o anche l'Istituto Nazionale Fascista di Cultura
nato anch'esso nel 1926 e presieduto ancora da Gentile; e creando pure
diverse riviste tra cui la più autorevole, diretta sempre dal 1926
dallo stesso Gentile che la trasformò nell'organo dell'Istituto
Nazionale Fascista di Cultura, fu "L'educazione politica"[123],
nata nel '22 e su cui Carabellese
non pubblicò mai[124];
e ancor prima, come abbiamo visto, attraverso il "Manifesto"
degli intellettuali fascisti firmato
da molti professori; oppure questa adesione fu imposta con la forza
ad esempio attraverso il famoso "Giuramento"[125]
prescritto ai Professori universitari
nell'A.A. 1931-32[126]
e a cui anche Carabellese dove' sottostare all'Università di Roma il
20 novembre 1931. Ma Carabellese in precedenza, e prima di vincere il Concorso di
ordinario per la Cattedra di
Storia della Filosofia a Roma nel 1929,
in questi anni che videro la progressiva affermazione politica
e sociale del fascismo fino alla dittatura, fu, ormai decisamente
orientato verso l'Accademia, Professore straordinario di Filosofia
Teoretica all'Università di Palermo dal 1923 al 1925, e poi, sempre a
Palermo, ordinario dal '25 al '29. Gli anni palermitani furono anni
fecondi di studio, a partire dalla Prolusione del 1923
all'insegnamento sulla Cattedra di Filosofia Teoretica[127],
anch'essa pubblicata dalla Biblioteca Filosofica della Società per
gli Studi Filosofici di Palermo come detto fondata e diretta dal 1910
da Gentile e Pojero[128],
a finire all'importante e già ricordato Il problema della
filosofia da Kant a Fichte (1781-1801) nella Collana della
palermitana Trimarchi diretta dal suo allievo Vito Fazio Allmayer del
1929. Tra questi due scritti, oltre agli altri che non citiamo, ci
sono l'approfondimento degli studi su Kant attraverso la messa a fuoco
dell'interesse teologico che prelude a Il problema teologico come
filosofia del 1941[129],
ma anche attraverso la traduzione e la cura di opere kantiane[130],
oltre che attraverso il progetto della ricostruzione storico-teoretica
del concetto di filosofia da Kant in poi[131],
l'interesse verso il problema della storia[132],
gli scritti in onore del vecchio maestro Bernardino Varisco[133],
la partecipazione al VII Congresso Nazionale di Filosofia[134],
Dell'aprile 1922, quindi dall'arrivo a Palermo anche se spedita da
Bisceglie, è la prima vera e propria lettera a Croce, di cui abbiamo
già anticipato una osservazione personale di Carabellese e che è
anche la più importante da un punto di vista teoretico, come vedremo
in seguito. Sempre
appartenenti al periodo palermitano, ma scritte tutte da Roma, sono la
seconda breve lettera, scritta nella
piena estate del 1925, in cui Carabellese comunica anche
l'indirizzo romano a cui Croce può rispondergli, e
la terza di poco successiva, della metà di novembre dello
stesso anno, ossia la seconda lettera del 1925. Dopo di ciò, e fino
alla fine di maggio del 1931, anno in cui Carabellese è già da circa
due anni all'Università di Roma, le lettere si interrompono, per cui
si può dire che, se si escludono le cartoline precedenti compresa
quella dal fronte del '15 e la prima lettera da Bisceglie, da
dopo quest'ultima in poi la corrispondenza che forma il piccolo
epistolario, nonostante
gli spostamenti dovuti alla carriera,
viene tutta spedita da Roma, compresa naturalmente quella che
segue il suo coronamento nell'Università della capitale, ossia
appunto l'importante lettera di fine maggio del '31, in cui si
comunica il definitivo indirizzo e che per prima viene scritta su
carta intestata della Scuola di Filosofia con stemma e intestazione
anche della Reale Università degli Studi di Roma, la cartolina di
inizio giugno, sempre intestata dalla Reale Università, e l'ultima
lettera di metà giugno, anch'essa sella Scuola di Filosofia,
tutte sempre del 1931. Carabellese dunque, nonostante il fascismo, prosegue alacremente la
sua attività sia da un punto di vista professionale, che viene sempre
più definendosi, sia da un punto da vista teoretico, che viene sempre
più arricchendosi, oltre che di progetti e di linee di ricerca, anche
di relazioni interpersonali - penso a Gentile, ma anche allo stesso
Croce, col quale la corrispondenza, seppure rarefatta, mostra come
vedremo un avviato rapporto teoretico -, riprendendosi da quello
scoramento espresso allo stesso Croce nel '22. Sulle vicende del fascismo che intanto sovrastava quest'attività
carabellesiana, troppo note e dibattute per
poterne anche tentare una seppur fugace immagine, daremo
soltanto ancora qualche breve nota, e solo, lo ripetiamo, sino al
1941. Alle istituzioni statuali e costituzionali, oltre alla già
avvenuta sospensione del Parlamento di cui si è detto, furono
sostituiti organismi direttamente controllati dal Partito Nazionale
Fascista o da Mussolini: il Gran Consiglio del Fascismo con
prerogative di governo attuate mediante decreti-legge, il Tribunale
speciale per la Difesa dello Stato con funzioni di repressione dei
reati politici sino al confino e alla pena di morte, la Milizia
Volontaria per la Sicurezza Nazionale come corpo militare regolare. La
lunga e gloriosa tradizione dello Stato di diritto espressa nei codici
giuridici[135]a
fu com'è risaputo modificata dal codice
che prese il nome dal tristemente noto Rocco[136],
ex nazionalista. Uno Stato e una società militarizzati, in cui anche a livello
educativo si mirava a creare sin dai primi anni il buon fascista:
Figli della Lupa, Opera Nazionale Balilla, Gioventù Italiana del
Littorio erano i gradi attraverso cui, oltre alla militarizzazione che
culminava gerarchicamente nel culto del Duce, si inculcava il
disprezzo per la democrazia, per il diverso, per il
"sovversivo". Ma le elezioni a lista unica del 1929 si risolsero comunque in un
plebiscito, dal momento che com'è noto il fascismo seppe abilmente
raccogliere i consensi sia dei ceti agrari e industriali, sia delle
gerarchie ecclesiastiche e dunque dei cattolici, sia degli ambienti
militari, sia degli strati popolari soprattutto piccolo-borghesi e
contadini: la battaglia del grano del 1925, come la bonifica integrale
del 1928, si rivolgeva non solo a questi ultimi, ma anche ai primi, ai
quali offriva, soprattutto dopo la crisi mondiale del '29, un mercato
autarchico e monopolistico attraverso la nota formula del
corporativismo; in nome della nuova Roma imperiale, oltre alla
battaglia demografica in funzione della quale
furono introdotti incentivi e fu creata l'Opera Nazionale per
la Maternità e per l'Infanzia, i grandiosi lavori pubblici,
che distrussero parte del patrimonio archeologico della
capitale, e la fondazione di nuove città, creavano l'adesione di
quegli ambienti che, seppur diversi e per motivi diversi, convergevano
tutti nel sogno comune; già prima dei Patti Lateranensi dell'11
febbraio 1929, col cui Trattato si riconosceva la Città del Vaticano
come Stato sovrano e col cui Concordato si tradiva il principio
liberale e laico della libera Chiesa in libero Stato,
- Patti che inoltre risarcivano con due miliardi di titoli di
Stato le perdite subite dalla Chiesa dopo il 1870 -, i rapporti tra i
due poteri erano stati improntati a un reciproco riconoscimento, a
partire dalla Riforma Gentile che di fatto, inserendo la religione
cattolica come materia d'obbligo nelle scuole anche oltre le
elementari, la sanciva come religione ufficiale dello Stato.
L'analisi che dell'ideologia del fascismo fa Bobbio ci risulta
importante perché in essa si distingue bene, anche proprio a livello
filosofico, ciò che invece talvolta diviene confuso: il piano dello
Stato etico e il piano dello Stato forte, ossia quell'apparentemente
sottile confine che ha distinto a livello politico il liberalismo
dalla dittatura non solo in Italia. Ascoltiamolo a partire dalla sua
analisi del fascismo: "Può sembrare un paradosso che una delle
tipiche <<ideologie>> del nostro tempo, come il fascismo,
si sia presentato di proposito al suo formarsi come un movimento
anti-ideologico e abbia fatto consistere la sua novità e la sua forza
proprio nel non porsi come ideologia ma come prassi, che non ha altra
giustificazione che il successo. Mussolini, fin dar 23 marzo del 1921,
aveva detto che <<il fascismo è una grande mobilitazione di
forze materiali e morali. Che cosa vi propone? [...] governare la
nazione [...] Noi non crediamo ai programmi dogmatici [...] Noi ci
permetteremo il lusso di essere aristocratici e democratici,
conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti e
illegalisti, a seconda delle circostanze [...]>>. Questo
concetto fu [...] canonizzato, nella voce Dottrina del fascismo
dell'Enciclopedia Treccani (1932). [...] affermare, come fecero
ripetutamente Mussolini e i suoi seguaci, il primato dell'azione sul
pensiero, [...] dell'azione per l'azione [...] è già di per se
stessa, in quanto giustificazione di un certo modo d'intendere la
politica e di farla, un'ideologia, tanto è vero che vi è un nome per
riconoscerla, <<attivismo>>, e una filosofia per
spiegarla, <<irrazionalismo>>. [...] Il fascismo, se mai,
fu un movimento non tanto anti-ideologico, quanto ispirato, specie nei
primi anni, a ideologie negative, o della negazione, dei valori
correnti. Fu antidemocratica, antisocialista, antibolscevico,
antiparlamentare, antiliberale, anti-tutto. Creò nel suo seno un
movimento che si fregiò del nome di <<anti-Europa>>.
[...] Mussolini stesso disse che il movimento fascista non era un
partito [...] ma un <<anti-partito>> [...] un
partito-anti. [...] il fascismo non fu una rivoluzione ma una
anti-rivoluzione, o, per usare il termine corrente, una
controrivoluzione, che ebbe della rivoluzione alcuni aspetti esterni
[...] senza averne il significato storico, anzi rivelandosi un
movimento profondamente [...] anti-storico. Proprio perché il
fascismo ebbe un'ideologia negativa, poterono confluire in esso varie
correnti ideali che erano animate dagli stessi odi senza avere gli
stessi amori [...] fu il bacino collettore di tutte le correnti
antidemocratiche che erano rimaste per lo più sotterranee o avevano
avuto [...] un'espressione quasi esclusivamente letteraria, sino a che
il regime democratico aveva bene o male mantenuto le sue promesse
[...] e si trasformarono in azione politica quando il regime
democratico entrò in crisi. [...] I fascisti eversivi chiedevano al
regime di fare la rivoluzione (se pure la rivoluzione degli spostati,
degli sradicati, dei reduci, o come si disse con una formula felice,
del quinto stato); gli altri miravano soltanto all'instaurazione di
uno stato autoritario [...]. Senonché, mentre l'eversione dei primi
fu velleitaria e fu facilmente dissolta [...], la restaurazione dei
secondi fu una cosa seria, l'unica cosa seria del regime, che venne
abolendo via via tutte le conquiste dello stato liberale senza
instaurare uno stato socialmente più avanzato. La diversa origine
ideologica dei restauratori e degli eversivi si riverberò pure nel
foro diverso modo di concepire il fascismo [...]. Il fascismo dei
primi fu puramente strumentale [...] come un rimedio salutare, anche
se amaro, alla crisi del vecchio stato. Il fascismo degli altri,
invece, fu finalistico: l'ideale di chi credeva sinceramente che il
mostro bolscevico dovesse essere aperto [...] Il regime, nonostante
l'aspetto florido che esso mostrava nelle manifestazioni ufficiali, fu
continuamente scosso da correnti sotterranee. [...] Il fascismo dei
restauratori poté contare, per il suo consolidamento e la sua
propagazione, sull'adesione e sulla partecipazione attiva di Giovanni
Gentile che ne divenne l'ascoltato teorico. Gentile (1875-1944) era un
uomo intellettualmente vigoroso e moralmente generoso, fatto d'impeti
e di slanci ideali, ottimista fino all'ingenuità, con una vocazione
profonda all'apostolato filosofico, intese la filosofia come fede nel
vento dello Spirito che soffia in ogni cuore, una specie di religione
laica [...] Come Croce, pur non avendo mai preso parte attiva [prima
del '22] alla vita politica, aveva sempre avuto una concezione
militante della filosofia. [...] [In Dopo la vittoria. Nuovi
frammenti politici, "Quaderni della 'Voce'", Roma, 1920]
Denunciava la crisi morale, che non avrebbe potuto essere risolta se
non con una nuova concezione dello stato, non strumento di parte ma
organo dell'interesse collettivo, distinguendo la falsa democrazia in
cui il popolo pretende di opporsi allo stato da quella vera in cui
<<il popolo è esso stesso lo stato>>. [...] Il suo era un
liberalismo che concepiva lo stato <<come la stessa volontà
individuale nella sua profonda razionalità e legalità>>. [...]
Che il liberalismo fosse una dottrina della libertà in cui la libertà
dovesse essere vista dal punto di vista non dell'individuo ma dello
stato (libertà dello stato, non dallo stato), era una
tesi che derivava dalla concezione stessa dell'eticità dello
stato che era in Gentile assai antica e gli veniva da Hegel. [...]
liberalismo autentico italiano [...] teorizzato dal neo-hegelismo
napoletano [...] due liberalismi, quello atomistico d'origine
illuministica, e quello nostrano (e tedesco) [...] [Ma] In realtà
Gentile aveva tratto da Hegel più la formula dello stato etico che
non la sostanza. Mentre per Hegel, maestro di realismo politico, lo
stato appartiene al momento oggettivo dello Spirito, per Gentile
diventò un atto dell'unico Soggetto che crea e ricrea dal suo seno
tutta la realtà. Se per spiritualismo s'intende la riduzione di ogni
realtà all'interiorità, lo spiritualismo ebbe la sua massima
espressione nella filosofia di Gentile: il quale, con la sua teoria
dello stato non inter homines ma in interiore homine,
ridusse a fatto interiore anche la realtà corposissima dello stato.
[...] non riconobbe la molteplicità degli stati [...] ripudiò come
non speculative e quindi spurie la distinzione tra stato e famiglia, e
quella fra stato e società civile [...] A furia di unificare, di
semplificare, di ridurre [...] finì per fornire un dotto commentario
alla formula mussoliniana <<Tutto nello stato, nulla al di fuori
dello stato, nulla contro lo stato>>, la giustificazione
filosofica dello stato totalitario."[137]
3) Analisi di un carteggio monco: le cartoline e le lettere di
Carabellese a Croce
Tornando pertanto agli scritti qui presentati, dalle prime
cartoline, brevi e concise, si ricava che Carabellese conosceva già
Croce anteriormente alla prima spedizione, poiché non vi è una
lettera di presentazione che il giovane Carabellese invii all'illustre
uomo di cultura. Quindi si può supporre con un grado ragionevole di
certezza che tale conoscenza fosse già avvenuta, forse in
concomitanza con gli studi universitari carabellesiani a Napoli e
molto probabilmente per il tramite di Giuseppe De Blasiis, amico di
Benedetto Croce e Professore di Storia relatore della Tesi di Laurea
di Carabellese in Lettere nel 1900 "Sulla vetta ierocratica del
Papato. Idee, fatti, intuizioni", nonché Segretario della Società
Napoletana di Storia Patria. Tale conoscenza giovava inizialmente al giovane Carabellese per
sottoporre al giudizio illustre di Croce, che dalle lettere emerge
essere considerato da lui un punto di riferimento, i suoi scritti di
filosofia dopo la seconda Laurea a Roma appunto in Filosofia nel 1905,
a partire dal primo La Teoria della percezione intellettiva in A.
Rosmini, pubblicazione
appunto della Tesi di Laurea nel 1907, sottoposto
a tale giudizio nella prima cartolina del 14 ottobre 1908. Lo
sfalsamento di un anno tra la pubblicazione e la cartolina, che
potrebbe in prima istanza essere attribuito
sia al fatto che non sempre la data di edizione stampata di
un'opera corrisponde alla data di distribuzione, che talvolta è
posteriore, sia al fatto che la conoscenza tra il neolaureato e il
pensatore fosse avvenuta proprio nell'anno intercorso tra la Tesi e la
sua pubblicazione, si spiega invece con il contenuto stesso della
cartolina, nella quale Carabellese, che scrive a Croce come Direttore
de "La Critica", attribuisce la sua mancata risposta a un
forte ritardo nella spedizione postale. Ancora riguardo alla prima
cartolina, c'è da notare non tanto che Carabellese si firma come
professore, evidentemente di scuola superiore - nel cui Liceo di
Albano in quel momento insegnava, ma
soprattutto che sperava
ih una recensione su "La Critica" - anche se poi nell'ultima
lettera del 18 giugno 1931
negherà di aver mai "sollecitato recensioni" - , la
prestigiosa Rivista che
con la sua importanza avrebbe dato al giovane studioso notorietà tra
gli specialisti. E infatti tale recensione si farà: è del 1909 a
firma di Gentile[138].
Interessante la seconda cartolina dal fronte di guerra, spedita
propria all'inizio della Grande guerra e su cui abbiamo già fatto
alcune considerazioni. In essa Carabellese continua a pensare da uomo
libero, e si vede proiettato in avanti, al di là e al di sopra della
guerra, come filosofo, e in particolare in questo momento come
filosofo forale: nonostante la guerra, spedisce nei suoi primi mesi a
Croce l'opuscolo su La coscienza morale, stampato a La Spezia
(dove prima di essere richiamato alle armi insegnava sempre al Liceo
classico) nell'anno prima in
cui ci fu lo scoppio del conflitto in Italia. Carabellese ricorderà
poi la discussione su quest'opera, di cui nella cartolina chiede al
Senatore un giudizio che sarebbe da ritrovare, dove l'inizio dei suoi
attriti con Croce. Qui non
è più solo il giovane studioso che cerca semplicemente un appoggio e
un giudizio, ma diviene attivamente inserito in un dibattito nel
merito di alcuni problemi fondamentali cella filosofia stessa: qui
quello morale della coscienza. Sebbene La coscienza morale sia
stata scritta prima dello scoppio della guerra in Italia, la sua
spedizione a Croce a sei mesi dall'entrata dell'Italia nel conflitto
è indice che la guerra serve allora come detonatore non solo in senso
fisico negativo - come portatrice di morte - ma anche in senso morale
positivo, ossia proprio nel senso di riattivare un processo di
riflessione del sé e della propria coscienza, e di innalzamento
prettamente filosofico di tale riflessione al piano universale della
coscienza morale di tutti gli uomini. Ancora, la guerra nella sua
inutilità abnorme e anomica, di fronte a cui però il senso del
dovere verso la Patria, che Carabellese sentiva molto forte come è
deducibile da molti suoi scritti, non può far fuggire, riattiva la
consapevolezza di sé nel senso di rivelare, come disvelamento
dell'aletheia, il proprio sé più puro, la propria volontà e la
propria missione nel mondo, quella filosofica, stabilendo un confine
tra il dentro della guerra e il fuori del mondo della pace, del mondo
degli uomini liberi, una rottura cui si aggiunge la nostalgia e la
speranza, che fanno da supporto e da leva su cui inserire la forza di
combattere quest'anomia e di continuare, almeno attraverso la
meditazione filosofica se non nella vita pratica, a coltivare un
giardino di ordine e di norme morali che pur nella sua idealità,
preservi dal caos: la spedizione de La coscienza morale è
tutto questo e altro ancora.
Da Pistoia, da dove Carabellese spedisce la terza cartolina del 5
dicembre 1921 e dove insegna al Liceo, dopo il concorso speciale di
filosofia nelle scuole superiori del '19,
pur avendo vinto nel '17, come si è detto, la Libera Docenza
in Filosofia teoretica, egli accompagna all'invio del conciso
messaggio la spedizione di "un mio lavoro, non indegno di
discussione". Decifrare a quale lavoro si riferisca implica anche
il riferimento alla prima lettera, quella del 6 aprile del 1922,
dunque di poco successiva a questa spedizione. Infatti se ad una prima
lettura potrebbe apparire che Carabellese faccia riferimento alla Critica
del concreto, edita appunto a Pistoia nel 1922, pure la stessa
dicitura generica "lavoro", non consona a quella che
Carabellese considerava un'opera importante, così come la sua
spedizione contestuale alla cartolina, di un anno successive alla
stampa, rendono almeno problematica la scelta che si tratti della Critica
del concreto. E' infatti molto più probabile che si tratti
dell'articolo "Che cos'è la filosofia?", edito nel terzo
numero della "Rivista di filosofia" di Bologna nello stesso
1921, quindi di poco precedente la spedizione a Croce. Questi fece più
che sottoporlo alla discussione richiestagli da Carabellese: ne fece
personalmente una recensione su "La Critica" nel secondo
numero del 1922, dunque subito dopo, che poi come si è già detto più
volte, ristampò ancora. E il fatto che si tratti di quest'articolo
carabellesiano e non dell'importante opera critica è avvalorato
anche, come dicevamo, dalla prima vera e propria lettera, quella del 6
aprile 1922, che si apre appunto con un ringraziamento, relativo alla
"nota" crociana "sulla natura della filosofia",
"per aver tenuto conto del mio opuscolo". E con
l'interazione tra la cartolina del '21 e la prima lettera del 6 aprile
'22 siamo giunti al cuore filosofico del rapporto tra i due pensatori.
Infatti dopo le prime tre cartoline, dall'analisi testuale del
documento del '22, emerge che il rapporto con Croce può dirsi
consolidato. Lo stile fa riferimento a un discorso sui contenuti quasi
alla pari e non più soltanto formale da giudice illustre e potente a
giovane desideroso di affermarsi, quale Carabellese appunto non era più:
la lettera del '22 è dal punto di vista contenutistico più
specificatamente filosofico, se non la più importante, certo la più
interessante. Ma già qui si notano le prime discrepanze: Carabellese
prende le distanze dalla filosofia dell'idealismo assoluto e dal
neohegelismo italiano di Croce e Gentile allora ben radicato nella
cultura filosofica, i quali peraltro, come abbiamo visto, di lì a
poco dovevano anch'essi dividersi. E sottolinea che questa presa di
distanza non è per puro spirito polemico né per differenziarsi, ma
"per vederci chiaro", per amore della filosofia. Se la prima
e più superficiale occasione è data proprio dalla concezione della
filosofia, che fa riferimento come abbiamo visto alla cartolina
precedente, all'articolo di Carabellese e alla recensione di Croce,
l'oggetto vero della discussione è la "natura della realtà",
l'essere, che implica un concetto del divenire che distanzia
Carabellese non soltanto da Hegel, ma anche da Gentile e dallo stesso
Croce. Egli è consapevole dei rischi che questa differenziazione
comporta, ma evidentemente la forza delle idee è maggiore del senso
di opportunità, di cui Carabellese non si macchiò mai. Ma questa
concezione del divenire, che segna uno spartiacque tra il pensiero
carabellesiano e quello allora dominante in area laica, e che inoltre
sposta il discorso dal piano metodologico al piano ontologico, piani
che Carabellese fa interagire vedendoli giustamente in connessione (si
ricordi la sua teoria del problema interno e del problema esterno
della filosofia), è originato dalla discussione apparentemente neutra
sullo statuto e sulla natura della filosofia. E questa concezione
dell'essere che si fa divenire, che potrebbe apparire interna a un
orizzonte comune nei quattro pensatori - quello idealistico, implica
invece per Carabellese una concezione del tempo anch'essa
apparentemente simile perché ontologica, ma in realtà, come lui
stesso qui dice, profondamente diversa: il tempo, Carabellese non ne
parla qua ma nei suoi scritti editi, è per Carabellese senz'altro
innalzato al piano ontologico e non meramente empirico, ma pur in
questo innalzamento, è più volte da lui sottolineato come intensivo
e non estensivo, ossia implicante una concezione del
presente-passato-futuro non lineare e facente riferimento a un modello
di sviluppo progressivo, com'è invece per l'idealismo di matrice
hegeliana, bensì teorizzato come coimplicito, si potrebbe dire, a
partire dal concetto di durata intensiva, che coimplica i tre momenti,
seppur distinti, del passato, del presente e del futuro. Si ricordi a
questo proposito che la dimensione ontologica che egli attribuisce al
tempo e la sua teoria
dell'intensione e non della estensione dei momenti del tempo passato
presente e futuro significa durata come venire all'essere dell'essere
ma significa anche che i tre momenti del tempo non sono successivi ed
esterni l'uno all'altro come
della temporalità lineare che va dal passato al futuro secondo una
direzione di sviluppo, ma contemporanei e interni l'uno all'altro. Si
ricordi anche la differenza che inserisce tra temporaneità,
quantitativa e transeunte, propria del mondo fenomenico, e temporalità,
qualitativa e eterna, propria del mondo dell'essere: lo sviluppo
lineare unidirezionale del tempo è da Carabellese considerato
fenomenico, e forse il suo rifiuto della Creazione biblica (nel senso
che abbiamo precisato dell'Antico Testamento) è dovuto al fatto che
la sua concezione della temporalità richiama quella di una creazione
continua, che in ogni momento si fa e che in ogni momento è gravida
al tempo stesso sia del passato che del presente che del futuro. Non
c'è dunque un Dio creatore che una volta, all'inizio dei
tempi, ha creato il mondo, immettendolo in un processo
unidirezionalmente orientato nel tempo nel senso dello sviluppo - e
qui avviene il suo distacco da Hegel -, ma c'è un Dio Idea che continuamente,
eternamente si crea in un tempo ontologico che è durata
intensiva e non estensiva. Una concezione che, come più volte
Carabellese sottolinea nelle sue opere, "potrebbe sembrare il
ritorno ad una vieta ontologia dogmatica, ma è invece il necessario
sviluppo" dell'idea dell'essere: una concezione solo
apparentemente medievale ma, ancor prima, antica dell'essere come
essere da cui staticità è durata, ossia movimento interno, almeno in
questa fase del suo pensiero. Ma Carabellese tralascia la discussione
sull'essere e sul tempo ad esso connesso, e torna invece all'occasione
della lettera: la filosofia, su cui il dibattito
è aperto e importante per Carabellese soltanto da un punto di
vista specialistico, per cui la preoccupazione carabellesiana è che
l'identificazione di filosofia e "concreta conoscenza" - di
filosofia e storia - conduca la filosofia stessa su una "via
senza uscita", dal momento che dal punto di vista più generale
dell'importanza della filosofia nella "grande malata che è la
società odierna", egli protesta vivamente, chiamando in causa il
Congresso che Croce inaugurò a Roma[139].
Carabellese non dice, come invece farà nella prima lettera del 21
maggio del 1931, che per lui la filosofia è sostanzialmente teologia,
o, almeno in questa fase, ontologia, e che dunque l'identificazione
crociana tra filosofia e storia è per lui foriera di distruzione
della filosofia stessa. Noi crediamo che il porre la filosofia su un
piano distinto dalla storia come storia dello Spirito nel suo
farsi che nella filosofia ritrova se stesso nella sua massima
espressione appartenga a una sfumatura concettuale carabellesiana
mirante a evidenziare, più che il piano metafisico su cui è posta la
filosofia con l'idealismo assoluto, per un verso il piano
contenutistico stessa in cui la filosofia come scienza si articola,
per l'altro appunto il suo carattere eminentemente metafisico, liddove
metafisico è da intendersi non come status della filosofia
stessa, ma come suo oggetto, che in quanto tale si preciserà poi,
nella prima lettera del 1931, essere teologico. C'è infine da notare in questa lettera che Carabellese mostra da
un lato di conoscere e seguire molto da vicino - pur non
condividendone come si è visto la concezione del divenire, e quindi
della realtà, la concezione ontologica - le opere dell'idealismo
hegeliano e del neoidealismo italiano, dall'altro di individuarne le
difficoltà, dall'altro ancora di stare riflettendo sul modo per
superarle, cosicché emerge che la sua posizione nei confronti ai
questa scuola e del suo diretto riferimento non è polemica ma
costruttiva nel comune intento ideale di una metafisica unitaria che
costituisca anche un avanzamento del pensiero filosofico. Questa
comune concezione metafisica che superi le difficoltà che Carabellese
vede ancora insite nel sistema hegeliano e nei suoi diretti
prosecutori in Italia trova secondo Carabellese il suo centro nel
divenire: è esso il nodo delle difficoltà, è da esso che bisogna
partire per scioglierle e far avanzare il pensiero, ed è dunque sulla
concezione del tempo che Carabellese programmaticamente intende
riflettere. E se il centro apparente della lettera è sulla concezione della
filosofia, essa, che si è aperta a partire dalla "nota"
crociana sulla natura della filosofia,
ritorna nel prosieguo a quella nota stessa, sulla quale
Carabellese dice di voler dedicare qualche riflessione da pubblicare o
sul "Giornale storico …" diretto da Gentile[140]
- cosa che non ha mai fatto - o sulla stessa "Rivista di
filosofia", che, pure da lui frequentato più volte, non ospitò
alcun suo articolo posteriore sulla concezione della filosofia né in
se stessa né di Croce. Il punto che in questo prosieguo della lettera
diviene finalmente esplicito è la questione della filosofia come
storia sostenuta da Croce, e Carabellese vede chiaro nella distinzione
che fa tra la storia come forma di conoscenza, ossia storiografia,
e la storia come "equivalente puro e semplice di
conoscenza", ossia come identificazione tra storia e conoscenza,
distinzione che a suo parere invece in Croce è confusa. Carabellese
chiede a Croce di meditare sulla sua concezione della storia e su
questa distinzione a partire dalla Critica del concreto,
sperando in un'ulteriore scambio epistolare nel dare le coordinate dei
suoi futuri spostamenti.
Nella lettera n. 5 del 20 luglio 1925, la prima delle due di questo
anno, Carabellese si spinge a chiamare Croce "Maestro",
forse anche in seguito al Manifesto crociano contro il fascismo da
poco pubblicato, e nella chiusa esprime il senso del suo consolidato
affetto. Il motivo della breve lettera è la speranza, poi delusa dai
fatti, che Croce collabori
al volume collettaneo Scritti filosofici pubblicati per le onoranze
nazionali a Bernardino Varisco nel suo LXXV anno di età, cui
invece aderirono, oltre a Carabellese, vecchio allievo di Varisco,
Antonio Aliotta, Armando Carlini, G. Castelli, Francesco De
Sarlo, Giovanni Gentile, Giuseppe Lombardo Radice, Piero Martinetti,
R. Mondolfo, A. Pastore e G. Vidari. La presentazione del volume,
edito dalla Vallecchi di Firenze nel 1925, avverrà durante le
onoranze stesse previste, e poi rimandate, per il novembre di quello
stesso anno. Carabellese vi contribuirà col saggio "La
storia". Ma dopo pochi mesi dello stesso 1925, il 16 novembre, Carabellese
spedisce una seconda lettera, la
n. 6, come sollecitazione a che Croce collabori al volume in onore di
Varisco. Egli insiste anche perché la stampa è in ritardo, e non
manca di sottolineare che l'astensione di Croce potrebbe generare
degli equivoci, e di invogliarlo con l'elenco dei partecipanti. Come
nella lettera precedente, comunica il suo nuovo indirizzo di Roma,
nonostante insegni dal 1923 Filosofia teoretica all'Università di
Palermo, sua prima sede come docente di ruolo.
La
lettera n. 1, penultima in assoluto e il primo scritto del 1931, è su
carta intestata della Scuola di Filosofia della Reale Università
degli Studi di Roma, cui Carabellese è giunto nel '29 sulla Cattedra
di Storia della Filosofia, e anche qui di nuovo Carabellese comunica
un cambio di indirizzo privato. L'occasione all'origine della lettera
è l'omaggio dell'opera Il problema teologico come filosofia,
che segna il punto in cui più chiaramente Carabellese esprime la sua
concezione della filosofia come teologia, distaccandosi sia dalla
neoscolastica sia dal neoidealismo: la filosofia è teologia e dunque
non storia, ma questa teologia è laica e prettamente filosofica, non
è traduzione in termini filosofico di dogmi della Chiesa. Ma la
lettera è molto più complessa di un biglietto di accompagnamento di
un dono. E' la lettera più amara, da cui emerge la delusione nei confronti
di Croce, in cui evidentemente Carabellese aveva riposto non poche
speranze per un rinnovamento della filosofia in Italia nel senso da
lui auspicato. Ed è una lettera anche violenta, a suo modo, non solo
nei concetti ma anche nella stessa scelta delle parole, che sembrano,
contrariamente a prima, non sufficientemente ponderate, ma espresse
sotto l'onda di una forte tensione emotiva, testimoniata anche dalla
grafia non omogenea ma in alcuni punti addirittura disordinata. Ed è
una lettera violenta perché in essa Carabellese accusa Croce di aver
seppellito la filosofia, ma è anche la lettera di un filosofo che
denuncia la sua solitudine, la solitudine di chi crede nella filosofia
- contro la superstizione - come, appunto, teologia, ossia
proposizione del problema di Dio come problema originario. E' la prima
lettera polemica, anche a partire dalla sottolineatura che nel Problema
teologico è ripresa una vecchia polemica tra Carabellese e Croce.
Infatti ha ragione Carabellese a augurarsi che Croce non se ne abbia a
male, poiché lì, con toni anche molto aspri,
è detto: "Il vuotare dell'oggetto la filosofia con la
negazione della cosa in sé era quindi un inconsapevole tentativo di
uccisione di essa."[141]:
ecco spiegata l'accusa a Croce della lettera di aver seppellito la
filosofia. "Il Croce oggi in Italia proclama trionfalmente ed
esplicitamente come suo specifico atto di vita quella uccisione (Critica,
1930, parc. 3o). Ciò proclamando [...] si mostra solo di non sentire
quelli che veramente sono i <<problemi morti>> della
filosofia [...] Lo stesso Croce poi, che allora, nella cortese
risposta che mi fece, in fondo ripudiava detto annullamento, perché
esso riguardava <<la filosofia cha si costruisca una volta per
sempre, come sistema definitivo>> ed ammetteva invece
<<che la filosofia è perpetua e necessaria>> e che v'ha
quindi una <<filosofia in senso stretto, lavoro più
propriamente del filosofo>> (Critica, 1962, fasc. 2o),
ora vuol essere giudicato come colui che questo
<<Filosofo>> ha fatto morire [...] e si è reso quindi
<<procuratore di morte>>, in quanto <<con una nuova
orientazione data alla filosofia,
capata col tirar le somme delle speculazioni
precedenti>>, ha dimostrato che <<l'unico e supremo
problema ... era insolubile perché non sussisteva, e non sussisteva
perché, attentamente considerato, si spiegava nient'altro che la
confusa totalità degli infiniti problemi particolari, ciascuno
solubile ed esauribile per sé, ma inesauribili in quella totalità,
ossia esauribili solo all'infinito, nella infinità della vita e del
pensiero>> (Critica, 1930, fasc. 3o). Il Croce sa che io
alla sua filosofia non obietto il <<far valere la distinzione
nell'unità>> [...]. Né gli ricorderò che l'unità nella quale
si deve far valere la distinzione, non è la totalità [...] E' [la
filosofia di Croce] una nuova rivelazione dogmatica [...]? [...]
questo discuterla sarà un ricercare se eventualmente non ci debba
essere nella filosofia quella caratteristica unità di concetto e di
problema, che il Croce non vede. [...] trova inconcludente il filosofo
nella sua singolarità. E' appunto quella inconcludenza che fa
l'eternità della filosofia [...] conclude il Croce (ib.)
<<queste ed altre personificazioni della figura del
<<Filosofo>> [...] sembrano vive, e vive non sono nel
mondo del pensiero, che è quello del progresso del pensiero>>.
[...] bisogna andar cauti nel giudicare, all'ingrosso, che siffatte
personificazioni, <<che sembrano vive>>, <<vive non
sono nel mondo del pensiero>>. Giacché del contribuire ad un
vero <<progresso del pensiero>>
non si ha mai pronto e sicuro l'indizio e tanto meno la prova:
[...] vedranno poi: ora non si può e non so deve [...] l'annullamento
della filosofia come tale e cioè come avente un proprio fondamentale
oggetto e problema, dal quale tutti gli altri rampollano, consegue
dallo sviluppo parziale ed erroneo dato alla posizione kantiana [...]
Il Croce dirà che, anche con siffatte discussioni critiche, si farà
della <<metodologia della storia>>. Si ammetta per un
momento. Vuol dire che questo sarà il problema specifico della
filosofia. Ma noi pur veniam mostrando che questo problema ha il suo
principio in un altro più profondo, senza risolvere il quale il
problema della metodologia rimane campato in aria. Con esso forse la
filosofia diventa ... teologizzante; ma dimostra anche così che può,
e deve, esser tale, pur senza essere una fideistica chiosa né della
Bibbia né di alcun'altra rivelazione scritta, compresa, se mai, anche
quella apocalitticamente antiteologica del Croce." Ecco il punto
vero della questione, e della polemica, che qui si fa più esplicita
che mai tanto da lasciare interdetti riguardo al fatto che Carabellese
donasse a Croce copia di un lavoro contenente pagine tanto aspre: la
concezione della filosofia come metodologia della storia,
l'identificazione crociana tra filosofia e storia, al di là
dell'"uccisione del filosofo nella sua singolarità", lascia
fuori per Carabellese il problema originario, ossia il problema
dell'essere, che per lui è il problema di Dio (sebbene, come appare
chiaro, non del Dio della teologia biblica ma del Dio dei filosofi), e
che invece secondo Carabellese per Croce deve essere espunto dalla
filosofia. Così questa lettera del 21 maggio 1931 si ricollega alla
prima vera e propria lettera del 6 aprile 1922, interagendo con essa
in una sinergia che porta alla luce come il problema della filosofia,
da cui la polemica tra i due pensatori ha origine, sia in realtà
problema della concezione della realtà. Abbiamo già detto che a
nostro parere questa polemica è incentrata non su un'assoluta
distanza tra le due concezioni, bensì originata da una ben più
sottile distinzione, ossia per un verso dalla specifica sfumatura
teologica che Carabellese dà al problema dell'essere rispetto a una
filosofia crociana che secondo Carabellese voleva essere laica in
senso forte, pieno, e per
l'altro da una non completa comprensione carabellesiana per il livello
a cui Croce poneva l'identificazione di filosofia e storia, che non
era meramente empirico bensì, hegelianamente, eminentemente
metafisico. Su questo livello inteso radicalmente, è chiaro che la
necessaria conseguenza forse l'"uccisione del filosofo nella sua
singolarità", uccisione a cui una filosofia come quella di
Carabellese, che aveva viceversa posto su di un piano metafisico
proprio i soggetti nella loro singolarità molteplice - e dunque anche
i filosofi, attraverso i quali soltanto la filosofia è e può essere
-, non poteva dare la propria adesione. Nonostante Carabellese si sia
professato più volte antihegeliano - e noi crediamo, proprio dai
motivi esplicitati ne L'idealismo
italiano, che quest'antihegelismo fosse non totale ma relativo a
ciascuni, seppur fondamentali, relativi aspetti talvolta malintesi, e
non riguardasse il comune orizzonte dell'idealismo oggettivo e non
solo quello (ma ripercorrerne ora i luoghi non è possibile), noi
ribadiamo quanto detto a proposito della lettera del 6 aprile 1922,
ossia che qui si tratta di una diversa interpretazione di un nucleo
originato proprio da Hegel: si tratta cioè di intendersi sul livello
sul quale si pone e sulla prospettiva dalla quale si guarda al
concetto di filosofia, al concetto di storia, al concetto di soggetto
che quella filosofia e quella storia oggettivano, al concetto di
essere, al concetto di Dio. Evidentemente la polemica
Carabellese-Croce, che a giudicare dalle lettere coprì l'arco di un
ventennio, ma che noi sappiamo dalle opere posteriori ben più lunga e
perciò anche per questo ben diversa da quella del 1936 con
Carlini, ebbe molti luoghi per svilupparsi, oltre quelli fugacemente
toccati dalle lettere e quelli da noi qui sommariamente accennati,
luoghi non necessariamente pubblici ma, almeno in un primo tempo,
anche privati, e luoghi che fecero essere quella polemica, più che
appunto una polemica, un proficuo scambio intellettuale che, se non
giovò a Croce, sicuramente giovò a Carabellese, che traeva da quelle
discussioni, come abbiamo visto attentamente meditate assieme alle
opere hegeliane e neoidealiste da cui erano originate, motivo di un
continuo ripensamento al fine di un continuo smussamento delle asperità
e delle incongruenze della sua stessa filosofia, lo scopo comune
restando quello di un progresso della filosofia e non di una difesa
delle proprie posizioni. Nella lettera questa polemica si stempera giungendo a toccare corde
estremamente intime che rivendicano lo sforzo che come filosofo
Carabellese ha compiuto, quasi a ripercorrere con la memoria tutto il
percorso fatto, per ribadirlo, per sottolinearne il valore se non
riconosciuto da altri, almeno personale: Carabellese parla qui di
"decenni di angoscia" contro il silenzio che circonda il
problema della filosofia come problema teologico, o peggio, ripeto,
contro la superstizione. Infatti evidentemente pensa che trascurare la
concezione della filosofia come teologia significhi dare spazio alla
superstizione, ossia a una concezione della religione che è popolare
nel senso deteriore del termine, che è di tutti nel senso che coagula
intorno a sé il minimum su cui tutti possono intendersi,
appunto superstizione, negando l'elevazione spirituale a cui una
corretta concezione della religione, così come una corretta
concezione della filosofia, potrebbero far giungere l'uomo. E' qui
sottintesa tutta l'acredine, e l'amarezza, verso la religione
dell'apparato, dell'apparenza: è qui l'uomo Carabellese contro
l'idolatria, è qui il filosofo Carabellese profondamente spirituale. Carabellese è consapevole di aver in questa lettera in qualche
modo superato il limite che separa la scrittura ad un eminente collega
dalla scrittura personale
e dall'invettiva, e nella chiusa spera, quasi a scusarsi, che Croce
conservi di lui "l'opinione benevola che una volta aveva".
L'ottavo scritto di questa piccola raccolta, il secondo del 1931,
è una lunga cartolina del 2 giugno, ancora su carta intestata della
Scuola di Filosofia della Reale Università di Roma, ancora, come la
lettera precedente, diretta a Sua Eccellenza e rammentante il nuovo
indirizzo. La dimostrazione che Croce rispondesse a queste lettere di
Carabellese è proprio nell'apertura di questa cartolina, che fa
appunto riferimento ad una corrispettiva da lui spedita in precedenza,
evidentemente prima che gli giungesse la lettera che abbiamo appena
lasciato, se è vero, come è vero, che Carabellese chiede conferma
del suo arrivo congiuntamente al volume, che è Il problema
teologico come filosofia. La cartolina, pur nella sua intrinseca
brevità, è interessante perché in essa il
riferimento ai "puri folli" della cui schiera, se
rettamente intesa, Carabellese amerebbe far parte, ci dice molte cose.
Innanzitutto che evidentemente Croce aveva così definito altrove un
certo modo di far filosofia, poi perché Carabellese, come già per
quel giudizio crociano del 1930 di "inconcludenza sublime"
della sua filosofia, capovolge anche qui in modo positivo il senso
dell'espressione di Croce: i puri folli sono per lui allora
"quegli spiriti nobili che nobilmente vivono la filosofia",
e questa nobile follia "ineliminabile" consiste nel fatto
che "si ammette qualche cosa 'che si sa di non poter mai
trovare'", ma che nonostante ciò si cerca, pur sapendosi in
solitudine, e questa ricerca infinita, che ha la propria ragione in se
stessa e nel suo oggetto e - Carabellese non lo dice - nella fede,
"darà così - e ha sempre data - più chiara coscienza ai
savi". Ritorna il motivo a nostro parere centrale in tutta la
filosofia di Carabellese, il motivo teologico, che queste lettere,
soprattutto come si è visto queste ultime, portano alla luce in modo
evidente agendo come supporto del percorso oggettivato nelle opere. Al 1931 appartiene anche l'ultima lettera ritrovata, quello del 18
giugno, che si colloca dunque a
distanza ravvicinata non solo dalla cartolina precedente, ma anche
dalla prima lettera dello stesso anno: nel breve giro di meno di un
mese Carabellese scrive a Croce le sue ultime tre missive, dopo un
lungo silenzio che durava dal 1925. L'occasione è ancora una volta
apparentemente l'invio di un'opera, in questo caso di nuovo Il
problema teologico come filosofia e in questo caso accompagnato da
"due precedenti lavori storici (o, se si vuole, critica storica
della filosofia)" che anticipano nei contenuti l'opera del '31.
La vaghezza di Carabellese rispetto ad essi può essere diradata con
un grado accettabile di approssimazione: potrebbero essere Il
concetto della filosofia da Kant ai nostri giorni I: Kant, del
1928, e Il problema della filosofia da Kant a Fichte (1781-1801),
del 1929, il secondo in particolare in primo luogo perché le
recensioni che lo riguardano iniziano tutte dal 1931, data della
lettera. Ma soprattutto è ipotizzabile che si tratti di tali opere, e
non, per esempio, de La filosofia di Kant I: L'idea teologica,
del 1927, che pure avrebbe con Il problema teologico una
affinità di tema pur nella lontananza cronologica con quest'opera e
inoltre sarebbe anch'essa un "lavoro storico", perché ci
sembra che le due opere succitate rientrano meglio nell'orizzonte di
discussione che si era aperto con Croce e che tutte le lettere
testimoniano: il concetto della filosofia. Allora opere storiche come
quelle, che sostengono la teoresi,
e opere teoretiche come Il problema teologico come filosofia,
che sviluppano la storia, si sostengono vicendevolmente, convergendo
tutte nel medesimo fine che Carabellese si poneva non soltanto nei
confronti di Croce: ribadire una concezione della filosofia come
teologia che trova le sue radici storiche nel criticismo kantiano,
inteso però non come criticismo metafisico ma, secondo
l'interpretazione originale data da Carabellese di Kant, come
metafisica critica. Questa metafisica de cui Carabellese prende le
mosse per svilupparla, e che costituisce il punto di arrivo della
prima opera storica, Il concetto della filosofia da Kant ai nostri
giorni I: Kant, viene ripresa nella seconda opera di carattere
storico, Il problema della filosofia da Kant a Fichte (1781-1801),
e messa a confronto con le interpretazioni post-kantiane a partire da
Reinhold sino appunto all'idealismo fichtiano, per mostrare come il
post-kantismo, compreso l'idealismo soggettivo, abbia deviato
dall'idea kantiana di una nuova metafisica incentrata, come vuole
Carabellese in questa fase critica del
suo pensiero, nel concetto di cosa in sé, negandola e poi
eliminandola dal pensiero. E' qui che si inserisce Il problema
teologico come filosofia, che appunto perciò costituisce, assieme
agli altri due volumi, l'oggetto della spedizione a Croce: esso
riprende sul piano teoretico, a partire dal capitolo primo "E'
possibile una metafisica critica?" passando per il capitolo
quarto "La cosa in sé" a finire con il quinto su
L'esperienza", ciò che le altre due opere, seppur tagliate
teoreticamente, argomentavano da un punto di vista storico. Ma nello
stesso tempo sviluppa, a partire da qui, la propria direzione di
ricerca autonoma: la cosa in sé come Oggetto puro è Dio, oggetto
tematico della filosofia. Torniamo così al problema della filosofia
in discussione con Croce, cui perciò tale spedizione congiunta per
questo verso continua lo scambio teoretico sul concetto stesso di
filosofia che vede i due pensatori impegnati già dalla terza
cartolina del 1921 e poi in modo argomentato dalla prima lettera del 6
aprile del '22 - dove, lo ricordiamo, è esplicito il legame con la
metafisica -, per l'altro verso questa spedizione nasconde la speranza
di una recensione. E Carabellese, che è consapevole del percorso che
nel loro insieme i tre volumi presentano, non a caso nella lettera
paventa che su "La Critica" essi vengano insieme
recensiti, aggiungendo subito dopo che l'operazione non è delle più
semplici, per nessuno dei suoi lavori. E' come se Carabellese avesse
affidato a Croce attraverso queste tre opere tutto intero il suo
proprio pensiero, così come esso si era ormai definito sappiamo non
in assoluto ma in quegli anni del periodo critico: è come se
Carabellese avesse chiesto a Croce in quest'ultima lettera di
comprendere la sua filosofia non soltanto nell'hic et nunc del
singolo articolo, della singola opera, della singola frase, ma del
farsi esplicito del percorso nel suo insieme, così come esso era a
quel punto giunto. Questa comprensione forse non ci fu, sicuramente
non ci fu la recensione integrata che Carabellese sperava su "La
Critica". Anzi Croce ha appena cambiato, in Eternità e
storicità della filosofia, del 1930, il titolo della recensione
"Che cos'è la filosofia" in giudizio di "inconcludenza
sublime" della filosofia carabellesiana - giudizio che ribadirà
nel 1942 in Ultimi saggi -, e forse anche per questo le tre
opere integrate volevano offrirne una visione diversa. Dopo questa
lettera, dunque, non ce ne furono altre, né sappiamo se e quali
rapporti, dopo di essa, legarono i due pensatori: forse Croce fu
definitivamente scosso di lì a pochi mesi dalla firma carabellesiana
al "Giuramento" cui furono sottoposti i Professori
universitari dal regime. Comunque,
la lettera prosegue riallacciandosi al discorso relativo alle tre
opere, nel senso di esplicitare quel loro legame come "problema
storico del Criticismo connesso all'integrazione, o capovolgimento,
del principio speculativo". Qui si nota il primo segno di quel
rapporto tra criticismo e metafisica, su cui ci siamo soffermati
nell'Introduzione, che Carabellese porterà alla luce nei suoi anni più
tardi, per cui può dirsi che il 1931, con Il problema teologico
come filosofia, è sì un punto di arrivo ma anche un nuovo punto
di partenza per la speculazione carabellesiana. Qui, in queste poche
parole, è veramente il
Carabellese storico della filosofia orientato dalla teoresi
nell'interazione tra Kant e Hegel: la stessa scelta del termine
"speculativo" rimanda ad Hegel, mentre il rimando al
criticismo kantiano è esplicito. Ma subito dopo Carabellese rimarca
la sua distanza dall'hegelismo inteso come dialettica, che è
contemporanea distanza, ma pure sviluppo,
da Croce: nel ricordare una conversazione privata in cui Croce
parla di bendetta che è sviluppo del suo proprio pensiero,
Carabellese ribadisce per lettera ciò che rende esplicito in molti
suoi scritti, il rifiuto della negazione dialettica, o della
dialettica come negazione: lo Spirito non può negare. La negazione
dialettica allora che Carabellese accetterebbe, ci permettiamo di
integrare, sarebbe solo da porsi su di un piano diverso da quello
dello Spirito, sul piano empirico, mai su quello assoluto. La
negazione è perciò, in quanto empirica, relativa nel senso di essere
propria di esseri in relazione tra loro, giammai universale nel senso
di assoluta. Al di fuori dell'Assoluto, così come al di dentro come
sua propria caratteristica, la negazione è per Carabellese
impensabile: essa può appartenere solo al livello intra homines,
ossia dell'interazione tra gli spiriti individuati, in cui la
negazione si pone come limitazione in senso orizzontale - non
verticale -, della libertà di ciascuno. In questo senso la negazione
è allora negazione in sé delle libertà dall'altro, è negazione
all'interno della manifestazione dell'essere, non dell'essere stesso.
Ma con ciò siamo andati molto oltre le lettere, e anche oltre il
periodo critico di Carabellese, che consideriamo il periodo maturo,
per addentrarci nel periodo metafisico, che egli non ebbe il tempo di
definire come tale, né di definire nella sua sistematicità.
DOCUMENTI
Legenda:
tra " " virgolette tutto ciò che è scritto o stampato o
timbrato, tra ' ' apici le virgolette interne al testo, fuori dalle
virgolette miei chiarimenti, tra [ ] parentesi quadre aggiunte mie o ?
punti interrogativi quando non è chiaro lo scritto. Le lettere sono ovviamente tutte scritte a mano con penna
stilografica.
Rinvenimento n. 1: 1908
"Cartolina
postale con risposta (Cent.[csimi] 15)" spedita da Albano Laziale
il 12 ottobre 1908 (fa fede il timbro postale) "All'illustre
Benedetto Croce, Direttore de 'La Critica', Via Atri 23, Napoli"
e corretta cancellando la via e inserendo "presso l'avv.
Logaris[?], Raiano, Aquila", ricevuta a Raiano il 14 ottobre 1908
(timbro).
Testo:
"Albano 11 ottobre 1908
Ill.mo Direttore, la prego di dirmi se nei primi mesi del corrente
anno ricevette da Bari due copie di un mio lavoro sulla 'Percezione
intellettiva di A. Rosmini', avendomi l'editore assicurato di
avergliele spedite. Sarei anche desideroso di sapere se di esso sarà
fatta, sulla autorevole sua Rivista, una recensione. Ringraziandola ed
ossequiandola mi dico di lei
Devot.mo Prof. Pantaleo
Carabellese"
Rinvenimento
n. 2: 1915
"Cartolina postale" militare "Cognome Carabellese,
Nome Pantaleo, Grado tenente, 03o Regg. M. T. 209o Battaglione 9a
Compagnia 5o Corpo d'Armata, ZONA DI GUERRA" con timbro
"Posta militare 18 sett. 1915 Assisi[?]" timbro di
ricevimento illegibile tranne "Napoli", spedita "Al
Sig. Senatore Benedetto Croce, Napoli"
Testo:
"17/Set./915
Stimat.mo Senatore, mi sono permesso inviarLe in omaggio un mio
breve saggio su La coscienza morale, che m'auguro vorrà gradire e di
cui spero vorrà darmi giudizio.
Cordialmente ossequiandoLa
Devot.mo
PCarabellese"
Rinvenimento
n. 3: 1921
"Cartolina postale italiana. Risposta" con timbro
"Pistoia 5.12.21" spedita "A B. Croce, Trinità
Maggiore 12, Napoli"
Testo:
"Pistoia 5 Dic. 1921
Eccellenza, Le invio un mio lavoro che non mi pare indegno di
discussione. M'auguro che Lei sia dello stesso avviso. OssequiandoLo
Devoto PCarabellese"
Rinvenimento n. 4: Lettera 1922
"Bisceglie 6 Aprile 1922 Eccellenza, leggo ora qui la sua nota riguardo alla natura della
filosofia e non voglio tardare a ringraziarLa per aver in qualche modo
tenuto conto del mio opuscolo. Credo però che il concetto che in me si è venuto mano mano
chiarendo della filosofia non si possa discutere ed intendere senza
affrontare la discussione della natura della realtà. Il mio
'divenire', non è precisamente quello di Hegel o del Gentile e
neppure il suo. Col che non voglio affatto dire che io ci tenga a differenziare il
mio dal loro pensiero. Se vorrà occuparsi di quel pochissimo ch'io ho
scritto, vedrà in quanto conto ho tenuto le loro indagini ch'io non
faccia altro che mettere in evidenza le difficoltà che ci sono da
superare e la via che mi
sembra che meni a ciò. Questa
via mi pare stia in una più prof[onda, poi cancellato "più
prof"] comprensione del tempo un po' più profonda e diversa da
quella che [aggiunto sopra] finora si è [aggiunti sopra] fatta. nel
campo filosofico [poi cancellato] Se mi riuscirà di ripormi sul serio
al lavoro assiduamente (si può dire che dal 1915 in poi ciò non ho
più fatto) spero di cavarne qualcosetta che potrà non essere del
tutto inutile nel campo filosofico. Quanto all'idea centrale del mio articolo sulla filosofia, che non
è da vedersi in una ricerca ed affermazione dell'esatto concetto di
filosofia, il quale è soltanto una conseguenza dell'indagine, ma
nella dimostrazione della via senza uscita in cui la filosofia si pone
concependosi come la concreta conoscenza senz'altro. E' questa
dimostrazione che bisogna ribattere. Le aggiungo che quando cominciai a vivere l'arte [?] avevo anch'io
la stessa concezione della filosofia e volevo soltanto protestare
contro il chiamar che si faceva la filosofia al letto di questa grande
malata che è la società odierna, la filosofia .. come il solo medico
(e anche Lei al riguardo ha qualche punto: inaugurò il congresso di
Roma che voleva far proprio questo e che appunto mi suggerì la
protesta). Ma, messomi a scrivere, vidi invece che bisognava cercar
prima di intendere la natura di questa filosofia. E ne venne fuori
l'artic. qual è della [cancellatura] utilità
sui generis della filosofia, della sua non-vanità, volevo e
dovevo occuparmi subito dopo e ... non l'ho fatto ancora. Ora non so se in una noterella che pubblicherei sul "Giornale
storico..." del Gentile e sulla stessa Riv. di fil. scriverò
qualcosa limitandomi agli argomenti da Lei esposti nella sua nota.
[cancellatura] Voglio aggiungere ancora subito: certo sarebbe indegno
di chi si occupi un po' seriamente di filosofia dire che chi ritiene
che [aggiunto sopra] la filosofia sia storia, debba anche ritenere che Spinoza e Kant
non abbiano fatto nulla al mondo; ma non vede che questo voleva essere
un portare all'assurdo la sua teoria, che, a mio modo di vedere,
importa [cancellato] suppone [scritto sopra la cancellatura] una certa
confusione tra la storia come determinata forma di conoscenza e la
storia come equivalente pura e semplice di conoscenza? Ma non è il caso di mettermi ora a discutere per lettera. Se Lei
si compiacerà di riprendere in esame le mie idee discutendo la
"Critica del concreto" son sicuro che vedrà che la
quistione non è così semplice e che io non ci tengo affatto a
differenziarmi, ma ci tengo a veder chiaro. In ogni modo rinnovo i miei ringraziamenti cordialissimi e credo di
non aver bisogno di professarle i sensi della più alta stima che sono
meglio espressi in tutto quel pochissimo ch'io finora ho fatto. Coi più cordiali e deferenti saluti ed ossequi
Devot.mo PCarabellese
P.S. Molto facilmente mi tratterrò qui a Bisceglie fino all'11
[19?] c.m. Poi sarò a Venezia - Ispettorato per le scuole
medie."
Rinvenimento
n. 5: Lettera 1925
"Roma - Via Mario Clementi 64 - 20/7/925
Illustre Maestro, Ella non mi promise, ma pur mi lasciò sperare un
suo [cancellatura]
articolo per il volume di scritti in onore di B. Varisco. Anche
personalmente Le sarei [...]tissimo se ci desse qualcosa anche breve.
Il volume sarà stampato in questi mesi estivi e le onoranze saranno
tributate in Novembre. Con la più viva speranza e con i più distinti ed affettuosi
ossequi
Devot.mo PCarabellese"
Rinvenimento n. 6: Seconda lettera 1923
"Roma 16/11/925
Illustre Maestro, perdoni se insisto nel chiederLe uno scritto per
il volume di "Scritti filosofici" in onore del Varisco. Si
farebbe ancora in tempo, perché soltanto ora il Vallecchi mette mano
alla composizione. E mi permetta di farLe considerare che il suo nome non deve mancare
in un volume che vuol rendere onore ad uno studioso serio quanto
modesto, e che so che Lei stima non poco. La sua potrebbe parere una
voluta astensione certo non è. Mi abbia con i più distinti e cordiali ossequi
Devot.mo PCarabellese
Via Mario Clementi 64 Roma
P.S. Il volume conterrà scritti di Gentile, Martinetti, De Sarlo,
Mondolfo, Caraini, Vidari, Pastore, Aliotta, Lombarbo-Radice,
Castelli, Carabellese. Ho piena fiducia di poter aggiungere il suo
nome. Un autorevole collaboratore ha manifestato il desiderio che gli
scritti siano messi in ordine alfabetico di autori, e naturalmente
converrà contentarlo."
Rinvenimento n. 7: Prima lettera del 1931
"R. Università degli Studi Roma Scuola di Filosofia Roma (19) Via Staderari, 19 - telef. 53402
Roma. Via della Cisa 16 21/Mag./931
Eccellenza, Le spedisco il mio ultimo volume su "Il problema
teologico come filosofia". Ho dovuto riprendere in una nota un mio vecchio motivo polemico. V'auguro non vorrà aversene a
male, anche se, com'è naturale, non vorrà desistere dal persuadere
ad andarsene all'altro mondo in santa pace, chi ancora insiste a fare
(o creder di fare) la filosofia, come tale, oggetto della sua, quale
che si sia, attività produttiva. Vorrà permettere senza ira o
disdegno, una protesta o almeno un saluto di morituro a chi sente di
non appartenere alla filosofia che Lei efficacemente ha contribuito a
seppellire ma pur sente altrettanto vivamente che filosofia come tale
dovrà continuare a darne e che perciò ci dovranno pur essere (e
siamo pochissimi) quelli che la facciano. Io non so se lo sforzo filosofico ch'io vado tentando, abbia un
qualche valore o se meriti sia pur minimamente tal nome. So questo
soltanto che molto volentieri avrei
fatto a meno di tormentarmi su
questo problema che da decine d'anni mi angoscia per occuparmi d'altro
che può sembrar più concreto, ma vedo che l'eliminazione che se ne
fa e peggio il silenzio che se ne serba, non sono giustificati. Se ne
deve quindi, in un modo o in un altro continuare a parlare. Non
parlarne è far soddisfare l'esigenza
del porre il problema, della superstizione, è quindi fomentarla. Mi scusi se mi son preso la libertà di scriverLe. Mi piace credere che Ella non abbia a mio riguardo mutata quella
opinione, credo benevola, che una volta aveva. Con cordiale ossequio
Devot.mo PCarabellese"
Rirvenimento n. 8: cartolina 1931 (II scritto)
"R. Università di Roma - Scuola di Filosofia" timbro
"Roma 2 VI 1931" "A S. E. Benedetto Croce, Trinità
Maggiore 12, Napoli"
Testo:
"Roma - Via della Cisa 16 - 2 Giugno 1931
Eccellenza, La ringrazio della sua cartolina e La prego di
avvertirmi se ha poi ricevuto il volume che Le fu poi spedito
raccomandato insieme con la lettera. M'auguro di non passare
per 'puro folle': o viceversa ambirei grandemente di esser giudicato,
o di essere, tale, se puri folli Ella ora ritiene quegli spiriti dalle
cui opere filosofiche ha pur dedotto la filosofia come pura follia. E
del resto quanto non può una nobile follia nobilmente vissuta? Giacché
quella follia è ineliminabile finché si ammette una qualche
cosa 'che si sa di non poter mai trovare'. Ci saranno pochi folli che
quella ammissione vorran vedere
che significa. E quindi 'cercheranno'. Quei folli daranno così
- e han sempre data - [aggiunto sopra] più chiara coscienza ai savi.
Ma non anticipiamo. Mi abbia sempre con profonda stima e ossequio
Suo PCarabellese"
Rinvenimento n. 9: Seconda lettera 1931 (III scritto)
"R. Università degli Studi Roma
Scuola di Filosofia Roma (19) Via Staderari, 49 - telef. 53402
Roma - Via della Cisa 16
18/6/931
Eccellenza, Le ho fatto rispedire il mio vol. su Il problema
teolog., e ho fatto reclamare alla posta per l'invio precedente. Mi sono permesso mandarLe insieme i miei due preced. lavori storici
(o, se si vuole, critica storica della filos.) nei quali è già
implicita l'idea sviluppata nell'ult. volume. Credo che a suo tempo gli editori li [aggiunto sopra] abbiano
inviati alla Critica; ma non sarà inutile un'altra copia per il caso
che Ella voglia incaricar
qualcuno di trattarne insieme con l'ult. vol. Io non ho mai sollecitato recensioni, sia perché ciò mi ripugna,
sia perché so che non dev'essere agevole recensire. qualsiasi mio
lavoro che obbliga a dare a/taluni e fondamentali [aggiunto sopra]
concetti, precisi e determinati significati ch'io ritengo i veri. E
naturalmente niuno sente di sobbarcarsi a tal fatica per un qualunque x
che scriva di filosofia. E tanto meno si sente quanto meno si vede un qualsiasi risultato
che se ne consegua nel vivere umano sociale politico e forse anche
culturale. Risultato che l'A. [=l'Autore] ci tiene a non mettere in
evidenza come tale, perché risultato dev'essere e non fine del
filosofare, quale l'A. l'intende. Non ostante ciò, mi piacerebbe che una buona volta si cominciasse
ad intendere il problema storico dello sviluppo del Criticismo quale io
lo vedo, e la connessa integrazione, o capovolgimento se si vuole, del
principio speculativo. Lei una volta mi diceva di aver prima intravista
come una vendetta ch'io facevo del suo pensiero, e di avermi poi
persuaso che ne era invece uno sviluppo. Ebbene è sviluppo che è
vendetta. E in questo sta forse il Criticismo, al quale, e non al
dialettismo, no credo debbasi ridurre il filosofare.
Io non ho mai creduto allo Spirito che si prende il gusto e
l'unico gusto di negare. E credo di aver mostrato l'origine di questo
errore, per quanto nessuno mostri di essersene accorto. Mi perdoni questa chiacchierata, alla quale Ella può giustamente
ritenere di non avermi autorizzato. Mi abbia sempre con cordiale ossequio
Devot.mo PCarabellese"
[1][1]
Riguardo alla datazione delle due Lauree che Carabellese conseguì -
l'una, già ricordata, in Lettere all'Università di Napoli con la
Tesi in Storia Sulla vetta ierocratica del Papato. Idee, fatti,
intuizioni, seguita dal Relatore Professor Giuseppe De Blasiis e
relativa alla politica papale del Medioevo, in particolare di
Gregorio VII e Innocenzo III, poi pubblicata, l'altra, più volte
citata, in Filosofia all'Università di Roma con la Tesi La
teoria della percezione intellettiva in A. Rosmini col Relatore
Professor Bernardino Varisco, anch'essa pubblicata nel 1907 con una
"Prefazione" dello stesso Varisco - i critici non sono
sempre concordi. Nel testo si è seguita l'indicazione più
accreditata, che vuole la prima conseguita nel 1900 e pubblicata nel
1910, la seconda, che qui ci interessa, conseguita nel 1905 e
pubblicata nel 1907. Ma ci corre l'obbligo di dire che in Michele
Del Vescovo, Pantaleo Carabellese. Profilo biografico-Profilo
umano, Tip. Mezzina, Molfetta (Bari), 1977, pp. 25-28, curatore
attento del profilo biografico di Carabellese e amico di famiglia
attingente dunque notizie di prima mano, riguardo alla prima si dice
che fu conseguita nel 1901, riguardo alla seconda che Carabellese si
iscrisse alla Facoltà di Filosofia dell'Università di Roma nel
1902 conseguendo poi la Laurea il 13 novembre 1906, anche se il
Diploma di Laurea fu rilasciato il 13 luglio 1907. Ed è inoltre da
sottolineare che alcuni critici, tra cui Fulvio Papi,
"Carabellese Pantaleo", voce in Dizionario biografico
degli italiani, Enciclopedia Treccani, 1976, pp. 298-300, fanno
riferimento, per la prima Laurea, non alla Facoltà di Lettere ma a
quella di Giurisprudenza, sebbene la versione più attendibile,
oltre che più citata, continui a risultare quella della Laurea in
Lettere, vista la disciplina scelta da Carabellese per la Tesi.
Riguardo poi a Filippo Masci, del quale si è qui discusso
nell'"Introduzione", Professore di Filosofia Teoretica
all'Università di Napoli dal 1885 al 1919, di orientamento
neokantiano, Del Vescovo afferma che "aprì il Carabellese alla
conoscenza di Emanuele Kant, e che fu tra gli esaminatori del
Concorso per la Libera Docenza in Filosofia Teoretica il 13 ottobre
1917, in piena guerra": vedi pp. 26 e 31. Si è voluto qui, e
non nel testo, riportare questa discrepanza riguardo soprattutto
alla data della seconda Laurea, del suo Diploma e della sua
pubblicazione (il 1906-07 invece che il 1905-1907 generalmente
riportato) perché ci sembra significativa ai fini di stabilire, a
partire dalla data della prima cartolina di Carabellese a Croce, il
1908, il tempo trascorso dalla Tesi alla spedizione della prima
cartolina stessa. [2][2]
Per un approfondimento di tali discussioni e relazioni si rimanda
all'"Introduzione" di questo lavoro, nel par. relativo
alla storia della critica, nel quale si sono discusse. [3][3]
Facciamo riferimento a queste date non per puro interesse biografico
o di ricostruzione della carriera accademica di Carabellese, ma
anche perché esse rientrano nel periodo di cui ci stiamo occupando,
quello 1908-1931 del carteggio con Croce. [4][4]
Nicola Abbagnano, "Il problema di Dio in alcune recenti
discussioni", in "Logos", fasc. 3, 1931, pp. 327-37. [5][5]
Antonio Banfi, "Recensione" a P. Carabellese, Il
problema teologico come filosofia, 1931, in "Civiltà
moderna", fasc. IV, 1931, pp. 827-37. Vedi anche Idem,
"La filosofia d'oggi", in "Studi filosofici",
fascc. III e IV, 1940. [6][6]
"Recensione" a P. Carabellese, Il problema della
filosofia da Kant a Fichte (1781-1801), 1929, in "Rivista
di Filosofia neo-scolastica", nn. 1-2, 1931. Ma vedi anche, in
seguito dello stesso Barié, "L'idealismo ontologico del
Carabellese", in Idem, Compendio sistematico di
storia della filosofia, Paravia, Torino, 1937, pp. 448-50. [7][7]
Carlo Mazzantini, "Il problema teologico in un recente volume
di P. Carabellese", in "Rivista di Filosofia
neo-scolastica", fasc. VI, Milano, 1931, pp. 562-67. [8][8]
Ugo Spirito, "Recensione" a P. Carabellese, Il problema
teologico come filosofia, 1931, in "Giornale critico della
filosofia italiana", a. XII, fasc. III, 1931, pp. 233-35. [9][9]
Ernesto Bonaiuti, Tentativi di un rinnovamento del concetto di
religione in Italia e in Francia, 1932. [10][10]
Pietro Cristiano Drago, "Recensione" a P. Carabellese, Il
problema della filosofia da Kant a Fichte (1781-1801), 1929, in
"Civiltà moderna", 1932 e Idem,
"Recensione" a P. Carabellese, L'idealismo italiano,
I ed. 1938, in "Logos", fasc. I, 1938. [11][11]
Guido Calogero, Filosofia della filosofia nel pensiero
contemporaneo, 1933. Cfr. anche Idem, La conclusione
della filosofia del conoscere, Le Monnier, Firenze, 1938, pp.
90-101. [12][12]
Michele Federico Sciacca, "La crisi dell'idealismo", in
"Ricerche filosofiche", fasc. I, 1934, e Idem, Linee
di uno spiritualismo critico, Perrella, Napoli, 1938. Vedi anche
sempre di Sciacca, "La filosofia di P. Carabellese", in
"Logos", fasc. IV, 1937, pp. 580-608; "Aspetti e
sviluppi dell'idealismo critico italiano", in
"Logos", fasc. II, 1938, pp. 211-18; "Conclusione
dell'idealismo critico e valutazione critica dell'ontologismo del
Carabellese", in "Logos", fasc. IV, 1938; "Per
una storia della filosofia italiana", in "Logos",
fasc. III, 1939, pp. 362-68; "Rosmini nella storiografia
italiana", in "Studi Rosminiani", fasc. I, 1940, pp.
4-38. [13][13]
Cesare Luporini, "Critica e metafisica nella filosofia
kantiana", in "Rendiconti della Classe di Scienze morali,
storiche e filologiche" della Reale Accademia Nazionale dei
Lincei, 1935, pp. 88-89. [14][14]
Armando Carlini, "Orientamenti e problemi speculativi del
pensiero filosofico nell'età presente", discorso pronunciato
al Congresso delle Scienze di Palermo, in "Giornale critico
della filosofia italiana", a. XVII, II Serie, vol. IV, fasc.
I-II, genn.-apr. 1936, pp. 44-45, che diede adito alla polemica tra
i due pensatori. Cfr. anche Idem, Il mito del realismo,
Sansoni, Firenze, 1936, pp. 93 sgg., e Idem, "Lineamenti
di una concezione realistica dello spirito umano", in
"Logos", fasc. I, pp. 1938, pp. 21-34. [15][15]
Mario Dal Pra, Il realismo e il trascendente, Cedam, Padova,
1937. Vedi anche Idem, Pensiero e realtà, La
Scaligera, Verona, 1940, pp. 47 sgg. [16][16]
Prima di dedicare a Carabellese la sua relazione al XIV Congresso
Nazionale di Filosofia del 1940, negli anni successivi al 1931
Bontadini scrisse Saggio di una metafisica dell'esperienza,
Vita e Pensiero, Milano, 1938. [17][17]
Enzo Paci, Principi di una filosofia dell'essere, Guanda,
Modena, 1939. Vedi anche Idem, "Concretezza e dialettica
dell'essere", in Idem, Pensiero, esistenza, valore,
Principato, Milano, 1940, pp. 173-87. [18][18]
Calogero Angelo Sacheli, "Idealismo italiano", in
"Logos", a. XII, fasc. IV, 1939, pp. 574-612. [19][19]
Augusto Guzzo, oltre alla relazione al XIV Congresso Nazionale già
ricordata, e a un articolo sullo stesso pubblicato su "La
Gazzetta del Popolo" sempre nel '40, fa riferimento a
Carabellese anche in Idem, Sguardi sulla filosofia
contemporanea, Perrella, Roma, 1940, pp. 104-09. In seguito,
sempre su "La Gazzetta del popolo", scriverà un articolo
su "Carabellese" il 26 novembre 1942. [20][20]
Luigi Pareyson, La filosofia dell'esistenza e Carlo Jaspers,
Loffredo, Napoli, 1940, con saggi su K. Barth, M. Heidegger, P.
Carabellese, A. Carlini, A. Guzzo, Berdiaoff, S. Kiekegaard. [21][21]
Un quadro degli sviluppi del suo pensiero è stato appena delineato
nell'Introduzione" stessa, alla quale rimandiamo. [22][22]
I rapporti con Gentile furono costanti a partire dal 1909 sino alla
morte di Gentile stesso, e dopo: ne riparleremo più avanti. In
questo contesto facciamo riferimento all'opera di Giovanni Gentile, La
filosofia italiana contemporanea, Sansoni, Firenze, 1941, pp. 29
sgg. [23][23]
Michele Federico Sciacca, La filosofia italiana, Bocca,
Milano, 1941, capp. IV-V; vedi inoltre il già cit. "P.
Carabellese", in Idem, Il
secolo XX, nel 1942, pp. 299-335; Idem (a cura
di), Filosofi italiani contemporanei, I ed. Marzorati, Como,
1944, II ed. accresc. Marzorati, Milano, 1946, con un saggio su La
coscienza di P. Carabellese; e ancora Idem,
"Pantaleo Carabellese: la religione dell'oggetto
immanente", in Idem, Il problema di Dio e della
religione nella filosofia contemporanea, Morcelliana, Brescia,
1944, II ed. Morcelliana, Brescia, 1946, III ed. Marzorati, Milano,
1950, IV ed. Marzorati, Milano, 1968, pp. 105-10, pubbl. anche in Idem
(a cura di), Con Dio e contro Dio, raccolta sistematica degli
argomenti pro e contro l'esistenza di Dio, Milano, 1973, 2 voll.,
vol. II, pp. 141-51; Idem, "L'ontologismo critico di P.
Carabellese", in Idem, La filosofia oggi, Bocca,
Milano, 1945, II ed. aggiorn. Bocca, Roma-Milano, 1954, 2 voll.,
vol. II, cap. VI, par. 2b, pp. 32-41; Idem,
"Recensione" a P. Carabellese, "Stato etico o teismo
politico?", 1945, in "Giornale di metafisica", 1945; Idem,
"La crisi dei valori e delle filosofie", in "Giornale
di Metafisica", 1946, pp. 407-08. [24][24]
Nicola Abbagnano, "L'esistenzialismo in Italia. Repliche ai
contraddittori" a A. Banfi, P. Carabellese, U. Spirito, A.
Carlini, A. Guzzo, ecc., in "Primato", fasc. VI, 1943. [25][25]
Pietro Cristiano Drago, "La metafisica di P. Carabellese",
in AA. VV., Filosofi contemporanei, Pubblicazione del Reale
Istituto di Studi Filosofici, Sezione
di Torino, Bocca, Milano, 1943, pp. 1-43. [26][26]
Teodorico Moretti Costanzi, "A proposito di Che cos'è la
filosofia?", in "Archivio di Filosofia", nn. 1-2,
1943. Vedi anche il già cit. Idem, "Il mio debito verso
Pantaleo Carabellese", in Idem, L'asceta moderno,
Edizioni Italiane, Roma, 1945. [27][27]
Luigi Pareyson, Studi sull'esistenzialismo, Sansoni, Firenze,
1943. [28][28]
Calogero Angelo Sacheli, come P. C. Drago nel 1938, pubblica una
"Recensione" alla I ed. di P. Carabellese, L'idealismo
italiano, 1938, in "Logos", 1943, e inoltre si
interessa al Carabellese educatore in Idem, Linee di una
filosofia critica dell'educazione, Ferrara, Messina, 1944, pp.
26-27. [29][29]
Guido Calogero, Lezioni di Filosofia, vol I: "Logica
Gnoseologia Ontologia", Einaudi, Torino, 1947. [30][30]
Giuseppe Mattai, Il pensiero filosofico di P. Carabellese con
particolare riguardo al problema di Dio, Tip. G. Martano,
Chieri, Torino, 1944. [31][31]
Benedetto Croce, "Recensione" a N. Abbagnano, C. Antoni,
A. Banfi, F. Battaglia, G. Bruguier Pacini, G. Calogero, P.
Carabellese, Il problema della storia, 1944, in
"Quaderni della 'Critica'", vol. I, n. 3, dic. 1945,
Sezione "Rivista Bibliografica", pp. 81-84. Ma i rapporti
tra i due studiosi si erano già definitivamente guastati. [32][32]
Per tutte queste rimandiamo sempre al par.
dell'"Introduzione" sulla storia della critica. [33][33]
Carlo Antoni, "Recensione" a P. Carabellese, L'idea
politica d'Italia, 1946, in "La Rassegna d'Italia", n.
6, 1948, pp. 703-704. [34][34]
Ornella Nobile Ventura, "I filosofi parlano di Dio", in
"La Rocca", n. 4, 1948. [35][35]
Luca Pignato, "La filosofia del XX secolo", App. come
Parte VIII a W. Windelband, Storia della filosofia, versione
italiana di C. Dentice D'Accadia riveduta sulla 13a edizione
tedesca, con Appendice sul XX secolo di L. P. dell'Università di
Roma, ristampa stereotipa, Edizioni Sandron, Firenze, 1967, 2 voll.,
vol. II, par. 47: "L'idealismo italiano", punto 13, pp.
413-14. [36][36]
Emilio Pignoloni, "L'ontologismo critico di Pantaleo
Carabellese", in "Rivista Rosminiana", fasc. IV,
1948, pp. 148-64, fasc. I-II, 1949, pp. 14-29, fasc. I, 1950, e
fasc. III, 1950, poi pubbl. in estratto per la Tip. La Cartografica
C. Antonioli, Domodossola, 1951. [37][37]
C. Riva, "Recensione" a P. Carabellese, "I giovani e
la politica", 1948, in "Rivista Rosminiana", fasc.
IV, 1948.
[38][38]
Giuseppe Pinto, nella sua biografia commemorativa "Pantaleo
Carabellese" cit., ricorda i quattro corsi inediti su Spinoza e
i tre corsi anch'essi inediti su Leibniz, di cui non vi è traccia
non solo in altra biografia, ma anche alla Biblioteca dell'Università
di Roma dalla cui Cattedra di Storia della Filosofia Carabellese li
tenne dopo il 1930. Degli altri scritti inediti o ancora da stendere
dell'ultimo Carabellese si parlerà nel corso di quest'Appendice. [39][39]
Rosario Assunto, "Un Maestro", in "L'Italia
socialista", 7 ottobre 1948, e "Profilo del
Carabellese", in "Rivista di Filosofia", a. XL, n. 1,
1949, pp. 90-96. [40][40]
Giuseppe Pinto, "Pantaleo Carabellese" in "Giornale
critico della filosofia italiana", a. XXVIII, Serie III, vol.
III, fasc. I, genn.-mar. 1949, pp. 6-17, con biografia e
bibliografia. [41][41]
Vito Fazio Allmayer, "Un Maestro scomparso: P.
Carabellese", in "Giornale di Sicilia", 30 ottobre
1948, Palermo.
[42][42]
Giuseppe Semerari, "P. Carabellese" (necrologio), in
"Rivista internazionale di filosofia del diritto", n. 3-4,
1948, e "Significato e valore della filosofia di P.
Carabellese", in "Pagine nuove", n. 12, 1948, e n. 1,
1949. [43][43]
Luciano Anceschi, "Ricordo di Carabellese", in
"Rassegna d'Italia", n. 2, febbraio 1949. [44][44]
Carlo Antoni, "Pantaleo Carabellese", Commemorazione in
"Circolo della cultura e delle arti" di Trieste, a. I, n.
3, aprile 1949, pp. 5-6. [45][45]
Guido Calogero, "L'esperienza speculativa di Pantaleo
Carabellese", in "Atti del XV Congresso Nazionale di
Filosofia" tenutosi a Messina il 24-29 settembre 1948, D'Anna,
Messina, 1949, e in "L'Italia socialista", 7 ottobre 1948,
p. 3. [46][46]
Magda Da Passano, "Ricordo cristiano di Carabellese", in
"Città di vita", n. 1, 1949. [47][47]
Ugo Spirito, "Pantaleo Carabellese", in "Giornale
critico della filosofia italiana" cit., a. XXVIII, Serie III,
vol. III, fasc. I, genn.-mar. 1949, pp. 1-5. [48][48]
Teodorico Moretti Costanzi, "L'asceta moderno P.
Carabellese", ivi, pp. 39-48. [49][49]
Antonio Aliotta, "Commemorazione del socio Pantaleo
Carabellese", in "Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei
Lincei. Classe di Scienze morali", Roma, 1950. Carabellese era
divenuto membro della prestigiosa Accademia il 6 marzo 1935, così
come nel '36 era anche Cavaliere della Corona d'Italia e Cavaliere
dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. [50][50]
Ci siamo rifatti, come base da cui partire per tale quadro
storico-politico-ideologico, principalmente a Antonio Desideri, Storia
e Storiografia, Nuova ed. aggiornata e ampliata con la
collaborazione di Mario Themelly, Casa editrice D'Anna,
Messina-Firenze, I ed. 1989, IV ristampa aggiorn. 1994, 3 voll.,
vol. III: "Dalla prima guerra mondiale alle soglie del
Duemila", capp. 1, 2 e 4, passim, nonché all'ampio
ventaglio di documenti e di brani storiografici di diverso
orientamento ivi contenuti nella parte antologica, che restituiscono
le posizioni, a volte divergenti altre volte in sinergia, non solo
dei protagonisti del periodo trattato ma anche
della storiografia più insigne che su quel periodo ha
riflettuto sia di recente
che in anni più lontani da noi; documenti e interpretazioni
storiografiche che citeremo, quando necessario, di volta in volta.
Inoltre, abbiamo fatto riferimento pure ad alcuni ampliamenti che
abbiamo ritenuto necessari in primo luogo perché legati a
Carabellese, la sua biografia, la sua bibliografia, il suo pensiero
e il suo rapporto epistolare e teoretico con Croce. [51][51]
Sulla "svolta liberale" giolittiana in senso democratico e
progressista, compresa e attuata da Giolitti già all'’epoca del
Ministero Zanardelli, vedi G. Carocci, Storia d'Italia dall'Unità
ad oggi, Feltrinelli, Milano, 1975, quando afferma:
"Giolitti attuò la svolta liberale mettendo a partito e
favorendo le propensioni democratiche che, in quella fase dello
sviluppo, erano dominanti in seno all'industria italiana. Fu merito
di Giolitti aver intuito con lucidità che solo stando a sinistra
era possibile svolgere un'azione di governo fecondamente
conservatrice, dal momento che la persistente assenza politica dei
cattolici impediva il sorgere di un vero e proprio partito
conservatore, non poneva freni alle simpatie popolari che si
stringevano intorno all'estrema sinistra e le creava spazio fino a
renderla arbitra della maggioranza. [...] era la via maestra della
democrazia moderna, della democrazia industriale [...]. Era la via
maestra per rendere equilibrata una società moderna (tale
cominciava ad essere la società dell'Italia centro-settentrionale),
integrandovi la classe operaia e inducendola ad assumere i caratteri
della piccola borghesia radicale. [...] La natura di classe dello
Stato non scompariva ma si spostava, per un verso immettendo tra i
gruppi dominanti i nuovi ceti industriali e, per un altro verso,
dando, per così dire, diritto di cittadinanza alla spinta
rivendicativa del movimento operaio. Era il passaggio da una
struttura economica basata sulla terra e sulla banca di
vecchio tipo a una struttura basata sull'industria e sul
capitale finanziario." [52][52]
Vedi Giovanni Giolitti, Memorie della mia vita, Treves,
Milano, 1922. [53][53]
Cfr. ancora G. Carocci, Storia d'Italia dall'Unità ad oggi
cit.: "Giolitti calcolava di approfondire e rendere
irreversibile la separazione in atto tra socialisti intransigenti e
socialisti riformisti, catturando questi ultimi nel potere. [...]
Nei confronti dei cattolici Giolitti seguì una politica analoga
a quella seguita nei confronti dei socialisti: lasciò che
conquistassero fette sostanziose di
potere a livello della società civile, ma ebbe la massima
cura che, nella direzione dello stato, il potere restasse saldamente
in mano ai liberali. [...] La politica di Giolitti verso i cattolici
innovò, sebbene in misura ben minore, come quella verso i
socialisti. Diciamo <<in misura ben minore>> perché
diverso era il rapporto che socialisti e cattolici avevano con la
società. Mentre il movimento socialista elevava il livello civile
della società, il movimento cattolico non tanto elevava il livello
civile, quanto esprimeva e consolidava un livello già esistente. Il
fatto è che i partiti moderni (cioè il socialista e,
embrionalmente, il cattolico) svolgevano, e sempre più avrebbero
svolto, una funzione insostituibile in un paese come l'Italia, nel
quale ampi strati della società non si riconoscevano nello stato e
nella sua istituzione rappresentativa, nel parlamento."
[54][54]
Dall'intervento di Benito Mussolini al XIII Congresso nazionale del
Partito Socialista Italiano tenutosi a Reggio Emilia nel luglio del
1912: "Il parlamentarismo italiano è già esaurito. Ne volete
la prova? Il suffragio quasi universale largito da Giovanni Giolitti
è un abile tentativo fatto allo scopo di dare ancora un qualsiasi
contenuto, un altro periodo di <<funzionalità>> al
parlamentarismo. Il parlamentarismo non è necessario assolutamente
al socialismo in quanto che si può concepire e si è concepito un
socialismo anti-parlamentare o a-parlamentare, ma è necessario
invece alla borghesia per giustificare e perpetuare il suo dominio
politico. [...] Per queste ragioni io ho un concetto assolutamente
negativo del valore del suffragio universale [...] il problema
fondamentale, quello della <<giustizia nel campo
economico>> dovrà essere risolto e la soluzione non potrà
essere che socialistica: il passaggio alle collettività operaie dei
mezzi di produzione e di scambio. L'utilità del suffragio
universale è, dunque - dal punto di vista socialistico - negativa:
da una parte esso affretta l'evoluzione democratica dei regimi
politici borghesi, dall'altra esso dimostra al proletariato la
necessità di non rinunciare ad altri metodi più efficaci di lotta.
[...] [e, a proposito dell'autonomia politica dei vari gruppi in
seno al partito] Io la voglio invece sopprimere. Il gruppo non deve
avere che una sola autonomia: l'autonomia tecnica [...] dovete
essere sottoposti al controllo del Partito. [...] I deputati, devono
ubbidire alla Direzione." Da G. Manacorda, Il socialismo
nella storia d'Italia, Laterza, Bari, 1970, vol. I. [55][55]
Il movimento modernista in Italia, molteplice e vario, è nato con
la rivista "Studi religiosi" nel 1901 a Firenze ad opera
di Salvatore Minocchi. Il "Programma dei modernisti", in
cui era chiaro l'intento di una riforma religiosa in senso
spirituale e dottrinario dall'interno della Chiesa - il
movimento aveva radici teologiche in senso storicista soprattutto in
Francia e in Germania - ebbe come risposta una dura condanna, prima
ancora che con l'enciclica "Pascendi dominici greci", con
il decreto "Lamentabili sine exitu", ambedue di Pio X, nei
quali lo si bollava come eresia, come d'altronde avevano fatto in
precedenza la Curia di Parigi e il Santo Uffizio. Oltre che a
Ernesto Bonaiuti e alla sua rivista "Nova et vetera",
fondata nel 1908 (dell'altra si parla nella nota relativa a
Bonaiuti), il modernismo in Italia faceva riferimento ad Alfieri e
alla sua rivista "Il rinnovamento" (1907-09), e a Casati e
Gallarati Scotti. Sul modernismo vedi L. Ghiringhelli, Il
modernismo nella polemica, Casa ed. G. D'Anna, Messina-Firenze,
1983, che raccoglie anche scritti dell'abate
Alfred Loisy, uno dei più noti modernisti francesi, teologo
biblista e storico delle religioni, autore de L'Evangile et
l'Eglisé, Paris, 1902. [56][56]
Carabellese scrisse più volte per un ritorno della Chiesa alla
purezza delle origini e relativamente ai rapporti tra Stato e
Chiesa, anche a partire dalla sua Tesi di Laurea in Lettere del 1900
Sulla vetta ierocratica del Papato cit., pubblicata nel 1910,
e lo fece su una delle riviste del movimento modernista stesso:
"Stato e Chiesa (a proposito di formule)", in "La
riforma laica", n. 8, 1910; "Sul concetto di
religione", ivi, n. 5, marzo 1911, n. 10, ottobre 1911,
n. 12, dicembre 1911, e n. 1, gennaio 1912; "Felicità o
dovere?", da un discorso tenuto al Circolo dei Professionisti
di La Spezia il 7 novembre 1912, poi estratto da "La Nuova
Riforma. Rivista di pensiero religioso e di etica sociale", a.
III, fasc. V-VI, G. Avolio, Napoli, 1915. Un interesse che continuerà
nel tempo, assumendo contorni sempre più marcatamente
etico-politici: "Stato etico o teismo politico", in
"Archivio di Filosofia", Quaderno "La crisi dei
valori", Roma, 1945, pp. 7-14, poi rist. come cap. XIX di Idem,
L'idea politica d'Italia, Ediz. F. V. Nardelli, Roma, 1946; e
"Il rinnovamento politico", a. I, II settimana, 21 giugno
1945, "In nome di che?", a. I, VI settimana, 21 luglio
1945, "In cerca di chiarezza", a. I, XX settimana, 27
ottobre 1945, "I partiti e le funzioni sovrane", a. I,
XXIV settimana, 24 novembre 1945, tutte brevi note pubblic. in
"1945. Sestante per la realtà in costruzione", Rivista
fondata e diretta da Ernesto Bonaiuti, sacerdote suo amico e
Direttore in precedenza della "Rivista storico-critica delle
scienze teologiche", nonché autore di uno studio del 1932 sui Tentativi
di un rinnovamento del concetto di religione in Italia e in Francia
in cui fa riferimento anche a Carabellese. [57][57]
Ernesto Bonaiuti, trentacinque anni dopo quell'enciclica, scrisse
nel Pellegrino di Roma. La generazione dell'esodo, Laterza,
Bari, 1964, che quel documento fu mortifero per lui stesso nel suo
ruolo e per il modernismo, che
coinvolgeva con la Rivista
da lui diretta da giovane migliaia di abbonati in tutto il clero
italiano, e che: "Il problema della religiosità, del suo
contenuto sostanziale, delle sue concrete espressioni storiche,
dalla sua realizzazione suprema nella forma datale dalla rivelazione
del Cristo e dalla disciplina della Chiesa, cominciava ad uscire dai
chiusi recinti del monopolio teologale, per diventare alimento e
pungolo di ogni spirito senziente, consapevole dei compiti e delle
esigenze della moralità associata. [...] [[Vi era] la necessità di
rinnovare il logoro suo [dell'Italia] patrimonio spirituale, perché
all'unità territoriale della nazione corrispondesse una organica e
chiaroveggente compagine culturale. [...] L'afflato religioso di cui
il cosiddetto <<modernismo>> costituiva una prima ancora
indistinta formulazione avrebbe dovuto dare al popolo italiano un
orientamento spirituale in armonia col suo passato, in conformità
ai bisogni dell'albeggiante avvenire." Molto più distaccato,
perché non direttamente coinvolto, e sostanzialmente critico il
giudizio dello storico G. De Rosa ne Il movimento cattolico in
Italia dalla Restaurazione all'età giolittiana, Laterza, Bari,
1970, dove afferma che il modernismo non fu movimento di riforma
religiosa, ma movimento culturale di matrice idealistica, nato non
con intenti morali ma eruditi, quelli dell'applicazione del metodo
storico-critico alla teologia e alle Sacre Scritture, tant'è che
rimase un movimento elitario che non penetrò nell'animo del
credente. E questi metodi storico-critici inseriti negli studi
religiosi e derivanti dallo "storicismo moderno" con
l'intento di riportare tali studi ad "un'oggettività
scientifica sollecitata dal criticismo razionalistico" avevano,
al di là dei "frutti importanti e duraturi" che hanno
dato, uno scopo sostanzialmente relativistico in campo dottrinale e
rivoluzionario in campo politico, volendo infatti "opporre alla
Chiesa esistente un'altra Chiesa, un'altra dottrina cattolica, in
cui la negazione delle sovrastrutture significa negazione di ogni
elemento sovrannaturale e della rivelazione". [58][58]
P. Carabellese, Sulla vetta ierocratica del Papato. Idee, fatti,
intuizioni cit., 1900, pubbl. nel 1910. [59][59]
Idem, La teoria della percezione intellettiva in A.
Rosmini, 1905 (sulla data di Laurea non vi è concordanza tra i
critici, alcuni riportando il 1906),
pubbl. nel 1907. [60][60]
E' possibile che il giovane Carabellese e Croce si fossero
conosciuti a Napoli, grazie a Giuseppe De Blasiis, storico e
Relatore della Tesi di Laurea in Lettere, amico di Benedetto Croce e
Segretario della Società Napoletana di Storia Patria. [61][61]
Idem, Educazione e civiltà. Il criterio di valutazione
sociale dei sistemi educativi e l'odierno problema della scuola.
Note e appunti, Tip. La Speranza, Roma, 1907; "Il criterio
spenceriano di valutazione del sapere come disciplina educativa
mentale", in "Rivista pedagogica", n. 8, 1909; poi
seguiti, nel 1912, da "Il fatto educativo", in
"Rivista di Filosofia", n. 4, 1912, pp. 432-66. [62][62]
Cfr. Idem, "La pedagogia come filosofia",
recensione a G. Gentile, Sommario di pedagogia come scienza
filosofica, vol. I: "Pedagogia generale", Laterza,
Bari, 1913, in "Logos", vol. I, fasc. I, 1914, poi rist.
in Append. III in P. Carabellese, L'idealismo italiano cit.,
II ediz. con aggiunte, 1946; "La didattica", recensione a
G. Gentile, Sommario cit., vol. II: "Didattica",
Laterza, Bari, 1914, in "Il Conciliatore", a. II, fasc.
II, 1915, poi rist. in Append. III a P. Carabellese, L'idealismo
italiano cit. Ma l'interesse pedagogico e per i problemi della
scuola non abbandona Carabellese neanche quando più tardi si orienta professionalmente in modo deciso verso
l'Accademia, e anzi nel suo insieme può essere considerato
costituire una vera e propria filosofia dell'educazione, contenuta,
oltre che negli scritti citati di questo periodo, anche in alcuni
saggi e articoli successivi, di cui parleremo a suo tempo. [63][63]
G. Gentile, "Recensione" a P. Carabellese, La teoria
della percezione intellettiva in A. Rosmini cit., in "La
Critica", fasc. IV, luglio 1909, che testimonia, col luogo
stesso in cui la recensione fu pubblicata, oltre che dei rapporti di
Carabellese con Gentile, anche di quelli con Croce, come emergerà
dalla prima cartolina del 1908. [64][64]
Si ricordi che il primo scritto di Gentile fu Rosmini e Gioberti,
del 1898, e dunque i due pensatori si incontravano su un terreno
comune. Riguardo agli articoli carabellesiani cui si fa riferimento
qui, essi sono P. Carabellese, "Intuito e sintesi primitiva in
A. Rosmini" cit., 1911 e "La potenza e l'intuito come
potenza nell'ideologia rosminiana" cit., 1912. Essi, già
discussi nell'"Introduzione" di questo lavoro a
proposito dei rapporti teoretici con Gentile, sono, lo ricordiamo,
al tempo stesso una sintesi della
Tesi di Laurea in Filosofia pubblicata come La teoria della
percezione intellettiva in A. Rosmini cit., 1907, e una
continuazione della riflessione sul suo
tema stimolata anche dalla diversa interpretazione che di
quella teoria dava Gentile. [65][65]
Agli scritti carabellesiani citati su Rosmini, e a quello sul suo
rapporto con Kant ("L'elemento categorico kantiano
nell'’ideologia rosminiana", in AA. VV., "Atti del IV
Congresso Internazionale di Filosofia" tenutosi a Bologna nel
1911, Formiggini, Modena, 1912-16), si affiancarono altri scritti di
matrice filosofica come "Il valore e la filosofia", in
"Rivista di filosofia", n. 1, 1914, "I soggetti come
unità primitive", in "Logos", n. 1, 1914, poi rist.
come cap. I in Idem, L'Essere e il problema religioso
cit., 1914, oltre a scritti che, come questo stesso L'Essere...,
sono testimonianza dell'interesse precoce di Carabellese per gli
aspetti, oltre che storico-politici (penso alla Tesi di Laurea in
Lettere), anche più specificatamente filosofico-politici della
religione: gli articoli su "Stato e Chiesa"
e "Sul concetto di religione" citati a proposito
della sua partecipazione al movimento
modernista; ma anche "Religione e libertà",
estratto da "Rivista di filosofia", a. V, fascc. II-III,
1913, pp. 276-87; oltre a scritti di filosofia morale, come La
coscienza morale, Tip. Moderna, La Spezia, 1915, che segna,
secondo quanto dice Carabellese stesso, l'inizio del suo
"periodo precritico", durato sino al 1925, e del suo
rapporto teoretico e non solo umano e professionale con Croce. [66][66]
Al decollo industriale del Nord e al suo distacco dall'arretratezza
del Sud in rapporto alla politica protezionistica giolittiana sono
dedicate alcune pagine di M. L. Salvadori, Storia dell'età
contemporanea, Loescher, Torino, 1976, vol. I, dove afferma:
"Il tipo di crescita dell'industria italiana in questo periodo
fu quello proprio della fase monopolistica dominata dal capitale
finanziario con l'appoggio dello Stato. Il <<connubio>>
tra industria, finanza e Stato fu particolarmente accentuato
dalla debolezza della struttura produttiva nazionale, che,
nonostante i suoi progressi, non era in grado di sostenere il
confronto con la concorrenza sul mercato internazionale.
Sicché il <<protezionismo>> doganale, le
commesse statali, un regime di alti prezzi e il controllo del
mercato interno da parte di gruppi monopolistici furono le
caratteristiche prevalenti e tali da continuare le linee di tendenza
iniziate negli anni '80. I progressi furono assai rilevanti [...]Il
Sud rimase decisamente alla retroguardia, e di fatto escluso dal
moto ascendente del resto del paese. Le tariffe protettive in campo
agricolo agirono come fattore di stasi nel Mezzogiorno. I grandi
latifondisti [...] ebbero assicurate le loro rendite parassitarie, e
premiarono per questo in modo sistematico i governi con il
loro <<ministerialismo>>, vale a dire mettendo i
voti dei deputati da essi controllati a disposizione della
maggioranza parlamentare. Anche i settori dei
vini, della frutta e dell'olio d'oliva, che per il loro
carattere pregiato avrebbero potuto con esportazioni adeguate
introdurre nel Mezzogiorno notevoli capitali, rimasero al di sotto
delle loro possibilità [...]. Si spiega così come, specie
nel Sud d'Italia, la piaga della disoccupazione e della
sottoccupazione fosse cronica, e come l'ondata dell'emigrazione
meridionale, insieme con quella del Veneto (la zona più
sottosviluppata del Settentrione), raggiungesse, proprio nel periodo
giolittiano, cifre enormi." Cfr. anche G. Candeloro, Storia
dell'Italia moderna, vol. VII, Feltrinelli, Milano, 1974.
[67][67]
E' superfluo dire che Gaetano Salvemini aveva nel momento in cui lo
viveva un giudizio tutt'altro che positivo sul "decennio
felice" di Giolitti, che chiamò "ministro della
malavita" e la cui
politica di sostanziale indifferenza, quando non di vero e proprio
disegno reazionario a suo parere nei confronti del Sud denunciò
ripetutamente, come in queste affermazioni: "L'onorevole
Giolitti [...] approfitta delle miserevoli condizioni del
Mezzogiorno per legare a sé la massa dei deputati meridionali;
[...] mette nelle elezioni a loro servizio la malavita e la
questura; [...] mantiene in ufficio i sindaci condannati per reati
elettorali [...]. L'onorevole Giolitti non è certo il primo uomo di
governo dell'Italia una che abbia considerato il Mezzogiorno come
terra di conquista aperta ad ogni attentato malvagio. Ma nessuno è
stato mai così brutale, così cinico, così spregiudicato come lui
nel fondare la propria potenza politica sull'asservimento, sul
pervertimento, sul disprezzo del Mezzogiorno d'Italia [...] in quel
decennio in cui fu al governo, quando le condizioni economiche e
finanziarie italiane sarebbero state favorevoli ad una riforma a
fondo, e lui ebbe ai suoi ordini una vasta e sicura maggioranza
parlamentare, e una solida burocrazia, Giolitti non trovò mai la
volontà che per qualche ritocco secondario, al quale spesso del
resto fu trascinato da iniziative dell'opposizione parlamentare
[...]." Cfr. G. Salvemini, Il ministro della malavita e
altri scritti sull'età giolittiana a cura di E. Apih,
Feltrinelli, Milano, 1962. [68][68]
Il settimanale si opponeva, come già detto alla politica
giolittiana sia estera che interna, interessandosi anche ai rapporti
tra Stato e Chiesa e alla crescente organizzazione politico-sociale
dei cattolici, soprattutto dopo il "Patto Gentiloni" del
1913, alla questione meridionale (troppo nota per fornirne qui anche
solo qualche cenno sulla vastissima bibliografia esistente), e
schierandosi per un interventismo democratico nella prima guerra
mondiale nel relativo dibattito. [69][69]
P. Carabellese, "La politica dell'unità", su "L'Unità",
30 maggio 1913; "Il concretismo dell'Unità", ivi,
6 giugno 1913, poi rist. in G. Salvemini, L'Unità, a cura di
Beniamino Finocchiaro, Ed. E. Neri Pozza, Venezia, 1958, pp. 55-62;
e infine "Intorno alla proporzionale", in "L'Unità",
V Serie, 15 marzo 1919, anch'esso poi rist. in G. Salvemini, L'Unità
cit., pp. 704-07. Tutti articoli che testimoniano dell'interesse di
Carabellese per la vita politica nazionale e, assieme a quelli
vicini al modernismo, della riduttività dell'immagine di filosofo
puro lontano dai problemi politico-ideologici della sua epoca che
certa critica ha voluto dare. [70][70]
B. Croce, Storia d'Italia dal 1870 al 1915, Laterza, Bari,
1928. Ma Croce inoltre già precedentemente, nella celebre
intervista sul socialismo, in "La Voce", III, 1911,
denunciò, suscitando uno scalpore che nella stessa "La
Voce" trovò riscontro nel n. 7 del 1914, la morte del
socialismo, che non era né quello utopistico basato
sull'"ingenuo e quasi bambinesco desiderio della regolarità
o dell'uguaglianza", che non tiene conto della
complessità e delle contraddizioni della vita politico-sociale
concreta, né quello marxiano, che, al giudizio della storia, si
caratterizza come una previsione politica dettata dall'entusiasmo
per la Rivoluzione Francese e per la sua classe nascente, la
borghesia, e dalla constatazione delle contraddizioni e dei
conflitti sempre più intensi e rapidi che da quelle nascevano
mettendo in moto un processo di dissoluzione e ricomposizione
sociale che faceva sperare
nell'avvento di una nuova società. Quella speranza, sembra voler
dire Croce, è morta, e con lei il vero socialismo, in cui egli
stesso credé per un anno come "la via regia dell'umanità",
anche se poi riconosce come non "[...] piccoli effetti [del
socialismo] l'abbandono definitivo del socialismo egalitario e
ottimistico [...]; l'aiuto che il moderno e storico socialismo ha
dato e dà contro ogni conato di reazione; la legislazione del
lavoro, i miglioramenti prodotti nella vita della classe operaia e
un certo elevamento intellettuale di questa: un senso più concreto
[...]; e, nel campo dell'intelligenza, l'avere contribuito al
risveglio filosofico e alla eliminazione
del goffo positivismo, l'avere intensificato gli studi e la
cultura economica, e guardato in modo nuovo alcune parti della
storia. Questi, o simili a questi, sono i doni che il socialismo ha
fatto alla civiltà moderna." [71][71]
Secondo l'’opinione dell'insigne storico Denis Mack Smith,
"Nel 1911 la Libia era ormai diventata nell'immaginazione
popolare un vero e proprio Eldorado,ed in quello stesso anno venne
pubblicato su di essa un libro intitolato La nostra terra
promessa. La storia e la geografia furono invocate per stabilire
un diritto di proprietà su questa antica provincia di Roma. [...]
Furono in modo particolare i Siciliani a farsi trascinare
emotivamente dalla prospettiva dell'impresa libica, in quanto
l'argomento economico era per essi della massima urgenza e non
esistevano ancor dati sufficienti a dimostrar loro che questa non
era una soluzione. [...] Giolitti, come Cavour, aveva cura di non
restare mai troppo indietro rispetto all'opinione pubblica ed egli
intuì che il prestigio nazionale richiedeva ora una politica estera
più ferma. Nell'estate del 1911 decise pertanto di agire. Se fosse
stato prevenuto da altri, tutto il suo delicato sistema politico
avrebbe corso il rischio di andare in pezzi, mentre un'azione di
forza avrebbe potuto conciliargli i nazionalisti ed il nuovo
elettorato di massa al quale egli si stava apprestando a concedere
il diritto di voto. [...] L'opinione pubblica italiana di sinistra
era chiaramente
ostile ad una guerra [...]Salvemini, nel suo giornale l'<<Unità>>,
dimostrò di conoscere le effettive e poco attraenti condizioni
della Libia assai meglio di quanti la consideravano potenzialmente
una notevole fonte di ricchezza [...]. Secondo questi intellettuali
radicali, l'Italia doveva rinunciare alla sua aspirazione ad essere
una Grande Potenza, poiché era chiaro ch'essa non poteva
permetterselo, e quanto alla Libia, essa minacciava di diventare non
già l'Eldorado, ma la tomba dei coloni italiani. [...] favorevoli
erano i cattolici, che vedevano con entusiasmo una crociata contro
la Mezzaluna. [...] Uomini di tendenze umanitarie ed estranei alla
politica come Giovanni
Pascoli erano convinti che l'Italia avesse bisogno di colonie per la
sua eccedenza di popolazione, e persino il savio e moderato liberale
Giustino Fortunato [...] si rallegrò tuttavia sinceramente per
quella ch'egli interpretò come la prima dimostrazione che l'Italia
era finalmente uno Stato veramente unitario." Cfr. D. Mack
Smith, Storia d'Italia dal 1861 al 1958, Laterza, Bari, 1959.
[72][72]
Schierato dalla parte della guerra, perché, insieme a Papini e a
Prezzolini, tra le figure più rappresentative del nazionalismo
italiano, ci fu Enrico Corradini, fondatore nel 1903 e Direttore
fino al 1905 de "Il Regno", rivista di propaganda
nazionalista di cui avremo modo di riparlare, su cui egli esercitò
il proprio populismo demagogico nei confronti dei ceti più umili di
un'"Italia proletaria" cui trovare un "posto al
sole". Nell'articolo "La guerra", comparso sul fasc.
XIV de "Il Regno" nel 1904, Corradini scrive, prendendo
spunto dalla guerra russo-giapponese: "[...] si mostrano presi
dal fascino della guerra, hanno anch'essi delle sensazioni estetiche
dallo spettacolo lontano delle forze scatenate, [...] sono tornati
insomma, senza saperlo, ad essere uomini sinceri allo stato di
natura. Tutto questo dimostra sino a qual punto l'esempio e lo
spettacolo del fatto possano sugli spiriti, e come vi travolgano
sentimenti e convincimenti, e come la guerra quando scoppia, non
venga considerata più come un fatto sottoposto alle leggi del
piccolo bene e del piccolo male, ma venga considerata quasi come un
grandioso e terribile fenomeno della natura, un cozzo di forze
primordiali ed eterne, irrefrenabili. Perciò dinanzi ad esse l'uomo
civile è abolito e ritorna l'uomo sincero allo stato di natura.
[...] le guerre rispondono mirabilmente allo spirito della nostra età.
La credenza nella modernita della guerra è cosa che urta
tutte le opinioni di moda fondate sulla dottrina e su certa
coscienza cosmopolita; ma la modernità della guerra è un fatto.
[...] i sentimentalisti, gli umanitaristi, gli evangelisti
dell'amore e della pace, i dottrinari delle classi e delle culture
cosmopolitiche, sono addirittura contrari allo spirito del nostro
tempo, piuttosto che esprimerne, come vorrebbero, la parte migliore.
Essi dicono di essere i preparatori della civiltà avvenire; ma
tutta la reale civiltà di oggi accenna a discostarsi sempre più da
loro. E i più di loro altresì, come ho detto in principio, si
discostano da se medesimi, quando tuona il cannone." [73][73]
Sul fronte opposto a quello nazionalista, i giovani socialisti
elaborarono nel 1911 il Manifesto "Guerra alla Guerra", in
cui tra l'altro si proclamava: "Lavoratori! In questo momento
il governo italiano sta preparando una spedizione militare in
Tripolitania, con il pretesto di portare in quella regione la civiltà.
Nessuna ragione può scusare tale atto di brigantaggio
determinato soltanto da loschi interessi capitalistici della classe
dominante. [...] Per effettuare questa spedizione saranno a voi
chiesti immensi sacrifici [...] nell'interesse della borghesia
sfruttatrice. [...] Dite chiaramente al succhionismo nazionalista
guerrafondaio che se osasse spingervi ad una guerra, voi
combattereste non per conquistare nuovi possessi alla monarchia; ma
per conquistarvi un avvenire migliore di libertà e di
giustizia." [74][74]
Sul nazionalismo non solo italiano vedi G. Lehner, Il
nazionalismo in Italia e in Europa, Casa ed. G. D'Anna,
Messina-Firenze, 1973. [75][75]
Le analisi che qui si stanno conducendo tengono dietro allo studio
dello storico Giancarlo Lehner, Economia, politica e società
nella prima guerra mondiale, G. D'Anna, Messina-Firenze, 1973. [76][76]
La data, che non corrisponde a quella della cartolina in questione,
è presa da Michele Del Vescovo, Pantaleo Carabellese. Profilo
biografico - Profilo umano cit., p. 30. [77][77]
P. Carabellese, La politica del Dovere e l'Italia, ed.
L'Universale, Roma, 1945. Come si vede, però, questa è una
riflessione che Carabellese stenderà in forma d'opera durante la
Seconda Guerra Mondiale, e che pubblicherà nell'anno della sua
fine. Ad essa è affiancabile l'opera L'idea politica d'Italia,
Ed. F. V. Nardelli (Signorelli), Roma, 1946, nella quale, come cap.
XIX, è rist. "Stato etico o teismo politico?" cit, 1945,
e ancora "I giovani e la politica", da un discorso tenuto
all'Università di Roma nel maggio 1947 per il "Movimento
giovanile internazionale di Unione e Fraternità", poi stamp.
nei "Quaderni di orientamento" del suddetto
"Movimento", n. 1, F.lli Stianti, San Casciano Val di
Pesa, 1948, e anche estratto dal "Giornale critico della
Filosofia italiana", n. 1-2, genn.-giu. 1948, poi rist. postumo
in P. Carabellese, Padre G. Bozzetti, U. Spirito, Mons. P. Pavan, V.
Vinay, A. Bausani, D. Are, G. Calogero, U. Serafini, R. Assunto, E.
Giudici, A. M. Masu, J. Ma. De Semprun Gurrea, Laicismo e non
laicismo, a cura di Magda Da Passano e Diego Are, Edizioni di
Comunità, Milano, 1955, pp. 23-62, e ancora rist. in P.
Carabellese, I giovani e la politica, con una Premessa di R.
Assunto e una Postilla di G. Semerari, Ediz. Centro Librario, Bari,
1978. [78][78]
Carabellese ne scrisse una sola volta: "La nostra
sconfitta", in "L'Italia del popolo", n. 37, 21-24
maggio 1919. A questo proposito vedi anche Carlo della Corte,
"Introduzione" a un classico della letteratura sulla prima
guerra mondiale in Italia, Emilio Lussu, Un anno sull'Altipiano,
I ed. Paris 1938, II ed. Giulio Einaudi Editore, Torino, 1945, III
ed. Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1970, pp. 5-11. La stesura
del volume e l'edizione parigina furono volute fortemente da Gaetano
Salvemini, amico di Lussu, proprio a testimonianza del distacco tra
le speranze che la Guerra aveva aperto in una parte cospicua degli
intellettuali italiani, e la cruda realtà di essa. [79][79]
Com'è noto, Guglielmo II di Hohenzollern, salito al trono nel 1888,
aveva dato un'impronta espansionistica alla politica estera del suo
Impero di Lander e un'impronta autoritaria e accentratice
alla sua politica interna, che di fatto
esautorò il Reichstag che invece il Cancelliere BismarcK
voleva conservare nel suo ruolo istituzionale, e distrusse il suo
paziente lavoro diplomatico, fino al punto da costringerlo a
dimettersi nel 1890, dopo la vittoria alle elezioni del partito
socialdemocratico. La politica di potenza, che aveva trovato sino
allora espressione militare e navale soprattutto in direzione
coloniale in Africa, ebbe quindi occasione di oggettivarsi, dopo
l'attentato di Sarajevo, nell'alleanza con l'Impero Austro-ungarico,
che aveva anche ragioni di solidarietà dinastica - da cui l'ultimatum
alla Russia del 1917, che l'Austria vedeva come rivale nei Balcani -
oltre che ragioni espansionistiche nei confronti dell'Alsazia e
della Lorena, francesi, e del Belgio, da subito invasi secondo la
strategia della "guerra lampo". Il Kaiser Guglielmo II, da
cui com'è noto questo periodo della storia tedesca ha preso il nome
di età guglielmina, restò Imperatore sino alla sconfitta
della guerra e allo scoppio della rivoluzione socialista tedesca, e
precisamente sino al 9 novembre del 1918, ma la sua abdicazione
dall'Impero, che lo condusse a rifugiarsi in Olanda, non riguardò
anche il titolo di Re di Prussia. Nonostante ciò, alla firma del
durissimo Trattato di Versailles del 28 giugno 1919, nell'ambito
della Conferenza di pace di Parigi iniziata il 19 gennaio, la
Germania giunse con la Repubblica di Weimar, che era nata da quella
rivoluzione e che nel frattempo ad agosto si era data, attraverso
l'Assemblea Nazionale eletta a suffragio universale, la sua nuova
Costituzione. Ma l'esperienza di Weimar, che com'è noto aveva
aperto molte speranze anche negli intellettuali tedeschi, si avviò
a una fine drammatica, oltre che per le disastrose condizioni
post-belliche e per l'opposizione dei ceti industriali e del grande
capitale a partire dal 1923, già dal 1921 quando
Hitler divenne
capo del Partito nazional-socialista fondato a Monaco nel 1920, e
poi definitivamente il 30 gennaio del 1933, quando sempre Hitler
venne chiamato ad essere, per volontà del Presidente della
Repubblica Hindenburg, Cancelliere della Repubblica, avocando a sé,
nel marzo del '34, per voto del Reichstag, i pieni poteri, e poi,
alla morte di Hindenburg sempre nel '34, in un clima di ormai totale
dittatura politico-militare, anche la sua carica di Presidente. Tra
gli intellettuali che aderirono alla Repubblica di Weimar,
Friederich Meinecke, dall'esilio svizzero durante la Seconda Guerra,
a proposito della Prima scrive: "Gli eventi [...] erano molto
più oscuri ed imprevedibili, di quel che si era acceso [...] nel
luglio del 1870. [...] la mia moderazione [...] Ma il terreno comune
che ci [noi intellettuali] sosteneva era ancora tanto forte, che
accettai con entusiasmo un piano [...]: di contrapporre cioè alla
malvagia propaganda nemica una grande opera collettiva, a fondamento
scientifico, che presentasse specialmente ai popoli neutrali la
Germania reale nella sua essenza e nella sua volontà attuale.
Avrebbero dovuto collaborarvi studiosi e uomini di Stato di chiara
fama [...]. Il mio contributo ad essa, su Kultur, Machtpolitik
und Militarismus, era destinato a diventare uno dei capitoli
principali dell'opera. Esso doveva disarmare l'affermazione degli
avversari, che cioè esistessero due Germanie, l'una spirituale e
l'altra no [...] nell'epoca delle guerre di liberazione (che era
stata contemporaneamente l'epoca di Goethe) si è effettivamente
giunti a un'alleanza tra due forze che fino a quel momento si erano
sviluppate ciascuna per suo conto: spirito e potenza; spiritualità
tedesca estesa come il mondo, e statalità prussiana solida. Questa
alleanza, continuavo, era in vigore anche oggi [...] non avevo
ancora compreso a fondo il demonismo della vecchia politica di
potenza e i più recenti demonismi, provenienti dalle profondità
del secolo XIX, del nazionalismo. [...] Credo bensì tuttora che
ce la faremo [...] Vedo il mio vecchio ideale nazionale,
statale e culturale, sfigurato e insudiciato dai fautori della
politica di potenza. La hybris dell'idea di potenza continuerà
a infuriare. In relazione con questo fatto, anche gli estremi del
radicalismo, socialismo, pacifismo si inaspriranno. Quanto immature
sono tuttora le masse, senza le quali, come ho sempre ripetuto, lo
Stato moderno non può vivere [...] L'8 novembre a Berlino si aveva
già la sensazione certa che il giorno dopo sarebbe scoppiata la
rivoluzione. [...] [Il 17] Rathenau e Troeltsch convocarono una
piccola riunione per discutere di un appello che ammonisse gli
elementi borghesi della Germania a stringere adesso la mano ai
lavoratori e a creare insieme a loro, difendendola dal bolscevismo,
la nuova repubblica tedesca. [...] Ho lasciato la mia firma
all'appello, con intimo dolore." Cfr. F. Meinecke, Esperienze.
1862-1919, Guida, Napoli, 1971. [80][80]
Sulla situazione italiana durante la neutralità e sull'Italia in
guerra, nonché sul giudizio che ne dava Croce, vedi B. Croce, Pagine
sulla guerra, Seconda Edizione con aggiunte, Laterza, Bari,
1928, (opera che raccoglie anche articoli, interviste, riflessioni,
ecc. di e su quel periodo), capp. I, II e III, pp. 9-298. Vedi
anche, sul periodo che va dall'età liberale alla prima guerra
(1871-1914), analizzata pure in
merito allo scenario internazionale, sempre di Croce, Storia
d'Europa nel secolo decimonono, Laterza, Bari, 1965, in partc.
capp. IX e X, pp. 234-306, o anche Storia d'Italia dal 1871 al
1915, Scritti di Storia letteraria e politica, XXII, Laterza,
Bari, 1928, in partc. i capp. V, VI e VIII sugli ideali dal 1871 al
1900, il cap. IX sul rapporto tra governo liberale e rigoglio
economico, il cap. X ancora di storia delle idee nel decennio fino
al 1914, e i capp. XI e XII sull'Italia nelle guerre libica e
mondiale. [81][81]
Su "L'Unità" del 3 marzo del 1917, Salvemini scriveva:
"I gruppi <<interventisti democratici>> hanno
voluto la guerra: per questo si sono divisi dai neutralisti
socialisti, e si sono associati per un momento agli
<<interventisti nazionalisti>>, che si staccarono per
conto loro dai neutralisti conservatori. Ma se interventisti -
democratici e nazionalisti -hanno avuto un comune programma di
guerra, hanno avuto anche un opposto programma di pace. Come dice
benissimo il Popolo d'Italia, l'intervento è avvenuto e non
conta più: sono oramai i soli fini che contano. E sui fini
della guerra, c'è fra nazionalisti e democratici un abisso. Per i
nazionalisti la guerra dovrebbe servire a stabilire la loro egemonia
in Italia, e l'egemonia dell'Italia in Europa. Per noi la guerra
deve assicurare un giusto equilibrio di nazioni solidali e pacifiche
in Europa contro la Germania, finché la Germania non sia tornata
alla umanità e non sia degna di entrare anch'essa nella lega delle
nazioni [...] Il nostro giornale vorrebbe appunto, [...] sui fini
della guerra, e rompere la confusione che troppo a lungo è durata
fra i nazionalisti e noi." Da G. Salvemini, Interventismo
nazionalista e interventismo democratico, in Opere. Dalla
guerra mondiale alla dittatura. 1916-1925, Feltrinelli, Milano,
1964. [82][82]
Sempre nelle Memorie della mia vita, ed. Garzanti, Milano,
1945, Giolitti afferma: "Io avevo invece la convinzione che la
guerra sarebbe stata lunghissima, e tale convinzione manifestavo
liberamente a tutti i colleghi della Camera [...] sarebbe durata
almeno tre anni, perché si trattava di debellare i due Imperi
militarmente più organizzati del mondo, che da oltre quarant'anni
si preparavano alla guerra; i quali, avendo una popolazione di oltre
centoventi milioni potevano mettere sotto le armi sino a venti
milioni di uomini; [...] che il nostro fronte sia verso il Carso,
sia verso il Trentino, presentava difficoltà formidabili. Osservavo
d'altra parte che, atteso l'enorme interesse dell'Austria di evitare
la guerra con l'Italia, e la piccola parte che rappresentavano gli
italiani irredenti in un Impero di cinquantadue milioni di
popolazione, si avevano le maggiori probabilità che trattative bene
condotte finissero per portare all'accordo. Di più osservavo che
l'Impero Austro-ungarico, per le rivalità fra l'Austria e
l'Ungheria, e soprattutto perché minato dalla ribellione delle
nazionalità oppresse, slavi del sud e del nord, polacchi, czechi,
sloveni, rumeni, croati ed italiani, che ne formavano la
maggioranza, era fatalmente destinato a dissolversi, nel qual caso
la parte italiana si sarebbe pacificamente unita all'Italia. [...]
Ciò che era facile prevedere erano gli immani sacrifici d'uomini
[...], dati i nuovi, potenti e micidiali mezzi di offesa e di difesa
[...]; come era facile prevedere che un conflitto così tremendo
avrebbe segnata la totale rovina di quei paesi ai quali non avesse
arriso una completa vittoria. Oltre a ciò una guerra lunga avrebbe
richiesto colossali sacrifizi finanziari, specialmente gravi e
rovinosi per un paese come il nostro, ancora scarso di capitali, con
molti bisogni e con imposte ad altissima pressione. Consideravo
ancora che la guerra assumeva già allora il carattere di lotta per
la egemonia del mondo, fra le due maggiori Potenze belligeranti,
mentre era interesse dell'Italia l'equilibrio europeo, a mantenere
il quale essa poteva concorrere solamente serbando intatte le sue
forze. [...] [inoltre, a proposito dell'aggressione tedesca al
Belgio neutrale] l'Italia, come l'America, non era tra quelle
potenze che avevano garantito
quella neutralità, e l'America non si mosse [...] non si può
portare il proprio paese alla guerra per ragione del sentimento
verso altri popoli, ma solo per la tutela del suo onore e dei suoi
primari interessi." [83][83]
Su tutto questo quadro del vario e complesso movimento d'opinione
che si venne a creare nella prospettiva della guerra tra
interventisti e neutralisti, vedi G. Lehner, Economia, politica,
società nella prima guerra mondiale, Casa ed. G. D'Anna,
Messina-Firenze, 1973. [84][84]
Il 12 aprile, prima della firma del Patto, Salandra inviò come
Ministro degli Interni una circolare riservatissima ai prefetti per
sapere lo stato dell'opinione pubblica: "[...] dalla lettura
delle risposte risalta [...] la corrente neutralista: non tanto
quella del neutralismo organizzato, dei socialisti ufficiali o di
altre correnti politiche, quanto piuttosto quello spontaneo, non
protestatario delle masse contadine, tinto talora di indifferentismo
verso il problema della guerra. [...] passiva protesta contro
l'insufficiente attività dello Stato nei confronti [...] [del]
Mezzogiorno, mentre al Settentrione [...] ritengono doveroso
ricorrere alla guerra soltanto come rimedio di difesa da
un'invasione armata del territorio nazionale. [...] il paese per
motivi diversi non desiderava la guerra [...] Salandra nello
scorrere questi rapporti non poteva che constatare di rappresentare
una ristretta minoranza, ma nello stesso tempo indubbiamente si
compiaceva nel vedere che l'opposizione violenta al conflitto non ci
sarebbe stata [...] Salandra al momento della firma del patto di
Londra era pienamente cosciente di operare contro la grande
maggioranza degli italiani [...]." Da A. Monticone, Gli
italiani in uniforme. 1915-1918, Laterza, Bari, 1972. [85][85]
La maggioranza del Parlamento era neutralista (come d'altronde
l'opinione pubblica contadina e operaia del Centro e del Sud, i
sindacati, la Chiesa e gran parte dei cattolici), sicché l'ormai
interventista Salandra rassegnò le dimissioni da Capo di Gabinetto,
che il Re respinse rinviandolo alla Camera e costringendo così il
Parlamento ad assegnargli pieni poteri: "Le dimissioni del
governo lasciarono un vuoto politico [...] l'abdicazione del governo
abbandonò il paese nelle mani del re e delle forze
extraparlamentari. L'alternativa fondamentale - pace o guerra - si
poneva chiaramente a tutto il paese, e gli interventisti entrarono
in azione. [...] gli sforzi di Giolitti erano orami inutili. Vi fu
un'esplosione di manifesti e di dimostrazioni [...]. Nel Sud [...]
ordinate e con un'impronta conservatrice: in decine di città e di
villaggi i notabili locali sfilarono in corteo nelle strade, spesso
guidati dal sindaco e accompagnati dalla banda musicale, per
dimostrare pubblicamente la loro lealtà verso il re e il loro
conterraneo conservatore, Salandra. [...] I neutralisti erano
visibilmente assenti. Nell'Italia centrale e settentrionale le
passioni erano più accese [...]. Il via fu dato dagli universitari,
professori e studenti [...] A Firenze, Bologna, Genova e in altre
città, gli scontri tra dimostranti delle opposte fazioni causarono
vittime, e furono effettuati migliaia di arresti: esponenti
neutralisti furono minacciati, e i consolati austriaci assaliti.
L'agitazione fu particolarmente acuta a Milano: [...] la parola
d'ordine fu <<guerra o rivoluzione, guerra alla frontiera o
guerra all'interno>>. Mussolini ammonì ancora una volta il re
che il rifiuto di inchinarsi alla volontà popolare gli sarebbe
costato il trono. [...] La tensione raggiunse il culmine a Roma.
[...] Il 12 maggio D'Annunzio arrivò nella capitale e fu accolto
alla stazione da circa centomila persone. [...] egli eccitò fino al
parossismo la folla: <<[...] Se è considerato come crimine
l'incitare alla violenza i cittadini, io mi vanterò di questo
crimine [...]>>. Molti lo presero in parola: gruppi di
studenti invasero palazzo Montecitorio e dettero la caccia per le
strade agli amici di Giolitti, per picchiarli: Peano e Bertolini
furono riconosciuti e malmenati, e soltanto un cordone di truppe
impedì che la casa di Giolitti fosse assalita. [...] Roma apparve
una città in preda al terrore e alla rivoluzione. [...] La
posizione personale del re fu sempre chiara: egli riteneva che
l'onore della monarchia sarebbe stato messo in giuoco se il
parlamento non avesse approvato la decisione di entrare in guerra, e
fu quindi con gioia e con sollievo che il 16 maggio pote' respingere
le dimissioni di Salandra. [...] Il paese accettò nel complesso il
proprio destino con rassegnazione. Gli amici di Giolitti [...]
riconobbero che il re
aveva il diritto di esercitare le proprie prerogative
costituzionali: ora che la Corona aveva deciso, solo una rivoluzione
avrebbe potuto scongiurare una guerra. [...] solo a Torino vi fu una
seria opposizione: qui, il 16, il Partito socialista e la CGL
proclamarono lo sciopero generale [...] 100.000 operai [...] furono
erette barricate [...] Salandra ribadì le disposizioni ai prefetti
di mantenere l'ordine ad ogni costo: le dimostrazioni contro la
guerra vennero energicamente represse [...] Il parlamento si riunì
il 20 maggio e il governo chiese i pieni poteri per la guerra.
Soltanto Turati parlò contro [...] Il 22 maggio fu ordinata la
mobilitazione: il giorno seguente Sonnino inviò un ultimatum
all'Austria, e il 24 l'Italia entrò in guerra. [...] L'Italia entrò
dunque in guerra con entusiasmo, ma in un'atmosfera di guerra
civile: sotto la superficie, il paese era profondamente diviso.
[...] Una minoranza entusiasta aveva imposto la propria volontà,
così come cinquantacinque anni prima un'altra minoranza aveva
realizzato l'unità. [...] Dopo la vittoria, i nazionalisti
esaltarono il fatto che una ribellione della coscienza nazionale
avesse abbattuto la tirannide parlamentare. Turati deplorò
<<la sconfitta generale [...]>>: <<La guerra [...]
avrebbe prodotto questo primo effetto [...]: di aver abolito fra noi
il vigore e la dignità dell'istituto parlamentare>>." Da
Ch. Seton-Watson, L'Italia dal liberalismo al fascismo. 1870-1925,
Laterza, Bari, 1973. [86][86]
A questo proposito l'insigne storico idealista Adolfo Omodeo, che
rispetto alla guerra, cui partecipò come ufficiale volontario
nell'artiglieria, aveva una posizione interventista liberale ma
vicina a quella dei democratici, pone in uno scritto del 1934, con
puntuale e innovatrice precisione, il "[...] problema di una
storia spirituale della guerra; ché, certamente, quegli eserciti
ebbero un'anima che li resse; che circolò nella parola sussurrata
nella trincea; che urtò contro i motivi eterni dell'egoismo e della
conservazione personale; che sofferse e pianse la famiglia lontana,
il dolore assiduo, i compagni caduti; che si levò nell'ebbrezza
degli assalti; che spasimò nei rovesci." E continua, con
notazioni metodologiche precise, ma soprattutto in
singolare coincidenza anche temporale con lo storico della
Rivoluzione francese Georges Lefebvre e la sua scuola de "Les
Annales d'histoire economique et sociale" (dal 1929) nello
studio delle fonti minori come documenti altrettanto validi di
quelli ufficiali: "Per fare un primo passo in questa storia, io
credo che convenga iniziare lo studio delle vestigia di quest'animo
dell'esercito italiano, cominciando dalle lettere e dai diari dei
combattenti, [...] documenti [....] come di chi ricapitoli in un
momento supremo tutta la propria vita e ne determini le grandi
linee. [...] E' tutta una letteratura oscura, di scarsa diffusione,
ma che merita d'essere scrutata. [...] e tenendo anche presente che
ogni più ricco archivio è pur sempre lacunoso e tendenzioso [...]
La storia non è il documento bruto, ma il documento ravvivato e
inverato dalla critica, e collocato nel suo giusto posto. Tornando
al nostro argomento, [...] Il lavoro sarà inevitabilmente
frammentario; ma solo ponendovi mano si può iniziare la storia
morale della guerra, che non sarà senza importanza per la storia più
strettamente militare. Questo incentramento della storia nelle
personalità viventi ed operose [...] è condizione essenziale della
storia, anche per quegli indirizzi che amano concepire
sociologicamente la realtà, come conflitti di ceti e di classi. Ad
un certo punto, classi, ceti, nazioni, s'esprimono e si
rappresentano a se stessi in uomini di ricca vitalità; senza di
essi, quei vasti corpi rimarrebbero mere potenze, da nulla
fecondate. Uomini rappresentativi, si dice [...]. Ma la sfumatura
collettivistica non è esatta [...]." Cfr. Adolfo Omodeo, Momenti
della vita di guerra, Laterza, Bari, 1934. [87][87]
P. Carabellese, La coscienza religiosa in Italia. Risposte di
Pantaleo Carabellese, Firenze, 1916; Idem, "La
coscienza morale come teoria della volontà" cit., 1917,
scritto in risposta alla "Recensione" di G. Vidari al suo La
coscienza morale cit., 1915, in "Rivista di
Filosofia", fasc. II, 1916. [88][88]
Per i particolari sul conseguimento di questo titolo riguardanti la
Commissione giudicatrice e altro, rimandiamo a Michele del Vescovo, Pantaleo
Carabellese... cit., n. 14, p. 31. [89][89]
Nello stesso 1917, il I agosto, papa Benedetto XV, ribadendo
l'appello del '14, scrisse la "Nota di pace" nella quale,
come "Padre comune che tutti ama, nello sforzo continuo di fare
a tutti il maggior bene", esortava
dall'alto della sua autorità morale i belligeranti "a più
miti consigli, alle serene deliberazioni della pace, di una
<<pace giusta e duratura>>." E continuava:
"Noi, non per mire politiche particolari [...] ma mossi
unicamente dalla coscienza del supremo dovere di Padre comune dei
fedeli, [...] alziamo nuovamente il grido di pace, e rinnoviamo un
più caldo appello a chi tiene in mano le sorti delle Nazioni. [...]
vogliamo ora discendere a proposte più concrete e pratiche, ed
invitare i Governi [...] ad accordarsi sopra i seguenti punti [...]
il punto fondamentale, deve essere che sottentri alla forza
materiale delle armi la forza morale del diritto. Quindi un giusto
accordo di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli
armamenti, [...] nella misura necessaria e sufficiente al
mantenimento dell'ordine pubblico nei singoli Stati; e, in
sostituzione delle armi, l'istituto dell'arbitrato [...] Quanto ai
danni e alle spese di guerra [...] una intera e reciproca
condonazione, giustificata del resto dai beneficii
immensi del disarmo; tanto più che non si comprenderebbe la
continuazione [...] per ragioni di ordine economico. [...] la
reciproca restituzione dei territori attualmente occupati. [...] Per
ciò che riguarda le questioni territoriali, [...] le Parti
contendenti vorranno esaminarle con spirito conciliante, tenendo
conto, nella misura del giusto e del possibile, [...] delle
aspirazioni dei popoli [...] Riflettete alla vostra gravissima
responsabilità dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini; dalle vostre
risoluzioni dipendono [...] la vita di migliaia di giovani, la
felicità stessa dei popoli, che Voi avete l'assoluto dovere di
procurare. Vi inspiri il Signore [...], meritandovi il plauso
dell'età presente, vi assicuriate altresì presso le venture
generazioni il nome di pacificatori. [...]" La Nota pontificia,
che fu pubblicata su "La Civiltà cattolica" del I
settembre 1917 e che ebbe grandissima risonanza in tutto il mondo
occidentale, venne recepita in Italia a seconda delle parti come
"una pugnalata alla schiena dell'esercito e un incitamento al
disfattismo" o come una giusta e autorevole voce da seguire.
Dopo la disfatta di Caporetto, nella polemica che da subito la seguì,
fu indicata, assieme alla propaganda socialista, tra i motivi che
spinsero i soldati alla rotta. [90][90]
I "Quattordici punti" che costituivano il programma di
pace enunciato da Wilson al Congresso degli Stati Uniti l'8 gennaio
1918, erano una perfetta sintesi di ideologia democratica e
pragmatismo politico-economico. Si noti anche, oltre al punto 9 che
riguarda l'Italia, la visione d'insieme non solo della guerra, ma
anche della sua risoluzione politica per quanto attiene a tutte
le nazionalità coinvolte in essa, sì da porre le basi per un loro
controllo che spostava da allora in poi l'asse dell'equilibrio del
potere dal piano internazionale del Vecchio Mondo al piano
intercontinentale del Nuovo: "1) Convenzioni di pace palesi
[...] non [...] accordi internazionali segreti di alcuna specie
[...]. 2) Libertà assoluta della navigazione sui mari all'infuori
delle acque territoriali, tanto in tempo di pace quanto in tempo di
guerra [...]. 3) Soppressione, per quanto sarà possibile, di tutte
le barriere economiche e creazione di condizioni commerciali eguali
fra tutte le nazioni che consentiranno alla pace, e si associeranno
per mantenerla. 4) Garanzie [...] che gli armamenti nazionali
saranno ridotti all'estremo limite compatibile con la sicurezza del
Paese. 5) Libera sistemazione [...] imparziale, di tutte le
rivendicazioni coloniali basate sulla stretta osservanza del
principio che, nel determinare tutte le questioni di sovranità, gli
interessi delle
popolazioni interessate dovranno avere un peso eguale a quello delle
domande eque del Governo il cui titolo dovrà essere conosciuto. 6)
Sgombero di tutti i territori russi [...] per dare alla Russia [...]
l'indipendenza del proprio sviluppo politico e della propria
politica nazionale, per assicurarle una sincera accoglienza nella
Società delle Libere Nazioni [...] [e] ogni aiuto di cui abbia
bisogno [...] 7) Quanto al Belgio, [...] dev'essere sgombrato e
restaurato senza alcun tentativo di limitare la sovranità [...].
Nessun altro atto servirà quanto questo a ristabilire la fiducia
tra le Nazioni nelle leggi che esse stesse hanno stabilito e fissato
per regolare le loro reciproche relazioni. [...] 8) Tutto il
territorio francese dovrà essere liberato [...]. Il torto fatto
alla Francia dalla Prussia nel 1871 per quanto riguarda
l'Alsazia-Lorena e che ha turbato la pace del mondo per quasi
cinquant'anni, dovrà essere riparato affinché la pace possa ancora
una volta essere garantita nell'interesse di tutti. 9) La
sistemazione delle frontiere dell'Italia dovrà essere effettuata
secondo le linee di nazionalità chiaramente riconoscibili. 10) Ai
popoli dell'Austria-Ungheria, il cui posto desideriamo vedere
tutelato e garantito fra le Nazioni, si dovrà dare [...] uno
sviluppo autonomo. 11) La Romania, la Serbia, il Montenegro dovranno
essere sgombrati [...] Alla Serbia dovrà accordarsi [...] accesso
al mare. Le relazioni tra i vari Stati balcanici dovranno essere
fissate amichevolmente secondo i consigli delle potenze e in base a
linee di nazionalità stabilite storicamente. Saranno fornite [...]
garanzie di indipendenza politica ed economica e per l'integrità
dei loro territori. 12) Una sicura sovranità sarà garantita alle
parti turche dell'Impero ottomano attuale; [...] I Dardanelli
dovranno essere aperti permanentemente e costituire un passaggio
libero [...]. 13) Dovrà essere stabilito uno Stato polacco
indipendente [...] si dovrà assicurare un libero e sicuro accesso
al mare [...]. 14) Un'associazione generale delle Nazioni dovrà
essere formata [...] allo scopo di fornire mutue garanzie di
indipendenza politica e di integrità territoriale ai grandi come ai
piccoli Stati." Dal "Corriere della Sera" del 10
gennaio 1918. [91][91]
La storiografia successiva, ma anche già da subito gli stessi
ambienti politico-militari dell'epoca, hanno a lungo discusso se
Caporetto sia stata una sconfitta militare o politica: "Intorno
alla rotta dell'esercito italiano nell'ottobre del 1917 è fiorita
una vasta pubblicistica ed una interminabile diatriba storiografica.
[...] La classe militare [...] addusse come causa primaria della
sconfitta dapprima la viltà dei soldati e subito dopo il
disfattismo che dall'interno del paese aveva via via contagiato le
truppe [...] si evitava a priori la tesi d'una
<<Caporetto>> militare riconducendo tutto il disastro ad
una debolezza morale e politica dell'intera nazione. [...] invece
[...] [gli] alleati franco-inglesi [...] comunicarono al governo
Orlando la loro piena sfiducia nel Comando italiano. Lloyd George,
primo ministro inglese, richiese ufficialmente il siluramento di
Cadorna e del suo stato maggiore [...] anche in Italia si venne
formando, specie tra gli interventisti democratici, la convinzione
[...] dei gravi errori militari e, infatti, alla fine della guerra
fu creata una commissione d'inchiesta per chiarire le responsabilità
dei vari Cadorna, Porro, Capello, Badoglio, ecc. Le conclusioni
dell'inchiesta furono, però, ambigue perché da un lato si misero
in luce alcuni errori strategici, dall'altro [...] lasciando ampio
spazio a nuove polemiche ed alla cristallizzazione delle due tesi
della <<Caporetto>> militare e di quella politica. [...]
usate per avvalorare le diverse scelte ideologiche degli
storiografi. Sotto il fascismo, per esempio, parve più rispondente
ai bisogni del regime addossare tutta la responsabilità agli
avversari politici - socialisti, cattolici e giolittiani -
rivalutando, nel contempo, l'operato dei comandi militari. [...]
D'altro canto, la storiografia liberale e democratica [...] ha
insistito sulle responsabilità militari, con una documentazione
sempre più ampia e schiacciante, ma ha finito col negare quasi del
tutto il carattere politico ed il potenziale
rivoluzionario di Caporetto. [...] il generale Badoglio
comunicò di essere <<soddisfatto dello stato morale delle
truppe>> [...] stante la diffusa opinione che l'autunno e
l'inverno sarebbero trascorsi senza importanti azioni belliche
[...]. Eppure erano giunte, sia al Cadorna che al presidente del
Consiglio V. E. Orlando, da parte del servizio informazioni e dai
prigionieri austriaci, notizie sempre più precise ed insistenti
d'un prossimo attacco nemico sul fronte dell'Isonzo [...] Durante le
varie fasi di questa tragica avanzata austro-tedesca, i comandi
italiani persero completamente la testa: in una relazione
dell'ufficio storico dello stato maggiore, mai resa di pubblico
dominio [...]: <<[...] Troppi comandanti si ritirarono prima
delle truppe.>> Già nel 1920 un esperto di cose militari
affermò senza tema di smentite che: <<Gli ufficiali superiori
e i generali [...] disponendo di automobili, si misero senz'altro in
salvamento.>> [...]
La sconfitta militare era stata, però, effettivamente accompagnata
da una sorta di sciopero, dall'insubordinazione generalizzata, dalla
diserzione di massa, da un diffuso spirito di rivolta e di protesta.
Il malcontento delle truppe, a stento soffocato dalle dure
repressioni, si era già ampiamente manifestato in precedenti casi
[...] nelle uccisioni [...] soprattutto, di carabinieri (tale corpo,
svolgendo le funzioni di polizia militare, era particolarmente
odiato dai soldati) [...] Caporetto diveniva per i fanti il momento
della vendetta: le truppe, dapprima si erano rifiutate di farsi
nuovamente massacrare ed avevano senz'altro rinunciato ad opporsi
[...], poi, in una confusa ritirata avevano cominciato a inneggiare
alla rivoluzione, al Papa, a Giolitti, all'Austria stessa che con la
sua stessa vittoria avrebbe assicurato finalmente la fine della
guerra." Cfr. G. Lehner, Economia, politica e società nella
prima guerra mondiale cit. [92][92]
Infatti continua Lehner, che qui esprime chiaramente una visione di
parte, nell'op. cit. alla n. precedente: "Non v'era, in
tutto ciò, un preciso obiettivo politico, ma un enorme potenziale
di protesta che avrebbe potuto spegnersi di lì a poco - come,
infatti, avvenne - o trasformarsi in un'impresa rivoluzionaria
[...]. La seconda soluzione avrebbe avuto possibilità di successo
nel caso che i dirigenti dei partiti proletari - specie del P.S.I. -
non avessero rinunciato da tempo ad instaurare degli stretti
rapporti con la massa dei combattenti e si fossero coraggiosamente
messi a capo della rivolta. In realtà, i socialisti, massimalisti o
riformisti che fossero, non solo non compresero [...] il momento -
auspicato da Lenin e dalla Sinistra rivoluzionaria europea - di
trasformare la guerra imperialistica in lotta armata contro la
borghesia per la instaurazione del socialismo, ma, sorpresi e
sconvolti, si affrettarono a dissociarsi [...] i riformisti Turati e
Treves, alla Camera e sui loro giornali, rivolsero appelli alla
resistenza contro gli invasori, e la Confederazione del lavoro,
anch'essa diretta dai riformisti, si fece garante del patriottismo
dei lavoratori (<<Il proletariato farà tutto intero il suo
dovere>>). [...] ormai, la formula del <<né aderire, né
sabotare>> era pubblicamente corretta in [...] <<aderire
e non sabotare>> [...]. A comprendere il potenziale
rivoluzionario [...] furono, per assurdo, proprio i loro avversari
di classe: la casta militare, gli interventisti, i conservatori, la
borghesia capitalistica, gli intellettuali. [...] alcuni ricchi
borghesi, presi dal panico, si allontanarono [...] sulla riviera
ligure [...] Si passava così rapidamente alla seconda tesi:
Caporetto era stata il frutto della campagna disfattista all'interno
del paese. Si citavano la nota papale auspicante la pace dell'agosto
del 1917 (in particolare la definizione della guerra come
<<inutile strage>>) e le parole pronunciate nel luglio
in parlamento dal Treves (<<Il prossimo inverno non più in
trincea>>), come esempi lampanti di tale sottile e insinuante
disfattismo, tanto più efficace vista la fragilità della psiche
contadina, unanimemente teorizzata dagli scienziati borghesi. [...]
quella massa di sbandati, esaltati sulle prime per il loro primo
grande atto d'insubordinazione e di riscatto dopo due anni di
sofferenze e di umiliazioni, senza una parola od una guida politica,
privi di contatti con l'interno del paese [...] assaporando, sopra
ogni cosa, il piacere della liberazione dall'incubo della guerra,
sostituirono alla primitiva [...] rabbia contro i borghesi
imboscati, i capi militari e politici, i responsabili della guerra,
l'ansia del rapido ritorno a casa. Ma il potere militare era ormai
in grado di riprendere il controllo della situazione: non ci sarebbe
stata né la pace, né il ritorno a casa per i fanti di Caporetto,
ma nuove repressioni [...+ Dopo più di mezzo secolo di sbrigative
negazioni o di interessati silenzi, il problema di Caporetto come
occasione rivoluzionaria mancata è stato riproposto, dapprima dal
Valiani [...] e poi, in un clima di sempre nuovo interesse per la
storia della guerra 1915-'18, in tutta una serie di saggi [...]
Caporetto, al di là degli schemi tradizionali, si ripresenta oggi
aperto a nuove interpretazioni e discussioni." [93][93]
Afferma F. Catalano, nell'opera Stato e società nei secoli,
Casa ed. G. D'Anna, Messina-Firenze, 1968, vol. III: "[...]
sotto il governo Orlando, vennero lanciate le parole d'ordine della
<<terra ai contadini>> e della partecipazione degli
operai agli utili delle imprese. A proposito di quest'ultima, il
<<Corriere economico>> dell'aprile 1918 sosteneva che
[...] <<[...] il salariato è un socio dell'impresa>>;
[...] ed era meglio concedere anziché essere costretti a cedere
(Arturo Labriola, alla Camera, il 17 ottobre '17, aveva rimproverato
il governo di aver chiesto la vita ai proletari ma di non aver
saputo chiedere ai latifondisti la terra). Alcune società, come
l'Ilva, la Fiat, la Pirelli, verso la metà del '18, mostravano di
voler prendere in considerazione questo problema dell'azionariato
operaio [...]. Ma L. Einaudi, dall'alto della sua scienza economica
classica, giudicava negativamente tutto questo affannarsi per
trovare una soluzione anticipata ai conflitti tra capitale e lavoro
[...]: <<[...] una cosa vecchissima, provata e riprovata, per
lo più con insuccesso o mediocrissimo successo, com'è la
partecipazione ai profitti [...]>> [...]." [94][94]
A questo periodo immediatamente successivo alla guerra appartengono
gli articoli citati su "La nostra sconfitta" e
"Intorno alla proporzionale", ambedue del 1919, il secondo
a testimonianza della partecipazione di Carabellese al dibattito
politico sulle forme di sistema elettorale. [95][95]
P. Carabellese, "L'insegnamento della filosofia", in
"Giornale critico della filosofia italiana", n. 2, 1921,
poi rist. in Idem, Che cos'è la filosofia? cit., II
ed. 1942. [96][96]
Idem, "L'attività concreta. Introduzione allo studio
del Bene", 1920, poi rist. in Idem, Critica del
concreto cit., I ed. 1921. Sempre nel '20 Carabellese recensisce
un volume di E. Juvalta su I limiti del razionalismo, in
"Giornale critico della filosofia italiana", n. 2, 1920. [97][97]
Idem, "Che cos'è la filosofia?", in "Rivista
di filosofia", a. XIII, n. 3, Bologna, 1921, poi rist. in Idem,
Che cos'è la filosofia? cit., II ediz. 1942. [98][98]
Idem, "Un saggio di filosofia concreta", nella
neonata Rivista "La cultura", a. I, n. 8, Roma, 1922, poi
rist. in Idem, Che cos'è la filosofia? cit., II
ediz., 1942. [99][99]
Cfr. A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo. L'Italia dal 1918
al 1922, La Nuova Italia, Firenze, 1950, che afferma, citando
inizialmente Mussolini: "'Se la rivoluzione borghese del 1789
[...] aprì le porte e le strade del mondo alla borghesia che aveva
fatto un lungo e secolare tirocinio, la rivoluzione attuale, che è
anche una guerra, sembra schiudere le porte dell'avvenire alle masse
che hanno fatto il loro duro tirocinio di sangue e di morte nelle
trincee. [...] Si apre nella storia un periodo che potrebbe
definirsi <<della politica delle masse>> [...] Dobbiamo
indirizzarlo verso la democrazia politica e verso la democrazia
economica' E' questa l'atmosfera torbida ed esaltante che i
combattenti, i reduci trovarono ritornando a casa [...] I contadini
[...] rientrano per rivendicare il loro diritto alla terra. Gli
operai guardano alla Russia [...] <<La caduta degli
Hohenzollern in Germania - scrive un reduce, Pietro Nenni -, lo
sgretolamento dell'Impero degli Asburgo [...] suscitarono la
speranza che il vecchio mondo stesse per crollare [...]
Bisognerebbe, anche in Italia, [...] portare le masse a partecipare
alla vita politica, a costruire lo Stato popolare. L'Italia potrebbe
in questo modo compiere, infine, quella sua rivoluzione nazionale
che il Risorgimento aveva eluso. [...] In novembre le
elezioni politiche rivelano la nuova faccia dell'Italia. Sono,
grazie a Nitti, le prime elezioni veramente libere da quando il
regno è unito. La proporzionale, da lui introdotta, favorisce il
sorgere di grandi partiti, il socialista ed il
<<popolare>> (cattolico). [...] Il Vaticano ha tolto il non
expedit, malgrado la <<questione romana>>. I
cattolici hanno potuto votare e prendono il loro posto nella vita
nazionale [...] E' una rivoluzione nella rivoluzione. Poiché il
1919 è proprio l'anno della rivoluzione italiana, della rivoluzione
democratica." [100][100]
Afferma N. Valeri, La lotta politica in Italia dall'Unità al
1925, Le Monnier, Firenze, 1973: "[...] il vecchio mago,
avrebbe potuto rinnovare, componendo i dissidi sociali, ridando
ordine al Paese, rialzandone il prestigio all'estero e resuscitando
all'interno il buon mercato [...] Soltanto un uomo della sua autorità
era in grado di risolvere onorevolmente il problema di Fiume. [...]
La preoccupazione di Giolitti era [...] l'imminente allargamento del
moto rivoluzionario. [...] il colpo di Stato, variamente progettato
fino allora a Fiume, pareva sul procinto di tradursi [...] in realtà.
Nel settembre del 1920, era corso tra il <<Comandante>>
e Mussolini [...] un preciso piano d'azione, prevedente una rivolta
armata guidata da D'Annunzio, che avrebbe dichiarato decaduta la
Monarchia e assunto la somma dei poteri insieme con un triumvirato
politico. [...] Giolitti tagliava alle radici il bubbone concludendo
il trattato di Rapallo con la Jugoslavia (12 novembre 1920) [...] la
Dalmazia ceduta alla Jugoslavia, Fiume riconosciuta Stato
indipendente, Zara annessa all'Italia. L'accordo fu votato dal
Parlamento e accolto [...] da tutti i partiti, e perfino da
Mussolini, che non esitò [...] a piantare in asso il suo
<<Comandante>> [...] Ma il poeta s'irrigidì. [...]
Giolitti allora, visti vani i consigli, ordinò [...] di far
sgomberare la città [...] E fu il famoso <<Natale di
sangue>> [...]." [101][101]
Antonio Gramsci, in un articolo su "Ordine Nuovo" del 2
agosto 1919 (quindi ben prima del fallimento del "biennio
rosso"), poi stamp. in Idem, Socialismo e fascismo.
L'Ordine Nuovo 1921-22, Einaudi, Torino, 1966, afferma: "Le
conquiste spirituali realizzate durante la guerra, le esperienze
comunistiche accumulate in quattro anni di sfruttamento del sangue,
subito collettivamente, stando gomito a gomito nelle trincee fangose
e insanguinate, possono andare perdute se non si riesce a inserire
tutti gli individui in organi di vita nuova collettiva, nel
funzionamento e nella pratica dei quali le conquiste possano
solidificarsi, le esperienze possano svilupparsi, integrarsi, essere
rivolte consapevolmente al raggiungimento di un fine storico
concreto. Così organizzati i contadini diventeranno un elemento di
ordine e di progresso; abbandonati a se stessi [...] un tumulto
incomposto [...] Ma con le sole forze degli operai d'officina la
rivoluzione non potrà affermarsi stabilmente e diffusamente: è
necessario saldare la città alla campagna, suscitare nella campagna
istituzioni di contadini poveri sulle quali lo Stato socialista
possa fondarsi e svilupparsi [...]." [102][102]
Sempre A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Laterza,
Bari, 1972, afferma: "[...] dopo le elezioni del novembre 1919,
si produce una corsa verso la Confederazione del lavoro
<<rossa>>, a cui partecipano tutte le categorie, ivi
comprese quelle degli impiegati privati, dei tecnici, dei funzionari
dello Stato [...] I [...] tesserati [...] C.G.L. [...] divengono,
verso la fine del 1920, 2.200.000. [...] Una epidemia di scioperi
[...] sarà vinta dovunque dalla doccia fredda della crisi
economica. [...] I conflitti tra i manifestanti e la forza pubblica
si moltiplicano [...] morti sulla strada [...] Il manifesto redatto
il 25 giugno 1920 [...] dalla Direzione del Partito socialista, dal
Gruppo parlamentare socialista e dalla C.G.L., si pronuncia contro
le azioni locali [...] Giolitti [...] Inizia così quel ruolo di
liquidatore della crisi borghese che lo mette, in settembre, davanti
a un avvenimento pericoloso: l'occupazione delle fabbriche da parte
degli operai in tutto il paese. La Federazione degli operai
metallurgici (F.I.O.M.) aveva cominciato in maggio la discussione di
un contratto di lavoro con gli industriali, decisi a rifiutare ogni
concessione. [...] Bisogna trovare qualcosa di diverso dallo
sciopero [...] lo <<sciopero bianco>>. Gli industriali
si preparano a rispondere [...] con la serrata. [...] la F.I.O.M. dà
l'ordine agli operai di occupare le fabbriche [...] Il 31 agosto
[...] Milano [...] nei due giorni successivi a tutta l'Italia [...]
tutti i tecnici e gli impiegati hanno abbandonato le officine per
ordine dell'organizzazione padronale. [...] La classe operaia
italiana [...] si è creduta alla soglia del potere [...] e vede
invece il solito orizzonte [...] Ciò nonostante una rivoluzione
si è compiuta [...] I Fasci, anemici e quasi inesistenti prima
del settembre 1920, si moltiplicano [...] Non è il fascismo che ha
vinto la rivoluzione, è l'inconsistenza della rivoluzione che
provoca il sorgere del fascismo. La borghesia ha ricevuto, con
l'occupazione delle fabbriche, uno choc psicologico che
spiega il suo furore e determina i suoi atteggiamenti successivi.
Gli industriali [...] colpiti nei loro diritti di proprietà e di
comando [...] mostrano soprattutto un gran rancore contro Giolitti,
che <<non li ha difesi>> [...]." [103][103]
I <<Sansepolcristi>>, dal nome della Piazza di Milano in
cui si costituirono radunando reduci dell'Associazione Nazionale
Combattenti, sindacalisti, militari, nazionalisti e antisocialisti,
redassero questo Manifesto, pubbl. su "Il Popolo d'Italia"
il 6 giugno '19: "Italiani! [...] Per il problema politico:
Noi vogliamo: a) Suffragio universale [...] voto ed eleggibilità
per le donne. b) Il minimo di età per gli elettori abbassato a 18
anni [...] c) L'abolizione del Senato. d) La convocazione di
un'Assemblea Nazionale [...] [per] stabilire la forma di
costituzione dello Stato. e) La formazione di Consigli Nazionali
tecnici [...] eletti dalle collettività professionali o di
mestiere, con poteri legislativi, e diritto di eleggere un
Commissario Generale con poteri di Ministro. Per il problema
sociale: [...] la giornata legale di otto ore di lavoro. b) I
minimi di paga. c) La partecipazione dei rappresentanti dei
lavoratori al funzionamento tecnico dell'industria. [...] Per il
problema militare: [...] a) L'istituzione di una milizia
nazionale [...] b) La nazionalizzazione di tutte le fabbriche di
armi e di esplosivi. c) Una politica estera nazionale intesa a
valorizzare, nelle competizioni pacifiche della civiltà, la Nazione
italiana nel mondo. Per il problema finanziario: [...]a) Una
forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo,
che abbia la forma di vera espropriazione parziale di tutte
le ricchezze. b) Il sequestro di tutti i beni delle congregazioni
religiose e l'abolizione di tutte le mense Vescovili che
costituiscono una enorme passività per la Nazione e un privilegio
di pochi. c) La revisione di tutti i contratti di forniture di
guerra ed il sequestro dell'85% dei profitti di guerra." [104][104]
A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Laterza,
Bari, 1965. [105][105]
Ancora A. Gramsci, in Socialismo e fascismo cit., afferma:
"Il distacco che avverrà a Livorno tra comunisti e riformisti
avrà specialmente questo significato: la classe operaia si stacca
da quelle correnti degenerate del socialismo che sono imputridite
nel parassitismo statale [...] per creare aristocrazie proletarie,
che accanto al protezionismo doganale borghese (forma legale del
predominio del capitalismo industriale e finanziario [...])avevano
creato un protezionismo cooperativo [...] I riformisti portano come
<<esemplare>> il socialismo reggiano, vorrebbero far
credere che tutta l'Italia e tutto il mondo può diventare una sola
Reggio Emilia. La classe operaia afferma di ripudiare tali forme
spurie di socialismo [...] l'emancipazione dei lavoratori può
avvenire solo attraverso l'alleanza degli operai industriali del
nord e dei contadini poveri del sud per abbattere lo stato borghese
[...]." [106][106]
A questo drastico giudizio di Tasca su Giolitti si contrappone
quello espresso da Renzo De Felice in "Mussolini il
fascista", in La conquista del potere 1921-23, Einaudi,
Torino, 1966: "Del preteso filofascismo di Giolitti [...] spera
ancora che a Livorno [...] avvenga il miracolo che egli ha atteso
per tutta la vita: che il socialismo accetti di collaborare con lui;
che usciti i comunisti [...] Nell'attesa [...] conduce, con poco
successo, una politica di contenimento del fascismo, preoccupandosi
di salvaguardare [...] l'autorità delle istituzioni [...] quando è
tramontata la possibilità dell'accordo con Turati, egli decide di
fare le elezioni [...] ridurranno la forza dei socialisti [...] e
dei popolari [...] L'azione di Giolitti, dunque, non era in funzione
dei fascisti, ma dei socialisti e [...] dei popolari. [...] la
collaborazione con il governo, unico mezzo [...] per fronteggiare
l'offensiva reazionaria [...] Giolitti non solo non consentì che i
fascisti fossero armati dagli elementi militari [...] [ma volle]
assicurare un'attenta vigilanza del movimento fascista, la
repressione di ogni connivenza con esso della forza pubblica [...]
per il rispetto della legge [...] inadeguatezza delle autorità
periferiche e delle forze di polizia [...] nell'attuare con fermezza
le istruzioni del governo [...]: le vaste simpatie che i fascisti
godevano tra i funzionari, soprattutto dei gradi più bassi, e i
militari dei corpi di polizia. [...] l'origine piccolo e medio
borghese di gran parte dei funzionari e dei militari [...] dato il
carattere <<antibolscevico>> e <<d'ordine>>
del fascismo [...] alleato contro quei <<sovversivi>>
dei quali per oltre due anni [biennio rosso] [...] In questo senso
[...] esiste tutta una vastissima documentazione che non lascia
dubbi. [...] Che il vecchio statista vedesse di buon occhio il
risveglio delle classi medie [...] L'importante era che il fascismo
potesse essere mantenuto
sotto controllo e incanalato nell'alveo delle forze medie: [...]
integrato nello Stato liberale. [...] In realtà, per capire il
<<caso>> Giolitti è necessario rifarsi al particolare
momento storico, alla crisi di trasformazione che stava
attraversando la società italiana sotto ogni profilo, [...] e alla
inadeguatezza degli strumenti [...] con i quali il governo e
Giolitti si trovavano a fronteggiare questa crisi [...]
contrapporre partiti di massa a partiti di massa, giornali a
giornali, propaganda diretta e capillare a propaganda diretta e
capillare, in una parola a formare, guidare e orientare anch'essi
l'opinione pubblica [...] ha notato il De Rosa, dalle istruzioni di
Giolitti [...]
considerassero le violenze del fascismo sotto l'unico angolo visuale
della violazione della legge, come reati che bastasse perseguitare
semplicemente con gli strumenti normali della legge,
applicando il codice [...] vedevano i reati, ma non il sovversivismo
[...] sfuggisse la complessità del moto insurrezionale, che stava
sgretolando tutta l'impalcatura dello Stato
liberaldemocratico>>. [...] non si rendevano conto che il
fascismo non aveva nulla in comune con i vecchi partiti e movimenti
patriottici e d'ordine, e neppure col vecchio sovversivismo
prebellico [...]." [107][107]
Giorgio Candeloro, nella sua Storia dell'Italia moderna,
Feltrinelli, Milano, 1978, vol. VIII, afferma: "L'andata al
potere era divenuta d'altra parte per i fascisti una necessità.
Dopo circa venti mesi di azioni squadristiche [...] scomparso il
cosiddetto pericolo bolscevico; era quindi probabile che la
borghesia prima o poi si stancasse di sostenere finanziariamente e
politicamente l'apparato squadristico del fascismo e si orientasse
verso correnti politiche moderate che facilitassero un sollecito
ritorno alla normalità. Inoltre non era possibile fare coesistere a
lungo l'apparato dello Stato e l'apparato militare e repressivo dei
fasci [...] due diverse impostazioni delineatesi tra i dirigenti
fascisti riguardo al metodo per la conquista del potere: una
legalitaria [...] una insurrezionale [...] [che] voleva arrivare
alla conquista del potere, e non soltanto ad una partecipazione
fascista al governo, mediante la cosiddetta marcia su Roma. [...]
irrealizzabile se l'esercito fosse sceso in campo contro i fascisti.
L'azione insurrezionale implicava quindi
una preventiva preparazione politica mirante a ottenere che
il re, il governo e gli alti gradi dell'esercito rinunciassero a
usare contro i fascisti le forze armate dello Stato. Questo comprese
Mussolini, che svolse un'azione politica assai complessa. [...]
Insieme a questo complesso lavoro politico Mussolini diede impulso
alla preparazione della marcia su Roma, che egli concepì in
sostanza come una grossa messa in scena insurrezionale destinata a
rafforzare il lavoro politico con la minaccia della guerra civile.
[...] sul Popolo d'Italia il 3 e il 12 ottobre. Veniva così
ufficialmente costituito una sorta di esercito privato, senza che il
governo prendesse alcun provvedimento. [...] il Presidente del
Consiglio intendesse allungare quanto più possibile la vita del suo
traballante governo in attesa della [...] successione di Giolitti.
[...] Comunque il re, la sera stessa del '26, inviò a Facta un
telegramma che diceva: "[...] contatto con l'on. Mussolini
[...] opportuna soluzione [...] il solo efficace mezzo di evitare
scosse pericolose è quello di associare il fascismo al governo
nelle vie legali>> [...] quando, alle ore 20 del 27 ottobre,
il re arrivò in treno a Roma. [...] apparve molto preoccupato [...]
disse che Roma doveva essere difesa. <<La Corona doveva poter
deliberare in piena libertà, e non sotto la pressione dei moschetti
fascisti>>." [108][108]
Continua ivi Candeloro: "[...] Facta [...] andò al
Viminale [il 27 ottobre '22] per preparare il decreto sullo stato
d'assedio, che il re avrebbe dovuto firmare la mattina seguente.
[...] Ma alle 9 [del 28 ottobre], quando Facta presentò al re il
decreto sullo stato d'assedio, il re rifiutò di firmarlo. [...] La
decisione del re aprì di fatto la via al governo Mussolini, sebbene
Vittorio Emanuele preferisse probabilmente un ministero presieduto
da Salandra, con la partecipazione dei fascisti. [...] dopo le
dimissioni di Facta, [...] l'incarico a Salandra, che accettò e
subito chiese [...] di persuadere Mussolini ad accettare il
ministero dell'interno. Ma questi rispose negativamente [...]
dichiarando [...] che si sarebbe recato a Roma solo quando il re gli
avesse conferito l'incarico di formare il governo. [...] Il sovrano
decise quindi di chiamare Mussolini, che [...] arrivò a Roma la
mattina del 30. [...] da quel momento in poi fino alla Repubblica
l'Italia non ebbe più un regime parlamentare. Il parlamento infatti
perse via via di importanza anche prima che il governo fascista
divenisse un regime. In questo senso nei giorni 28-30 ottobre 1922
fu attuato in Italia un colpo di Stato, che ruppe la continuità
della tradizione costituzionale-parlamentare, anche se formalmente
non violò la lettera del vecchio Statuto albertino. Il 30 ottobre
le colonne fasciste [...] entrarono in Roma. [...] Vi furono morti e
feriti; poi la calma fu ristabilita dall'intervento delle truppe.
[...] Tempi durissimi si preparavano per le superstiti
organizzazioni politiche e sindacali della classe operaia e per
tutti quegli italiani che [...] vollero resistere ai nemici della
libertà". [109][109]
Cfr. Ch. Seton-Watson, L'Italia dal liberalismo al fascismo
1870-1925, Laterza, Bari, 1973, vol. II: "[Dopo le elezioni
dell'aprile '24] La nuova Camera si riunì il 24 maggio [...] i
ministri fascisti apparvero per la prima volta in uniforme del
partito [...] il discorso pronunciato da Giacomo Matteotti, che
mostrò in quell'occasione le doti di un vero leader. [...]
un pacifista intransigente, e dopo Caporetto [...] internato per
disfattismo [...] esperto di problemi finanziari, della scuola e
delle amministrazioni locali, era intellettualmente superiore alla
gran massa dei suoi colleghi socialisti. [...] Il 30 maggio, per
oltre quattro ore, tra una tempesta di interruzioni fasciste,
Matteotti denunciò [...]. Quando finì di parlare dichiarò ai
compagni: <<Ed ora potete anche prepararmi l'orazione
funebre>>. [...] Mussolini scrisse sul <<Popolo
d'Italia>> del 1o giugno [...] che la mostruosa provocazione
di Matteotti meritava qualcosa di più concreto di una risposta
verbale [...] il 10 giugno si apprese che Matteotti era scomparso
[...] Il corpo era stato sepolto [...] in un bosco a venticinque
chilometri da Roma, dove fu scoperto due mesi dopo. Gli assassini
appartenevano alla cosiddetta <<Ceka>> che era sotto il
controllo diretto di Cesare Rossi, capo dell'ufficio stampa del
presidente del Consiglio, e di Giovanni Marinelli, amministratore
del partito fascista [...] Il problema che sconvolse il paese nei
sei mesi seguenti fu quello di determinare in quale misura il
governo fosse responsabile dell'assassinio. Molto prima che questi
fatti venissero alla luce, un'ondata di orrore e di indignazione
[...]. Per alcune critiche settimane il fascismo apparve impotente e
demoralizzato; Mussolini era isolato [...]."
[110][110]
Continua infatti ivi Seton-Watson a partire da dopo il
delitto: "[...] uno spettatore casuale del rapimento aveva
riferito alla polizia il numero dell'automobile di Filippelli, e
questa pista portò le indagini nel cuore del partito fascista.
[...] Il 13 giugno Mussolini affrontò di nuovo la Camera:
<<Solo un nemico che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa
di diabolico contro di me, poteva effettuare questo delitto>>,
egli dichiarò; era un delitto antifascista, antinazionale. [...]
affermò che la coscienza del governo era tranquilla [...] le
indagini della magistratura proseguivano. [...] Il 13 giugno i
rappresentanti di tutti i settori dell'opposizione - i
liberal-democratici di Amendola e di Di Cesarò, i popolari, i due
gruppi socialisti, i repubblicani e i comunisti - decisero di non
partecipare più ai lavori del parlamento fino a che dubbi tanto
gravi persistessero sul sinistro episodio: fu questo l'inizio della
<<secessione dell'Aventino>>, alla quale presero parte
circa cento deputati. Guidati da Amendola, Turati e De Gasperi
(successore di Sturzo [...] sicuri che, una volta dimostratane la
complicità nel delitto, il fascismo sarebbe crollato [...]
L'Aventino fu un gesto morale, basato sulla fiducia [...] che la
giustizia avrebbe vinto. [...] tuttavia, nascondeva l'indecisione e
l'impotenza dell'opposizione, che [...] rigorosamente fedele ai
metodi costituzionali sostenuti da Amendola, riaffermò la propria
decisione di tornare alla Camera soltanto quando fosse stato
costituito un nuovo governo che avesse abolito la milizia e
restaurato l'impero della legge. [...] La passività dell'Aventino
rese il re arbitro della situazione [...] Vittorio Emanuele si
rifugiò dietro il paravento delle forme costituzionali [...] perché
egli potesse agire, il governo avrebbe dovuto essere prima sconfitto
in parlmento. A suo giudizio, l'opposizione
si era messa dalla parte del torto abbandonando la Camera. [...]
crisi per tutta l'estate [...] le iniziali speranze di tornare
presto alla Camera svanivano. [...] L'Aventino continuò quindi ad
attendere una direttiva dal re, questi rimase ad aspettare
un'iniziativa del parlamento, e il parlamento continuò ad essere
boicottato dall'Aventino: il circolo vizioso era completo." [111][111]
Renzo De Felice, Mussolini il fascista I. "La conquista
del potere", Einaudi, Torino, 1966. [112][112]
Da un'intervista al "Giornale d'Italia" del 27 ottobre
1923: "[...] sono e non saprei non essere liberale. Perché?
Non per deduzioni filosofiche o teoriche che ho già escluse dalla
considerazione politica; [...]. Tutto il mio essere intellettuale e
morale è venuto fuori dalla tradizione liberale del Risorgimento.
[...] Se i liberali non hanno avuto la forza e la virtù di salvare
l'Italia dall'anarchia in cui si dibatteva, debbono recitare il
<<mea culpa>>, e intanto accettare e riconoscere il bene
da qualunque parte sia sorto [...]". E dal "Corriere
italiano" del 1 febbraio 1924: "[...] parlando da filosofo
e da storico, non escludo in tesi generale che qualcosa di
politicamente nuovo possa sorgere dal travaglio presente della vita
italiana ed europea. Lo spirito umano è creatore [...] Dunque, potrà
ben darsi che il fascismo crei un sistema politico affatto diverso
dal liberale. Ma, per ora, non ne vedo in modo determinato neppure
le prime linee. [...] invece lo spontaneo avviamento, mercè le
elezioni politiche, a un ritorno, come si dice, alla legalità, cioè
alla pratica costituzionale. [...] Il cuore del fascismo [...]: è
l'amore alla patria italiana, è il sentimento della sua salvezza,
della salvezza dello Stato. [...] e produrrà i suoi effetti. Tra i
quali [...] quello di accrescere il numero di coloro che, scotendo
il tradizionale indifferentismo italiano, sentono la passione
politica e prendono profondo interesse alle cose dello Stato. Anche
il liberalismo [...] ha per suo fondamento il concetto di uno Stato
così saldo che possa accogliere in sé le tendenze antitetiche e
permetterne lo sviluppo, mantenendo di continuo l'equilibrio tra
esse e compiendo di continuo opera unitaria, d'interesse generale e
nazionale. [...] Dalla ideologia viene la parte utopica di ogni moto
politico [...] Veramente, di disegni politici, ossia di nuove
costituzioni pare che finora si siano messi innanzi scarsi e vaghi
accenni. C'è piuttosto la formula gerarchica del <<nuovo
Stato fascista>> [...] Odo parlare perfino del nuovo pensiero,
della nuova filosofia, [...] e, quantunque abbia qualche pratica e
qualche abilità in coteste analisi e sintesi logiche, in coteste
riduzioni a principi, questa volta non sono venuto a capo di nulla.
Temo che il nuovo pensiero non ci sia [...]." Da B. Croce, Pagine
sparse, Ricciardi, Milano, 1953, vol. II. [113][113]
Croce, com'è noto, fondò "La Critica" il 20 gennaio 1903
e la diresse con regolarità, nonostante il fascismo e poi in
opposizione ad esso, per oltre quarant'anni, raccogliendovi intorno
i migliori ingegni italiani dell'epoca e costituendo per gli altri
una valida guida. Solo nel '44, per le difficoltà della Seconda
Guerra, la rivista fu momentaneamente sospesa e poi sostituita dal
'45 dai "Quaderni della 'Critica'". [114][114]
G. Gentile, "Manifesto degli intellettuali del Fascismo",
in E. R. Papa, Storia di due manifesti, Feltrinelli, Milano,
1958. [115][115]
B. Croce, Risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti,
Roma, 1925. [116][116]
In occasione, e subito dopo, della morte di Gentile, Carabellese
scrisse, nell'"Annuario" dell'Università di Roma, A.A.
1944-45, "Giovanni Gentile (30 maggio 1875 - 15 aprile
1944)" cit. [117][117]
Per la Prolusione all'insegnamento vedi dopo la nota relativa ai
rapporti tra Carabellese e Gentile rispetto al "Giornale
critico della filosofia italiana", dove fu pubblicata. [118][118]
Le voci, che ricordiamo in ordine cronologico e che coprono quasi
tutti i nove anni di uscita dei volumi dal 1929 al 1937, sono:
"Appercezione", in Grande Enciclopedia Italiana
Treccani, 1929; "Astratto", ivi, vol. V, 1930, poi
rist. in Idem, Critica del concreto cit., III ed.
1948; "Certezza", "Concreto", "Cosa in sé",
"Criticismo", tutte in Grande Enciclopedia Italiana
cit., vol. XI, 1931, le prime tre voci poi rist. anch'esse in Idem,
Critica del concreto cit., III ed. 1948; "Errore",
in Grande Enciclopedia Italiana cit., 1932, poi rist.
anch'essa in Idem,
Critica del concreto cit., III ed. 1948; "Giovanni
Amedeo Fichte", in Grande Enciclopedia Italiana cit.,
vol. XV, 1932, poi rist. in Idem, Da Cartesio a Rosmini
cit., 1946; "Federico Enrico Jacobi", in Grande
Enciclopedia Italiana cit., vol. XVIII, 1933, poi rist.
anch'essa in Idem, Da Cartesio a Rosmini cit., 1946;
"Emmanuele Kant", in Grande Enciclopedia Italiana
cit., vol. XX, 1933, poi anch'essa in Idem, Da Cartesio a
Rosmini cit., 1946; e infine "Bernardino Varisco", in Grande
Enciclopedia Italiana cit., 1937, dove è da notare anche la
politica linguistica del fascismo di italianizzazione dei nomi
propri stranieri, quando non di sostituzione o bando di quelli
comuni. Riguardo all'importanza della Grande Enciclopedia
Italiana negli anni del regime anche come baluardo accademico di
libero pensiero, ma anche riguardo in generale alla cultura italiana
di quegli anni e al rapporto tra intellettuali, sia eminenti che
"minori", sia allineati che non, e fascismo, cfr., tra gli
altri, Norberto Bobbio, "Cultura italiana e fascismo" in
Guido Quazza, Valerio Castronovo, Giorgio Rochat, Guido Neppi
Modona, Giovanni Miccoli, Norberto Bobbio, Fascismo e società
italiana, Piccola Biblioteca Einaudi, Einaudi, Torino, 1973, pp.
209-246. [119][119]
La prima forma di collaborazione di Carabellese al "Giornale
critico della filosofia italiana" fu la "Recensione"
a E. Juvalta, I limiti del razionalismo etico, in
"Giornale critico della filosofia italiana", fasc. II,
1920; seguirono "L'insegnamento della filosofia" cit.,
1921; "Il pensiero filosofico di Bernardino Varisco" cit.,
1926; "Il pensiero pedagogico di B. Varisco" cit., altra
recensione, 1927; "L'esigenza dell'oggettività", in
"Giornale critico della filosofia italiana", n. 3, 1929, e
in AA.VV., "Atti del VII Congresso Nazionale di
Filosofia", Bestetti e Tumminelli, Roma, 1929, pp. 109-18, poi
rist. come Append. V in Idem, L'idealismo italiano
cit., II ed. 1946; "Il valore storico della filosofia
moderna", Prolusione per l'insegnamento sulla Cattedra di
Storia della Filosofia all'Università di Roma pronunciata il 17
gennaio 1930, in "Giornale critico della filosofia
italiana", a. IX, fasc. III, 1930, anch'esso poi rist. in Idem,
L'idealismo italiano cit., II ed. 1946; e poi, anche dopo il
periodo 1908-1931 di cui ci stiamo specificatamente occupando,
"Risposta a Carlini" cit., 1936; "Il mio
ontologismo" cit., da un discorso tenuto presso la Biblioteca
Filosofica della Società per gli Studi Filosofici di Palermo,
fondata nel 1910, oltre che da Giuseppe Amato Pojero, dallo stesso
Gentile, anche Direttore dell'"Annuario della Biblioteca
Filosofica" stessa, poi in "Giornale critico della
filosofia italiana", 1936; "L'essere e il problema
religioso", in ivi, 1937; e poi continuando a
collaborare alla rivista anche dopo la morte di Gentile:
"Leibniz nel suo e nel nostro tempo", in ivi, fasc.
III-IV, luglio-dicembre 1947, pp. 349-67; "Cattolicità
dell'attualismo" cit., 1947 (proprio, come abbiamo discusso, in
polemica con il pensiero di Gentile), poi rist., lo ripetiamo per
maggiore chiarezza riguardo ai luoghi del suo incontro con Gentile
che qui sono in oggetto, in memoria di Gentile in AA.VV., Giovanni
Gentile. La vita e il pensiero cit., Fondazione Giovanni Gentile
per gli Studi Filosofici, Sansoni, Firenze, 1948; "Tra arcaismo
e ateismo" cit., 1948; "L'Essere", estratto dal
"Giornale critico della filosofia italiana", fasc. III-IV,
lugl.-dic. 1948; "I giovani e la politica" cit., 1948;
"L'uomo", estratto da ivi, a. XXVIII, Serie Terza,
vol. III, fasc. III, lugl.-sett. 1949, pp. 261-78. [120][120]
A Gentile Carabellese dedicò anche nel 1927 l'opera La filosofia
di Kant cit.: "A Giovanni Gentile che il rinnovamento
spirituale d'Italia volle e persegue con la dottrina con l'opera con
la sua fede profonda". [121][121]
A proposito dell'opposizione di Croce al fascismo, ma anche in
merito alla sua posizione centrale nella cultura del Novecento
italiano di cui qui stiamo dando questi brevi cenni, vedi i due
saggi di Norberto Bobbio, "Benedetto Croce" e "Croce
oppositore", in Idem, Profilo ideologico del
Novecento italiano, Storica Einaudi, Einaudi, Torino, 1986,
capp. VI e XI, pp. 74-85 e 141-50. Ma il Profilo è molto
interessante dal punto di vista della storia delle idee del '900, e
quindi molto utile per allargare il discorso
rispetto al periodo che più in generale stiamo schizzando in
questo paragrafo 2, poiché tratta pure, negli altri capitoli, ad
esempio del rapporto dei "cattolici col mondo moderno",
oppure dell'"intermezzo di guerra", o ancor prima delle
"forze dell'irrazionale" e degli
"antidemocratici", dei "due socialismi", ecc. [122][122]
Per comprendere la natura dei rapporti tra Croce e Gentile prima
della rottura, nonché per comprendere la natura di Croce stesso, si
veda B. Croce, Il caso Gentile e la disonestà nella vita
universitaria italiana, Laterza, Bari, 1909, in partc. pp. 6-7:
sfortunatamente, Croce fa riferimento a Filippo Masci, che iniziò
Carabellese allo studio di Kant.
[123][123]
Sulla cultura durante il fascismo, nelle sue espressioni allineate e
non, vedi Norberto Bobbio, "La cultura e il fascismo", in
AA.VV., Fascismo e società italiana cit., pp. 209-46, in
partc. per il periodo che stiamo trattando pp. 214-42. [124][124]
Ma su cui invece pubblicarono su Carabellese sia Santino Caramella,
"Teologia e filosofia", in "L'educazione
nazionale", nn. 5-6, giugno 1932; sia E. Cione, recensione a P.
Carabellese, Il problema teologico come filosofia, 1931, in
"L'educazione nazionale", n. 3, 1932. [125][125]
Il testo del Giuramento, riportato, insieme ad altri particolari che
lo riguardano, da Michele Del Vescovo nell'op. cit., p. 33,
n. 15, recita: "Io [...] giuro di essere fedele al Re, ai suoi
Reali successori e al Regime fascista, di osservare lealmente lo
statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l'ufficio di
insegnante e adempiere a tutti i doveri accademici col proposito di
formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime
fascista." [126][126]
Afferma Norberto Bobbio in "La cultura e il fascismo"
cit., p. 214, che fu "la prova del fuoco" cui il regime,
che aveva rinunciato nei suoi confronti alla subordinazione manu
militari, sottopose l'Accademia, ma che fu nella sua drammaticità
un atto tutto sommato pacifico, non tanto perché solo undici
professori (tra cui Ernesto Bonaiuti e Piero Martinetti) su
milleduecento non giurarono, ma soprattutto perché fu ben diverso
da ciò che, subito dopo l'emanazione delle leggi razziali nel 1938,
successe ai numerosissimi professori ebrei. [127][127]
P. Carabellese, "Religione e filosofia", Prolusione cit.,
in "Annuario" della Biblioteca Filosofica della Società
per gli Studi Filosofici di Palermo, fondata e diretta come già
detto da Gentile e Pojero, vol. VI, fasc. I, pp. 1-18, Palermo,
1923, e in "Logos", Napoli, 1923, poi rist. in Idem,
Che cos'è la filosofia? cit., II ed. 1942. [128][128]
A Pojero Carabellese dedicherà nel 1931 Il problema teologico
come filosofia: "A Giuseppe Amato Pojero. Questo Saggio
nacque nella Biblioteca filosofica di Palermo.A Lei,
sapientissimo Dottore di essa ed animatore degli studi
filosofici, a Lei che ne promosse con l'assidua cura la nascita,
esso dunque torna, ora che può andar solo pel mondo. E torna anche
a significare il memore affetto che lega me a Lei, agli amici, agli
scolari della luminosa Palermo." [129][129]
P. Carabellese, La filosofia di Kant. I. L'idea teologica
cit., 1927, e anche in Idem, "Il problema teologico
nella filosofia italiana contemporanea", in AA.VV., Omagiu
lui Ramiro Ortiz,
Bucuresti, 1929, in onore del XXV anno di insegnamento di R. Ortiz a
Bucarest, poi appunto rist. in P. Carabellese, Il problema
teologico come filosofia cit., 1931.
[130][130]
I. Kant, Scritti minori cit., 1923 e Idem, Prolegomeni
a ogni futura metafisica cit., 1925. [131][131]
P. Carabellese, Il concetto della filosofia da Kant ai nostri
giorni. I. Kant cit., 1928. Come si è detto nel testo or ora,
il rogetto si fermerà a Fichte con l'opera del 1929. [132][132]
Idem, "La storia" cit., 1925, poi ripubbl. come
opuscolo cit. nel 1926. [133][133]
Oltre a Idem, "La storia", nel volume in onore del
LXXV anno di età di Varisco, anche i già cit. "Il pensiero
filosofico di B. Varisco", 1926 e "Il pensiero pedagogico
di B. Varisco", 1927, ambedue sul "Giornale
critico..." cit. [134][134]
Il già cit. Idem, "L'esigenza dell'oggettività",
pubbl. oltre che negli "Atti", anche sul "Giornale
critico..." cit., 1929. [135][135]
Afferma A. Galante Garrone che alla fine "Lo Statuto albertino
era ormai ridotto a una facciata di cartapesta": il 24 dicembre
1925 fu emanata la legge che di fatto concentrava tutto il potere
nelle mani del capo dell'esecutivo, Mussolini, con quella del 31
gennaio 1926 l'esecutivo assorbiva in sé i poteri del legislativo,
esautorando il Parlamento, con quella di pubblica sicurezza del 6
novembre dello stesso anno si istituiva il confino di polizia
comminato direttamente da una commissione prefettizia senza garanzie
giuridiche e variante da uno a cinque anni in un sito nazionale o
coloniale, con quella di poco successiva del 25 novembre ancora del
'26 per la difesa dello Stato si istituiva il Tribunale speciale che
reinseriva la pena di morte, mentre infine con quella del 9 dicembre
'28 il Gran Consiglio del Fascismo diveniva organo dello Stato con
forti poteri di influenza sugli altri organi dello stesso. [136][136]
G. Carocci, nell'op. cit., afferma che: "[...] la stessa
rigorosa coerenza con la quale il progetto Rocco venne attuato lo
pose in contrasto con le aspirazioni dei conservatori più legati
alla tradizione liberale. Questi avevano mirato a uno stato nel
quale il potere della camera elettiva fosse variamente bilanciato e
frenato dall'esecutivo e dal re, non al totale rovesciamento di ogni
potere a favore dell'esecutivo e del suo capo politico. Ma [...]
furono un'esigua minoranza. La grande maggioranza prese per buona la
versione ufficiale che lo stato fascista, sovvertitore di quello
liberale, ne era il continuatore e il realizzatore a un livello più
alto. In realtà tra stato liberale e stato fascista
c'era un rapporto che era insieme di continuità e di
rottura." Sostanzialmente simile, seppure molto più incisivo
nell'analisi anche perché direttamente coinvolto, il giudizio di
continuità e rottura di G. Dorso nel 1924, ossia prima
dell'emanazione delle leggi che sovvertirono lo Stato postunitario:
nel suo La Rivoluzione meridionale, scrive: "Il Partito
fascista, alla vigilia della marcia su Roma, si presentava come
un amalgama informe di forze
discordanti e contraddittorie, tenute insieme dal prestigio
personale di un uomo [...] in nome del mito della Nazione, interessi
proletari ed interessi padronali, produttori e parassiti,
rivoluzionari e trasformisti [...]. Ma il regime quale si era
costituito dopo l'unificazione del paese era ormai ridotto allo
stremo [...] Occorreva impadronirsi della nuova formazione [...]
D'altronde [...] Mussolini comprendeva che un momento simile non si
sarebbe più ripresentato. [...] D'altra parte, chi poteva conoscere
di quali forze disponesse la Corona, [...] quali risultati avrebbe
prodotto una presa di posizione contro la monarchia? [...] La
cosiddetta rivoluzione, dunque, doveva essere monarchica o non
essere. [...] Del resto il fascismo [...] non poteva soddisfare
tutte le esigenze rivoluzionarie del paese, perché, pur essendo
alla base un movimento rivoluzionario, era diretto da un'élite
che aveva già transatto con tutte le forze della conservazione
sociale preesistente. Queste forze gli impedivano qualsiasi
attentato sia alla costituzione politica che alla costituzione
economica del paese [...]. Così tutta la novità politica del
fascismo si riduceva a una sostituzione violenta di uomini nelle
cariche pubbliche fatta per via militare (cioè per una via
estremamente dannosa la fascismo stesso, che vedeva [...] i più
violenti e perciò i meno competenti [...]." Per un ritratto di
Rocco, vedi Norberto Bobbio, Profilo ideologico del Novecento
italiano cit., "Capitolo Decimo: L'ideologia del
fascismo", pp. 138-39. [137][137]
Norberto Bobbio, "L'ideologia del fascismo", in Idem,
Profilo ideologico del Novecento italiano, Storica Einaudi,
Einaudi, Torino, 1986, "Capitolo Decimo", pp. 128-136. [138][138]
Cfr. G. Gentile, "Recensione" a P. Carabellese, La
teoria della percezione intellettiva in A. Rosmini cit., in
"La Critica", fasc. IV, luglio 1909, e risposta a P.
Carabellese in "La Critica", fasc. III, 1911. [139][139]
Si tratta del IV Congresso Internazionale di Filosofia, tenutosi a
Roma dal al..... Cfr. B. Croce, "Inaugurazione", in
Atti... [140][140]
Carabellese fa evidente riferimento al "Giornale critico della
filosofia italiana". [141][141]
P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia cit., p.
131. Per il prosieguo della citazione si fa riferimento ivi,
n. 1 sempre di p. 131 e sgg.
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